ST 25 - Società Italiana di Studi Araldici

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ST 25 - Società Italiana di Studi Araldici
N. 25 – Anno XVII – Marzo 2011 – Pubblicazione riservata ai soli Soci
Stemmi in palazzo Corbetta Bellini
Nei locali di palazzo Corbetta Bellini di Lessolo, ove ha
sede sin dal 1939 (prima in forza di locazione e, quindi,
dal 1951, in qualità di proprietaria) l’Accademia di
Agricoltura di Torino, fanno mostra di sé due diversi
stemmi, che ricorrono sulle fusioni bronzee, adornanti le
maniglie di porte e finestre, nonché su alcuni pannelli
lignei.
altra arma Massel
arma Corbetta Bellini
altra arma Corbetta Bellini
arma Corbetta Bellini
arma Massel
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Si tratta di armi gentilizie, realizzate per conto del primo
proprietario dell’edificio, Giuseppe Corbetta Bellini di
Lessolo. Si dichiarava conte e timbrava il suo stemma di
corona comitale, ma, in realtà, i Corbetta Bellini avevano
diritto soltanto al titolo di signore di Lessolo. Nato nel
1826, Giuseppe aveva sposato a Casale, il 22 giugno 1872,
Eleonora dei marchesi Massel (Macello) di Caresana. Dal
matrimonio non nacque discendenza e Giuseppe Corbetta
Bellini si spense a Torino il 26 aprile 1885, ultimo della
sua famiglia.
Erano i Corbetta alquanto oscuri, originari di Vercelli, ove
si erano trasferiti – pare – da Milano. Il nome familiare,
all’origine, non era neppure Corbetta, ma Cassano.
Ambrogio Cassano, mercante vercellese, figlio di
Melchiorre e di Francesca Corbetta, infatti, alla metà del
secolo XVI fu istituito erede universale dal proprio zio
materno, Gianfrancesco Corbetta, a condizione che ne
assumesse il cognome. Sua figlia (ignoto il nome) sposò
un tal Bigoni, dimorante in Buronzo, procreando tre figli,
di cui Cesare Anronio e Carlo Ambrogio, rispettivamente
secondogenito e terzogenito, ereditarono da un altro zio
materno, Ambrogio Corbetta (già Cassano), con l’obbligo
di assumere nome e arma dei Corbetta (19 luglio 1587,
patenti 25, 36, interinazione 1597). Non è senza interesse
leggere nelle patenti: “… col sentimento della casata
Corbetta di Milano”.
Iniziarono le qualificate alleanze matrimoniali (più d’una
delle quali con gli Arborio di Gattinara). Un pronipote di
Cesare Antonio, Lodovico, abitante in Morzano (ove è
ancora un castello, risalente all’anno Mille, già
appartenente alla Abbazia della Chiusa e di patronato dei
conti di Cavaglià, che su per secoli di proprietà dei
Corbetta Bellini, che lo trasformarono in raffinata dimora),
acquistò da Francesco Maria San Martino di Valperga
parte di Lessolo, di cui fu investito con titolo signorile il
28 marzo 1686 (interinazione 7 giugno 1687). Aveva tolto
in moglie una Bellini (dal nome proprio sconosciuto).
I Bellini (Bellino) provenivano da Serravalle Sesia e nel
Cinquecento erano stati aggregati, come nobili, dal duca di
Savoia al consortile feudale di Bornate e di Vontebbio,
divenendone così consignori. Seguirono alleanze
prestigiose dei Corbetta Bellini con i Berzetti Buronzo,
con i Malaspina di Godasco, con i Valfré di Bonzo, sino a
quella di Giuseppe con Eleonora Massel (Macello).
I Massel (Macello) risiedevano sin dal secolo XVI a
Pinerolo e provenivano da Cumiana. Giambattista,
Cavaliere dell’Ordine di SS. Maurizio e Lazzaro, era un
militare (grado di maggiore), che il 20 febbraio 1759 aveva
acquistato dal marchese Guerra il feudo di Caresana (il
reale assenso era previamente intervenuto il 15 dicembre
1758), ottenendo l’investitura con titolo di marchese per sé
e discendenti maschi il 14 luglio 1759. Il suo primogenito
Lodovico Maurizio (1758-1816) sposò Maria Elisabetta
Ferrero della Marmora e ne nacque Giambattista Federico
(1813-1866), che da Luisa Calori di Vignale ebbe tre figli:
Fulvio (1841-1906), ultimo marchese Massel di Caresana,
personaggio di singolare misantropia, morto celibe; Teresa
Luisa Felicita, sposata a Casale il 28 maggio 1866 a Luigi
Baldassarre Carlo Cacherano dei conti di Bricherasio, ed
Eleonora, maritata, come detto, a Giuseppe Corbetta
Bellini.
Teresa Luisa Felicita Massel in Cacherano ebbe due figli:
Emanuele (1869-1903), fondatore della FIAT e brillante
ufficiale di cavalleria, e Sofia (1867-1950). Quest’ultima,
erede universale della zia Eleonora Corbetta Bellini e del
fratello Emanuele, nel 1945 fece dono del palazzo
all'Istituto Salesiano per le Missioni, il quale a sua volta
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vendette all'Accademia di Agricoltura di Torino quella
parte dell’edificio che ancor oggi la celebre istituzione,
fondata nel 1785 e da oltre due secoli altamente meritoria
nel progresso degli studi del comparto primario, occupa.
Corbetta-Bellini arma:
D’azzurro, alla fascia
d’argento, accompagnata da tre corbelli d’oro.
Massel (Macello) arma: Di rosso, a tre mazzuoli d’oro
Bellini
arma: Inquartato: nel 1° e 4°, d’argento, a
tre piante di lino di verde, fiorite di rosso, nodrite sulla
pianura erbosa al naturale; nel 2° e 3°, di rosso, alla
banda d’argento, carica di sette rombi d’azzurro,
accollati.
Cacherano arma: Fasciato innestato d’argento e di
nero.
asco
UN’AGGIUNTA LEGITTIMISTA
Noto e apprezzato è il “Saggio storico degli ordini
cavallereschi antichi e moderni estinti o esistenti istituiti
nel regno delle Due Sicilie sotto le varie dinastie”, che
Raffaele Ruo, ‘certificatore reale, notajo del Real Ordine
Costantiniano’, pubblicò nel 1832 a Napoli, presso la
stamperia della benemerita Società Filomatica, ispirandosi
a rigorosi criteri di concisa e documentata storicità.
L’opera, di pp. VIII-184, è corredata da XX tavole fuori
testo in rame. Ma l’esemplare in mio possesso ne conta
XXI.
Due blasonature, dunque. Poiché sono, tra l’altro, elencati
e descritti i nastri delle decorazioni, è di tutta evidenza che
essendo Fischer decorato del Costantiniano, dell’Ordine di
Francesco I e delle medaglie delle campagne di Sicilia e di
Gaeta, a lui si devono l’aggiunta della tavola e le decorazioni.
Il volume, acquistato presso un libraio ginevrino, riserva
un’altra sorpresa: inserzione di un foglietto di cm. 7x12,
scritto su entrambe le facciate
In ordine alle descrizioni blasoniche, saltano
all’occhio non pochi oltraggi al lessico araldico.
Rendendone l’espressione grafica, ho optato per
l’omissione del colore/ metallo del campo dell’arma
Ragué, sia perché avrebbe dato luogo ad un’arma falsa
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(colore su colore), sia in quanto la fascia, azzurra, sarebbe
andata a confondersi nel campo del medesimo smalto.
Singolari riferimenti sono quelli in ordine a uno sfondo
(fond), collocato chissà dove, ai rami di quercia (peraltro, 1
e 2), ai cimieri (di non semplicissima identificazione come
tali) e alle diciture sovrapposte. Strano anche che, sulla
base di queste, il champ supérieur sia lo chef e quello
inferiore la pointe, in entrambi i casi, e tanto vale anche
per bord=bordure.
L’arma Fischer, peraltro, non corrisponde esattamente ad
alcuna delle tante reperite sotto tale cognome, mentre non
ho trovato alcuno stemma Ragué. Ciò non toglie, che nel
foglietto si legga Fischer d’Arlesheim e Rogué de
Grandfontaine. Non si tratta di predicati feudali o di
onore, bensì dei rispettivi luoghi d’origine, collocati il
primo nel cantone di Basilea e il secondo nel Giura. Due
famiglie elvetiche, dunque. Ciò aiuta a ricostruire l’arma
Fischer (V. & H.V. Rolland’s, “Supplement to Armorial
Général by j.-B. Rietstap”, VII, ried. London, 1971, p.
195) e a dubitare dell’esattezza di quanto si legge a p. 284
di “Il Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio”, a cura del Gran Magistero dell’Ordine, vol. I, dove
tra i Cavalieri di grazia si trovano: 14.2.1860, rev. Sacerdote Giuseppe Fisher (Baviera); 1862, Dottor Enrico Fischer (Baviera). Al di là della lieve differenza nel nome di
famiglia, non rara nei ruoli Costantiniani, il nostro personaggio con la Baviera non proprio nulla a che vedere e
avrà fatto parte, con ogni probabilità, di una delle quattro
compagnie di Svizzeri, che a Gaeta si batterono con spiccato valore, difendendo il promontorio di Torre Vista, al
comando del capitano Hess e sotto la supervisione dell’
eroico colonnello von Metzel. Per quanto concerne il
Rogué, dovrebbe trattarsi di un avo materno. In calce alla
porzione di foglietto che lo riguarda, a caratteri microscopici, si legge: “+ Croix reçue sur le champ de bataille
de Fontenoy par le Cap.n Rogué, pour blessure”. Dunque
la croce di San Luigi sarebbe stata conferita sul campo di
battaglia di Fontenoy, nel 1745, a un non meglio identificato capitano Rogué, rimasto ferito. Proprio nello scontro in cui i francesi avrebbero rivolto al nemico il celebre
invito, “Messieurs les Anglais, tirez-vous par premiers!”,
riportando poi una clamorosa sconfitta e lasciando sul
terreno 350 uomini.
Asco
Il titolo di Conte in Sicilia
Il titolo di conte insieme a quello di barone e di miles
comparve in Sicilia alla conquista normanna, iniziata nel
1061 con lo sbarco nella zona di Milazzo e completata 31
anni dopo con l’ingresso a Palermo di Roberto il
Guiscardo duca di Puglia, seguito dal fratello Ruggero e
dai principali condottieri normanni. La situazione
dell’isola era profondamente diversa da quella delle altre
zone d’Italia e d’Europa, l’occupazione mussulmana non
aveva infatti consentito lo sviluppo del feudalesimo, così
gli Altavilla non dovettero mediare con preesistenti signori
- che mantenevano le loro ambizioni malgrado la
conquista-, così come era loro capitato nell’Italia Meridionale, anche se utilizzarono a loro vantaggio alcuni fra i
maggiori rappresentanti delle comunità mussulmane.
I feudi vennero concessi da Roberto ai diversi condottieri
normanni quale compenso per l’impegno preso nella
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conquista, a cominciare da Ruggero, suo fratello di
Roberto, che fu creato Gran Conte di Sicilia ed a cui andò
larga porzione dell’isola anche perché era quello che si era
maggiormente impegnato.
Uno di tratti specifici delle concessioni feudali da parte
degli Altavilla fu quella di non assegnare in feudo a laici, a
meno non fossero stretti congiunti del Gran Conte, le città
ma piuttosto ad esponenti del clero in modo che alla morte
del destinatario la concessione tornasse alla corona.
Sotto la dominazione normanna le contee furono pochissime, in genere appannaggio dei parenti stretti dei sovrani
e sovente dissoltesi o per l’avversa fortuna dell’assegnatario. Dei titoli concessi in quel periodo si ha però notizia
solo dalle citazione che ne fecero gli storici fra i più
antichi sono note le nomine di un conte di Geraci (prima
del 1072 a Serlone, nipote di Ruggero per la vittoria presso
Cerami), di Siracusa nel 1096 (Tancredi, nipote del Gran
Conte Ruggero), di Malta nel 1113 e di Bucchieri nel
1160.
Una dotta disputa che ha in passato visto discutere fra loro
alcuni illustri storici e araldisti fu quello di trovare il
discriminante fra la baronia a la contea. Gregorio nel suo
«Considerazioni sulla storia della Sicilia» sostiene che
come la baronia è composta da più feudi così la contea
deve essere composta da più baronie, teoria che oltre a non
fondarsi sulla realtà dei fatti, come noti, trovò contrari altri
scrittori fra cui l’Orlando, che nel suo «Il feudalesimo in
Sicilia» sostiene che la differenza fra contea e baronia non
consisteva che nel solo titolo avuto nella concessione,
facendo riferimento, per sostenere la sua tesi, alla
costituzione de re Ruggero «Si quis Baro vel Miles».
Successivamente, nel periodo svevo i feudi aumentarono
notevolmente di numero e durante la dominazione angioina (1265 -1282) buona parte di questi vennero tolti ai
seguaci di Manfredi e concessi a quelli di Carlo d’Angiò,
nel primo periodo aragonese (1282-1377) si ebbero molte
nuove investiture e si vide l’elevazione di alcune baronie a
contee. L’ultima parte del periodo aragonese fu caratterizzato da una pressoché totale anarchia, per la debolezza
della monarchia che non riusciva a tenere a bada i maggiori feudatari, che alla morte di Federico III, si arrogarono il
potere imprigionando di fatto la figlia di questo, Maria,
che fatta poi fuggire da uno di essi si venne a trovare in
balia di Pietro d’Aragona che gli fece sposare il nipote
Martino, il quale intraprese poi, accompagnato dalla consorte, la riconquista dell’isola nel 1391. Nel periodo di
anarchia i feudatari si usurparono a vicenda, si impossessa-
rono di feudi ecclesiastici, di terre e città demaniali, tanto
che Martino I, col consenso del parlamento nel 1396 istituì
una commissione, dalla quale erano esclusi i baroni, che
provvide a restituire al demanio regio, alle città ed ai
singoli quanto era stato usurpato.
Nel corso del Seicento, motivi di cassa fecero sì che i
Viceré spagnoli mettessero in vendita città, terre
demaniali, secrezie, dogane, gabelle, diritti fiscali e il mero
e misto imperio, si ebbe così una esplosione nella concessione di titoli, di cui assolutamente trascurato fu quello di
conte, mentre numerosi furono quelli di duca cui nel
Settecento si aggiunsero moltissimi di principe (nel 1734,
al termine del periodo della dominazione austriaca erano
122). Poi l’inflazione passò e nel 1815 erano 124.
La corona antica di conte era tutta di perle sopra un
cerchio d’oro guarnito di gemme. Il diritto di spedizione
del privilegio di conte, secondo al tariffa del sovrano spagnolo Carlo II (1665-1700) era di 825 reali d’argento.
Taluni titoli di conte hanno subito nel corso dei secoli delle
trasformazioni, altri ancora poggiati sul cognome sono stati successivamente incardinati su predicati, altri sono stati
elevati a marchese, duca, principe.
Fra le contee siciliane più antiche sulle quali furono successivamente investiti titoli maggiori un cenno meritano,
per la loro storia, quelle di Geraci e di Caccamo.
La prima divenuta marchesato nel 1433, venne concessa
dal Gran Conte Ruggero a suo nipote Serlone, dopo la
morte di questo passò alla moglie Eliusa e da questa al
nuovo marito, un soldato normanno noto per il suo coraggio Engelmaro, che ebbe però la cattiva idea di ribellarsi al
Gran Conte e perse così vita, feudo e titolo. Tornata nella
disponibilità della corona la contea fu successivamente
concessa alla figlia di Serlone e da questa al consorte di lei
Ruggeri di Bernavilla, guerriero normanno che morì in
Terrasanta nel 1098 e che meritò la citazione del Tasso nel
canto I della Gerusalemme liberata. Per successivi passaggi, la cui ricostruzione sarebbe se non fantasiosa almeno
improbabile, la contea giunse tramite la moglie, Elisabetta
de Creone, ad Arrigo Ventimiglia che fu Viceré di Napoli
nel 1260 e quindi Capitano generale nell’esercito di re
Manfredi contro Carlo d’Angiò, dopo di che il feudo
rimase in casa Ventimiglia sino alla sua elevazione, come
si è detto a marchesato.
La seconda, nacque come baronia e venne assegnata nel
1094 ad Goffredo de Sageyo, uno dei cavalieri al seguito
del Gran Conte, successivamente passò verso il 1150 ai
Bonello e con la morte di Matteo, implicato nella congiura
dei baroni, tornò nella disponibilità del fisco. Sotto il regno
di Guglielmo il buono, venne investito della baronia Giovanni Laverdin, un francese venuto al seguito di Stefano di
Perche, Gran Cancelliere ed arcivescovo di Palermo, e
quando questi fu allontanato dall’isola, la cittadina tornò
demaniale. All’inizio del 1200 di essa venne investito col
titolo comitale Paolo Cicala, Gran Connestabile del regno,
e nel 1215 l’Arcivescovo di Palermo. Con l’arrivo degli
Angioini, tale Fulcone de Puicard fu nominato barone di
Caccamo cui successe, dopo i Vespri e l’arrivo di re Pietro,
Federico Prefoglio, investito della qualità di conte, alla
morte del quale per successione di sua figlia il feudo passò
ai Chiaramonte, ai quali rimase sino alla morte di Andrea
quando la testa di Andrea Chiaramonte, rotolò sul patibolo
eretto avanti al suo palazzo a Palermo per essersi opposto
al rientro di Martino I e della regina Maria il 1 giugno
1392, per finire dopo una serie di brevi passaggi nelle mani di Bernardo Cabrera e quindi degli Henriquez. Da questi
ultimi fu venduta nel 1647, per 120 mila ducati, a Filippo
d’Amato, principe di Galati, il quale ne ottenne il 2 marzo
1647 l’elevazione a ducato.
Chiaramonte
Cabrera
Henriquez
Tornando alle contee rimaste tali, la più antica infeudazione di cui si ha la documentazione si riferisce a quella di
Modica di cui fu investito nel 1296 Manfredo Chiaramonte, signore di Caccamo, sia in virtù degli importanti servigi resi al suo sovrano (re Federico II) sia per aver sposato
Isabella Mosca, figlia del precedente possessore della baronia spogliato dei suoi beni per essere stato dichiarato ribelle.
La contea di Modica
Ventimiglia: Inquartato, nel 1° e nel 4° di rosso col capo
d’oro; nel 2° e nel 3° d’azzurro colla banda scaccata di
due file d’argento e di rosso.
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La contea rimase nelle mani di questa famiglia sino al 1
giugno 1392, come la sopraccitata Caccamo. La contea fu
quindi concessa a Bernardo Cabrera e de Fois, ammiraglio
del nuovo sovrano e del quale si tralascia di narrare le
imprese, perché sarebbe da scriverne un libro. Per via
femminile il feudo passò poi ad un’altra famiglia spagnola,
gli Henriquez dove rimase con alterne vicende, anche se
per un periodo rientrò per un breve periodo (1713-20) nella disponibilità della corona di Spagna, essendo l’ammiraglio Gian Tomaso Henriquez, allora titolare del feudo,
passato dalla parte degli Asburgo e non avendo accettato
Filippo II come nuovo re delle Spagne e di Sicilia. Per le
sue dimensioni questa contea era considerata una sorta di
stato nello stato e cos’ fu di fatto durante il breve regno di
Vittorio Amedeo II di Savoia.
Fra le altre di cui si ha una conoscenza precisa si hanno, le
contee di:
- Adernò, creata tale, secondo alcuni storici all’inizio della
dominazione normanna ed assegnata a un membro della
famiglia reale (detto Goffredo Normanno) unitamente a
quelle di Ragusa, Noto, Sclafani, Caltanisetta, Butera, ed
altre. Di certo si sa però che di essa fu investito dal re Federico II, nel 1303, Matteo Sclafani che ne rese erede il nipote (figlio della figlia secondogenita Aloisa) Matteo Peralta, cosa che scatenò le rimostranze di un altro nipote,
Matteo Moncada (figlio della primogenita Margherita) che
ricorse alle armi per sostenere le sue ragioni, trovando poi
conferma nelle decisione a lui favorevole del sovrano Federico III;
Lancia: D’oro, al leone coronato di nero, armato e lampassato di rosso, e la bordura composta d’oro e di rosso.
di re Pietro d’Aragona e la cacciata degli Angiò, dai
Lancia, per via femminile la signoria della città passò a
Giovanni di Randazzo e a sua figlia Eleonora, moglie di
Guglielmo Peralta, e da questa per mancanza di eredi tornò
al regio fisco nel 1405 per essere ceduta subito dopo a
Sancho Ruiz de Lihori, grande ammiraglio del regno, che
il 23 giugno 1407 rivendette a re Martino I terra et
castrum Caltanisette con tutti i suoi diritti e privilegi, che
due giorni dopo la cedette a Matteo Moncada in cambio di
Augusta. In quello stesso giorno il Moncada venne
investito del titolo di conte, con tutti i diritti e privilegi del
suo predecessore, il mero e misto imperio e l’impegno di
presentare un cavallo per il servizio militare. Dopo di che
Caltanisetta rimase per 400 anni feudo dei Moncada.
Moncada: Di rosso, ad otto bisanti d’oro, due a due
(blasone nella forma originaria)
Peralta: Diviso, d’azzurro e d’argento
- Golisano; le cronache dicono che essa fu elevata a contea
alla fine del XII secolo ed assegnata a tale Paolo Cicala,
successivamente le cose appaiono molto confuse, per certo
si sa che di essa fu investito nel 1355 Francesco II Ventimiglia conte di Geraci. Un discendente del quale, Antonio,
oppostosi prima e ribellatosi per tre volte a re Martino I, si
vide confiscata la contea che fu assegnata ad Arrigo Rosso
e quindi ridatagli nel 1414 quando venne liberato dal carcere e da lui lasciata in eredità alla figlia che la portò in
dote a Gilberto Centelles, un catalano venuto al seguito dei
Martini;
A questo punto si potrebbe continuare a lungo, ma sarebbe
inutile esercizio. Mette conto ricordare, citando il San
Martino de Spucches che «i titoli di conte originariamente
concessi furono 40 feudali, 13 con predicati onorari e 37
sul cognome, per un totale di 90 di cui 17 concessi dal
1860 al 1939, oltre ai titoli di conte di Laiatico, che risulta
trascritto nei donativi del 1806, ma di cui si ignora la data
di concessione, e di altri quattro riconosciuti per il lungo
uso. A questi 95 titolo possono aggiungersene altri 7, di
cui uno del S.R.I., due palatini, uno sassone e tre pontifici,
per cui si va ad un totale di 102, senza tenere conto del
titolo di conte di Grado, concesso alla medaglia d’oro
Luigi Rizzo e di conte sul cognome di cui è stato
autorizzato Giacomo Paulucci di Calboli Barone, ambedue
iscritti nell’elenco regionale siciliano».. Un numero
inferiore a quello di principe, che nel 1939 assommavano
a 139, pari a quello di duca, inferiore a quello di marchese,
il cui numero raggiungeva i 209, e di barone, circa 950.
Alberico Lo Faso di Serradifalco
Centelles: Fusato d’oro e di rosso
- Caltanisetta, di cui gli storici indicano come primo conte
Giordano Normanno, un figlio illegittimo del Gran Conte
Ruggero, cui fu assegnata assieme a Siracusa per essere
passata alla sua morte nel 1093 al Goffredo sopra indicato
come conte di Adernò. Per passare a date e fatti più certi
si deve però giungere all’infeudazione che della città ebbe
Corrado Lancia (gran cancelliere del regno) dopo l’arrivo
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L'araldica delle istituzioni pubbliche milanesi
Se lo stato e la signoria usarono le insegne del sovrano
regnante molte altre istituzioni pubbliche, unitamente, a
queste armi supreme, ebbero per consuetudine o per
privilegio la facoltà di usare le proprie.
Il comune, per esempio, perduta la caratteristica fisionomia
di autorità quasi-sovrana, abbandonò lo scudo crociato e,
divenuto organo amministrativo, usò, specialmente nei
sigilli, l'immagine di S. Ambrogio.
Anche la Repubblica Ambrosiana si servì dell'iconografia
del Santo e nel gran sigillo lo rappresentò seduto sul
faldistorio impugnante il pastorale, con la mano sinistra, e
con, nella destra, lo staffile e, con ai lati, due piccoli sigilli
crociati.
Nel piccolo sigillo, invece, il Santo, a mezza figura,
impugnante, sempre, pastorale e staffile.
Il Collegio nobile dei giureconsulti (così come ci ricorda il
Bascapé nel pregevole studio sui “Sigilli universitari
italiani”) portò, in un primo tempo, l'aquila evangelica,
posata sopra un libro, di poi, una croce biforcata accostata
dalle “sacre chiavi” e recante, sul petto, lo scudetto di Pio
IV- Medici- sormontato dal triregno.
Nel sigillo confirmatorio dei diplomi di laurea, concessi
dal collegio, di forma ovale, è presente, invece, l'immagine
di S. Girolamo allo scrittoio.
La camera dei mercanti usò anch'essa, la figura di S.
Ambrogio.
Le corporazioni professionali ed artigiane, le insegne
delle proprie arti.
- Il Collegio Elvetico portava un'arma nella quale due mani si
stringevano impugnando una croce (ciò a significare l'unione
tra il clero milanese e quello svizzero uniti per combattere
l'eresia protestante).
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- Il Collegio Borromeo di Pavia ed il Luogo Pio dell'Umiltà
entrambi fondati dai cardinali Borromei, portarono la parola
“humilitas” in lettere capitali nere e gotiche, sopra un campo
d'argento, circondata da rami di alloro.
- Il Collegio Ghislieri di Pavia, fondato da Michele Ghislieri,
pontefice con il nome di Pio V, portò l'arma del fondatore.
D'oro a tre bande di rosso.
- Il Collegio Castiglione di Pavia assunse l'arma del
fondatore cardinal Branda Castiglione ornata da cappello
cardinalizio: di rosso al leone d'argento sostenente, con la
branca destra, una torre dello stesso.
I luoghi Pii ed elemosinieri presero immagini sacre od
allegoriche: le quattro marie (per l'ente omonimo); la carità
(una donna che allatta un bambino); la vergine dei sette
dolori; S. Caterina alla ruota; i santi Rocco e Romano; tutte
insegne riferibili agli specifici istituti.
Il Luogo Pio della Divinità usò l'acronimo DITAS, in lettere
gotiche nere, recinto da un serto di alloro d'oro.
Il Luogo Pio di S. Maria portò due lettere capitali d'oro, una
S ed una M intrecciate e coronate d'oro.
L'Ospedale Maggiore sotto il patrocinio della Vergine
Annunciata adottò la Madonna e l'Angelo sopra i quali vola
la colomba dello Spirito Santo (che, a volte, fu dipinta in
bianco sopra una rosa di fiamme alternata a raggi d'oro).
Gli istituti pii che furono, invece, posti sotto la protezione
delle varie duchesse di Milano usarono innalzare, nella
propria insegna, la figura della tortora impresa delle
medesime.
La fabbrica del Duomo si rappresentò usando uno scudo
carico della figura della Madonna tenente, sotto il proprio
mantello, la facciata dalla cattedrale antica. Ai lati della
Vergine sono presenti, inoltre, i monogrammi di S.
Bernardino (le lettere capitali nere IHS poste dentro una
rosa radiosa di dodici raggi e di dodici fiamme).
Il Monte di Pietà portò, sul proprio labaro, un busto di
Cristo uscente dal sepolcro accantonato da una croce, a
sua volta, accantonato da quattro sigle IHS.
Il Monte di S. Teresa portò uno scudo caricato della
bilancia della giustizia ed un'ancora della fede conficcata
in un mare procelloso. Sopra il tutto un medaglione carico
della effigie della Santa; il tutto accollato ad un'aquila
bicipite.
Alberto Gamaleri Calleri Gamondi
I Signori della Terra di Palma negli eventi del
XVI secolo
Alla morte di Carlo Frangipane della Tolfa (4 dicembre
1586) …terzo ed ultimo de’ Conti di Sanseverino, Consigliero altresì di Stato in Regno, e Utile Signore della
Terra di Palma…, gli succede nell’eredità, per mancanza
di figlioli maschi, la figlia primogenita Vittoria, moglie di
Scipione Pignatelli, marchese di Lauro.
La famiglia Pignatelli si crede fosse originata dal cavaliere Landolulfo, al sevizio di Re Ruggiero, il quale
partecipando all’assalto del palazzo imperiale di Costantinopoli …ne uscì con tre vasi di argento infilzati alla
picca, che egli assunse per stemma e fu causa del cognome
dato ai suoi discendenti. Nel 1420 vestì l’abito di Malta ed
ottenne il Grandato di Spagna, l’Ordine del Toson d’oro ed
il titolo di principe del Sacro Romano Impero. La casata
Pignatelli ha goduto nobiltà in Sicilia e nella città di Napoli (seggi di Capuana e Nido), Aversa , Benevento, Bari,
Lucera, Tropea, Venezia e Roma. Monumenti di questa
illustre famiglia si possono ammirare in Napoli nel Duomo
e nelle chiese di Santa Maria dei Pignatelli, San Severo,
Santa Maria dell’Annunziata, San Domenico Maggiore,
Santa Restituita, Santa Maria Mater Domini, Trinità dei
pellegrini, Santi Apostoli, del Gesù e del Purgatorio: in
San Pietro di Roma, nella chiesa di San Francesco di Paola
e nel cappellone del monastero dei Santi Angeli di Palermo; in Bari nella chiesa del SS. Salvatore; in Monopoli
nella chiesa Maggiore; in Monteleone nella chiesa di Santa
Maria del Gesù; in Chieti; nella città di Alcà (Spagna)
nella chiesa delle Cappuccine . Si contano ben 178 feudi
posseduti dalla famiglia durante i secoli, tra cui:14 principati, 16 ducati, 22 marchesati, 18 contee. Nella gerarchia
ecclesiastica la famiglia vanta diversi vescovi, arcivescovi
e cardinali, Antonio Pignatelli nel 1691 fu assunto al soglio pontificio col nome di Innocenzo XII.
Innocenzo XII (Antonio Pignatelli)
Lo stemma della famiglia è così blasonato: D’oro, a tre
pignate di nero 2 e 1, accompagnate in capo da un
lambello di tre pendenti di rosso.
8
A devozione del Marchese Scipione Pignatelli nel 1593
vengono consacrati dal vescovo di Nola Mons. Gallo una
chiesa con annesso monastero sotto il titolo di San
Gennaro, edificati a qualche chilometro dal centro urbano
di Palma in direzione di Ottajano ed affidati ai Francescani
Riformati. Poco tempo fa il Centro Studi Storici
“HISTRICANUM” è entrato in possesso per compera effettuata in Inghilterra, dell’importantissima opera dello storico napoletano Tommaso Costo, dal titolo “ Del compendio dell’ystoria del regno di Napoli”nella quale si contiene
quanto di notabile e ad esso appartenente è accaduto, dal
principio dell’anno 1563, insino al fine dell’Ottantasei,
stampata in Venezia nel 1591 per i tipi di Barezzo Barezzi.
L’opera in questione è dedicata dall’autore all’Illustrissimo
Signore e Padron mio osservandissimo il Signor Don Scipione Pignatello Marchese di Lauro e Signore della Terra
di Palma, verso il quale nutre un affetto ed una considerazione davvero eccezionali ed anche perché m’accorsi
che le fu grata, si come parve, che fusse grato alle genti il
leggerla,ma soprattutto per haverla scritta in casa sua.
Come innazi detto nel libro sono narrate vicende storiche
del Regno di Napoli dal 1563 al 1586, non disdegnando
l’autore di citare eventi straordinari di diverso genere accaduti in tale periodo, come ad esempio l’alluvione di Napoli
del 20 settembre 1566 quando si mosse inverso la sera una
pioggia tale che durado fin presso a mezza notte, cagionò
intorno a Napoli un mezzo diluvio imperochè da Capodimonte e da quegli altri luoghi posti in alto scendendo
grossissimi torrenti, vennero poi tutti quelli unitis’insieme
a formare uno simile ad un gran fiume, il quale e per lo
borgo de’ Vergini e per quello di Sant’Antonio, e per
quello altresì dell’Oreto fece un guasto incredibile, buttandovi a terra molte case, con morte di parecchie persone. Nella chiesa de’ Vergini entrò tanta acqua, e vi lasciò tanta terra che poi più tosto che metterla, parve
spediente a chi n’hebbe cura, per manco spesa , di farvi un
altro suolo di sopra, talché come allora per entrarvi si
scendevano parecchi gradi, ora si entra in piano. Degno
di nota è ancora l’apparizione di una grande cometa nel
cielo di Napoli nel novembre del 1577 che durò per lo
spazio di più d’ottanta giorni(…)e spandea verso la parte
opposta, quasi lunghissima coda, così grandi i lucidi raggi, che nell’oscuro della notte rendea lume apparo della
Luna .Evento stranissimo fu ancora il crollo del duomo di
Nola, avvenuto il 26 dicembre 1583, giorno di Santo Stefano, la cui mattina concorrevano a quella chiesa di molte
genti, havendosi a predicare, ove per avventura s’era
finito di fare un pervio di marmo bellissimo non ancora
adoperato, e cantandosi da preti l’uffizio di Mattutino,
cominciarono a cadere in chiesa alcuni sassolini, e
continuavano di volta in volta, si com’era accaduto la
mattina di Natale precedente. Per la quale cosa nacque in
mente di que’ preti qualche sospezione di ruina, come per
avanti non se ne fusse havuta punto,e pensarono d’uscirsene fuora: ma si risolsero alla fine di ridursi a finir
l’uffizio in sacrestia fatto del tutto avvisato Filippo Spinola
allora Vescovo di quella città, ed ora Cardinale, che vi
mandò alcuni muratori, acciochè vedessero, e considerasser bene, se v’era alcun pericolo. Ma non fu loro conceduto tempo di ciò di fare perché in un tratto s’udì uno
strepito, e si vidde una ruina tale, che parve in quel punto
non solo un grand’edificio, com’era quello, ma subbissar
tutto ‘l mondo. Corsero allora tutt’i Nolani alla novità del
caso, empiendo l’aria di lacrimevoli stridi, come quelli,
che indebitamente credevano in cotal ruina esser morte
infinite persone trovates’in chiesa, onde chi piangeva il
padre, chi la madre, e chi l’unoe l’altro,chi il figliuolo,e
chi il fratello, o sorella, altri il marito, o la moglie; e chi
un parente, e chi un altro. Ma non si stè guari, che ( o miracolo, o bontà di Dio) si certificò ciascuno, che tutte
quelle genti, riputate fermamente per morte, eran sane e
vive, senza macula veruna, fuorché una sola donnicciola
vecchia, la quale vi rimase alquanto ferita in testa, che fu
quando il male v’occorse. Né fu di minor considerazione il
caso de’ Canonici rinchiusi a cantar nella Sacrestia, che
non vi rimanessero almeno dalla polvere affogati; ma era
ben dovere che la divina grazia per li meriti del Protomartire S. Stefano, di cui quel dì si celebrava la festa, e S.
Felice protettor de’ Nolani, apparisse perfetta. Di che la
seguente mattina si fè per quella città procession generale
ringraziandosi da tutti Iddio d’una si compita , e segnalata
grazia. Essi da poi quella chiesa cominciata a riedificare
nel principio di marzo dell’anno Ottantasei non meno
magnificamente di quel, ch’ella era prima. Per quanto
concerne il Marchese di Lauro, Signore anche della terra di
Palma, l’autore ne parla a più riprese in diverse occasioni.
Narrando della battaglia navale di Navarrino del 1572 della Lega Santa (Papa Pio V, Re Filippo II di Spagna e
Repubblica di Venezia) guidata dal Generale don Giovanni
d’Austria, fratello del Re contro l’Armata turca, a pagina
32 cita i numerosi Nobili napoletani partecipanti all’evento, tra cui : Vincenzo Tuttavilla, Conte di Sarno e generale
della fanteria, Pompeo Tuttavilla fratello del detto e generale delle schiere papali, don Ferrante Carafa, Duca di Nocera, Ascanio Pignatelli che è anche leggiadrissimo Poeta, figlio del Marchese di Lauro. Per le sue doti notevolissime nel 1609 il Re Filippo III di Spagna.lo creò Duca di
Bisaccia. A pagina 47 narra della tragica morte di Muzio
Pignatelli un de’figlioli del Marchese vecchio di Lauro,
avvenuta durante una festa in maschera la domenica del 1°
marzo 1579 in Napoli. Molti cavalieri erano convenuti nel
palazzo della Principessa di Bisignano per partecipare ad
una festa data in onore di costei ed essendo per cominciarsi ,avvenne che Muzio Pignatelli, ch’era della schiera
degli immascherati, correndo a prima giunta precipitò
egli, e ‘l cavallo in tal modo, ch’essendo allora intorno a
ventun’hora non visse più, che in sine notte; se vivere si
può, che fusse quello spazio di poche hore, nel quale privo
de’ sentimenti stette appunto come morto. Erano il misero
padre, e la sventurata moglie, con altri parenti a’ balconi,
e si viddono perir dinanzi, senza potergli dare aiuto, quello il figliolo, e questa il marito in così strano modo; talché
chi vidde quel vecchio, che s’appressava all’età d’ottanta’anni, non morire a sì fiero spettacolo, s’accertò che
un’estremo dolore non puo’ dar subita morte ad un’huomo. Non fù persona di qualunque grado si fusse a cui la
morte di quel sfortunato Cavaliero non dispiacesse insino
all’anima, imperoché egli era notissimo a ciascun per un
giovane raro, ed ammirabile, in cui pare, che la natura si
fosse compiaciuta di fare reassunto di tutte quelle doti,
suol compartire solamente a preclari huomini. Era Muzio
Pignatell d’età presso a trent’anni d’una giusta e ben
proporzionata statura, di pel biondo, di color chiaro, di
sanissima complessione, di corpo agile, nerbuto, e gagliardo, onde si esercitava continuamente e in giocar
d’arme, ed in saltare, ed in volteggiare, ed in cavalcare,
ed in ballare, ed in ogn’altra attitudine conveniente a
Cavaliero; torneava, e giostrava, ed il tutto faceva con
9
tanta felicità, che pochi in alcune cose lo pareggiavano;
ma in tutte niuno. Benché pochissimo sarebbe tutto questo,
s’egli non fusse stato meravigliosamente versato in molte
sorti di scienze, percioché egli fu e Filosofo, e Teologo, e
Matematico, e Cosmografo, ed Arismetico, ed Oratore ,e
Poeta. Diede opera alla musica, non fu senza parte
d’Astrologia, intese d’Architettura, ardì di far macchine di
legno non tentate da altri ingegneri, soleva spesso dittare
a diversi cancellieri a un tratto ad imitazion di Cesare: e
fra altre meravigliosa fu quella volta , che scrivendo egli
medesimo dittò a venticinque in diversi linguaggi, ed in
vari soggetti in presenza di molti Signori, e d’altre persone
di qualità, che tutti ne stupirono, si come haveva fatto
pochi innanzi il Cardinal Granuela vedutolo dittar nello
stesso modo a diciotto. In somma non fu cosa difficile, e
bella dov’egli e con suo honore non mettesse le mani.
Arroge, che nel colmo di tante virtù egli era affabile, piacevole, cortesissimo, e liberale, veggasi dunque da tal’
huomo, e da tal morte quanto strano accozzamento ci
rappresenti alla memoria, ma troppi sono occulti i secreti
di Dio. Torquato Tasso nelle sue opere rivela una grande
stima per il detto Muzio e lo introduce interlocutore nel
dialogo intitolato Porzio . A pagina 53 possiamo leggere la
morte di Scipione Pignatelli primo Marchese di Lauro,
scomparso il 13 settembre 1581, all’età di 81 anni ma di
sana e robustissima complessione aiutatovi dalla sobrietà
e dal suo regolato modo di vivere,. Fu homo di gran senno, e nelle sue azzioni fortunatissimo, intanto che di povero, e privato cavaliero si fè con la sua industria ricco oltre
modo, e s’acquistò il titolo prima di Conte e poi Marchese,
il che ottenne dal Re per mercede di servigi fattigli, sì
come vien specificato nel tenor del privilegio. A pagina 61
si narra dell’affidamento avvenuto nel febbraio 1585 delle
30 galee napoletane (che facevano parte della flotta composta da 207 galee della lega Santa) a carico d’alquanti
nobili, c’havevan desiderio d’adoprarsi in servizio del re,
e fra costoro ritroviamo Ascanio Pignatelli a cui fu consegnata la galea chiamata Idria. A pagina 65 veniamo a
conoscenza della mancanza di pane nella città di Napoli e
dei tumulti che ne seguirono la mattina di giovedì 9 maggio 1585. A tal guisa il Viceré avendo incominciato
fortemente a temere, mandò subito alquanti Cavalieri
principali, che rimediassono. Tra costoro vi era il Marchese di Lauro e Signore della Terra di Palma Ascanio
Piganatelli. A pagina 74 nell’elenco delle Città, Terre e
Castella della provincia di terra di lavoro che fu detta
Campagna Felice, leggiamo il nome di Palma, dopo quello
di Nola e Ottaiano. Nel 1605 il feudo palmese passò a Don
Camillo Pignatelli, figlio di Scipione per rinunzia di
quest’ultimo. Nel 1643 don Camillo Pignatelli vendette il
feudo di Palma a Donna Maria di Capua, Principessa di
Cariati, madre di Scipione Spinelli, dal quale passerà nel
1647 a Massimo Passero, presidente della regia Camera
della Sommaria.
Vincenzo Amorosi e Felice Marciano
RECENSIONE
Alberico Lo Faso di Serradifalco, Italo Pennaroli, “Il
contributo della Savoia all’Unità d’Italia (1814-1860)”,
pp. 539, Editrice Impressioni Grafiche, Acqui Terme,
2010, edizione fuori commercio.
Con questo volume, che rappresenta evidente contributo
alle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia,
esordisce la collana “Studi e Testi” della Società Italiana di
Studi Araldici, diretta e curata da Marco Di Bartolo.
Il saggio si compone di due parti:
- la prima, articolata in sette capitoli, corredati da corposi
allegati, fornisce in 212 pagine la rassegna degli eventi
occorsi nel regno di Sardegna dalla Restaurazione al 1860,
ponendo in risalto la partecipazione dei Savoiardi, a partire
dalla repressione dei moti del 1821, distintisi col
versamento del proprio sangue e piena dedizione alla
patria e devozione alla loro antica dinastia nei fatti d’armi
delle due prime guerre d’indipendenza.
Attenzione particolare è riservata alle vicende gloriose
della Brigata Savoia, sotto le cui bandiere servì la
maggioranza dei Savoiardi. Prima di essere disciolta, volle
rivolgere il suo ultimo, toccante saluto al sovrano, sfilando
in parata a Torino durante la festa dello Statuto del 1860.
Gli allegati, di non comune interesse, riportano:
- A) nomi dei Savoiardi insigniti dell’Ordine della SS.
Annunziata e del Gran Cordone Mauriziano, nonché gli
estremi delle prove di nobiltà dei Cavalieri di Giustizia di
quell’Ordine;
- B) nomi, gradi, dati anagrafici e note, relativi a soldati e
sottufficiali Savoiardi morti nella guerra 1848-49 e agli
ufficiali, morti o feriti, in quel conflitto;
- C) decorazioni e proposte di ricompense al valore,
interessanti ufficiali, sottufficiali e soldati, partecipanti alla
campagna del 1859;
- D) liste degli ufficiali Savoiardi, optanti nel 1860 per la
nazionalità sarda, id est italiana (di numero maggiore di
quanti preferirono quella francese).
La seconda parte, dal titolo “Les soldats oubliés”, traccia
in oltre 1000 schede la storia militare di altrettanti ufficiali
della Savoia o di famiglie da essa originarie, del contiguo
Vallese, nonché di quelli della contea di Nizza e del ducato
di Aosta, accomunati tutti dall’aver prestato servizio nella
Brigata Savoia.
Tra essi troviamo, ovviamente, i nomi dell’aristocrazia
Savoiarda, grande e piccola, e quelli di non pochi
personaggi passati alla storia. C’è, come Monseigneur le
Duc de Savoie, il futuro re Vittorio Emanuele II, in
10
compagnia di Luigi Menabrea, di Ettore de Sonnaz,
dell’ultimo dei d’Angennes e del prode Philibert Mollard.
Tante le famiglie, partecipanti con più membri, talora di
rami diversi: 11 proprio i Gerbaix de Sonnaz; 10 i de
Charbonneau e i de Varax; 9 i de Blonay; 8 i d’Oncieux; 6
i de Seyssel d’Aix, i de Menthon, i de Humilly, i de la
Flechère, i de Constanti, i de Mouxy; 5 i Costa de
Beauregard, i de Clermont, i de Foras, i de Rochette, i
Duboius, i de Millet, i Nicod de Maugny; 4 i de Faucigny
de Lucinge, i de Bellegarde, i Bracorens de Savoiroux, i de
Capré de Mègève, i de Chissé, i de S.t André, i Sallier de
la Tour, i Pacoret de S.t Bon, i de Bons. Tanto per fare
cenno dei contributi numericamente più consistenti.
Il lavoro può definirsi, piuttosto che documentato,
documentale, in quanto ogni dato trova puntuale riscontro
pressi citati fondi dell’Archivio di Stato torinese.
L’obiettivo di tramandare il ricordo dei Savoiardi che, per
quasi mezzo secolo, servirono con valore, talora sino
all’estremo sacrificio, la loro patria, che era al tempo il
regno di Sardegna, è stato pienamente raggiunto dagli
autori di questo volume. Ai lettori incombono alcune
risposte sulla correttezza dei politici del tempo e sulla
sostanziale indifferenza della dinastia alla perdita dei suoi
più antichi dominî e, quel che più conta, di un prezioso
patrimonio umano.
asco
Un sonetto per il Cardinale
Senza voler discorrere sulla vita di Giovanni Battista
Rovero (Roero), ancora oggi non approfonditamente
studiata e della quale troviamo memoria nei volumi Il
cardinal Domenico della Rovere, costruttore della
cattedrale, e gli arcivescovi di Torino dal 1515 al 2000 di
Giuseppe Tuninetti e Gianluca D’Antino del gennaio 2000
e nella più datata, ma sempre ottima fonte di notizie, Storia
della Chiesa Metropolitana di Torino a cura di P. Giò
Battista Semeria edita a Torino nel 1840, è necessario
ricordare che il futuro Cardinale, nato nell’astigiano il 18
novembre 1684 dalla nobile famiglia dei conti Rovero ò
Roero di Pralormo, compì i propri studi a Roma, venendo
ordinato sacerdote nel 1717 e laureandosi dottore in
entrambe le leggi a Pisa.
Il suo percorso ebbe inizio con la nomina a canonico
arcidiacono della chiesa metropolitana.
Successivamente, nel 1727, divenne vescovo di Aqui ed
indi, nel 1744, venne trasferito all’Arcivescovado di
Torino. Cancelliere del Supremo Ordine della Santissima
Annunziata, ebbe concessione della porpora cardinalizia
nel 1756 da S.S. Papa Benedetto XIV su istanza di Re
Carlo Emanuele III e con il quale dovevano esserci
reciproci rapporti di stima e di considerazione. Morì a
Torino, all’età di 83 anni, il 9 ottobre 1766.
della Visita Pastorale di S. E. R.ma Mons.r
GiamBattista Rovero
Arcivescovo di Torino Gran Canceliere del Supremo
Ordine della SS.a Annunziata
Ed a continuazione, (sistemato a due colonne, separate da
una ricercata ed elegante linea curva attorcigliata), il testo:
Sonetti
Saggio Signor di cui si chiaro Spande
con sue trombe La fama il giusto Onore
mentre tu da Torino delle ammirande
tue virtù ci trammandi il bel fulgore
Or’che per nostra Sorte avvien’che il grande
della Chiesa Dio Sovran Pastore
La nostra greggia à visitar ti mandi
oh come esulta in noi per gioja il core!
Stemma del cardinale GiamBattista Roero
Molti sono gli esempi, i modi ed i luoghi grazie ai quali i
personaggi del passato hanno volutamente lasciato traccia
degli eventi, consci così facendo di tramandare ai posteri
frammenti di storia. Non è cosa rara, per chi studia i molti
documenti custoditi negli archivi, imbattersi in
testimonianze sparse, rimaste a volte “nascoste” e
dimenticate, con riferimenti ad eventi storici locali, come
nel caso della pagina del Registro dell’Insinuazione di
Moncalieri, presa qui in esame.
Il Cardinale Gioanni Battista Rovero, al tempo del suo
arrivo in qualità di Arcivescovo e poco prima di convocare
un sinodo diocesano nel 1755, aveva compiuto la sua visita
pastorale a Moncalieri il 13 settembre 1750. Il Conte
Felice Patteri, per onorare tale visita, preparò ed insinuò
nell’apposito registro, una sua lode all’Arcivescovo.
Suddetta testimonianza, seppur scarsa di precisi riferimenti
a questo personaggio nell’ambito della poesia piemontese
del ‘700 e di una sua attività in tal senso, rimane tuttavia,
sia abbia egli compiuto altri lavori sia questa un caso
isolato, una manifestazione dalle doti non comuni.
Siccome il Sol tutto co’raggi Suoi
rischiara il mondo tal ne nostri tempj
spargon’ Luce di gloria i raggi tuoi.
E così ben’Le proprie parti adempi
che dubio è solo qual più giovi à noi
di tue voci la forza ò degli Esempj.
Lui dove à gara La natura e L’arte
fanno dei doni lor L’ultima prove
or’che alto Zelo à seminar ti muove
L’opre che à te fecondo il Ciel comparte
Quanti in altri virtù veggonsi Sparte
fia che ciascuno unite in te vi trove
e che si adornin di più belle e nuove
virtù L’anime nostre à parte à parte.
Seguendo L’orme tue Strada Sicura
pure al fin prenderà La fida greggia
alla Celeste angelica Pastura.
Onde il Mott’or della Stellante Reggia
Sol tua mercè rìSorger qui le mura
dell’Alma Sua GieruSalem riveggia.
Ed a conclusione:
In tributo d’ossequio
Felice Patteri C.
------ ------ -----M. Boniscontro In. (Intendente, Maurizio. n.a.)
Fonte: Archivio di Stato di Torino, SR. Uffici Insinuazione,
Moncalieri, N. 213.
Stemma Pateri/Patteri di Moncalieri.
Conti di Stazzano
Michelangelo Ferrero
Dal suddetto registro:
1750
Nelle publiche dimostrazioni di gioja ed allegrezza
per la Solenne
Entrata in Moncalieri Li 13 Settembre 1750 in occasione
11
Una memoria araldica nel Duomo di Fossano
All’interno della Cattedrale di Santa Maria e di San
Giovenale di Fossano, posizionato nella navata laterale
destra, troneggia maestosamente un antico confessionale in
legno degli inizi del XVIII secolo sul quale è scolpita
l’arma ecclesiastica del committente dell’epoca. Nella
parte alta del mobile, a cornice e base della parte finale
nella quale è scolpito lo stemma, l’iscrizione
CONFESSIONALE DOMINI CANONICI PŒNITENTIARII
MALLIANI EIUSQUE SUCCESSORUM DIE 2 AUGUSTI ANNO
DOMINI 1721 ne denota appunto la committenza.
L’ecclesiastico, fautore del manufatto, potrebbe essere
ricondotto al ramo dei conti di Villar San Marco e
presumibilmente nella persona del canonico Cesare
Malliano o ad altro consanguineo prossimo, vista la folta
presenza di uomini di chiesa nella famiglia. Un’analisi più
approfondita dell’archivio storico del Duomo e di altre
fonti più specifiche potrebbe fugare ogni dubbio.
M.D.B.
Si ricorda ai Signori Consoci che hanno presentato una
relazione all’ultimo XXVIII Convivio Scientifico del
nostro Sodalizio che il termine per la consegna del testo
e delle immagini, solo ed esclusivamente su supporto
cd-rom e non cartaceo, è stato prorogato
inderogabilmente al 31 marzo 2011. Il materiale è da
inviare presso la residenza del Segretario. Si ringrazia
per la collaborazione.
Si ringrazia Federico Bona per l’utilizzo dello stemma
Malliani nell’articolo Una memoria araldica nel Duomo
di Fossano tratto dal Blasonario Subalpino.
La famiglia Malliani, Magliani o Malliano, oriunda
proprio di Fossano, annovera molti esponenti di rilievo
della realtà locale ed in particolar modo della Chiesa
grazie ai canonici del Duomo cittadino. L’arma della
famiglia è di rosso, al maglio d’argento e porta, nei vari
rami, i titoli di conti di Villar S. Marco, di consignori di
Scagnello e di consignori di Costigliole Saluzzo, Torre
Bormida e Villanova Solaro.
Sul tutto periodico della SISA riservato ai Soci
Direttore
Alberico Lo Faso di Serradifalco
Comitato redazionale
Marco Di Bartolo, Andrew Martin Garvey,
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di † Salvatorangelo Palmerio Spanu
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Il blasone scolpito sull’arredo in esame, oltre al galero da
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sormontato da una corona comitale.
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eventualmente anche in due o più numeri secondo la loro
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apportare qualche modifica ai testi per renderli conformi
allo stile del periodico.
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