PACO IGNACIO TAIBO II
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PACO IGNACIO TAIBO II
Domenica La di DOMENICA 23 GENNAIO 2011/ Numero 310 Repubblica l’immagine L’uomo che ha disegnato New York ANGELO AQUARO cultura Halter, storia delle storie degli ebrei PIETRO DEL RE Nel centenario della morte del padre di Sandokan, l’omaggio di un grande allievo: le Tigri sono tornate Il mio Salgari PACO IGNACIO TAIBO II ERNESTO FERRERO onspaccerò queste nuove avventure delle Tigri della Malesia come il prodotto di un recente ritrovamento di opere frammentarie incompiute di Emilio Salgari vendute a suo tempo dagli eredi, in seguito al marasma familiare causato dal suo suicidio, a un italo-siriano di nome Ibrahim Brambilla che gestiva un banco dei pegni in Milano, e che poi le dimenticò in un baule depositato in una vecchia caserma dei pompieri di qualche cittadina della Liguria, dove aveva una cugina sposata con un vigile del fuoco, e dopo tanti anni le avrei infine scoperte io con l’aiuto di un prete di sinistra che mi aveva invitato a tenere conferenze sulla situazione in Messico e sugli zapatisti. (segue nelle pagine successive) desso che ci accingiamo a ricordare i cento anni della scomparsa (25 aprile 1911, con un suicidio degno di un samurai), possiamo vedere ancora meglio come per quasi un secolo i romanzi di Emilio Salgari abbiano lasciato in generazioni di italiani un imprinting indelebile: il big bang di un’emozione che verrà ricordata nell’età adulta con commossa gratitudine da scrittori come Pavese, Parise, Pontiggia, Citati, Eco, Magris… Un Paese povero, immobile, depresso e represso, che fatica a tirare avanti, con lui poteva liberare fantasie archetipiche in cui le gioie dell’esotismo si accompagnano al sogno di quello che ognuno vorrebbe essere. (segue nelle pagine successive) N A spettacoli A Hollywood la pausa è d’autore SILVIA BIZIO e DARIO PAPPALARDO i sapori Viva i broccoli venuti dal freddo LICIA GRANELLO e MASSIMO MONTANARI l’incontro Fabri Fibra, “Sono un mito da abbattere” ERNESTO ASSANTE Repubblica Nazionale DISEGNO DI GIPI PACO IGNACIO TAIBO II 30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la copertina Paco & Salgari DOMENICA 23 GENNAIO 2011 L’amore per l’avventura, l’anticolonialismo, la fantasia, la forza rivoluzionaria: ecco perché Paco Ignacio Taibo II ha riscritto “Le tigri della Malesia”. Senza viaggiare, inventando, leggendo, raccogliendo migliaia di notizie. Proprio come faceva lo scrittore veronese di cui cade il centenario della morte. Pubblichiamo un’anticipazione del romanzo: il tributo a un uomo che fece sognare gli altri ma non se stesso Ritorno a Mompracem PACO IGNACIO TAIBO II (segue dalla copertina) iente di tutto questo. Si tratta in definitiva, schiettamente, di un pastiche salgariano, risultato dalla congiunzione tra una assidua vocazione letteraria per il romanzo d’avventura e la mia passione infantile per il maestro della narrativa d’azione, coltivate in tanti anni, che hanno avuto origine in un bambino malaticcio e felice in una società repressiva e senza televisione e si sono consolidate in un adolescente attivo nelle lotte politiche e sociali degli anni Sessanta avvalendosi del codice etico dei tre moschettieri, dell’atteggiamento impavido di Robin Hood e dell’antimperialismo di Sandokan. Quando ho deciso di scrivere queste nuove avventure, mi sono arrovellato per almeno un anno, dopo alcune stimolanti conversazioni con i miei editori, Anne Marie a Parigi e Marco a Milano, su come ridare vita alla saga salgariana. Sarei potuto salire su un aereo per Los Angeles e da lì per Singapore e raggiungere il luogo di ambientazione in meno di venti ore dalla mia abituale base di Città del N Messico, per poi dedicarmi a osservare, prendere appunti sul paesaggio, raccogliere storie locali; sarei potuto andare a Londra a trascorrere un paio di mesi al British Museum per studiare i resoconti dei coevi sulle guerre dell’impero contro i pirati malesi e la vera storia del rajà Brooke; avrei potuto sfruttare il mestiere di storico per addentrarmi nel periodo a metà del Diciannovesimo secolo allo scopo di approfondire il contesto e aggiungere conoscenze erudite su imbarcazioni, vegetazione, monete, gioielli, libri, vestiario. Ero tentato di farlo. Alla fine sono tornato al punto di partenza, che non era nel Borneo, in Malesia o nella mitica e ormai inesistente isola di Mompracem (identificabile nell’odierna Keraman, da dove mi avevano portato un vasetto di sabbia aggiungendo che era poco più di uno scoglio); e neppure al British Museum o nella Storia. Il punto di partenza era Emilio Carlo Giuseppe Maria Salgari, nel suo umile studio di Torino, intento a scrivere sulla sua scrivania portatile, con l’inchiostro che realizzava personalmente, perseguitato dai creditori, costretto a produrre ventidue cartelle al giorno, avvalendosi di mediocri enciclopedie, improbabili carte geografiche e carenti dizionari, ma soprattutto di una superba, meravigliosa immaginazione e un portentoso talento di affabulatore. Gran personaggio, l’Emilio: suicida, figlio di suicida, padre di suicidi. Nato nell’agosto del 1862 a Verona. Occhi dolci, sguardo triste. Piccoletto, poco più di un metro e mezzo d’altezza. Baffi neri con le punte all’insù. Tenace ciclista amatoriale, ginnasta. Chiamato dai detrattori «Falso capitano» o «la Tigre della Magnesia». Accanito protagonista di duelli. Sposato con Ida (o Aida), che soffriva di malattie nervose, triste e depressa. Padre di Omar, Nadir, Romero e Fatima. Inventore di false autobiografie, di storie sulle proprie esperienze marinare, che non ebbe mai, a parte una breve traversata sull’Adriatico. Massacrato dalla critica acculturata, castigato da insegnanti e professori ortodossi, paragonato svantaggiosamente con Verne (che noia Verne, con le sue pretese pedagogiche ed esplicative), benedetto dai lettori giovani e giovanili, vittima di un tentativo di sequestro da parte della retorica mussoliniana che cercò di impossessarsi dello scrittore e dei suoi personaggi. Assurdo: cosa avrebbero fatto le Tigri o gli eroi filippini o il Corsaro Nero di fronte ai deliri imperiali di Mussolini? Da che parte sarebbero stati gli eroi salgariani nella guerra co- IL LIBRO Uscirà il 27 gennaio il “sequel” salgariano scritto da Paco Ignacio Taibo II Edito da Marco Tropea, si intitolaRitornano le Tigri della Malesia (352 pagine, 16,90 euro). Presentazione a Roma mercoledì alla Libreria Feltrinelli di Piazza Colonna alle 18 e a Milano il 2 febbraio, alla Feltrinelli di Piazza Piemonte alle 18,30 Repubblica Nazionale DOMENICA 23 GENNAIO 2011 Ovviamente ho inventato tutto quello che ho potuto: piante e animali, villaggi, e anche strumenti e meccanismi. Ho persino cannibalizzato alcuni capitoli del mio romanzo A quattro mani. Mi sono preso soltanto un paio di libertà in più rispetto a quelle già elencate: esplicitare la tensione politica e la pulsione anticolonialista delle avventure delle Tigri (all’origine del mio antimperialismo, che indubbiamente si nota e che ha un sapore salgariano e non leninista) e andare oltre il progetto originale, decisamente intrappolato nelle convenzioni della letteratura per ragazzi ottocentesca a cui Salgari non poteva sfuggire. Questo significa tra le altre cose l’uso di nuovi insulti e vecchie descrizioni amorose. Come non integrare il Kamasutra in una saga salgariana? Come lasciarne fuori Friedrich Engels e la Comune di Parigi? In un sondaggio effettuato tra giovani lettori italiani poco dopo la morte del maestro, all’inizio del Ventesimo secolo, un paio di loro spiegava perché lo leggevano di nascosto, disobbedendo gli imperativi dei genitori: «Scalda la testa», «eccita i nervi». Spero che l’effetto continui a essere lo stesso, anche nell’era del Discovery Channel. Infine, devo confessare che sebbene mi sembrasse un libro di facile stesura, non lo è stato affatto. Ma che mi sia enormemente divertito, questo sì. Gli antieroi ribelli del capitano triste ERNESTO FERRERO (segue dalla copertina) l piccolo giornalista veronese, improvvisatosi narratore d’appendice per uscire da un destino mediocre, ha regalato ai lettori d’ogni età (donne incluse) il destino epico che avrebbe voluto per se stesso. Non si sentiva superiore al lettore, non aveva messaggi da lanciare. Usava un linguaggio convenzionale, che è poi quello enfatico dei libretti d’opera, perfetto per esprimere sentimenti stilizzati. Forse solo un sedentario poteva avere così forte un senso quasi futurista dell’azione, del movimento, della velocità, della bellezza del gesto. Salgari entusiasma anche perché esce da ogni schema, è politicamente scorretto. I suoi cieli sono vuoti, l’ammirazione per le meraviglie della Natura non presuppone l’esistenza di un Creatore. Il trascendente è rigorosamente assente: nessuno prega o si raccomanda a dio nemmeno nei momenti di massimo pericolo. I suoi eroi sono l’esatto contrario del perbenismo borghese caro a De Amicis. Passionali e violenti, dediti a sogni di vendetta con i quali vorrebbero ristabilire una giustizia violata, non rispettano alcuna legge umana. Nemici di ogni mediazione, vivono in un mondo darwiniano dove vale la legge del più forte, anche se portano con sé i valori della lealtà e del coraggio. Salgari avversa il colonialismo perché bisogna pur trovare qualcuno per la parte del villain, ma i suoi oppressi non sono dei marxisti, non elaborano una coscienza di classe: hanno bisogno della guida di un eroe, di cui restano i sodali obbedienti e fedeli fino alla morte. Salgari non può piacere nemmeno ai capitalisti, che fiutano il pericolo costituito dalle masse di invasati pronte a rovesciarsi sull’ordinato mondo occidentale. Disprezza i grandi ricchi, le loro fortune sfacciate, l’idea stessa di profitto. L’oro per lui è un tesoro da accumulare in forzieri kitsch per potersene vantare con la bella di turno, non un capitale da investire e far fruttare. Le meraviglie della tecnica non lo incantano, perché finiscono per mettere in secondo piano le qualità dell’uomo. Giudica rozza la tecnologia dell’automobile perché troppo puzzolente, rumorosa e pericolosa; predice che un abuso di consumi elettrici renderà gli uomini isterici, anzi folli. In un’Europa serenamente razzista, la quale ha già difficoltà ad ammettere che i neri abbiano un’anima, Salgari inscena con naturalezza unioni multirazziali: l’abbronzatissimo malese Sandokan conquista la nobile anglo-partenopea Marianna. Non il sangue conta, ma le virtù eroiche. Vaccino perfetto contro ogni forma di razzismo, i suoi romanzi non abbelliscono i primitivi, di cui registrano impassibilmente efferatezze e crudeltà. Salgari è pre-storico, pre-politico, pre-tutto. Racconta un’eterna giovinezza allo stato puro, ebbra della sua forza e del suo sangue caldo, portata alla semplificazione, che si sente viva solo nel furore della battaglia. Invano il fascismo cercherà di annetterlo. Impensabile un Sandokan che baratta la bandiera rossa con la tigre per la camicia nera. Autodidatti della guerriglia, i suoi tigrotti suonano, cioè combattono, a orecchio. Naturalmente Salgari non poteva piacere al mondo della scuola, perché scaldava le giovani menti, scriveva di fretta, senza troppo badare alle incongruenze e alla sintassi, utilizzando un linguaggio artefatto. Colpevole dell’immenso successo che ha avuto, è stato escluso sprezzantemente dalle storie letterarie, anche da quelle più aperte al nazionalpopolare e alla sociologia della lettura. In America Latina lo hanno adorato quanto in Italia. Il vecchio Borges si intenerisce al ricordo di un Corsaro Nero avuto in regalo a cinque anni: altro che Verne! Il giovane Ernesto Guevara, questo Sandokan argentino, è diventato il Che su una sessantina di romanzi del veronese. Giustamente Emanuele Trevi ha scritto che il diario boliviano del Che è tragicamente, perfettamente salgariano. Luis Sepúlveda e Paco Ignacio Taibo II, antimperialisti in servizio permanente, sono dei tigrotti letterari, forse i veri eredi del Nostro. Nel suo divertente e divertito pastiche, in cui compaiono a sorpresa Pascal, Doré, Quevedo, Engels e Kipling, Taibo fa dire a Sandokan che sarebbe inutile ricostruire Mompracem: meglio che ognuno la edifichi dentro di sé come idea, come mito di libertà in un oceano di padroni e di schiavi. La battaglia continua. Anche se gli imperialisti sono sempre in agguato, «questi poveri imperi governati da imbecilli non possono uccidere un mito». Anzi, il mito per eccellenza. I Traduzione di Pino Cacucci © 2010 Paco Ignacio Taibo II © 2011 Marco Tropea Editore Srl © RIPRODUZIONE RISERVATA DISEGNI DI GIPI loniale in Abissinia? E allora? Alla maniera di Salgari, mi sono detto: immaginazione, pessime enciclopedie e tanta inventiva, atlanti mediocri e buoni personaggi; anacronismi, spropositi con abbondante disinvoltura e ancor più abbondanti passioni. Non si trattava di compiere ricerche su un mondo, ma di reinventarlo. È stata ovviamente necessaria una meticolosa rilettura della saga salgariana di Sandokan, Yanez, Tremal Naik e Kammamuri e del seguito scritto da Luigi Motta; una profonda immersione nello stile e nella struttura narrativa. A Salgari devo non solo i personaggi, ma molte frasi, descrizioni, modi di vedere, manie, ossessioni. Mi sono imbattuto in una difficoltà praticamente insormontabile, dovevo trovare uno stile narrativo dal sapore ottocentesco, ma che snellisse la narrativa convenzionale e l’eccesso di dialoghi formali; forse è proprio dovuto a tale ricerca il fatto che ci abbia messo tanto a scrivere questo libro e che debba molto a Victor Hugo, Emile Zola e Eugène Sue. Ho frugato nelle enciclopedie, nei libri di viaggi, nei manuali di zoologia, nei testi scolastici di biologia di mia figlia, in quelli di Pepe Puig sulle imbarcazioni e ci ho trovato più di quanto avessi bisogno; ho messo assieme una collezione di francobolli con giunche, elefanti, nativi delle isole della Sonda, pagode e divinità indù, palazzi laotiani e dirigibili; ho assimilato libri di viaggio, scritti di Darwin, Russel, Magellano, Malinowsky, cataloghi di armi e romanzi di Conrad e Multatuli; guide turistiche e strane risposte ad ancor più strane domande su Internet. LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31 Di Ernesto Ferrero uscirà il 5 aprile per Einaudi Disegnare il vento. L’ultimo viaggio del capitano Salgari © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 GENNAIO 2011 l’immagine In Italia il suo nome ai più non dirà granché, ma l’America lo ha appena festeggiato per i suoi ottant’anni. Perché Segni dei tempi Massimo Vignelli, milanese, è il designer che ha creato la grafica del metrò più famoso al mondo e poi mille altri marchi ancora. Lo abbiamo incontrato nel suo studio di Manhattan: “Ora mi manca solo il brand del Vaticano...” L’uomo che ha disegnato N ANGELO AQUARO S NEW YORK e siete a New York, e nella metropolitana alzate gli occhi cercando il segnale per Brooklyn, quello è Massimo Vignelli. Se siete arrivati fin qui con un volo American Airlines, quello è Massimo Vignelli. Se bazzicate nell’Upper East Side, e nella bramosia delle compere finite da Bloomingdale’s, quello è Massimo Vignelli. Se invece vi basta l’inseparabile golf Benetton, beh, anche quello è Massimo Vignelli. Se siete tornati a Roma, e nella stazione Termini cercate il segnale di uscita, quello è naturalmente Massimo Vignelli. Poi, certo, se siete così fortunati da avere una Thema, o ricordate ancora la prima volta che avete invitato la fidanzatina sulla Ypsilon, anche quello, sì, anche il restyling del logo Lancia è Massimo Vignelli. E se dalla libreria di famiglia, giusto per darvi quell’aria radical chic, tirate giù la Storia del movimento operaio, Edouard Dolléans, Biblioteca Sansoni, 1963, ok, sarà Massimo Vignelli. Oh: ma non era morto, Marx? Ad ogni modo: se pensate di poter elaborare il lutto con una bella Falanghina di Feudi di San Gregorio, sappiatelo — anche quella è Massimo Vignelli... Dall’alto dei suoi ottant’anni, il milanese Massimo Vignelli ha disegnato davvero il mondo che ci gira intorno. Loghi su loghi. Insegne. Mobili. L’università di Rochester, New York, gli ha prelevato l’intero archivio e l’ha catalogato come fosse Leonardo. Gli ha chiesto, in cambio, di poterlo utilizzare nei corsi della School of Design. E di realizzare, lui stesso, l’edificio del museo: il Vignelli Center for Design Studies. «Ri- cordo ancora il giorno in cui portai gli schizzi delle nuove copertine alla Sansoni, mezzo secolo fa», dice l’architetto rimettendo in ordine la scrivania della sua casa-ufficio sull’Upper East Side, il catalogo dell’Olio Carli — bandiera d’italianità a Manhattan — che spunta sotto il dvd di Helvetica, il documentario di Gary Hustwit di cui Vignelli è il mattatore. «Un libro, dissi, è come una scatola di saponette: quello che conta è la copertina, l’impatto, la capacità di lanciare il concetto di brand. Benedetto Gentile, che allora guidava la casa editrice, si mise le mani nei capelli. E figuriamoci: Benedetto, il figlio di Giovanni, il filosofo dell’idealismo». E teorico del fascismo. Benedetto si arrese. E per la prima volta in Italia un editore pubblicò i libri con il titolo che invece che da sinistra a destra andava dall’alto in basso. Il nome dell’autore grande quanto quello del saggio. Rigorosamente in Helvetica: il carattere (tipografico) che resterà indissolubilmente legato al marchio Vignelli. Se gli chiedi di rivelarti il segreto del bravo designer, il maestro sfodera il tris che adesso insegnano a Rochester: History, Theory, Criticism. Storia, teoria e senso critico. Storia, soprattutto. Perché prima del nero su bianco a testa in giù per la Sansoni, per esempio, c’era il nero su bianco di Albe Steiner sui Gettoni, intesi come collana libraria, che Elio Vittorini faceva circolare per Giulio Einaudi. Ma quello che ha distinto e distingue Vignelli dagli altri navigatori della grafica e del design è una scoperta fondamentale: la scoperta dell’America. È il 1965 quando decide di chiudere bottega a Milano. Per carità. Lì le cose andavano benissimo: Olivetti, Pirelli, Rank Xerox. Ma Vignelli ce l’aveva nel destino di dover saltare dal treno in corsa. Forse perché è nato in via San Gregorio, tra i giardini di via Palestro e la Stazione Centrale. Forse perché la voglia di fuggire ce l’aveva fin da bambino: «Mio papà voleva che continuassi con la bottega di famiglia, una piccola industria chimica, ma a me solo l’odore di fenolo faceva stare male». A quattordici anni già ricopia i bozzetti dei grandi con l’abilità di un copista medioevale. Fa il liceo artistico. Si iscrive al Politecnico, Architettura, ma poi punta subito a Ca’ Foscari, Venezia. Entra nella bottega di un grande come Achille Castiglioni: «Tiravo linee, tiravo linee, tiravo linee». Si sbatte come un pazzo per Ernesto Rogers, il genio che con Banfi, Barbiano di Belgiojoso e Peresutti darà vita al mitico BBPR che farà nascere la Torre Velasca. Proprio per consegnare una lettera di Rogers il giovane Vignelli bussa un giorno a una casa di Porte Molitor, Paris. «Ero così emozionato che sbaglio entrata e salgo dall’ascensore di servizio. Finisco diritto in cucina con la moglie che mi urla in faccia dallo spavento. Chiedo: ho un appuntamento col maestro. E lei mi chiama Le Corbusier». Le Corbusier! «Il mito della mia vita mi introduce in quell’appartamento che conoscevo a menadito: l’avevo studiato milioni di volte sulla mappa. Qui si gira a destra, qui la scala a chiocciola che porta allo studio, da qui si va per il salone. Sapevo già tutto. Il rock dovevano ancora inventarlo ma io ero già un groupie: un fan scatenato dell’architettura». Vince una borsa di studio per una scuola d’arte di Boston. L’America alla fine degli anni Cinquanta è davvero una New Frontier. Che Vignelli affronta con la donna che gli sarà vicino per tutta la vita: una compagna di scuola e di arte chiamata Lella. «Ci eravamo sposati prima di partire. Eravamo caricatissimi. Un anno a Boston, poi a Chicago, che allora era una sorta di Repubblica Nazionale DOMENICA 23 GENNAIO 2011 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 I LAVORI In queste pagine: a sinistra, segnaletica della metro di New York; a destra dall’alto e da sinistra, Massimo Vignelli; il logo di American Airlines; la Hankerchief Chair di Knoll disegnata con David Law; la mappa della metro di New York; il logo di Blomingdale’s; cartelli stradali di New York; i loghi di Ducati e Benetton; il logo sui treni della Great North Eastern Railway di Londra; il progetto della Stazione Termini di Roma o New York Bauhaus in esilio, con tutti i maestri finiti lì». Finisce, però, anche quell’avventura. Scade il visto e i Vignelli tornano a Milano. «Una mattina di ferragosto 1960: non la dimenticherò mai. Corso Magenta un deserto: nemmeno un’auto, un tram, un passante». Tranne Giuseppe, l’amico Giuseppe, Giuseppe Trevisani, il giornalista e grafico che disegnerà il manifesto e cambierà il volto ai giornali italiani. «Mi dice: c’è una grande compagnia che cerca un design, un grafico. Io: perfetto. Studio bellissimo dietro San Babila. Stipendio da favola. Lavoro zero. Dopo tre mesi non reggo e presento le dimissioni. E quelli: ecco la sua liquidazione. Non ci volevo credere. Scendo giù in strada, giro per via Durini, e lì dal concessionario c’è un’Alfa Spider rossa con interni neri che mi guarda: la prendo. Torno a casa e mi presento a mia moglie. “Ci sono tre novità. Una, mi sono licenziato. Due, abbiamo una Spider. Tre, apriamo finalmente il nostro studio”. La povera Lella era lì che buttava la pasta e comincia a piangere che non la smette più». È il contrario della “Legge di Mike” che Ernest Hemingway svelò in Fiesta: «Come hai fatto ad andare in rovina?» «In due modi: gradatamente prima e poi tutto d’un colpo». Massimo Vignelli gradatamente è cresciuto a Milano. E poi, tutto d’un colpo, ha conquistato l’America. «Nel 1965 rifacciamo le valigie. Avevamo già fatto qualche mostra grazie ai nostri amici di tanti anni prima: funzionava. Abbiamo detto: proviamo». Da allora Vignelli ha disegnato di tutto. Superando mode e contestazioni per ritrovarsi dopo mezzo secolo ancora all’avanguardia. In fondo le linee asciutte dell’iPhone e dell’iPad che svettano sulla scrivania sono scuola sua. Ha vinto il suo minimalismo: e non i fronzoli degli anni Ottanta. «Apple è l’Olivetti del Duemila. Una stessa linea per i prodotti, i negozi, tutto. No, io non disegno con il computer: per me è più veloce la matita, a quest’età dovrei ricominciare a studiare tutto. Però, vede, se schiaccio qui, ecco, questo è il Vivaldi che ho registrato dal mio giradischi. Questo crac crac? No, questo è uno Stravinski originale. Stravinskj che dirige Stravinskj. C’è un programma che ti toglie anche il fruscio. Ma toglieresti il fruscio a Beethoven?». Il computer non lo spaventa, anzi. «Ma non è una sfida per me». Eppure quando ha deciso di sintetizzare la sua esperienza s’è buttato, a sorpresa, proprio sul libro elettronico. The Vignelli Canon è uscito online due anni fa: trecentomila clic nel primo mese. «E quale editore avrebbe potuto assicurarmi un simile exploit? L’hanno scaricato perfino in Russia; vuole vedere la traduzione in cirillico?». L’altro giorno era all’Apple Store a portare a riparare il portatile. Il ragazzo ha preso il nominativo. «Dico: Massimo Vignelli. Lui: quel Massimo Vignelli?? Per me è stato l’onore più grande: non sono mica un attore famoso». Non sarà un attore ma alla festa a sorpresa per i suoi ottant’anni il New York Times ha dedicato una pagina intera. Embé. Tra gli invitati allo showroom di Poltrona Frau, nel cuore di Soho, c’erano Richard Meier, l’archistar, Milton Glaser, quello del logo I love New York. Maestro, può bastare? Si ferma. Sorride: «Ormai c’è solo un brand che mi piacerebbe ridisegnare». Prego. «Quello del Vaticano». E perché mai? «Mi vedo già davanti al Papa: Sua Santità, il marchio è perfetto» e con le dita fa il segno della santa croce «ma tutto il resto è da rifare. Vogliamo cominciare?». © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 GENNAIO 2011 CULTURA* Sparpagliati su cinque continenti, da quattromila anni perseguitati e sterminati. Ma dai tempi del capostipite, i discendenti di Abramo non hanno mai smarrito né legge, né lingua, né identità. Per il Giorno della Memoria, lo scrittore Marek Halter, che ha pubblicato un libro illustrato sulla sua gente, spiega il senso del loro esodo infinito: “Un monito per non dimenticare che eravamo schiavi, e per dire che non potremo sentirci liberi finché ci saranno ancora schiavi al mondo” Ebrei Storie di un popolo PIETRO DEL RE S PARIGI parpagliato su cinque continenti da persecuzioni e genocidi, esiste un popolo che negli ultimi quattromila anni, dai tempi del suo capostipite Abramo, non ha smarrito né la sua Legge né la sua lingua né la sua identità. È il popolo mosaico, semitico, giudaico, ebraico, israelitico o anche israeliano. Troppi aggettivi per chiamare gli ebrei? «No, perché l’ebraismo si definisce anzitutto attraverso la sua storia», risponde lo scrittore Marek Halter, con una voce così bassa che si distingue appena nella chiassosa brasserie di Montparnasse dove ci ha dato appuntamento. «Credo che per essere ebreo basti volerlo diventare. Ora, la Corte suprema di Israele ha detto quasi la stessa cosa, aggiungendo però che è necessario farlo in buona fede. Mi sembra una postilla eccessiva: è già abbastanza coraggioso dire “sono un ebreo”. C’è sempre il rischio di ritrovarsi in un campo di concentramento. Nel prossimo, infatti, gli ebrei non provocano solo amore». Figlio di un tipografo polacco e di una poetessa yiddish, Halter scampò per miracolo alla distruzione del ghetto di Varsavia, e da una vita si batte per la difesa dei più deboli e per il raggiungimento della pace in Medio Oriente. Quando gli chiediamo di spiegarci quanto conta la comunione religiosa per il popolo ebraico, visto che ci sono anche molti ebrei non praticanti, o addirittura senza religione, lo scrittore torna a parlare della sua storia. «È ciò che lo tiene unito più di qualsiasi altra cosa. Ancor più della Torah. Tutti gli ebrei celebrano però due festività. La prima è lo Yom Kippur, il giorno dell’espiazione, del grande perdono. L’altra è la Pesach o la Pasqua, che ricorda l’esodo e la liberazione dall’Egitto. È un monito per non dimenticare che un giorno eravamo schiavi, e per dire che non potremo sentirci liberi finché ci saranno ancora schiavi al mondo». Queste e altre spiegazioni sull’originalità del popolo ebraico sono racchiuse nella sua ultima fatica: Histoires du peuple juif (Arthaud/Flammarion, 220 pagine, 39 euro), libro riccamente illustrato che ne ripercorre l’odissea attraverso, appunto, le sue “storie”. «Che cosa lo rende diverso dagli altri popoli? Il fatto, per esempio, che ebbe l’idea geniale di trasformare la sua storia in religione. Nelle sinagoghe si legge il Cantico dei cantici, che racconta l’amore tra il re Salomone e la bruna regina di Saba. È come se nelle chiese cristiane si leggesse dei legami tra Carlo Magno e le sue amanti». Il libro si apre con le immagini di due coppie di anziani, una accanto all’altra: la prima mostra un bassorilievo sumero del Terzo millennio avanti Cristo; nell’altra c’è una foto scattata negli anni Trenta del Novecento. Le due donne hanno lo stesso sorriso, il medesimo volto allungato; anche i loro mariti sembrano gemelli, per via dello stesso taglio di occhi e dell’identica barba squadrata. La somiglianza è stupefacente. «La fotografia ri- trae i miei nonni a Varsavia, quando c’erano nella capitale polacca più di quattrocentomila ebrei che pubblicavano sette quotidiani. L’antico bassorilievo, invece, l’ho scoperto al Louvre, e da quel giorno tutto mi è apparso più chiaro. Capii che noi occidentali giudeo-cristiani non dobbiamo nulla agli egiziani. Diverso è se parliamo dei sumeri. Sono loro che crearono il primo alfabeto cuneiforme, dunque astratto, senza il quale l’uomo non sarebbe riuscito a concepire la più astratta delle invenzioni: un solo unico Dio. Con i geroglifici e i pittogrammi dei Faraoni, che rendevano visibile l’invisibile, il pantheon egizio rimase invece affollato da decine di divinità». Halter cita anche l’esempio degli ebrei cinesi, giunti attorno al IX secolo nella città di Kaifeng. «Quando si chiede loro “perché siete ebrei?”, loro rispondono “perché è la prima religione monoteista del mondo”. L’idea di un unico Dio nasce da un bisogno di giustizia. In un universo politeista era più facile comprarsi un idolo. Il ricco aveva perciò un’assicurazione sulla vita eterna maggiore del povero. Con il monoteismo ebraico nasce invece un Dio fatto a nostra immagine e somiglianza, di tutti noi, bianchi, gialli o neri. E con lui per la prima volta appare l’idea di eguaglianza nell’uomo». Ma non è una sfida troppo ambiziosa quella di voler rac- contare un popolo in quattromila anni di storia, o sia pure di storie, per chi storico non è? No, risponde Halter: gli è bastato, dice, comportarsi da narratore, distillando cioè gli avvenimenti e i personaggi più emblematici. «Fece la stessa cosa chi scrisse la Bibbia, che non è un libro di storia, ma piuttosto un libro di memorie. Là dove mi sono concesso qualche libertà è nell’interpretazione di alcuni fatti». Nella quarta di copertina del libro, compaiono gli elogi di due premi Nobel per la Pace, entrambi ebrei, Shimon Peres e Elie Wiesel. Sembra quasi che con loro Marek Halter abbia voluto farsi scudo di eventuali critiche da parte degli storici più ortodossi. «Non ho paura delle critiche. Vede, la cultura ebraica è una cultura di interpretazione. Tra gli ebrei non dovrebbero esserci filosofi, perché il filosofo, come disse Hegel, è colui che reinventa il concetto del mondo. Ora, gli ebrei partono dal presupposto che questa concezione del mondo sia già stata scritta nella Bibbia, una volte per tutte. Quello che si può ancora fare è interpretarla. Il Talmud è un libro d’interpretazione, ed è un libro aperto, al quale chiunque può aggiungere un nuovo capitolo. Conta già ventiquattro volumi, ma potrebbe averne cento o duecento. È per questo che gli ebrei scomunicarono Spinoza, perché non si presentò come interprete, ma come un vero filosofo, che voleva ripensare l’universo. Eppure era un bravo ebreo. Ma un giorno non lo lasciarono entrare in sinagoga. Poiché non vado in sinagoga, è un rischio che io non corro». E perché due premi Nobel? Perché sono due amici. «Elie Wiesel l’ho conosciuto in Francia, poco dopo il mio arrivo: era orfano, e la sera veniva a mangiare la minestra che preparava mia madre. Shimon Peres è invece l’ultimo dei moicani dei fondatori socialisti dello Stato ebraico, un politico che ha conservato intatti i suoi sogni, o le sue illusioni, con cui preparai gli accordi di Oslo nel 1993. Ma poi Yitzahk Rabin fu assassinato e la situazione precipitò nuovamente nel caos. Se Rabin fosse ancora vivo, non vedremmo oggi Netanyahu confabulare con Abu Mazen, per poi fare il contrario di quello che ha appena promesso». Halter ricorda infine il viaggio che fece François-René de Chateaubriand in Palestina due secoli fa, raccontato nel suo Itinerario da Parigi e Gerusalemme. Lì, il padre del Romanticismo francese trovò chi dall’antichità era sopravvissuto al sigillo del tempo con le stesse tradizioni, la stessa memoria e la stessa lingua di una volta. «Era un piccolo popolo, rimasto aggrappato a quei luoghi, mentre tutti gli altri, dai sumeri ai babilonesi, dagli egiziani ai greci, erano scomparsi da secoli o millenni. Quando vengono strappati dalla loro patria, i popoli “normali” muoiono come una pianta sradicata. Diverso è per gli ebrei, che se sono costretti a lasciare la loro terra, si portano appresso il loro Libro, e quindi le loro radici». È forse per questo che tutti coloro che hanno cercato di distruggere il popolo ebraico hanno cominciato col bruciare i suoi libri. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale DOMENICA 23 GENNAIO 2011 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 ABIASAF figlio di Core ELCANA figlio di Core SITRI figlio di Uziel ASSIR figlio di Core ELSAFAN figlio di Uziel MISAEL figlio di Uziel ZICRI figlio di Isar UZIEL figlio di Cheat NEFEG figlio di Isear DINA figlia di Lea GIACOBBE CORE figlio di Isear LEA EBRON CARMI figlio di Cheat figlio di Ruben RUBEN PALLU CHENOC figlio di Ruben figlio di Ruben figlio di Giacobbe CHESRON figlio di Ruben ISAR figlio di Cheat IAMIN figlio di Simeone SIMEI figlio di Gherson LIBNI figlio di Gherson IEMUEL GHERSON figlio di Cheat figlio di Simeone SIMEONE figlio di Levi AMRAM figlio di Giacobbe OAD figlio di Simeone CHEAT figlio di Levi IACHIN figlio di Simeone MALI figlio di Merari MERARI figlio di Levi SOAR figlio di Simeone LEVI figlio di Giacobbe MUSI PUVA figlio di Merari figlio di Issacar SAUL figlio di Simeone TOLA figlio di Issacar IALEEL figlio di Zabulon IOCHEBED moglie e zia di Amram ISSACAR figlio di Giacobbe IOB figlio di Issacar ELON SIMROM AARONNE figlio di Zabulon figlio di Issacar figlio di Amram ELISEBA moglie di Aaronne MOSÈ ZABULON figlio di Giacobbe NADAB figlio di Amram IL LIBRO SERED figlio di Aaronne figlio di Zabulon ABIU SEFORA figlio di Aaronne moglie di Mosè ELEAZAR MARIA figlio di Aaronne ELIEZER figlia di Amram figlio di Mosé GHERSOM figlio di Mosé ITAMAR figlio di Aaronne È uscito in Francia Histoires du Peuple Juif di Marek Halter (Arthaud, 224 pagine, 39 euro). L’illustrazione di queste pagine, tratta dal libro, è una genealogia biblica di Stephanus Garsia contenuta nel Commentario sull’Apocalisse detto Beatus di Saint-Sever (Undicesimo secolo) FINEAS figlio di Eleazar Repubblica Nazionale 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 GENNAIO 2011 SPETTACOLI Cary Grant scherza con Doris Day sputando l’acqua della piscina, Rock Hudson passeggia vestito di sola pelliccia, Audrey Hepburn si riposa sotto un albero africano. Nell’istante in cui la macchina da presa si spegne Leo Fuchs punta l’obiettivo e immortala le star tra un ciak e un altro. Scatti ora raccolti in un libro che fotografa la vita dopo la finzione DARIO PAPPALARDO lfred Hitchcock guarda Tippi Hedren come il gatto fa col topo. Sono sul set di Marnie. È in quel momento che lui sta pensando di regalare alla figlioletta di lei, Melanie Griffith, una Barbie similTippi confezionata in una bara di legno? Paul Newman anche in pausa, sigaretta tra le dita, maglietta buttata via chissà dove, proprio non riesce a dismettere la posa da divo. Gregory Peck ripassa il copione de Ilbuio oltre la siepecon la piccola coprotagonista Mary Badham: sembra lo stesso onesto americano medio che incarna cento volte sullo schermo. Cary Grant, invece no, per stemperare la fama di gentleman, sputa l’acqua della piscina, davanti a Doris Day che non fa una piega. Nella Hollywood dei tempi d’oro, appena la macchina da presa si spegne, Leo Fuchs punta l’obiettivo. Sta lì a catturare i momenti morti, quei non tempi tra un ciak e l’altro, con le stelle che rileggono la parte, sbadigliano, ridono, fanno i capricci, telefonano a casa. Quando i genitori — pasticceri ebreo-polacchi — da Vienna ripiegano a New York, nel fatale 1939, Leo ha solo dieci anni e si chiama PAUSA! A ancora Abraham Leon Springer. Poco dopo vende per cinque dollari un ritratto rubato della first lady Eleanor Roosevelt. Dimostra di avere subito carattere e idee chiare: quattordicenne, lascia la scuola per imparare il mestiere dei suoi sogni al Globe Photos. I primi lustrini che immortala sono quelli degli spettacoli di Broadway e giornali e riviste iniziano a contenderselo. Ma negli anni Cinquanta arriva la grande occasione: i set gli aprono le porte. È tra i pochissimi ad accedere ai dietro le quinte della mecca del cinema. Sono i tempi in cui gli attori, tenuti a bada dagli Studios, centellinano la loro immagine e la adeguano ai contratti firmati. Scrive Bruce Weber nel saggio che ora accompagna Leo Fuchs: Special Photographer from the Golden Age of Hollywood, raccolta di scatti memorabili e inediti pubblicata negli Stati Uniti da powerHouse Books a cura di Alexandre Fuchs, figlio del fotografo scomparso nel 2009 : «La naturalezza delle sue fotografie può paragonarsi solo con i ritratti informali di Spencer Tracy realizzati da Imogen Cunningham o con quelli di Cecil Beaton al giovane Marlon Brando. Gli scatti di Leo erano “la cruda realtà” o, come amano dire a Hollywood, “la realtà stessa”». La realtà nascosta dietro la celluloide. Appare troppo facile oggi guardare sotto un’altra luce la foto di Rock Hudson che cammina vestito di sola pelliccia sul set di Amore ritorna. Con lo sguardo tra l’annoiato e l’inquieto, non ha per niente l’aria di uno che sta girando una commedia. Avrebbe dovuto attendere altri vent’anni prima di poter fare coming out. Fuchs coglie con il suo obiettivo le ombre dei divi, ma senza il grottesco delle foto da rotocalco che sarebbero venute di Quando Hollywood smette di recitare ALFRED HITCHCOCK Il regista (a destra) sorride a Leo Fuchs nel suo ufficio di produzione GREGOY PECK E MARY BADHAM L’attore (nella foto grande qui sopra) ripassa il copione durante una pausa de Il buio oltre la siepe insieme alla piccola coprotagonista Mary Badham: è il 1961 Repubblica Nazionale DOMENICA 23 GENNAIO 2011 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 Cameron Diaz - ATTRICE Appartengo alla categoria di attori convinti che recitiamo gratis e veniamo pagati per tutto il resto: interviste e pause Aggiungo: trovo crudele che sui set ci siano tutti quei popcorn Paul Haggis - REGISTA Non amo aspettare, e neppure gli attori: dopo una scena vogliono rifarla subito Questo per dire che sui miei set ci sono poche pause, credetemi! Jeff Bridges - ATTORE Fra un ciak e l’altro io fotografo: colleghi, trucco, troupe... Andy Garcia - ATTORE Pausa? Per me non c’è né “azione” né “pausa”. La vita va sempre avanti SEAN CONNERY L’attore durante una pausa sul set di La donna di paglia, 1963 AUDREY HEPBURN In alto a destra, l’attrice si riposa sotto un albero: si gira La storia di una monaca Anthony Hopkins - ATTORE Non sono più i tempi in cui si staccava alle cinque, a meno che non lavori con Woody Allen o Clint Eastwood Io con Eastwood non ho mai lavorato ma mi dicono che è uno che alle cinque dice: bene così , pausa, ci vediamo domani! ROCK HUDSON 1960: sul set di Amore ritorna l’attore si diverte indossando una pelliccia Stanley Tucci - ATTORE Una volta un grande attore mi disse: “Io recito gratis, ma mi faccio pagare, e tanto, per le ore che sto lì ad aspettare un ciak di qualche secondo” CARY GRANT E DORIS DAY Scherzi a bordo piscina Il set è quello de Il visone sulla pelle, Bermuda, 1961 FRANK SINATRA Al Pacino - ATTORE Se il film è impegnativo meglio chiudersi in camerino e prepararsi Ma per rilassarsi meglio ancora starsene a scherzare con la troupe Francia, 1957, durante la lavorazione di Cenere sotto il sole lì a poco. Non è un paparazzo. Delle star conquista il rispetto, a volte qualche confidenza, che serba per sé o trascrive con discrezione senza l’inchiostro efficace e velenoso di un Truman Capote. Sul set dei Giovani leoni, dove si confrontano i due “ribelli” Marlon Brando e Montgomery Clift, annota: «Monty era un’“antenna”, recettivo e sensibile a tutto e a tutti. Marlon, invece, aveva un approccio più intellettuale al suo lavoro». Fatto sta che, quando prova a mostrare a Brando alcuni scatti realizzati durante le pause, uno dei tirapiedi dell’attore gli si avventa contro: «Come osi avvicinarti a Mister Brando senza prima chiedere il permesso?». Da allora, Fuchs preferirà concentrarsi su Clift. Nel backstage di Irma la dolce, IL LIBRO si divertirà di più, con gli sghiIn alto a sinistra, con Paul Newman a torso nudo, gnazzi e le smorfie rubate a Jack la copertina di Leo Fuchs, Special Photographer Lemmon e Shirley MacLaine. E from the Golden Age of Hollywood edito con l’umorismo di Billy Wilder, da powerHouse Books e curato da Alexandre Fuchs che però sul set era serissimo: meDa qui sono tratte tutte le immagini todico fino all’ossessione, sisteche illustrano queste pagine ma lui stesso il vestito alle interpreti secondarie del film. Poi c’è Audrey Hepburn. «Non riuscivi a farle una brutta foto, nemmeno se ci provavi», ricorderà il fotografo. Lui la “cattura” in Congo, mentre gira La storia di una monaca di Fred Zinnemann. La Hepburn che sorride col costume da suora e si ripara dal sole con l’ombrello. La Hepburn al mercato locale, e tutto il mondo attorno che si ferma a guardarla. La Hepburn che legge un libro, o con una scimmietta sul braccio. E poi ancora: col volto incorniciato da foglie e tronchi di una foresta pluviale, ha un accenno di occhiaie. Forse è stanca, di sicuro in quella foto è Audrey e basta. © RIPRODUZIONE RISERVATA Anne Hathaway - ATTRICE Le pause possono anche essere molto faticose Sul set di “Love and Other Drugs” avevamo parecchie scene di sesso. Prima di ogni scena andavo in camerino a fare flessioni in modo compulsivo, come se potessi cambiare il mio corpo da un momento all’altro e una volta nuda potessi essere miracolosamente super Ero ossessionata. Del resto non sono mai stata tanto nuda come in quel film! Michele Gondry - REGISTA Se c’è una pausa corro nel mio camerino e schiaccio un pisolino Ma non succede quasi mai... Colin Firth - ATTORE Preferisco scherzare piuttosto che starmene chiuso in uno sgabuzzino Testi raccolti da SILVIA BIZIO © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 GENNAIO 2011 i sapori Ricchi di minerali, sali e vitamine, sono le uniche verdure che dal gelo traggono nutrimento. Un vero toccasana Di stagione antinfluenzale che, a dispetto dell’odore non proprio piacevole sprigionato in cottura, sposa a perfezione pasta e carni. E nonostante le origini povere e contadine oggi vengono esaltati anche dai grandi chef FRIARIELLO A Napoli, i castigliani frio-grelos si spadellano in aglio e olio con le salsicce Attenzione però: in provincia si chiamano così anche i peperoncini verdi MÙGNOLO Raro, si coltiva nel Salento Rispetto al broccolo comune, vanta un’infiorescenza più piccola e meno compatta, con fiori bianchi e grandi RAMOSO Simile al cavolfiore, ha cime piccole (infiorescenze ramificate) di un colore verde-azzurro e piccoli germogli ascellari chiamati broccoletti LICIA GRANELLO on fate i mùgnoli, ammoniscono le mamme pugliesi, quando i loro piccoli fanno i capricci. Sarà perché i broccoletti della provincia di Lecce hanno foglie nervose e frastagliate, piccole e ribelli, tutte da addomesticare. Del resto, i broccoli — inarrivabili campioni della nutrizione invernale — rappresentano l’ala anarchica delle brassicacee: lontani dalla forma globosa e rassicurante di verza e cappuccio, dalla fioritura lattea del cavolfiore, dalla tenera piccolezza dei cavolini di Bruxelles, si accaparrano un fazzoletto di territorio e lì danno il massimo. Appena il gelo comincia a mordere la terra — il sottozero aumenta la concentrazione degli elementi organolettici decisivi per dare finezza al sapore — eccoli affastellarsi sui banchi dei mercati: sfrontati e selvaggi come le cime di rapa, turgidi come i torbolesi del Garda trentino, lunghi ed eleganti come quelli di Creazzo, che il creazzese più famoso del decennio, Carlo Cracco, da novembre a febbraio si fa portare settimanalmente dal padre Bertillo nel locale bistellato di Milano, per preparare una crema (con filetto di trota spadellata e leggermente affumicata) da urlo. Pochi dettagli — dimensioni delle infiorescenze, lunghezza delle foglie, colore dei germogli — che firmano in maniera netta gusto e odore. Proprio l’elemento naso gioca a loro sfavore, soprattutto da quando la cucina di casa si è trasformata da centro della vita familiare in un’area di pochi metri quadri condannati all’asetticità olfattiva. In realtà, l’odore di cavolo che annuncia in maniera irrimediabile la preparazione dei broccoli, deriva dalla degradazione di sua componente solforata — la proteina sulforafane — dalle straordinarie proprietà anticancro e inibitrici dell’invecchiamento cellulare. Così, se da una parte l’ideale sarebbe mangiare i broccoli crudi e freschi (oltre i tre giorni di conservazione, il meglio delle sostanze benefiche scompare), dall’altra la cottura andrebbe attentamente controllata, fermandola al limite della consistenza croccante. Per limitare l’espansione nell’ambiente delle molecole solforate, un paio N 27 le calorie presenti in 100 grammi di broccoli 50 mg la vitamina C presente in 100 grammi di broccoli 1992 il sulforafane dei broccoli viene individuato come antitumorale Broccoli Campioni del grande freddo CIME DI RAPA I broccoletti di rapa si caratterizzano per foglie frastagliate di un bel verde brillante e per i piccoli fiori gialli, dal gusto lievemente amaro e piccante di accorgimenti: aggiungere una fetta di limone o un boccone di pane raffermo imbevuto di aceto nell’acqua di bollitura. Ma non di sola sulforafane, si pregiano i broccoli, ricchi di vitamine (A, B1, B2, C, PP) e di sali minerali (fosforo, potassio, ferro, zinco) facilmente assimilabili perché poveri di ossalati. Discorso analogo per il calcio: una porzione di broccoli cotti in maniera corretta equivale a bere una tazza (da tè) di latte. Da qui, la messe di proprietà remineralizzanti, energetiche, antianemiche, disinfettanti, antireumatiche. Dopo aver cotto al vapore i broccoli appena comprati armati di limone e contaminuti, una spadellata in aglio, olio e peperoncino contemporanea alla cottura delle orecchiette ci regalerà uno dei piatti più sani e golosi della stagione, quasi meglio di un vaccino antinfluenzale. FIOLARO Il broccolo dop, prodotto in un’area della campagna vicentina, ha germogli laterali (fioi) e un gusto elegante che si affina con le prime gelate © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale DOMENICA 23 GENNAIO 2011 itinerari Curtis Duffy gestisce il ristorante due stelle “Avenues” dell’hotel Peninsula, a Chicago I broccoli (caramellati, spadellati, in puré) accompagnano la deliziosa entrecote di manzo marinata alle spezie asiatiche e abilmente cotta nel latte di cocco LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 Creazzo (Vi) Bacoli (Na) Fasano (Br) Clima mite e terra calcarea firmano il terroir del broccolo Fiolaro dop, coltivato lungo i declivi della collina Renella, nella campagna vicentina Veri tesori ortofrutticoli dei Campi Flegrei, i broccoli battezzati dalla mineralità del territorio vulcanico, ingredienti imperdibili della pizza ch’e’ friarielle Ha storia millenaria la cittadina appoggiata tra mare e collina, che vanta un museo dedicato all’olio e storiche ricette a base di mùgnoli e cime di rapa DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE HOTEL VERGILIUS Via Carpaneda 5 Tel. 0444-165800 Camera doppia da 90 euro colazione inclusa VILLA OTERI Via Lungo Lago 174 Tel. 081-5234985 Camera doppia da 85 euro colazione inclusa MASSERIA ALCHIMIA Contrada Fascianello 50 Tel. 335-6094647 Camera doppia da 65 euro colazione inclusa DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE L’ALTRO PENACIO Via Tavernelle 71. Località Altavilla Vicentina Tel. 0444-371391 Chiuso domenica e lunedì a pranzo menù da 35 euro IL CHIOSCO DI MAZZELLA Via Panoramica 27 Tel. 081-8682814 Senza chiusura menù da 15 euro LE PALME DI TORRE MAIZZA Contrada Coccaro. Località Savelletri di Fasano Tel. 080-4827838 Senza chiusura menù da 45 euro DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE AGRICOLA ENZO RIVA Via Rampa 22 Tel. 0444-522692 AGRITURISMO IL CETRANGOLO (con cucina) Via Faro 56 Tel. 081-5232688 MASSERIA LAMAPECORA Contrada Fascianello Tel. 080-4420843 Gli italiani nel mondo con una “c” sola MASSIMO MONTANARI a più antica ricetta di broccoli è quella contenuta in un testo del Quindicesimo secolo che gli studiosi conoscono come Meridionale A. La ricetta è semplicissima: mettere a bollire la verdura «in grande quantità de acqua», quando è VAPORE ben lessata tirarla fuori e friggerla «con olio et ceIl tipo di cottura polle», poi aggiungervi del pepe «et dà ad magnache più ne rispetta re». Rispetto al procedimento suggerito per altre le qualità nutrizionali, verdure (rape, cicoria, asparagi, finocchi) la vaideale per insalate riante per i broccoli è di non passarli nell’acqua e per la gratinatura fredda prima di saltarli in padella. È questo un con la besciamella esempio di come, nella tradizione italiana, anche i ricettari destinati alle classi alte (tutti lo sono, nel Medioevo) riservino attenzione a prodotti “contadini” e a preparazioni “povere”, appena impreziosite dall’aggiunta di qualche spezia. Non sorprende che questi «broculi de coli» — cioè appartenenti alla più vasta famiglia dei cavoli — siano attestati in un ricettario del MeGLI APPUNTAMENTI ridione. La “meridionalità” di questa verLa celebrazione dei broccoli, dura, infatti, per molti secoli non fu in dicominciata in settimana a Creazzo, scussione. In particolare, i broccoli furoVicenza, si sposta nel prossimo no a lungo identificati come “napoletaweekend nel Lazio, ni”. Così il “gioco della Cuccagna” deltra Priverno e Anguillara Sabazia, l’incisore bolognese Giuseppe Maria terre di produzione Mitelli (1691), «che contiene le princidella qualità romanesca pali prerogative di molte città d’Italia In Sicilia le varietà tardive circa le robbe mangiative», individua (cucinate in pastella) senz’altro i broccoli come cibo-simbosaranno il piatto forte lo di Napoli. Ciò valeva anche fuori d’Idelle feste di strada talia: nel 1699, il trattato sulle verdure che accompagnano la settimana dell’inglese John Evelyn descrive anche le dedicata a San Giuseppe molte specie di cavoli tra cui i broccoli, prea metà marzo cisandone l’origine «from Naples». Negli stessi anni, il palermitano Carlo Nascia, cuoco al servizio del duca di Parma e Piacenza, includeva nel suo ricettario i «broccoli alla Napolitana», consigliando di cuocerli poco perché altrimenti «non valgono niente», e di condirli «con sale, pepe, oglio e succo d’aranci». Nei ricettari ottocenteschi, i broccoli appaiono ormai “adottati” come prodotto di rilevanza nazionale. Giovanni Vialardi, «aiutante capo-cuoco delle Loro Maestà Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II re di Sardegna», nel suo Trattato di cucina (1854) li indica senz’altro come «italiani» e li definisce «una verdura molto stimata, e assai buona». Ne dà cinque diverse ricette, fra cui i «broccoli alla milanese» e i «broccoli strascinati alla romana». Il riferimento a Roma si ritrova in altri testi dell’epoca ed è infine accolto da Pellegrino Artusi, padre della cucina italiana moderna, che inserisce nella Scienza in cucina (accanto ai «broccoli o talli di rape alla fiorentina») i «broccoli romani», non senza precisare che di questi broccoli «a Roma si fa gran consumo». Si pongono in questo modo le premesse di un’evoluzione che ha trovato il suo corso nel Ventesimo secolo, quando i broccoli sono diventati una vera icona della cucina italiana. Con due “c” o più POLENTA spesso con una sola, i «brocoli» ormai fanno parte Conciatura in verde grazie del patrimonio gastronomico del nostro paese e ai broccoli sbollentati, della sua immagine nel mondo. salati, pepati e frullati, aggiunti a fine cottura © RIPRODUZIONE RISERVATA insieme a formaggio di malga e un po’ di burro L ZUPPA Sbollentati in abbondante acqua salata e insaporiti in un soffritto, si frullano dopo l’aggiunta di brodo Il passaggio al setaccio fine elimina le fibrosità SFORMATO Olio, timo e maggiorana per spadellare i broccoli sbollentati, frullati con tuorlo e parmigiano Si mette albume montato, cottura a bagnomaria ORECCHIETTE I tondini di semola bolliti nell’acqua di cottura delle cime di rapa, si condiscono con la verdura saltata in olio, aglio, acciughe Repubblica Nazionale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA le tendenze Alternative DOMENICA 23 GENNAIO 2011 Comfort, sofisticatezza, rigore, pulizia. Le ragazze che oggi amano indossare i pantaloni del fidanzato o le signore che mettono il tuxedo del marito dichiarano una differenza di carattere, non di sesso E fanno una scelta di stile più che di genere Ecco chi sono le nuove trasformiste Lei come Lui MORBIDO Completo con giacca, pantalone e gilet in seta misto lana colore grigio fumo La scelta di Hermès per la primavera Vestite da uomo non da maschio SIMONE MARCHETTI ndossare i pantaloni e sentirsi in minigonna. Mettere il tailleur e scoprirsi in giarrettiera. Le donne che si vestono da uomini, oggi, non vogliono diventare maschi. Ma più femmine. È il paradosso della moda, l’ultima evoluzione di una tendenza che ha preso il via all’inizio del secolo scorso. A differenza del passato, però, lo stile androgino attuale non ha nulla a che fare col femminismo o le quote rosa. In un certo senso, ha perso i connotati per guadagnare in connotazione. Sono lontani i tempi in cui Coco Chanel rubava il jersey dai grembiuli delle cameriere per metterli alle clienti emancipate dal corsetto. O gli anni di lotta femminista in cui Yves Saint Laurent vestiva le sue muse con lo smoking del potere maschile. E sono passati anche i decenni che hanno visto Giorgio Armani traghettare le business woman nei consigli di amministrazione col tailleur al posto del tubino. Persino lo stile giapponese, quello che sbriciolò i confini tra i sessi all’inizio degli anni Novanta dando il via al minimalismo, è argomento di ieri. Le ragazze che oggi indossano i pantaloni del fidanzato (in gergo fashion si chiamano “boyfriend pants”) o le signore che mettono il tuxedo del consorte dichiarano una differenza di carattere, non di sesso. E fanno una scelta di stile più che di genere. Esemplare, a questo riguardo, è la fortuna e l’ascesa al successo di Phoebe Philo, la stilista inglese che ha riportato in auge la maison francese Céline. Nominata designer dell’anno ai Fashion British Award del 2010, Philo ha lanciato un diktat molto semplice: no frills, ovvero niente fronzoli. Niente rouches, niente ricami, niente simboli della femminilità di ieri. Solo comfort, sofisticatezza e pulizia. Dopo uno shock iniziale, nell’ultimo anno lo stile Céline e quello di chi l’ha seguita sembra essere stato digerito. Lo confermano tre proprietari di alcune tra le più importanti boutique d’Italia. Il primo è Beppe Angiolini, titolare di Sugar ad Arezzo: «Il ritorno dello stile maschile per le donne», ha dichiarato, «non ha a che fare né col minimalismo né con l’androginia del passato: è piuttosto la voglia di non farsi sopraffare dagli abiti, di trovare una cornice al proprio carattere, piuttosto che un vestito sexy che lo prevarichi». Gli fa eco Roberto Trapani, della boutique Vertice di Torino: «Dopo un momento di stanca, oggi le donne tornano a comprare giacche e pantaloni. Non solo, spesso entrano nella parte maschile del nostro negozio per acquistare pull extra large e pantaloni di lui. Il completo da uomo, poi, non viene usato solo nelle occasioni lavorative, ma soprattutto nelle serate eleganti in alternativa all’abito lungo». E Antonia Giacinti, della boutique Antonia di Milano, conferma: «Per la sera, il massimo della tendenza è unire maschile e femminile. Per questo consiglio alle mie clienti lo smoking, i tacchi alti e un top coperto davanti ma con la schiena nuda. L’effetto che si crea togliendo la giacca è un piccolo colpo di teatro. Un’accortezza che trasforma un abito in un colpo di stile». I BIKER In pelle nera con fibbie È lo stivale biker da donna proposto da Gucci nella collezione autunno-inverno 2010-2011 CASUAL John Richmond abbina un gilè scuro con bottoni a una camicia bianca e pantaloni a sigaretta © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale DOMENICA 23 GENNAIO 2011 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 SCAMOSCIATA TRONCHETTO FRANCESINA La scarpa stringata in scamosciato a più colori firmata Church’s In pelle con elastico alla caviglia È il tronchetto griffato Marni In pelle lucida anticata con i lacci La francesina proposta da Santoni Francisco Costa di Calvin Klein “Ridurre il superfluo è la nuova seduzione” MICHELLE MON BEL a tagliato gli orli. Ridotto il superfluo. Semplificato tutto. Ha messo giacca e pantaloni al posto degli abiti a sirena. E architetture di stoffa invece di lingerie di pizzo. Francisco Costa, designer al timone stilistico di Calvin Klein dal 2004, non è tipo da andare per il sottile. Less is more. Meno è di più. Anzi: meno è meglio. Nelle ultime due sfilate è riuscito persino a scrivere uno nuovo capitolo nella storia delle donne che si vestono da uomini. Facendo piazza pulita dei ghirigori da fanciulla in fiore, dei luoghi comuni da look androgino e di quanto visto finora. Cosa pensa delle donne che oggi scelgono abiti maschili per il loro guardaroba? «Penso siano individui alla ricerca di più libertà e più stile. Da una parte, questo desiderio le lega al passato e alle lotte di emancipazione dal potere maschile. Ma la loro richiesta ha caratteristiche slegate dalla lotta femminista. È voglia di pulizia e di sofisticatezza, un porto sicuro, in fatto di abiti, lontano dalle acque burrascose dei look troppo sexy o dell’idea stereotipata del femminile. Penso che queste donne siano alla ricerca di una nuova uniforme piuttosto che di un’uguaglianza sessuale». Non vogliono, quindi, somigliare ai loro compagni o mariti? «Al contrario: vogliono marcare il territorio, stabilire un confine preciso. Non a caso, una donna con un completo maschile perfetto è molto sexy. Perché un tailleur può diventare l’arma di seduzione più inaspettata, e quindi più efficace, che ci sia. Icone come Frida Kahlo o Katherine Hepburn hanno già scritto questo capitolo della storia della moda. Ultimamente, però, la tendenza è tornata in auge con risultati diversi». Quali? «Tanto per iniziare, non si rubano più le giacche o i pantaloni al proprio fidanzato o marito. La ragazza che prende un capo dall’armadio di lui resta un mito. Le nostre ultime collezioni sono un lavoro d’ingegneria sui tagli degli abiti femminili che guardano e ripensano l’estetica maschile. Il lavoro più grande, poi, è sui tessuti, sul mix di pensante e leggero, di rigido e scivolato. Nell’opposizione dei contrasti, che si può ricondurre al binomio maschile/femminile, sta l’altra questione». Quali sono le caratteristiche di questa nuova eleganza? «Riguarda soprattutto la silhouette. Ovvero, il modo di mischiare le proporzioni. Il mio consiglio è di sovrapporre una giacca ben costruita e astratta su una T-shirt lunga e poi completare con pantaloni morbidi corti sopra la caviglia. L’effetto finale non è né maschile né femminile, ma una sorta di sintesi tra i due. Un completo così si può portare anche con le scarpe basse. Questo a dimostrazione che non si tratta di gioco dei ruoli. Ma di un nuovo capitolo dell’eleganza femminile». (s.m.) H Michelle Pfeiffer ritratta da Herb Ritts nel ’91 con un tuxedo Armani. Foto dal libro In Vogue, Rizzoli INFORMALE PRIMAVERILE Ampia camicia di cotone bianca su pantalone di lana grigio a pence Da abbinare a classiche décolleté. È lo stile sobrio firmato Paul Smith Blazer e pantalone maschile in lino pesante azzurro. Con borsa dello stesso colore e camicia in cotone mille righe. Di Ferragamo CLASSICO LUMINOSA Sobrio ed elegante il Borsalino a tesa piccola con cinta blu notte È il ritorno ormai assodato del cappello in feltro per eccellenza Francesina in camoscio e nappa: è impreziosita da applicazioni in Swarovski Alberto Guardiani non passa inosservato SHORTS MINIMALISTA Doppio petto con revers in lana e shorts. Abbinato a décolleté con calza cucita alla scarpa Di Dolce e Gabbana È un completo gessato in lana la proposta della stilista tedesca Jil Sander per uno stile sobrio e minimalista © RIPRODUZIONE RISERVATA NERO Look total black Calvin Klein: alla giacca lunga con ampie tasche si abbina una T-shirt dello stesso colore e pantaloni morbidi ELEGANTE Alta, in pelle nera, lucida, senza lacci, con elastico alla caviglia Con i jeans e non solo È la proposta di Rodolphe Menudier Repubblica Nazionale 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 GENNAIO 2011 l’incontro Lo hanno accusato di non avere rispetto per le donne, di usare un linguaggio blasfemo, di esaltare la violenza. Ma lui, il sognatore di provincia che lavorava alla catena di montaggio e oggi è il rapper più in vista del panorama italiano, si difende: “Metto solo in scena gli incubi di un paese di plastica Ma potete starne certi: a cambiarlo ci penserà la prossima generazione. Smonterà tutti i miti. Me compreso” Spiriti ribelli Fabri Fibra hi è Fabri Fibra e perché dobbiamo parlare di lui? Beh, innanzitutto perché è il rapper più in vista della scena italiana e perché ha, da alcuni anni, grande successo. Poi, perché da quando è arrivato fa scandalo, costringe gli altri a occuparsi di lui: lo hanno accusato di avere poco rispetto delle donne, di usare un linguaggio blasfemo, di banalizzare il crimine, di esaltare la violenza. Simpatico? No, ascoltando i suoi primi dischi è impossibile definirlo simpatico. Ma con il passare del tempo le cose cambiano, Fibra incide con Gianna Nannini, scala le classifiche, cambia tono, cambia parole. E le parole, in questo caso, pesano. E sono quelle che fanno di lui una star. Fabri Fibra è in tour, gira da una parte all’altra d’Italia, e migliaia di ragazzi lo vanno ad ascoltare. Lo incontriamo a Roma, in un albergo, in una pausa di quello che, se da una parte è certamente un lavoro, per lui è in realtà la vita straordinaria che è riuscito a costruirsi con fatica, uccidendo Fabrizio e facendo nascere Fabri. Iniziamo a parlare, confessiamo un pizzico di prevenzione da parte di chi, come molti, ha avuto qualche difficoltà nel mandar giù alcuni dei testi dei suoi brani. Lui non si scompone. È abituato alle critiche, ma allo stesso tempo è stufo di essere dipinto sempre come un omofobo violento, un rapper stupido, il perfetto figlio degenere dei suoi tempi. Parla di sé con calma, della «morte» del ragazzo di provincia che era e della «rigenerazione» in eroe del rap. Proviamo a capire come accade che un ragazzo che si chiama Fabrizio Tarducci Fabrizio si limita a interpretare, a rendere vivo, a portare sulla scena? Mentre parla Fibra ha un tono serio, pesa le parole, dipinge se stesso con attenzione: «Fibra è un personaggio che può dire determinate cose in questo Paese piatto e disabituato ad ascoltare cose nuove. Quello che dice Fibra io lo penso. Lo faccio dire a lui perché lui è un supereroe illuminato che spacca il culo a tutti e può dire ciò che vuole. Non sono io ma sono io». Fabri ora parla a raffica, senza sosta, spiega, racconta, non vuole essere frainteso, non vuole essere ancora una volta materia di polemica, di scandalo. Ma scandali e discussioni ne ha scatenati sempre tanti e tutto, anche questa nuova consapevolezza, questa maturità, sembra frutto di una attenta strategia. «Il fatto che ci sia stata, all’inizio, l’intenzione di stupire con la cattiveria mi sembra evidente. Applausi per Fibraera frutto di strategia, un trailer in cui mettevo in scena il peggio di me, con un testo che aveva dentro Erica e Omar. Sensazionalismo. Avevo bisogno di farmi vedere, venivo dalla provincia, non sono un figlio d’arte, non ho quella sicurezza che ti vie- Dove sono cresciuto trovare un amico era un’impresa Non ero un disadattato, ma sapevo che c’era qualcos’altro E lo volevo trovare FOTO ARMANDO ROTOLETTI / LUZPHOTO C ROMA diventa Fabri Fibra. «Non lo so raccontare nemmeno io. Ci sono arrivato per vie traverse, ho sempre provato a fare altro, scrivere era la mia passione, ma mai avrei pensato di trasformarlo in un lavoro. E ora che lo è diventato lo vivo come se lo fosse sempre stato. Ho avuto tre fasi diverse: una prima da autodidatta, in casa, dai sedici ai ventidue anni. Poi, dai ventidue ai ventisei, mi sono mosso in giro per l’Italia. E dai ventisei a oggi sono arrivato a Milano. Tre fasi significative, perché facevo cose diverse, frequentavo persone diverse, e ognuna delle persone che ho incontrato, delle cose che ho fatto, ha contribuito a farmi diventare quello che sono adesso». Insomma, rapper non si nasce, ma si diventa, con le esperienze e la vita, che vanno messe in tasca e nel cervello. «All’inizio stavo in casa, con mio fratello, lavoravo in fabbrica, in un supermercato, non pensavo che le mie rime avrebbero assunto una forma migliore. Forse mi accontentavo perché ero un sognatore di provincia, parlavo di tutto e di niente, mi lasciavo prendere dal gusto della parola. Pian piano le cose sono cambiate, ho cominciato a uscire, a muovermi, a prendere treni e a incontrare le persone giuste. Cosa mi guidava? La passione, forte, fortissima, talmente forte che mi ha salvato, mi ha trasformato». E così Fabrizio diventa Fabri. «Sono stato un adolescente diverso, dove sono cresciuto, a Senigallia, era difficile trovare degli amici, gente con cui condividere tempo e passioni. Quando ne trovavi uno era come scoprire un tesoro. Non che fossi chiuso, o disadattato, ma sapevo che c’era qualcos’altro e lo volevo trovare». Fabri se ne stava nascosto dentro Fabrizio e qualcuno lo ha visto e lo ha tirato fuori. «Tutto è cambiato quando ho incontrato una persona importantissima, Neffa. È lui che mi ha scoperto, da lui ho capito cosa voleva dire scrivere. Lui è bravo a usare parole, e ho imparato da lui che ogni parola ha un peso specifico. Sono stato da lui a Bologna, poi ho conosciuto quella che oggi è la mia manager, che all’epoca aveva una rivista hip hop, e tutto è cambiato di nuovo». Esce il primo disco, Turbe giovanili, vende mille copie, in pochi si accorgono di lui. «Non che me ne importasse molto, ma le cose non andavano come dovevano, anche nella mia vita privata. Lavoravo in un posto terribile, non ce la facevo più. Andai in Inghilterra, e lì mi convinsi che la mia vita era, doveva essere, la musica». E oggi chi è Fibra? È molto diverso da Fabrizio? È reale o è un personaggio che ne dall’aver frequentato un certo mondo. Ho fatto tattica di sfondamento, ho pensato che dovevo dire cose che gli altri non dicevano, e non mi interessava se sarebbe stato un bene o un male. Se avessi fatto un pezzo come In Italia nel 2006 non sarei mai arrivato». Un tempo c’erano i locali, i club, i concerti, le piazze. La gavetta. Oggi fare scandalo è il modo migliore per diventare visibili? «Sì, la gente vuole il sangue. È l’era dell’estremo. Se deve venire fuori un rapper oggi deve essere un mostro che attiri l’attenzione. E se si vuole presentare un mostro, non c’è un modo simpatico per farlo. La verità è che io so bene cosa faccio, perché so cosa vuol dire lavorare. Stavo in catena di montaggio fino a cinque anni fa: ho visto che il mondo dello spettacolo era vuoto e che c’era spazio per me. Poi è arrivato il successo, il pubblico, i dischi venduti, ma c’è anche il lato oscuro, e devi saperlo gestire. Io ho avuto la fortuna di aver provato tutte le schifezze prima. E oggi, anche se succedono cose peggiori, la mia vita è meglio di com’era prima». «Prima» significa il lavoro in fabbrica, una famiglia con genitori separati, la difficoltà a gestire i rapporti umani. Una storia come tante che Fibra prova a volgere a suo vantaggio, trasformandola in materia per dischi che hanno contenuti violenti, difficili, scomodi. Per un rapper è importante che si capisca il suo messaggio? C’è un messaggio? «Una persona scrive delle cose in una realtà metafisica che è il disco: quel disco, quel giorno, e tanto basta. E quando non si riesce a capire quello che c’è dentro io sono contento. Voglio che nasca il dubbio». Fibra è davvero un ribelle? Non tanto, a ben guardare. È ormai un ragazzo «maturo» che non ha nulla in comune con i teenager che affollano i suoi concerti. «Lavoro con l’Adidas, una multinazionale, sono più inquadrato di tanti altri. Ma la verità è che ci si muove per schemi vecchi, non c’è la voglia di capire, fa comodo lasciare tutto in superficie e non ascoltare davvero. Parlo di quello che accade intorno a noi, e mi viene facile mettere in scena gli incubi nazionali. Poi però se parlo di stupri dicono che incito alla violenza, e lo stesso accade se parlo di gay o di pregiudizi razziali. Metto solo in scena un sentimento che è nazionale, e che è tutto italiano. E l’italiano è quello che quando accende Striscia la notizia non sta a sentire le denunce o i problemi, ma guarda le due fighe che ballano sul bancone». Allora, proviamo a fare il punto: Fabri Fibra è arrivato in scena scandalizzando tutti, non voleva essere simpatico e, fino a un certo punto, interpretava consapevolmente un personaggio scomodo e ribelle. Oggi, passati i trent’anni, è più maturo, attento, accorto, ha raggiunto una straordinaria popolarità, ed è uscito dal ghetto del rap. E inizia a parlare di «controcultura». Che cosa vuol dire controcultura oggi in Italia? «È un seme che si appresta a germogliare, lo sento nei ragazzi che vengono ai concerti, con la voglia di svuotarsi, di non credere a quello che gli raccontano, con la voglia di confrontarsi e, magari, di cambiare idea. Forse la prossima generazione sarà pronta per distruggere questa Italia di plastica che non sta solo in televisione ma ovunque. Controcultura sono le nuove generazioni con la voglia di disintegrare questo sistema che ti spinge a non pensare, a non interpretare le cose che vedi e senti. Oggi è ancora il momento dell’estremo e dello scontro, non del confronto e della crescita. Ma cambierà, perché in trentaquattro anni ho visto attorno a me sempre meno, è un continuo togliere: diritti, lavoro, vita. E quando ti tolgono tutto prima o poi le cose cambiano. Quando ho cominciato a fare rap avevo sedici anni, la controcultura era già morta, i centri sociali in declino, non c’era nulla per nessuno. Sì, a farla rivivere sarà la prossima generazione. Durante i concerti dico sempre a chi mi ascolta: l’unica cosa che ti può salvare nella vita è avere una passione da condividere, perché tutti pensano solo a farsi i cazzi propri. La controcultura è questo, un velo di speranza. Intitolando così il mio disco ho pensato che potesse essere uno stimolo. Magari può servire a far nascere qualcosa, magari i ragazzi cominceranno a smontare i miti. Me compreso, magari». © RIPRODUZIONE RISERVATA ‘‘ ERNESTO ASSANTE Repubblica Nazionale
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