ST 25 - Società Italiana di Studi Araldici
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ST 25 - Società Italiana di Studi Araldici
N. 25 – Anno XVII – Marzo 2011 – Pubblicazione riservata ai soli Soci Stemmi in palazzo Corbetta Bellini Nei locali di palazzo Corbetta Bellini di Lessolo, ove ha sede sin dal 1939 (prima in forza di locazione e, quindi, dal 1951, in qualità di proprietaria) l’Accademia di Agricoltura di Torino, fanno mostra di sé due diversi stemmi, che ricorrono sulle fusioni bronzee, adornanti le maniglie di porte e finestre, nonché su alcuni pannelli lignei. altra arma Massel arma Corbetta Bellini altra arma Corbetta Bellini arma Corbetta Bellini arma Massel 1 Si tratta di armi gentilizie, realizzate per conto del primo proprietario dell’edificio, Giuseppe Corbetta Bellini di Lessolo. Si dichiarava conte e timbrava il suo stemma di corona comitale, ma, in realtà, i Corbetta Bellini avevano diritto soltanto al titolo di signore di Lessolo. Nato nel 1826, Giuseppe aveva sposato a Casale, il 22 giugno 1872, Eleonora dei marchesi Massel (Macello) di Caresana. Dal matrimonio non nacque discendenza e Giuseppe Corbetta Bellini si spense a Torino il 26 aprile 1885, ultimo della sua famiglia. Erano i Corbetta alquanto oscuri, originari di Vercelli, ove si erano trasferiti – pare – da Milano. Il nome familiare, all’origine, non era neppure Corbetta, ma Cassano. Ambrogio Cassano, mercante vercellese, figlio di Melchiorre e di Francesca Corbetta, infatti, alla metà del secolo XVI fu istituito erede universale dal proprio zio materno, Gianfrancesco Corbetta, a condizione che ne assumesse il cognome. Sua figlia (ignoto il nome) sposò un tal Bigoni, dimorante in Buronzo, procreando tre figli, di cui Cesare Anronio e Carlo Ambrogio, rispettivamente secondogenito e terzogenito, ereditarono da un altro zio materno, Ambrogio Corbetta (già Cassano), con l’obbligo di assumere nome e arma dei Corbetta (19 luglio 1587, patenti 25, 36, interinazione 1597). Non è senza interesse leggere nelle patenti: “… col sentimento della casata Corbetta di Milano”. Iniziarono le qualificate alleanze matrimoniali (più d’una delle quali con gli Arborio di Gattinara). Un pronipote di Cesare Antonio, Lodovico, abitante in Morzano (ove è ancora un castello, risalente all’anno Mille, già appartenente alla Abbazia della Chiusa e di patronato dei conti di Cavaglià, che su per secoli di proprietà dei Corbetta Bellini, che lo trasformarono in raffinata dimora), acquistò da Francesco Maria San Martino di Valperga parte di Lessolo, di cui fu investito con titolo signorile il 28 marzo 1686 (interinazione 7 giugno 1687). Aveva tolto in moglie una Bellini (dal nome proprio sconosciuto). I Bellini (Bellino) provenivano da Serravalle Sesia e nel Cinquecento erano stati aggregati, come nobili, dal duca di Savoia al consortile feudale di Bornate e di Vontebbio, divenendone così consignori. Seguirono alleanze prestigiose dei Corbetta Bellini con i Berzetti Buronzo, con i Malaspina di Godasco, con i Valfré di Bonzo, sino a quella di Giuseppe con Eleonora Massel (Macello). I Massel (Macello) risiedevano sin dal secolo XVI a Pinerolo e provenivano da Cumiana. Giambattista, Cavaliere dell’Ordine di SS. Maurizio e Lazzaro, era un militare (grado di maggiore), che il 20 febbraio 1759 aveva acquistato dal marchese Guerra il feudo di Caresana (il reale assenso era previamente intervenuto il 15 dicembre 1758), ottenendo l’investitura con titolo di marchese per sé e discendenti maschi il 14 luglio 1759. Il suo primogenito Lodovico Maurizio (1758-1816) sposò Maria Elisabetta Ferrero della Marmora e ne nacque Giambattista Federico (1813-1866), che da Luisa Calori di Vignale ebbe tre figli: Fulvio (1841-1906), ultimo marchese Massel di Caresana, personaggio di singolare misantropia, morto celibe; Teresa Luisa Felicita, sposata a Casale il 28 maggio 1866 a Luigi Baldassarre Carlo Cacherano dei conti di Bricherasio, ed Eleonora, maritata, come detto, a Giuseppe Corbetta Bellini. Teresa Luisa Felicita Massel in Cacherano ebbe due figli: Emanuele (1869-1903), fondatore della FIAT e brillante ufficiale di cavalleria, e Sofia (1867-1950). Quest’ultima, erede universale della zia Eleonora Corbetta Bellini e del fratello Emanuele, nel 1945 fece dono del palazzo all'Istituto Salesiano per le Missioni, il quale a sua volta 2 vendette all'Accademia di Agricoltura di Torino quella parte dell’edificio che ancor oggi la celebre istituzione, fondata nel 1785 e da oltre due secoli altamente meritoria nel progresso degli studi del comparto primario, occupa. Corbetta-Bellini arma: D’azzurro, alla fascia d’argento, accompagnata da tre corbelli d’oro. Massel (Macello) arma: Di rosso, a tre mazzuoli d’oro Bellini arma: Inquartato: nel 1° e 4°, d’argento, a tre piante di lino di verde, fiorite di rosso, nodrite sulla pianura erbosa al naturale; nel 2° e 3°, di rosso, alla banda d’argento, carica di sette rombi d’azzurro, accollati. Cacherano arma: Fasciato innestato d’argento e di nero. asco UN’AGGIUNTA LEGITTIMISTA Noto e apprezzato è il “Saggio storico degli ordini cavallereschi antichi e moderni estinti o esistenti istituiti nel regno delle Due Sicilie sotto le varie dinastie”, che Raffaele Ruo, ‘certificatore reale, notajo del Real Ordine Costantiniano’, pubblicò nel 1832 a Napoli, presso la stamperia della benemerita Società Filomatica, ispirandosi a rigorosi criteri di concisa e documentata storicità. L’opera, di pp. VIII-184, è corredata da XX tavole fuori testo in rame. Ma l’esemplare in mio possesso ne conta XXI. Due blasonature, dunque. Poiché sono, tra l’altro, elencati e descritti i nastri delle decorazioni, è di tutta evidenza che essendo Fischer decorato del Costantiniano, dell’Ordine di Francesco I e delle medaglie delle campagne di Sicilia e di Gaeta, a lui si devono l’aggiunta della tavola e le decorazioni. Il volume, acquistato presso un libraio ginevrino, riserva un’altra sorpresa: inserzione di un foglietto di cm. 7x12, scritto su entrambe le facciate In ordine alle descrizioni blasoniche, saltano all’occhio non pochi oltraggi al lessico araldico. Rendendone l’espressione grafica, ho optato per l’omissione del colore/ metallo del campo dell’arma Ragué, sia perché avrebbe dato luogo ad un’arma falsa 3 (colore su colore), sia in quanto la fascia, azzurra, sarebbe andata a confondersi nel campo del medesimo smalto. Singolari riferimenti sono quelli in ordine a uno sfondo (fond), collocato chissà dove, ai rami di quercia (peraltro, 1 e 2), ai cimieri (di non semplicissima identificazione come tali) e alle diciture sovrapposte. Strano anche che, sulla base di queste, il champ supérieur sia lo chef e quello inferiore la pointe, in entrambi i casi, e tanto vale anche per bord=bordure. L’arma Fischer, peraltro, non corrisponde esattamente ad alcuna delle tante reperite sotto tale cognome, mentre non ho trovato alcuno stemma Ragué. Ciò non toglie, che nel foglietto si legga Fischer d’Arlesheim e Rogué de Grandfontaine. Non si tratta di predicati feudali o di onore, bensì dei rispettivi luoghi d’origine, collocati il primo nel cantone di Basilea e il secondo nel Giura. Due famiglie elvetiche, dunque. Ciò aiuta a ricostruire l’arma Fischer (V. & H.V. Rolland’s, “Supplement to Armorial Général by j.-B. Rietstap”, VII, ried. London, 1971, p. 195) e a dubitare dell’esattezza di quanto si legge a p. 284 di “Il Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio”, a cura del Gran Magistero dell’Ordine, vol. I, dove tra i Cavalieri di grazia si trovano: 14.2.1860, rev. Sacerdote Giuseppe Fisher (Baviera); 1862, Dottor Enrico Fischer (Baviera). Al di là della lieve differenza nel nome di famiglia, non rara nei ruoli Costantiniani, il nostro personaggio con la Baviera non proprio nulla a che vedere e avrà fatto parte, con ogni probabilità, di una delle quattro compagnie di Svizzeri, che a Gaeta si batterono con spiccato valore, difendendo il promontorio di Torre Vista, al comando del capitano Hess e sotto la supervisione dell’ eroico colonnello von Metzel. Per quanto concerne il Rogué, dovrebbe trattarsi di un avo materno. In calce alla porzione di foglietto che lo riguarda, a caratteri microscopici, si legge: “+ Croix reçue sur le champ de bataille de Fontenoy par le Cap.n Rogué, pour blessure”. Dunque la croce di San Luigi sarebbe stata conferita sul campo di battaglia di Fontenoy, nel 1745, a un non meglio identificato capitano Rogué, rimasto ferito. Proprio nello scontro in cui i francesi avrebbero rivolto al nemico il celebre invito, “Messieurs les Anglais, tirez-vous par premiers!”, riportando poi una clamorosa sconfitta e lasciando sul terreno 350 uomini. Asco Il titolo di Conte in Sicilia Il titolo di conte insieme a quello di barone e di miles comparve in Sicilia alla conquista normanna, iniziata nel 1061 con lo sbarco nella zona di Milazzo e completata 31 anni dopo con l’ingresso a Palermo di Roberto il Guiscardo duca di Puglia, seguito dal fratello Ruggero e dai principali condottieri normanni. La situazione dell’isola era profondamente diversa da quella delle altre zone d’Italia e d’Europa, l’occupazione mussulmana non aveva infatti consentito lo sviluppo del feudalesimo, così gli Altavilla non dovettero mediare con preesistenti signori - che mantenevano le loro ambizioni malgrado la conquista-, così come era loro capitato nell’Italia Meridionale, anche se utilizzarono a loro vantaggio alcuni fra i maggiori rappresentanti delle comunità mussulmane. I feudi vennero concessi da Roberto ai diversi condottieri normanni quale compenso per l’impegno preso nella 4 conquista, a cominciare da Ruggero, suo fratello di Roberto, che fu creato Gran Conte di Sicilia ed a cui andò larga porzione dell’isola anche perché era quello che si era maggiormente impegnato. Uno di tratti specifici delle concessioni feudali da parte degli Altavilla fu quella di non assegnare in feudo a laici, a meno non fossero stretti congiunti del Gran Conte, le città ma piuttosto ad esponenti del clero in modo che alla morte del destinatario la concessione tornasse alla corona. Sotto la dominazione normanna le contee furono pochissime, in genere appannaggio dei parenti stretti dei sovrani e sovente dissoltesi o per l’avversa fortuna dell’assegnatario. Dei titoli concessi in quel periodo si ha però notizia solo dalle citazione che ne fecero gli storici fra i più antichi sono note le nomine di un conte di Geraci (prima del 1072 a Serlone, nipote di Ruggero per la vittoria presso Cerami), di Siracusa nel 1096 (Tancredi, nipote del Gran Conte Ruggero), di Malta nel 1113 e di Bucchieri nel 1160. Una dotta disputa che ha in passato visto discutere fra loro alcuni illustri storici e araldisti fu quello di trovare il discriminante fra la baronia a la contea. Gregorio nel suo «Considerazioni sulla storia della Sicilia» sostiene che come la baronia è composta da più feudi così la contea deve essere composta da più baronie, teoria che oltre a non fondarsi sulla realtà dei fatti, come noti, trovò contrari altri scrittori fra cui l’Orlando, che nel suo «Il feudalesimo in Sicilia» sostiene che la differenza fra contea e baronia non consisteva che nel solo titolo avuto nella concessione, facendo riferimento, per sostenere la sua tesi, alla costituzione de re Ruggero «Si quis Baro vel Miles». Successivamente, nel periodo svevo i feudi aumentarono notevolmente di numero e durante la dominazione angioina (1265 -1282) buona parte di questi vennero tolti ai seguaci di Manfredi e concessi a quelli di Carlo d’Angiò, nel primo periodo aragonese (1282-1377) si ebbero molte nuove investiture e si vide l’elevazione di alcune baronie a contee. L’ultima parte del periodo aragonese fu caratterizzato da una pressoché totale anarchia, per la debolezza della monarchia che non riusciva a tenere a bada i maggiori feudatari, che alla morte di Federico III, si arrogarono il potere imprigionando di fatto la figlia di questo, Maria, che fatta poi fuggire da uno di essi si venne a trovare in balia di Pietro d’Aragona che gli fece sposare il nipote Martino, il quale intraprese poi, accompagnato dalla consorte, la riconquista dell’isola nel 1391. Nel periodo di anarchia i feudatari si usurparono a vicenda, si impossessa- rono di feudi ecclesiastici, di terre e città demaniali, tanto che Martino I, col consenso del parlamento nel 1396 istituì una commissione, dalla quale erano esclusi i baroni, che provvide a restituire al demanio regio, alle città ed ai singoli quanto era stato usurpato. Nel corso del Seicento, motivi di cassa fecero sì che i Viceré spagnoli mettessero in vendita città, terre demaniali, secrezie, dogane, gabelle, diritti fiscali e il mero e misto imperio, si ebbe così una esplosione nella concessione di titoli, di cui assolutamente trascurato fu quello di conte, mentre numerosi furono quelli di duca cui nel Settecento si aggiunsero moltissimi di principe (nel 1734, al termine del periodo della dominazione austriaca erano 122). Poi l’inflazione passò e nel 1815 erano 124. La corona antica di conte era tutta di perle sopra un cerchio d’oro guarnito di gemme. Il diritto di spedizione del privilegio di conte, secondo al tariffa del sovrano spagnolo Carlo II (1665-1700) era di 825 reali d’argento. Taluni titoli di conte hanno subito nel corso dei secoli delle trasformazioni, altri ancora poggiati sul cognome sono stati successivamente incardinati su predicati, altri sono stati elevati a marchese, duca, principe. Fra le contee siciliane più antiche sulle quali furono successivamente investiti titoli maggiori un cenno meritano, per la loro storia, quelle di Geraci e di Caccamo. La prima divenuta marchesato nel 1433, venne concessa dal Gran Conte Ruggero a suo nipote Serlone, dopo la morte di questo passò alla moglie Eliusa e da questa al nuovo marito, un soldato normanno noto per il suo coraggio Engelmaro, che ebbe però la cattiva idea di ribellarsi al Gran Conte e perse così vita, feudo e titolo. Tornata nella disponibilità della corona la contea fu successivamente concessa alla figlia di Serlone e da questa al consorte di lei Ruggeri di Bernavilla, guerriero normanno che morì in Terrasanta nel 1098 e che meritò la citazione del Tasso nel canto I della Gerusalemme liberata. Per successivi passaggi, la cui ricostruzione sarebbe se non fantasiosa almeno improbabile, la contea giunse tramite la moglie, Elisabetta de Creone, ad Arrigo Ventimiglia che fu Viceré di Napoli nel 1260 e quindi Capitano generale nell’esercito di re Manfredi contro Carlo d’Angiò, dopo di che il feudo rimase in casa Ventimiglia sino alla sua elevazione, come si è detto a marchesato. La seconda, nacque come baronia e venne assegnata nel 1094 ad Goffredo de Sageyo, uno dei cavalieri al seguito del Gran Conte, successivamente passò verso il 1150 ai Bonello e con la morte di Matteo, implicato nella congiura dei baroni, tornò nella disponibilità del fisco. Sotto il regno di Guglielmo il buono, venne investito della baronia Giovanni Laverdin, un francese venuto al seguito di Stefano di Perche, Gran Cancelliere ed arcivescovo di Palermo, e quando questi fu allontanato dall’isola, la cittadina tornò demaniale. All’inizio del 1200 di essa venne investito col titolo comitale Paolo Cicala, Gran Connestabile del regno, e nel 1215 l’Arcivescovo di Palermo. Con l’arrivo degli Angioini, tale Fulcone de Puicard fu nominato barone di Caccamo cui successe, dopo i Vespri e l’arrivo di re Pietro, Federico Prefoglio, investito della qualità di conte, alla morte del quale per successione di sua figlia il feudo passò ai Chiaramonte, ai quali rimase sino alla morte di Andrea quando la testa di Andrea Chiaramonte, rotolò sul patibolo eretto avanti al suo palazzo a Palermo per essersi opposto al rientro di Martino I e della regina Maria il 1 giugno 1392, per finire dopo una serie di brevi passaggi nelle mani di Bernardo Cabrera e quindi degli Henriquez. Da questi ultimi fu venduta nel 1647, per 120 mila ducati, a Filippo d’Amato, principe di Galati, il quale ne ottenne il 2 marzo 1647 l’elevazione a ducato. Chiaramonte Cabrera Henriquez Tornando alle contee rimaste tali, la più antica infeudazione di cui si ha la documentazione si riferisce a quella di Modica di cui fu investito nel 1296 Manfredo Chiaramonte, signore di Caccamo, sia in virtù degli importanti servigi resi al suo sovrano (re Federico II) sia per aver sposato Isabella Mosca, figlia del precedente possessore della baronia spogliato dei suoi beni per essere stato dichiarato ribelle. La contea di Modica Ventimiglia: Inquartato, nel 1° e nel 4° di rosso col capo d’oro; nel 2° e nel 3° d’azzurro colla banda scaccata di due file d’argento e di rosso. 5 La contea rimase nelle mani di questa famiglia sino al 1 giugno 1392, come la sopraccitata Caccamo. La contea fu quindi concessa a Bernardo Cabrera e de Fois, ammiraglio del nuovo sovrano e del quale si tralascia di narrare le imprese, perché sarebbe da scriverne un libro. Per via femminile il feudo passò poi ad un’altra famiglia spagnola, gli Henriquez dove rimase con alterne vicende, anche se per un periodo rientrò per un breve periodo (1713-20) nella disponibilità della corona di Spagna, essendo l’ammiraglio Gian Tomaso Henriquez, allora titolare del feudo, passato dalla parte degli Asburgo e non avendo accettato Filippo II come nuovo re delle Spagne e di Sicilia. Per le sue dimensioni questa contea era considerata una sorta di stato nello stato e cos’ fu di fatto durante il breve regno di Vittorio Amedeo II di Savoia. Fra le altre di cui si ha una conoscenza precisa si hanno, le contee di: - Adernò, creata tale, secondo alcuni storici all’inizio della dominazione normanna ed assegnata a un membro della famiglia reale (detto Goffredo Normanno) unitamente a quelle di Ragusa, Noto, Sclafani, Caltanisetta, Butera, ed altre. Di certo si sa però che di essa fu investito dal re Federico II, nel 1303, Matteo Sclafani che ne rese erede il nipote (figlio della figlia secondogenita Aloisa) Matteo Peralta, cosa che scatenò le rimostranze di un altro nipote, Matteo Moncada (figlio della primogenita Margherita) che ricorse alle armi per sostenere le sue ragioni, trovando poi conferma nelle decisione a lui favorevole del sovrano Federico III; Lancia: D’oro, al leone coronato di nero, armato e lampassato di rosso, e la bordura composta d’oro e di rosso. di re Pietro d’Aragona e la cacciata degli Angiò, dai Lancia, per via femminile la signoria della città passò a Giovanni di Randazzo e a sua figlia Eleonora, moglie di Guglielmo Peralta, e da questa per mancanza di eredi tornò al regio fisco nel 1405 per essere ceduta subito dopo a Sancho Ruiz de Lihori, grande ammiraglio del regno, che il 23 giugno 1407 rivendette a re Martino I terra et castrum Caltanisette con tutti i suoi diritti e privilegi, che due giorni dopo la cedette a Matteo Moncada in cambio di Augusta. In quello stesso giorno il Moncada venne investito del titolo di conte, con tutti i diritti e privilegi del suo predecessore, il mero e misto imperio e l’impegno di presentare un cavallo per il servizio militare. Dopo di che Caltanisetta rimase per 400 anni feudo dei Moncada. Moncada: Di rosso, ad otto bisanti d’oro, due a due (blasone nella forma originaria) Peralta: Diviso, d’azzurro e d’argento - Golisano; le cronache dicono che essa fu elevata a contea alla fine del XII secolo ed assegnata a tale Paolo Cicala, successivamente le cose appaiono molto confuse, per certo si sa che di essa fu investito nel 1355 Francesco II Ventimiglia conte di Geraci. Un discendente del quale, Antonio, oppostosi prima e ribellatosi per tre volte a re Martino I, si vide confiscata la contea che fu assegnata ad Arrigo Rosso e quindi ridatagli nel 1414 quando venne liberato dal carcere e da lui lasciata in eredità alla figlia che la portò in dote a Gilberto Centelles, un catalano venuto al seguito dei Martini; A questo punto si potrebbe continuare a lungo, ma sarebbe inutile esercizio. Mette conto ricordare, citando il San Martino de Spucches che «i titoli di conte originariamente concessi furono 40 feudali, 13 con predicati onorari e 37 sul cognome, per un totale di 90 di cui 17 concessi dal 1860 al 1939, oltre ai titoli di conte di Laiatico, che risulta trascritto nei donativi del 1806, ma di cui si ignora la data di concessione, e di altri quattro riconosciuti per il lungo uso. A questi 95 titolo possono aggiungersene altri 7, di cui uno del S.R.I., due palatini, uno sassone e tre pontifici, per cui si va ad un totale di 102, senza tenere conto del titolo di conte di Grado, concesso alla medaglia d’oro Luigi Rizzo e di conte sul cognome di cui è stato autorizzato Giacomo Paulucci di Calboli Barone, ambedue iscritti nell’elenco regionale siciliano».. Un numero inferiore a quello di principe, che nel 1939 assommavano a 139, pari a quello di duca, inferiore a quello di marchese, il cui numero raggiungeva i 209, e di barone, circa 950. Alberico Lo Faso di Serradifalco Centelles: Fusato d’oro e di rosso - Caltanisetta, di cui gli storici indicano come primo conte Giordano Normanno, un figlio illegittimo del Gran Conte Ruggero, cui fu assegnata assieme a Siracusa per essere passata alla sua morte nel 1093 al Goffredo sopra indicato come conte di Adernò. Per passare a date e fatti più certi si deve però giungere all’infeudazione che della città ebbe Corrado Lancia (gran cancelliere del regno) dopo l’arrivo 6 L'araldica delle istituzioni pubbliche milanesi Se lo stato e la signoria usarono le insegne del sovrano regnante molte altre istituzioni pubbliche, unitamente, a queste armi supreme, ebbero per consuetudine o per privilegio la facoltà di usare le proprie. Il comune, per esempio, perduta la caratteristica fisionomia di autorità quasi-sovrana, abbandonò lo scudo crociato e, divenuto organo amministrativo, usò, specialmente nei sigilli, l'immagine di S. Ambrogio. Anche la Repubblica Ambrosiana si servì dell'iconografia del Santo e nel gran sigillo lo rappresentò seduto sul faldistorio impugnante il pastorale, con la mano sinistra, e con, nella destra, lo staffile e, con ai lati, due piccoli sigilli crociati. Nel piccolo sigillo, invece, il Santo, a mezza figura, impugnante, sempre, pastorale e staffile. Il Collegio nobile dei giureconsulti (così come ci ricorda il Bascapé nel pregevole studio sui “Sigilli universitari italiani”) portò, in un primo tempo, l'aquila evangelica, posata sopra un libro, di poi, una croce biforcata accostata dalle “sacre chiavi” e recante, sul petto, lo scudetto di Pio IV- Medici- sormontato dal triregno. Nel sigillo confirmatorio dei diplomi di laurea, concessi dal collegio, di forma ovale, è presente, invece, l'immagine di S. Girolamo allo scrittoio. La camera dei mercanti usò anch'essa, la figura di S. Ambrogio. Le corporazioni professionali ed artigiane, le insegne delle proprie arti. - Il Collegio Elvetico portava un'arma nella quale due mani si stringevano impugnando una croce (ciò a significare l'unione tra il clero milanese e quello svizzero uniti per combattere l'eresia protestante). 7 - Il Collegio Borromeo di Pavia ed il Luogo Pio dell'Umiltà entrambi fondati dai cardinali Borromei, portarono la parola “humilitas” in lettere capitali nere e gotiche, sopra un campo d'argento, circondata da rami di alloro. - Il Collegio Ghislieri di Pavia, fondato da Michele Ghislieri, pontefice con il nome di Pio V, portò l'arma del fondatore. D'oro a tre bande di rosso. - Il Collegio Castiglione di Pavia assunse l'arma del fondatore cardinal Branda Castiglione ornata da cappello cardinalizio: di rosso al leone d'argento sostenente, con la branca destra, una torre dello stesso. I luoghi Pii ed elemosinieri presero immagini sacre od allegoriche: le quattro marie (per l'ente omonimo); la carità (una donna che allatta un bambino); la vergine dei sette dolori; S. Caterina alla ruota; i santi Rocco e Romano; tutte insegne riferibili agli specifici istituti. Il Luogo Pio della Divinità usò l'acronimo DITAS, in lettere gotiche nere, recinto da un serto di alloro d'oro. Il Luogo Pio di S. Maria portò due lettere capitali d'oro, una S ed una M intrecciate e coronate d'oro. L'Ospedale Maggiore sotto il patrocinio della Vergine Annunciata adottò la Madonna e l'Angelo sopra i quali vola la colomba dello Spirito Santo (che, a volte, fu dipinta in bianco sopra una rosa di fiamme alternata a raggi d'oro). Gli istituti pii che furono, invece, posti sotto la protezione delle varie duchesse di Milano usarono innalzare, nella propria insegna, la figura della tortora impresa delle medesime. La fabbrica del Duomo si rappresentò usando uno scudo carico della figura della Madonna tenente, sotto il proprio mantello, la facciata dalla cattedrale antica. Ai lati della Vergine sono presenti, inoltre, i monogrammi di S. Bernardino (le lettere capitali nere IHS poste dentro una rosa radiosa di dodici raggi e di dodici fiamme). Il Monte di Pietà portò, sul proprio labaro, un busto di Cristo uscente dal sepolcro accantonato da una croce, a sua volta, accantonato da quattro sigle IHS. Il Monte di S. Teresa portò uno scudo caricato della bilancia della giustizia ed un'ancora della fede conficcata in un mare procelloso. Sopra il tutto un medaglione carico della effigie della Santa; il tutto accollato ad un'aquila bicipite. Alberto Gamaleri Calleri Gamondi I Signori della Terra di Palma negli eventi del XVI secolo Alla morte di Carlo Frangipane della Tolfa (4 dicembre 1586) …terzo ed ultimo de’ Conti di Sanseverino, Consigliero altresì di Stato in Regno, e Utile Signore della Terra di Palma…, gli succede nell’eredità, per mancanza di figlioli maschi, la figlia primogenita Vittoria, moglie di Scipione Pignatelli, marchese di Lauro. La famiglia Pignatelli si crede fosse originata dal cavaliere Landolulfo, al sevizio di Re Ruggiero, il quale partecipando all’assalto del palazzo imperiale di Costantinopoli …ne uscì con tre vasi di argento infilzati alla picca, che egli assunse per stemma e fu causa del cognome dato ai suoi discendenti. Nel 1420 vestì l’abito di Malta ed ottenne il Grandato di Spagna, l’Ordine del Toson d’oro ed il titolo di principe del Sacro Romano Impero. La casata Pignatelli ha goduto nobiltà in Sicilia e nella città di Napoli (seggi di Capuana e Nido), Aversa , Benevento, Bari, Lucera, Tropea, Venezia e Roma. Monumenti di questa illustre famiglia si possono ammirare in Napoli nel Duomo e nelle chiese di Santa Maria dei Pignatelli, San Severo, Santa Maria dell’Annunziata, San Domenico Maggiore, Santa Restituita, Santa Maria Mater Domini, Trinità dei pellegrini, Santi Apostoli, del Gesù e del Purgatorio: in San Pietro di Roma, nella chiesa di San Francesco di Paola e nel cappellone del monastero dei Santi Angeli di Palermo; in Bari nella chiesa del SS. Salvatore; in Monopoli nella chiesa Maggiore; in Monteleone nella chiesa di Santa Maria del Gesù; in Chieti; nella città di Alcà (Spagna) nella chiesa delle Cappuccine . Si contano ben 178 feudi posseduti dalla famiglia durante i secoli, tra cui:14 principati, 16 ducati, 22 marchesati, 18 contee. Nella gerarchia ecclesiastica la famiglia vanta diversi vescovi, arcivescovi e cardinali, Antonio Pignatelli nel 1691 fu assunto al soglio pontificio col nome di Innocenzo XII. Innocenzo XII (Antonio Pignatelli) Lo stemma della famiglia è così blasonato: D’oro, a tre pignate di nero 2 e 1, accompagnate in capo da un lambello di tre pendenti di rosso. 8 A devozione del Marchese Scipione Pignatelli nel 1593 vengono consacrati dal vescovo di Nola Mons. Gallo una chiesa con annesso monastero sotto il titolo di San Gennaro, edificati a qualche chilometro dal centro urbano di Palma in direzione di Ottajano ed affidati ai Francescani Riformati. Poco tempo fa il Centro Studi Storici “HISTRICANUM” è entrato in possesso per compera effettuata in Inghilterra, dell’importantissima opera dello storico napoletano Tommaso Costo, dal titolo “ Del compendio dell’ystoria del regno di Napoli”nella quale si contiene quanto di notabile e ad esso appartenente è accaduto, dal principio dell’anno 1563, insino al fine dell’Ottantasei, stampata in Venezia nel 1591 per i tipi di Barezzo Barezzi. L’opera in questione è dedicata dall’autore all’Illustrissimo Signore e Padron mio osservandissimo il Signor Don Scipione Pignatello Marchese di Lauro e Signore della Terra di Palma, verso il quale nutre un affetto ed una considerazione davvero eccezionali ed anche perché m’accorsi che le fu grata, si come parve, che fusse grato alle genti il leggerla,ma soprattutto per haverla scritta in casa sua. Come innazi detto nel libro sono narrate vicende storiche del Regno di Napoli dal 1563 al 1586, non disdegnando l’autore di citare eventi straordinari di diverso genere accaduti in tale periodo, come ad esempio l’alluvione di Napoli del 20 settembre 1566 quando si mosse inverso la sera una pioggia tale che durado fin presso a mezza notte, cagionò intorno a Napoli un mezzo diluvio imperochè da Capodimonte e da quegli altri luoghi posti in alto scendendo grossissimi torrenti, vennero poi tutti quelli unitis’insieme a formare uno simile ad un gran fiume, il quale e per lo borgo de’ Vergini e per quello di Sant’Antonio, e per quello altresì dell’Oreto fece un guasto incredibile, buttandovi a terra molte case, con morte di parecchie persone. Nella chiesa de’ Vergini entrò tanta acqua, e vi lasciò tanta terra che poi più tosto che metterla, parve spediente a chi n’hebbe cura, per manco spesa , di farvi un altro suolo di sopra, talché come allora per entrarvi si scendevano parecchi gradi, ora si entra in piano. Degno di nota è ancora l’apparizione di una grande cometa nel cielo di Napoli nel novembre del 1577 che durò per lo spazio di più d’ottanta giorni(…)e spandea verso la parte opposta, quasi lunghissima coda, così grandi i lucidi raggi, che nell’oscuro della notte rendea lume apparo della Luna .Evento stranissimo fu ancora il crollo del duomo di Nola, avvenuto il 26 dicembre 1583, giorno di Santo Stefano, la cui mattina concorrevano a quella chiesa di molte genti, havendosi a predicare, ove per avventura s’era finito di fare un pervio di marmo bellissimo non ancora adoperato, e cantandosi da preti l’uffizio di Mattutino, cominciarono a cadere in chiesa alcuni sassolini, e continuavano di volta in volta, si com’era accaduto la mattina di Natale precedente. Per la quale cosa nacque in mente di que’ preti qualche sospezione di ruina, come per avanti non se ne fusse havuta punto,e pensarono d’uscirsene fuora: ma si risolsero alla fine di ridursi a finir l’uffizio in sacrestia fatto del tutto avvisato Filippo Spinola allora Vescovo di quella città, ed ora Cardinale, che vi mandò alcuni muratori, acciochè vedessero, e considerasser bene, se v’era alcun pericolo. Ma non fu loro conceduto tempo di ciò di fare perché in un tratto s’udì uno strepito, e si vidde una ruina tale, che parve in quel punto non solo un grand’edificio, com’era quello, ma subbissar tutto ‘l mondo. Corsero allora tutt’i Nolani alla novità del caso, empiendo l’aria di lacrimevoli stridi, come quelli, che indebitamente credevano in cotal ruina esser morte infinite persone trovates’in chiesa, onde chi piangeva il padre, chi la madre, e chi l’unoe l’altro,chi il figliuolo,e chi il fratello, o sorella, altri il marito, o la moglie; e chi un parente, e chi un altro. Ma non si stè guari, che ( o miracolo, o bontà di Dio) si certificò ciascuno, che tutte quelle genti, riputate fermamente per morte, eran sane e vive, senza macula veruna, fuorché una sola donnicciola vecchia, la quale vi rimase alquanto ferita in testa, che fu quando il male v’occorse. Né fu di minor considerazione il caso de’ Canonici rinchiusi a cantar nella Sacrestia, che non vi rimanessero almeno dalla polvere affogati; ma era ben dovere che la divina grazia per li meriti del Protomartire S. Stefano, di cui quel dì si celebrava la festa, e S. Felice protettor de’ Nolani, apparisse perfetta. Di che la seguente mattina si fè per quella città procession generale ringraziandosi da tutti Iddio d’una si compita , e segnalata grazia. Essi da poi quella chiesa cominciata a riedificare nel principio di marzo dell’anno Ottantasei non meno magnificamente di quel, ch’ella era prima. Per quanto concerne il Marchese di Lauro, Signore anche della terra di Palma, l’autore ne parla a più riprese in diverse occasioni. Narrando della battaglia navale di Navarrino del 1572 della Lega Santa (Papa Pio V, Re Filippo II di Spagna e Repubblica di Venezia) guidata dal Generale don Giovanni d’Austria, fratello del Re contro l’Armata turca, a pagina 32 cita i numerosi Nobili napoletani partecipanti all’evento, tra cui : Vincenzo Tuttavilla, Conte di Sarno e generale della fanteria, Pompeo Tuttavilla fratello del detto e generale delle schiere papali, don Ferrante Carafa, Duca di Nocera, Ascanio Pignatelli che è anche leggiadrissimo Poeta, figlio del Marchese di Lauro. Per le sue doti notevolissime nel 1609 il Re Filippo III di Spagna.lo creò Duca di Bisaccia. A pagina 47 narra della tragica morte di Muzio Pignatelli un de’figlioli del Marchese vecchio di Lauro, avvenuta durante una festa in maschera la domenica del 1° marzo 1579 in Napoli. Molti cavalieri erano convenuti nel palazzo della Principessa di Bisignano per partecipare ad una festa data in onore di costei ed essendo per cominciarsi ,avvenne che Muzio Pignatelli, ch’era della schiera degli immascherati, correndo a prima giunta precipitò egli, e ‘l cavallo in tal modo, ch’essendo allora intorno a ventun’hora non visse più, che in sine notte; se vivere si può, che fusse quello spazio di poche hore, nel quale privo de’ sentimenti stette appunto come morto. Erano il misero padre, e la sventurata moglie, con altri parenti a’ balconi, e si viddono perir dinanzi, senza potergli dare aiuto, quello il figliolo, e questa il marito in così strano modo; talché chi vidde quel vecchio, che s’appressava all’età d’ottanta’anni, non morire a sì fiero spettacolo, s’accertò che un’estremo dolore non puo’ dar subita morte ad un’huomo. Non fù persona di qualunque grado si fusse a cui la morte di quel sfortunato Cavaliero non dispiacesse insino all’anima, imperoché egli era notissimo a ciascun per un giovane raro, ed ammirabile, in cui pare, che la natura si fosse compiaciuta di fare reassunto di tutte quelle doti, suol compartire solamente a preclari huomini. Era Muzio Pignatell d’età presso a trent’anni d’una giusta e ben proporzionata statura, di pel biondo, di color chiaro, di sanissima complessione, di corpo agile, nerbuto, e gagliardo, onde si esercitava continuamente e in giocar d’arme, ed in saltare, ed in volteggiare, ed in cavalcare, ed in ballare, ed in ogn’altra attitudine conveniente a Cavaliero; torneava, e giostrava, ed il tutto faceva con 9 tanta felicità, che pochi in alcune cose lo pareggiavano; ma in tutte niuno. Benché pochissimo sarebbe tutto questo, s’egli non fusse stato meravigliosamente versato in molte sorti di scienze, percioché egli fu e Filosofo, e Teologo, e Matematico, e Cosmografo, ed Arismetico, ed Oratore ,e Poeta. Diede opera alla musica, non fu senza parte d’Astrologia, intese d’Architettura, ardì di far macchine di legno non tentate da altri ingegneri, soleva spesso dittare a diversi cancellieri a un tratto ad imitazion di Cesare: e fra altre meravigliosa fu quella volta , che scrivendo egli medesimo dittò a venticinque in diversi linguaggi, ed in vari soggetti in presenza di molti Signori, e d’altre persone di qualità, che tutti ne stupirono, si come haveva fatto pochi innanzi il Cardinal Granuela vedutolo dittar nello stesso modo a diciotto. In somma non fu cosa difficile, e bella dov’egli e con suo honore non mettesse le mani. Arroge, che nel colmo di tante virtù egli era affabile, piacevole, cortesissimo, e liberale, veggasi dunque da tal’ huomo, e da tal morte quanto strano accozzamento ci rappresenti alla memoria, ma troppi sono occulti i secreti di Dio. Torquato Tasso nelle sue opere rivela una grande stima per il detto Muzio e lo introduce interlocutore nel dialogo intitolato Porzio . A pagina 53 possiamo leggere la morte di Scipione Pignatelli primo Marchese di Lauro, scomparso il 13 settembre 1581, all’età di 81 anni ma di sana e robustissima complessione aiutatovi dalla sobrietà e dal suo regolato modo di vivere,. Fu homo di gran senno, e nelle sue azzioni fortunatissimo, intanto che di povero, e privato cavaliero si fè con la sua industria ricco oltre modo, e s’acquistò il titolo prima di Conte e poi Marchese, il che ottenne dal Re per mercede di servigi fattigli, sì come vien specificato nel tenor del privilegio. A pagina 61 si narra dell’affidamento avvenuto nel febbraio 1585 delle 30 galee napoletane (che facevano parte della flotta composta da 207 galee della lega Santa) a carico d’alquanti nobili, c’havevan desiderio d’adoprarsi in servizio del re, e fra costoro ritroviamo Ascanio Pignatelli a cui fu consegnata la galea chiamata Idria. A pagina 65 veniamo a conoscenza della mancanza di pane nella città di Napoli e dei tumulti che ne seguirono la mattina di giovedì 9 maggio 1585. A tal guisa il Viceré avendo incominciato fortemente a temere, mandò subito alquanti Cavalieri principali, che rimediassono. Tra costoro vi era il Marchese di Lauro e Signore della Terra di Palma Ascanio Piganatelli. A pagina 74 nell’elenco delle Città, Terre e Castella della provincia di terra di lavoro che fu detta Campagna Felice, leggiamo il nome di Palma, dopo quello di Nola e Ottaiano. Nel 1605 il feudo palmese passò a Don Camillo Pignatelli, figlio di Scipione per rinunzia di quest’ultimo. Nel 1643 don Camillo Pignatelli vendette il feudo di Palma a Donna Maria di Capua, Principessa di Cariati, madre di Scipione Spinelli, dal quale passerà nel 1647 a Massimo Passero, presidente della regia Camera della Sommaria. Vincenzo Amorosi e Felice Marciano RECENSIONE Alberico Lo Faso di Serradifalco, Italo Pennaroli, “Il contributo della Savoia all’Unità d’Italia (1814-1860)”, pp. 539, Editrice Impressioni Grafiche, Acqui Terme, 2010, edizione fuori commercio. Con questo volume, che rappresenta evidente contributo alle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, esordisce la collana “Studi e Testi” della Società Italiana di Studi Araldici, diretta e curata da Marco Di Bartolo. Il saggio si compone di due parti: - la prima, articolata in sette capitoli, corredati da corposi allegati, fornisce in 212 pagine la rassegna degli eventi occorsi nel regno di Sardegna dalla Restaurazione al 1860, ponendo in risalto la partecipazione dei Savoiardi, a partire dalla repressione dei moti del 1821, distintisi col versamento del proprio sangue e piena dedizione alla patria e devozione alla loro antica dinastia nei fatti d’armi delle due prime guerre d’indipendenza. Attenzione particolare è riservata alle vicende gloriose della Brigata Savoia, sotto le cui bandiere servì la maggioranza dei Savoiardi. Prima di essere disciolta, volle rivolgere il suo ultimo, toccante saluto al sovrano, sfilando in parata a Torino durante la festa dello Statuto del 1860. Gli allegati, di non comune interesse, riportano: - A) nomi dei Savoiardi insigniti dell’Ordine della SS. Annunziata e del Gran Cordone Mauriziano, nonché gli estremi delle prove di nobiltà dei Cavalieri di Giustizia di quell’Ordine; - B) nomi, gradi, dati anagrafici e note, relativi a soldati e sottufficiali Savoiardi morti nella guerra 1848-49 e agli ufficiali, morti o feriti, in quel conflitto; - C) decorazioni e proposte di ricompense al valore, interessanti ufficiali, sottufficiali e soldati, partecipanti alla campagna del 1859; - D) liste degli ufficiali Savoiardi, optanti nel 1860 per la nazionalità sarda, id est italiana (di numero maggiore di quanti preferirono quella francese). La seconda parte, dal titolo “Les soldats oubliés”, traccia in oltre 1000 schede la storia militare di altrettanti ufficiali della Savoia o di famiglie da essa originarie, del contiguo Vallese, nonché di quelli della contea di Nizza e del ducato di Aosta, accomunati tutti dall’aver prestato servizio nella Brigata Savoia. Tra essi troviamo, ovviamente, i nomi dell’aristocrazia Savoiarda, grande e piccola, e quelli di non pochi personaggi passati alla storia. C’è, come Monseigneur le Duc de Savoie, il futuro re Vittorio Emanuele II, in 10 compagnia di Luigi Menabrea, di Ettore de Sonnaz, dell’ultimo dei d’Angennes e del prode Philibert Mollard. Tante le famiglie, partecipanti con più membri, talora di rami diversi: 11 proprio i Gerbaix de Sonnaz; 10 i de Charbonneau e i de Varax; 9 i de Blonay; 8 i d’Oncieux; 6 i de Seyssel d’Aix, i de Menthon, i de Humilly, i de la Flechère, i de Constanti, i de Mouxy; 5 i Costa de Beauregard, i de Clermont, i de Foras, i de Rochette, i Duboius, i de Millet, i Nicod de Maugny; 4 i de Faucigny de Lucinge, i de Bellegarde, i Bracorens de Savoiroux, i de Capré de Mègève, i de Chissé, i de S.t André, i Sallier de la Tour, i Pacoret de S.t Bon, i de Bons. Tanto per fare cenno dei contributi numericamente più consistenti. Il lavoro può definirsi, piuttosto che documentato, documentale, in quanto ogni dato trova puntuale riscontro pressi citati fondi dell’Archivio di Stato torinese. L’obiettivo di tramandare il ricordo dei Savoiardi che, per quasi mezzo secolo, servirono con valore, talora sino all’estremo sacrificio, la loro patria, che era al tempo il regno di Sardegna, è stato pienamente raggiunto dagli autori di questo volume. Ai lettori incombono alcune risposte sulla correttezza dei politici del tempo e sulla sostanziale indifferenza della dinastia alla perdita dei suoi più antichi dominî e, quel che più conta, di un prezioso patrimonio umano. asco Un sonetto per il Cardinale Senza voler discorrere sulla vita di Giovanni Battista Rovero (Roero), ancora oggi non approfonditamente studiata e della quale troviamo memoria nei volumi Il cardinal Domenico della Rovere, costruttore della cattedrale, e gli arcivescovi di Torino dal 1515 al 2000 di Giuseppe Tuninetti e Gianluca D’Antino del gennaio 2000 e nella più datata, ma sempre ottima fonte di notizie, Storia della Chiesa Metropolitana di Torino a cura di P. Giò Battista Semeria edita a Torino nel 1840, è necessario ricordare che il futuro Cardinale, nato nell’astigiano il 18 novembre 1684 dalla nobile famiglia dei conti Rovero ò Roero di Pralormo, compì i propri studi a Roma, venendo ordinato sacerdote nel 1717 e laureandosi dottore in entrambe le leggi a Pisa. Il suo percorso ebbe inizio con la nomina a canonico arcidiacono della chiesa metropolitana. Successivamente, nel 1727, divenne vescovo di Aqui ed indi, nel 1744, venne trasferito all’Arcivescovado di Torino. Cancelliere del Supremo Ordine della Santissima Annunziata, ebbe concessione della porpora cardinalizia nel 1756 da S.S. Papa Benedetto XIV su istanza di Re Carlo Emanuele III e con il quale dovevano esserci reciproci rapporti di stima e di considerazione. Morì a Torino, all’età di 83 anni, il 9 ottobre 1766. della Visita Pastorale di S. E. R.ma Mons.r GiamBattista Rovero Arcivescovo di Torino Gran Canceliere del Supremo Ordine della SS.a Annunziata Ed a continuazione, (sistemato a due colonne, separate da una ricercata ed elegante linea curva attorcigliata), il testo: Sonetti Saggio Signor di cui si chiaro Spande con sue trombe La fama il giusto Onore mentre tu da Torino delle ammirande tue virtù ci trammandi il bel fulgore Or’che per nostra Sorte avvien’che il grande della Chiesa Dio Sovran Pastore La nostra greggia à visitar ti mandi oh come esulta in noi per gioja il core! Stemma del cardinale GiamBattista Roero Molti sono gli esempi, i modi ed i luoghi grazie ai quali i personaggi del passato hanno volutamente lasciato traccia degli eventi, consci così facendo di tramandare ai posteri frammenti di storia. Non è cosa rara, per chi studia i molti documenti custoditi negli archivi, imbattersi in testimonianze sparse, rimaste a volte “nascoste” e dimenticate, con riferimenti ad eventi storici locali, come nel caso della pagina del Registro dell’Insinuazione di Moncalieri, presa qui in esame. Il Cardinale Gioanni Battista Rovero, al tempo del suo arrivo in qualità di Arcivescovo e poco prima di convocare un sinodo diocesano nel 1755, aveva compiuto la sua visita pastorale a Moncalieri il 13 settembre 1750. Il Conte Felice Patteri, per onorare tale visita, preparò ed insinuò nell’apposito registro, una sua lode all’Arcivescovo. Suddetta testimonianza, seppur scarsa di precisi riferimenti a questo personaggio nell’ambito della poesia piemontese del ‘700 e di una sua attività in tal senso, rimane tuttavia, sia abbia egli compiuto altri lavori sia questa un caso isolato, una manifestazione dalle doti non comuni. Siccome il Sol tutto co’raggi Suoi rischiara il mondo tal ne nostri tempj spargon’ Luce di gloria i raggi tuoi. E così ben’Le proprie parti adempi che dubio è solo qual più giovi à noi di tue voci la forza ò degli Esempj. Lui dove à gara La natura e L’arte fanno dei doni lor L’ultima prove or’che alto Zelo à seminar ti muove L’opre che à te fecondo il Ciel comparte Quanti in altri virtù veggonsi Sparte fia che ciascuno unite in te vi trove e che si adornin di più belle e nuove virtù L’anime nostre à parte à parte. Seguendo L’orme tue Strada Sicura pure al fin prenderà La fida greggia alla Celeste angelica Pastura. Onde il Mott’or della Stellante Reggia Sol tua mercè rìSorger qui le mura dell’Alma Sua GieruSalem riveggia. Ed a conclusione: In tributo d’ossequio Felice Patteri C. ------ ------ -----M. Boniscontro In. (Intendente, Maurizio. n.a.) Fonte: Archivio di Stato di Torino, SR. Uffici Insinuazione, Moncalieri, N. 213. Stemma Pateri/Patteri di Moncalieri. Conti di Stazzano Michelangelo Ferrero Dal suddetto registro: 1750 Nelle publiche dimostrazioni di gioja ed allegrezza per la Solenne Entrata in Moncalieri Li 13 Settembre 1750 in occasione 11 Una memoria araldica nel Duomo di Fossano All’interno della Cattedrale di Santa Maria e di San Giovenale di Fossano, posizionato nella navata laterale destra, troneggia maestosamente un antico confessionale in legno degli inizi del XVIII secolo sul quale è scolpita l’arma ecclesiastica del committente dell’epoca. Nella parte alta del mobile, a cornice e base della parte finale nella quale è scolpito lo stemma, l’iscrizione CONFESSIONALE DOMINI CANONICI PŒNITENTIARII MALLIANI EIUSQUE SUCCESSORUM DIE 2 AUGUSTI ANNO DOMINI 1721 ne denota appunto la committenza. L’ecclesiastico, fautore del manufatto, potrebbe essere ricondotto al ramo dei conti di Villar San Marco e presumibilmente nella persona del canonico Cesare Malliano o ad altro consanguineo prossimo, vista la folta presenza di uomini di chiesa nella famiglia. Un’analisi più approfondita dell’archivio storico del Duomo e di altre fonti più specifiche potrebbe fugare ogni dubbio. M.D.B. Si ricorda ai Signori Consoci che hanno presentato una relazione all’ultimo XXVIII Convivio Scientifico del nostro Sodalizio che il termine per la consegna del testo e delle immagini, solo ed esclusivamente su supporto cd-rom e non cartaceo, è stato prorogato inderogabilmente al 31 marzo 2011. Il materiale è da inviare presso la residenza del Segretario. Si ringrazia per la collaborazione. Si ringrazia Federico Bona per l’utilizzo dello stemma Malliani nell’articolo Una memoria araldica nel Duomo di Fossano tratto dal Blasonario Subalpino. La famiglia Malliani, Magliani o Malliano, oriunda proprio di Fossano, annovera molti esponenti di rilievo della realtà locale ed in particolar modo della Chiesa grazie ai canonici del Duomo cittadino. L’arma della famiglia è di rosso, al maglio d’argento e porta, nei vari rami, i titoli di conti di Villar S. Marco, di consignori di Scagnello e di consignori di Costigliole Saluzzo, Torre Bormida e Villanova Solaro. Sul tutto periodico della SISA riservato ai Soci Direttore Alberico Lo Faso di Serradifalco Comitato redazionale Marco Di Bartolo, Andrew Martin Garvey, Vincenzo Pruiti, Angelo Scordo Testata del periodico di † Salvatorangelo Palmerio Spanu Indirizzi postali Direttore: Piazza Vittorio Veneto,12 10123 Torino Redattore: Marco Di Bartolo, Via IV novembre, 16 10092 Beinasco (Torino) Il blasone scolpito sull’arredo in esame, oltre al galero da canonico nero con 3 nappe 1,2, vede la presenza dell’elmo sormontato da una corona comitale. Sito Internet www.socistara.it Posta elettronica [email protected] [email protected] I contributi saranno pubblicati se inviati su supporto magnetico in formato word o via e-mail ai sopraccitati indirizzi. Quanto pubblicato è responsabilità esclusiva dell’autore e non riflette il punto di vista della Società o della redazione. Gli scritti verranno pubblicati compatibilmente con le esigenze redazionali ed eventualmente anche in due o più numeri secondo la loro lunghezza. La redazione si riserva la possibilità di apportare qualche modifica ai testi per renderli conformi allo stile del periodico. 12