N. 30 - Società Italiana di Studi Araldici

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N. 30 - Società Italiana di Studi Araldici
N. 30 – Anno XVIII – Giugno 2012 – Pubblicazione riservata ai soli Soci
Analisi comparata tra alcune tipologie di nobiltà
europee
L’Europa, nel lungo percorso della propria storia, incrociò,
due razze, che ne condivisero le sorti: quella latina e quella
germanica.
Queste due importanti civiltà vissero, per secoli, fiancheggiandosi l’un l’altra. Esse erano, tuttavia, così differenti, che,
anche quando decisero di allearsi, permasero, pur sempre, tra
loro, forti imbarazzi e vive incomprensioni.
La differenza prima, circa la natura dei rapporti, tra popoli
latini e germanici, va ricercata, innanzitutto, nei rispettivi ordinamenti giuridici.
Il diritto romano, infatti, è scritto e di derivazione giustinianea. Il diritto germanico è, al contrario, consuetudinario, e,
pertanto, riferentesi a principi diversi.
All’inizio del feudalesimo (subito dopo Carlo Magno) il diritto consuetudinario prevalse, quale fonte giuridica, dappertutto
(compreso il regno di Francia, almeno fino ai tempi di S.
Luigi).
Contemporaneamente, in Germania, il Re dei Romani, era
considerato un primus inter pares (egli, però, non era un “despota”…), così come, in Francia, il Re, non era considerato un
sovrano ma, solo, un signore tra gli altri.
Fu S. Luigi, in Francia, a modificare questo stabile ordinamento, da tutti, condiviso.
Egli, infatti, istituì le Università ed i giuristi, che, in esse,
insegnavano, per ingraziarselo, diffusero, nel suo regno, lo
studio delle istituzioni di diritto romano giustinianeo, le quali,
ponevano, il sovrano, nella stessa posizione di un principe
romano (che godeva di tutto il potere… un potere assoluto).
Pertanto, per mezzo di questi mutamenti giuridici di principio,
da allora, tutto mutò.
Il Re di Francia da Signore diventò Sovrano!!
I suoi vassalli furono sottoposti a prestare il giuramento di
fedeltà e l’omaggio al proprio sovrano e, l’antico diritto
signorile di poter amministrare la giustizia, nelle proprie
giurisdizioni territoriali, fu sostituto dai tribunali reali.
Gli antichi uomini d’arme (punta di diamante dell’antica cavalleria signorile altomedievale) «i milites cataphracti» furono rimpiazzati dagli eserciti del Re.
Seguendo, pertanto, i principi del diritto romano, la volontà
regia, divenne l’unica fonte di legge.
Il Sovrano creò un proprio diritto: lo jus principis.
A partire da quest’epoca storica (così come in tutte le altre
monarchie europee uniformantesi alla tradizione storico-giuridica latina) e fino alla rivoluzione francese, la centralizzazione
dei poteri sovrani, aumentò progressivamente.
Furono, di conseguenza, abolite tutte le rimanenti autonomie
privilegiate localistiche e, per tutto il periodo denominato di
“ancien-régime”, l’assolutismo fu totale.
Quali furono dunque (in ragione di queste profonde
modificazioni giuridico-istituzionali, verificatesi in Europa) le
differenze, che maggiormente incisero e, rispettivamente, sui
ceti nobiliari di contrapposta origine, sia latini che germanici ?
Tra i due gruppi nobiliari, sicuramente, il più antico, deve
essere considerato quello latino (poiché, esso, deriva dalla
civiltà romana).
Questa nobiltà romana era, infatti, una nobiltà di casta non
originata dall’esercizio di una funzione o dal possesso di una
terra ma dalla lunga genealogia del sangue.
Una nobiltà trasmessa esclusivamente per via maschile (di
padre in figlio).
Il patrizio romano era tale poiché, il proprio padre, già tale era
e, così, risalendo per le generazioni “a ritroso”.
La successione femminile, al contrario, era completamente
sconosciuta.
Successivamente, all’epoca di Carlo Magno, quand’anche
Venezia cominciò la corsa al proprio apogeo, nacque, anche lì,
un fiorente patriziato, così come, la maggior parte delle città
italiane, si governò, a lungo, nel tempo, per mezzo di patriziati ereditari maschili che si autoregolamentarono e si autodefinirono.
Queste nobiltà patriziali, in Italia, sono le più antiche (esse si
divisero in: aristocratiche e popolari. Nelle prime confluirono
i rappresentanti di stirpi signorili-feudali che si inurbarono nei
comuni altomedievali; nelle seconde furono presenti i
rappresentanti di quel popolo grasso che, tramite i commerci e
l’esercizio delle attività creditizie, riuscì ad armare milizie
proprie, per mezzo delle quali, dominare la cosa pubblica.
Questo ceto popolare, “i mercatores e gli artifices”, costituì, di
poi, una propria nobiltà).
In Francia, come sopra ricordato, dopo il regno di S. Luigi, la
nobiltà, formatasi secondo le regole del diritto romano, era
diventata simile a quella italiana, infatti, la nobiltà francese,
fino al tempo della rivoluzione del 1789, si trasmise (escludendo alcuni privilegi successori “allargati”) esclusivamente
per primogenitura maschile.
Tutte rigorosamente maschili erano altresì le cariche che
(dopo la presentazione delle prove di nobiltà per i centocinquant’anni) consentivano di poter essere nominati: ufficiali
dell’esercito; per poter entrare nelle carrozze reali; per poter
essere presentati a Corte; per poter ricevere l’Ordine dello
Spirito Santo ecc…ecc!
Erano indispensabili, altresì, prove di nobiltà per quarti nobili
maschili per poter essere ricevuti nei capitoli nobili anche se,
in qualche modo, i capitoli medesimi, erano considerati alla
stregua di istituzioni private; (infatti, poteva accadere che,
qualsivoglia persona, potesse dare origine alla fondazione di
un capitolo nobile a proprio piacimento).
In questi atti di fondazione, infatti, giammai, interveniva né la
Corte, né lo Stato, né il Sovrano in persona.
Questi capitoli nobili risentivano, tuttavia, già dell’influenza
delle abitudini e delle tradizioni germaniche (infatti, essi, furono molto frequenti ed attivi, soprattutto, in Alsazia ed in Lorena, quasi ai confini, dunque, con la Germania).
Volendo, ora, considerare, le caratteristiche istituzionali e storiche della nobiltà germanica, diremo che, quest’ultima,
invece di originare da una casta genealogica (il patriziato),
come per l’Italia, trae la propria scaturigine da una funzione
esercitata sopra una terra.
Era dunque, la terra, ad essere nobile e colui che, sopra la medesima, esercitava una funzione delegatagli dal proprio Sovrano (primieramente militare, poi, giudiziaria, oppure amministrativa o mista, comunque, sempre giurisdizionale) proprio,
da questa funzione, riceveva la nobiltà.
Con il passare del tempo, poiché le terre nobili furono ereditate anche dalle donne, così, questo tipo di nobiltà, secondo il
diritto germanico (lo jus longobardorum) si trasmise anche
per via femminile.
In ragione di quanto asserito, la nobiltà tedesca si presenta
“caratterialmente” quale: «nobiltà costituita, prevalentemente,
per molti quarti nobili femminili» (corrispondenti, cioè, alle
numerose alleanze nobili contratte da donne appartenenti ad
un medesimo casato).
Allora, ricapitolando: mentre in Italia ed in Francia, le genealogie delle casate più antiche, presentano un albero genealogico più lungo e verticalizzato, in Germania, al contrario, le
casate più antiche ed illustri, lo presentano più largo ed orizzontalizzato (poiché discendenti da un maggior numero di famiglie nobili originate da donne nobili).
Per questa ragione, le prove di nobiltà, in Germania, vertono
sopra un maggior numero di quarti nobili (tutto ciò, in araldica, figurativamente, è altresì leggibile, oltre ai quarti di alleanza presenti nello scudo, vieppiù dai numerosi elmi, con
cimiero, che timbrano le armi ereditarie).
Anche in Austria (paese nel quale si porta gran rispetto alla
tradizione), le prove di nobiltà, richiedono, come in Germania, la presentazione dei sedici quarti nobili.
Tutte queste nobiltà” tedesche”, per queste e per altre ragioni
(che qui, non tratto, per brevità) erano tendenzialmente portate
a costituire alleanze matrimoniali entro il proprio ceto.
Le prove per sedici quarti di nobiltà erano richieste, fino al
tempo della caduta degli “imperi centrali” (1917): per poter
essere ammessi a Corte; per portare la croce dell’Ordine di
Malta; per assumere la carica di Ciambellano dell’Imperatore;
per portare le insegne dell’Ordine, austriaco, del Toson d’oro;
per portare le insegne (riservate alle sole dame) dell’Ordine,
austriaco, della croce stellata; per poter partecipare, ai ricevimenti a Corte, nei saloni riservati al corpo diplomatico; per
portare le insegne dell’Ordine, germanico, di S. Maria di Gerusalemme detto Teutonico.
La presentazione delle prove di nobiltà per quarti, dunque,
essendo considerate fondamentali sia in Germania che in
Austria non rappresentavano, negli altri regni europei, che una
decorazione personale in più; un bell’ornamento per il gentiluomo che li poteva esibire ad onore del proprio casato.
Avendo esposto queste storiche significazioni, allora, così ragionando, queste nobiltà germaniche trasmettendosi anche per
via femminile e rinforzandosi con prove di nobiltà per quarti
possono, forse, considerarsi superiori a quelle italiane o francesi che, in genere, si trasmettono solamente per linea maschile e che, se “provano per quarti”, lo fanno esclusivamente per
quattro (come per l’Ordine di Malta oppure per l’Ordine dei
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S.S. Maurizio e Lazzaro, prima del 1851, o per altri Ordini
Dinastici Nobili degli antichi stati preunitari italiani ecc…
ecc…) ?!
Si dirà che, in un simile raffronto, non esistono né nobiltà
superiori, né nobiltà inferiori.
Ogni popolo si regge, infatti, a mezzo di regole proprie, e,
quindi, anche le nobiltà che, in esso, sono presenti, si regolano, di conseguenza, alla propria maniera.
L’Ordine del Toson d’oro austriaco, che richiedeva la presentazione delle prove dei sedici quarti di nobiltà per poterne
ricevere le insegne, era forse più importante di quello spagnolo che non ne richiedeva alcuna?!
Noi pensiamo proprio di no!!
Infatti, un gentiluomo, che possieda, personalmente, i sedici
quarti di nobiltà, potrebbe avere un figlio che ne possiede
solamente otto ed un nipote che non ne abbia più di quattro
ed un pronipote che conservi, solamente più, quelli paterni e
che, quindi, non li possa più esibire a titolo di prove…!!
Sarà dunque, il suo titolo, meno importante? La sua nobiltà e
la storia del suo casato forse meno illustre? Pensiamo,
proprio, di no…!!
Tuttavia, la nobiltà per quarti, ovunque essa si manifesti, è
sicuramente la più prestigiosa !!
Il sangue non corrotto, infatti, illustra la Tradizione di uno
splendido passato…!
L’Imperatore, i Re, i Principi sovrani possono infatti, per diritto, nobilitare chicchessía, per mezzo di lettere di nobiltà;
essi possono creare baroni, conti, marchesi, duchi e principi
ma, nessuno di essi potrà mai “regalare”, a chicchessia, un solo quarto di nobiltà…!
La nobiltà è, infatti, una casta ma, una casta, nella quale, una
qualsivoglia persona meritevole e socialmente “civile”, può
anche entrare.
La nobiltà per quarti è, al contrario, una casta chiusa.
Questi nobili “con quarti” meritano allora “molti complimenti” se sono riusciti, in una società così liquida ed eterogenea, come l’attuale, a mantenere inalterati i propri quartieri
“vanto” dei propri antenati e della propria storia famigliare.
Essi sono, dunque, rimasti fedeli al proprio passato e, “il passato”, per chi lo sa riconoscere è come un’ombra che mormora e che ci segue, passo dopo passo; esso infatti ci accompagna come la verità di ciò che siamo e, chi lo sa intendere, non
sarà solo neanche di fronte alla morte”...!
Al gentiluomo contemporaneo chiediamo, almeno, di possedere, in difetto, altri quarti di nobiltà: la dignità; il disinteresse; la gentilezza signorile; l’onore personale; l’educazione
dei modi e la fierezza d’animo, che, tutti insieme, aiuteranno
ad eliminare la “volgarità del male”, che pervade questa società, ignorandola!!
Alberto Gamaleri Calleri Gamondi
D. Ottavio d’Aragona e Tagliavia
Cinque secoli fa, proprio nel 1512, si concludeva l’accordo
fra due celebri famiglie siciliane, Aragona e Tagliavia, per la
loro unione in un unico casato e la costituzione di un solo
asse patrimoniale. La storia ebbe inizio con il matrimonio fra
Giovanni Vincenzo Tagliavia, barone di Castelvetrano, e
Beatrice d’Aragona e Cruyllas e lo stabilirsi di una solida
relazione di stima ed amicizia fra Giovanni Vincenzo ed il
cognato Carlo d’Aragona. Quest’ultimo aveva avuto dal suo
matrimonio un’unica figlia, che per la legge di successione
siciliana avrebbe ereditato titoli e beni della famiglia che dopo
la sua morte sarebbero stati trasferiti al suo legittimo erede,
maschio o femmina che fosse. In questo modo si sarebbe però
estinto il cognome Aragona, che proveniva alla famiglia dalla
discendenza, non proprio legittima anche se riconosciuta, ma
comunque sempre discendenza da uno dei figli del re Federico
III. Per perpetuare un cognome così importante fra i due
cognati si stabilì pertanto l’intesa che prevedeva le nozze di
Antonia, figlia di Carlo d’Aragona, con Francesco, figlio di
Giovanni Vincenzo, e l’assunzione da parte dello sposo del
cognome Aragona e Tagliavia. La sorte non volle però che
tale matrimonio avesse gli effetti desiderati perché Francesco
morì poco dopo il matrimonio nel 1515. I due cognati non si
persero però d’animo e a rimpiazzare Francesco venne chiamato un altro figlio di Giovanni Vincenzo, Giovanni, che prese molto sul serio la questione del cognome tanto che subito
l’Aragona prese il sopravvento su Tagliavia.
TAGLIAVIA
Dei tanti personaggi illustri di questa famiglia si vuole qui
fermarsi per qualche rigo in più su D. Ottavio (1565-1623),
dopo aver sinteticamente fornito qualche elemento per
rispondere alla domanda “chi fur li maggior tui” .
Castelvetrano – Chiesa di San Domenico – Albero di Jesse
nel quale sono raffigurati e volti di membri della famiglia
Tagliavia
Con la morte di Ferdinando Il Cattolico nel 1516 si accentuò
in Sicilia il forte malessere che da alcuni anni l’affliggeva e
che si era presentato con lo scoppio di moti antispagnoli. La
morte del sovrano con la decadenza contestuale del suo Viceré
Ugone Moncada e l’assunzione dell’autorità viceregia da parte
di Pietro Cardona, maestro giustiziere del regno in ragione
della posizione assunta da quest’ultimo che accentua le
rivendicazioni dell’autonomismo siciliano provoca una
spaccatura nel fronte nobiliare. Fra il 1517 ed il 22 l’isola è in
stato di profonda agitazione, alla lite fra nobili si aggiunge una
rivolta in chiave antinobiliare, a Palermo i Ventimiglia
uccidono lo Squarcialupo e molti dei suoi seguaci, nel gennaio
del 1581, sbarcano a Messina 5000 fanti e 1200 cavalieri
spagnoli per riportare l’ordine che solo dopo qualche anno
verrà del tutto ripristinato. Nel 1529 più immanente si fa il
pericolo proveniente dall’Africa del nord, dove a Tunisi si è
consolidato il potere di Khair ad-din Barbarossa, che si era
anche legato alla Francia, così da richiedere uno sforzo da
parte di tutti gli stati del Mediterraneo in mano alla Spagna per
contenerne la costante minaccia alla navigazione sia per
garantire la protezione delle popolazioni rivierasche soggette a
continue razzie.
Arma: Aragona e Tagliavia
Giovanni Vincenzo in questo periodo si contraddistinse per la
assoluta fedeltà alla corona di Spagna e al nuovo sovrano
designato, il futuro imperatore Carlo V, figlio della primo-
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genita di re Ferdinando e dell’Arciduca Filippo d’Austria. Fu
Stratigoto di Messina (incarico corrispondente a quello di
sindaco anche se con maggior potere) nel 1521 e 22 e quindi
nel 1526 e 27 aveva mostrato di essere insensibile alle
lusinghe di una maggiore autonomia dalla corona, aveva
inviato a sue spese un drappello cavalieri a Napoli per
sostenere le forze spagnole e nel 1535 aveva concorso alla
spedizione di Carlo V contro Tunisi armando a sue spese due
navi da battaglia ed una nave per il trasporto dei rifornimenti.
L’Imperatore fu sensibile a tali gesti che ricompensò elevando
la baronia di Castelvetrano a contea (esecutoriato alla R.
Cancelleria di Palermo il 3 settembre 1522- precisazione fatta
per correggere errori per non dire di peggio letti in presunte
ricostruzioni storiche) e richiedendo al Papa per il fratello di
questi, Pietro, vescovo prima di Agrigento e poi Arcivescovo
di Palermo, la berretta cardinalizia, che, sia pure a fatica
ottenne. Il Papa infatti non era particolarmente favorevole ad
avere nel collegio cardinalizio un altro uomo strettamente
legato all’imperatore. A lui successe come accennato
Giovanni, il marito di Antonia d’Aragona, anch’egli distintosi
al servizio di Sicilia e di Spagna, che nel 1730 vide elevato a
marchesato il titolo ricevuto maritali nomine dalla consorte di
barone di Terranova, ricoprì l’incarico di Grande Ammiraglio
del Regno, che nel 1538 e nel 1544 e 45 venne investito dell’
incarico di presidente a capitano generale del regno per
l’assenza del Viceré Ferrante Gonzaga impegnato nella prima
occasione a Corfù e nel Golfo di Cattaro e nella seconda in
Francia e nelle Fiandre.
A lui successe il figlio Carlo, il più noto della famiglia, che
ricevette la prestigiosa denominazione di Magnus Siculus, fu
il primo principe di Castelvetrano (1564), ebbe il marchesato
di Terranova elevato a ducea (1561), fu marchese di Avola
(1544) titolo e feudo ereditati dalla madre e conte di Borghetto, per l’elevazione dell’omonima baronia in contea da
parte di Filippo II nel 1566. Fu però, soprattutto uomo d’armi
e di Stato, partecipò nel 1541 alla sfortunata spedizioni navali
contro Algeri e a quella del 1551 contro Tunisi con navi
armate da lui e da suo padre, ambedue fallite per le avverse
condizioni meteorologiche, esponendosi in prima persona
tanto che la sua nave nel 1551 affondò nei pressi di
Lampedusa.
Il porto e la città di Algeri nel XVI secolo
Nel 1542 era nell’esercito di Carlo V in terraferma e così più
volte nel corso della sua vita in Italia, in Francia e nelle
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Fiandre, numerose volte assunse l’incarico di Presidente e
capitano del Regno di Sicilia per l’assenza del Viceré, fu
Deputato del Regno nel 1547, 1557 e 1562, 1566, 1570. Nel
1578 fu inviato dal sovrano di Spagna quale suo ambasciatore
per trattare la pacificazione dei Paesi Bassi insieme con i
delegati dell’Imperatore Rodolfo d’Austria, nel 1581 veniva
nominato Capitano Generale della Catalogna e poi dello Stato
di Milano, fu creato grande di Spagna di 1^ classe e investito
dell’Ordine del Toson d’oro, fu presidente del Consiglio
d’Italia. Dal suo matrimonio con Margherita Ventimiglia,
figlia di Simone marchese di Geraci, nacquero dodici figli fra i
quali l’Ottavio di cui si dirà, Giovanni il primogenito, che
però premorì al padre, e Simone che fu il secondo cardinale
della famiglia.
Ottavio nacque a Palermo nel 1565 e venne sin da fanciullo
destinato alla carriera delle armi, inizialmente seguì il padre in
Catalogna e a Milano poi passò nelle Fiandre agli ordini di
Alessandro Farnese dove, nel 1587, assunse il comando di una
compagnia di lancieri, nel 1590 partecipò alla campagna in
Francia nel quadro della cosiddetta 8^ guerra di religione
francese, alla quale parteciparono le truppe inviate da Filippo
II a fianco delle milizie cattoliche. Nel 1593 lo si trova in
Lombardia al comando della cavalleria leggera con la quale
intervenne a favore delle truppe di Carlo Emanuele I contro i
Francesi; nel 1596 tornò nelle Fiandre agli ordini di Ambrogio
Spinola che aveva sostituito Alessandro Farnese morto nel
1592, e nel corso della campagna in Picardia venne ferito, ma
non abbandonò il campo. Divenuto generale di cavalleria
partecipò a molte delle campagne fra il 1596 e il ’59, nel
Delfinato in Provenza e in Savoia, venendo peraltro spesso
impiegato come ambasciatore presso Carlo Emanuele I. Nel
1599 tornò in Sicilia dove venne nominato comandante della
cavalleria leggera del Regno, incarico che tuttavia non lo
entusiasmò più di tanto perché preferì darsi a nuove
esperienze andando a militare nella squadra navale siciliana
agli ordini dell’ammiraglio conte di San Gadèay. Nel 1606
Filippo III di Spagna lo nominò consigliere di Sicilia con
l’incarico di interessarsi sia dell’amministrazione militare
dell’isola sia degli interessi patrimoniali della corona,
contemporaneamente il nuovo viceré, in mancanza del
comandante titolare, gli affidò il comando delle galere
siciliane e la Corte di Madrid all’incarico già attribuitogli
aggiungeva quello di governatore di Messina. Incarico
quest’ultimo che fu fonte infinità di guai e disavventure,
perché il senato messinese gli si mise subito contro, prima
obiettando che il suo incarico di comandante della flotta era
incompatibile con quello di governatore della città perché
questo aveva l’obbligo della residenza poi accusandolo di
abusare delle sue prerogative. Numerosissime le sue imprese
al comando delle galere siciliane, nel 1608 catturò alcune
navi da trasporto barbaresche, fallendo però nel tentativo di
liberare il figlio del viceré Vigliena che era stato fatto
prigioniero dai pirati e portato a Costantinopoli. Il periodo più
ricco di soddisfazioni e vittorie fu quello in cui si affiancò al
nuovo Viceré di Sicilia Pietro Giron duca di Ossuna, che
promosse un programma di potenziamento della squadra
navale siciliana .Nel 1610 prese parte alla occupazione di
Larache in Marocco, nel 1612 a quella dell’isola di Gerba a
fianco delle flotte napoletana, genovese e toscana, sempre in
quell’anno compì numerose scorrerie contro la coste, il
traffico barbaresco ed andando a colpire nelle loro basi i pirati.
Fra le più importanti azioni di quell’anno l’attacco del porto di
Biserta affiancato alle galee napoletane al comando
dell’ammiraglio Santa Cruz, la cattura di 7 delle 10 galee
turche incrociate durante la sua crociera sotto le coste africane.
Galea del XVI- XVII secolo
Nel marzo del 1613 al comando di 8 galee siciliane sulla
quali sono imbarcati 3000 fanti ha il compito di assalire
Biserta. La città però avvertita per tempo del pericolo
organizza la sua difesa facendo intervenire un numeroso
contingente di truppa, Ottavio si rivolge allora contro le coste
algerine, distrugge la fortezza di Cicheri della quale annienta
la guarnigione. Nell’agosto di quell’anno intercetta una flotta
ottomana di 50 galee agli ordini di Mehemet Pascià diretta da
Costantinopoli ad Alessandria, malgrado abbia solo 8 galee
profittando delle condizioni meteo che portano ad uno
sparpagliamento della flotta avversaria attacca la nave
ammiraglia nemica e quelle della sua scorta affondando
l’ammiraglia ed un’altra nave e mettendo in fuga le altre,
prende oltre 500 prigionieri fra i quali il capitano Sinan pascià
e il bey di Alessandria, libera 1200 schiavi cristiani e
conquista un bottino valutato in seicentomila scudi. L’anno
dopo interviene contro la flotta ottomana che ha effettuato uno
sbarco a Malta costringendola a reimbarcare la truppa scesa
sull’isola e distruggendo due navi avversarie e ancora nel
1615 scorrendo il mare del levante cattura numerose navi
avversarie, libera molti schiavi cristiani e fa diversi
prigionieri. I suoi successi portano il viceré Ossuna a
conferirgli sempre maggiori incarichi, ciò portò a ledere gli
interessi della famiglia Borgia, che vide un Melchiorre privato
della carica di comandante di galee che, autorizzato dalla
Corte di Madrid, aveva armato a suo spese. Ottavio era
incolpevole ma i Borgia non gli perdonarono questa offesa e
furono causa di una parte delle sue successive disavventure.
Nel 1616 l’Ossuna venne trasferito e da Palermo andò a
Napoli ad assumervi l’incarico di Viceré, Ottavio lo seguì
venendo nominato generale delle galere del Regno di Napoli.
Nell’ottobre di quell’anno penetra nottetempo nello stretto dei
Dardanelli dove erano alla fonda 60 galee ottomane e ne
danneggia alcune, poi si allontana velocemente verso
Alessandria mentre l’avversario è ingannato sulla vera
direzione da lui presa, sul litorale egiziano cattura dieci
battelli da carico a vela e di una nave mercantile veneziana
quale rappresaglia per alcune imposte stabilite dalla
Serenissima su navi spagnole. Gli anni successivi sono segnati
da continui successi o sia in Adriatico contro la flotta veneta,
inquadrato nella squadra spagnola agli ordini di Pedro de
Leyva e Francesco de Ribera e nel Mediterraneo contro
ottomani e barbareschi.
La costante azione denigratoria dei Messinesi che non
cessavano un istante di lamentarsi a Corte nei suoi riguardi,
l’ostilità dei Borgia, di cui il cardinale Gaspare fu chiamato a
sostituire l’Ossuna quale viceré a Napoli e la stessa perdita di
favore dell’Ossuna presso il sovrano segnano l’inizio della sua
parabola discendente. Nel giugno del 1620 l’Ossuna venne
arrestato con l’accusa di aver cercato di ribellare il regno di
Napoli alla Spagna. Ottavio fu chiamato a scortare il
prigioniero in patria, ma giunto a Marsiglia, per non essere
costretto a consegnare quello che per anni era stato un amico e
protettore nelle mani di una giustizia sulla cui equità di
giudizio v’era molto da dubitare, lo fece sbarcare e tornò a
Napoli, con la scusa di non essere in grado di proseguire
perché a corto di viveri. Il Consiglio d’Italia chiamato a
valutare il suo comportamento lo condannò, lo privò di tutte le
cariche e lo destinò ad una sorta di domicilio coatto in un
castello della Sicilia. Nel 1622, dopo la morte di Filippo III, il
suo caso venne riesaminato e lo stesso Consiglio d’Italia gli
restituì il comando delle galee di Sicilia. Nel settembre di
quell’anno compì la sua ultima impresa nei Dardanelli,
sfidando la flotta ottomana a casa sua e compiendo uno sbarco
a Modone. Rientrato poi a Palermo lasciò ogni incarico e si
richiuse nel convento dei Cappuccini dove morì il 5 settembre
1623. La sua non fu una tuttavia una scelta fatta a caso, si era
infatti già occupato, nel 1618 di questa chiesa, da dove nella
prima metà del Cinquecento si erano insediati i Cappuccini, e
ne aveva finanziato a sue spese il completo rifacimento che si
concluse con la consacrazione della nuova chiesa proprio
nell’anno della sua morte.
Palermo – Chiesa dei Cappuccini
Con lui scomparve il più grande ammiraglio siciliano di tutti
i tempi, nessun altro aveva ed avrebbe mostrato tanta capacità,
intelligenza tattica e strategica, tanto coraggio personale e
tanta capacità di infonderlo ai suoi uomini ai quali bastava
averlo come capo per seguirlo anche nelle imprese più ardite,
certi della vittoria.
Alberico Lo Faso di Serradifalco
Giuseppe Galleani d’Agliano - Viceré di Sardegna
Giuseppe Galleani conte d’Agliano, appartenente ad una famiglia di probabile origine nizzarda di cui si hanno notizie sin
dal XV secolo è uno dei rappresentanti più interessanti del
tumultuoso periodo che va dalle vicende che portarono in Piemonte alla fine del vecchio regime a quelle della Restaurazione. Ufficiale di Stato Maggiore con l’incarico che oggi
può compararsi a quello di sottocapo di SM del Corpo
d’Armata affidato nominalmente al Duca del Chiablese ma di
fatto comandato dal luogotenente generale Francesco Thaon
de Revel, ebbe fra gli altri incarichi quello di organizzare la
difesa delle posizioni dell’Ortighiera e di Milleforche nel
complesso montano dell’Authion. L’8 giugno 1793 quando i
Francesi scatenarono l’offensiva che tendeva a scalzare i
Piemontesi dalle loro posizioni per raggiungere Tenda e da lì
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scendere nella pianura cuneese, si trovava in posizione
avanzata e per il suo comportamento meritò di essere decorato
del grado di maggiore di cavalleria, recitava la motivazione
:«Nel compiere ai doveri del posto di Aiutante di campo
affetto allo Stato Generale…nella corrente campagna nel Contado di Nizza ci diede nuove autentiche testimonianze dell’
attività, attenzione e zelo, onde avea già prima contraddistinti i
suoi servigi nel Reggimento Piemonte Reale cavalleria e si fece principalmente in occasione dell’attacco succeduto al Colle
di Rauss gli 8 del passato giugno un commendevole impegno
di mettere a profitto l’esperienza già da lui acquisita nell’ incarico di Aiutante Maggiore del suddetto reggimento. Poiché
essendosi portato con intrepida coraggiosa fermezza nei posti
più perigliosi, procurò non solo di mantenere dal di lui canto
in buona ordinanza le truppe, ma di animarle eziandio col proprio esempio in modo che meritossi la lode d’essere efficacemente concorso alla difesa dei suddetti posti» (Archivio di
Stato di Torino – Patenti e commissioni Vol. 26).
Arma Galleani:: Bandato d’azzurro e d’oro, con il capo di rosso
carico di un leone d’oro, illeopardato
L’anno successivo quando i Francesi, passato il confine con la
repubblica di Genova presero sul retro le difese piemontesi
dell’alta valle Roia, inviato dal generale Colli, nuovo
comandante delle truppe piemontesi nella Contea di Nizza, si
distinse ancora nel respingere una prima penetrazione nemica
nella zona della Roche du Barbon, successivamente è
impiegato in numerosi di combattimenti di retroguardia a
protezione delle truppe in ritirata verso il Colle di Tenda nel
corso dei quali viene fatto prigioniero. Nel luglio del 1795,
secondo la prassi allora in uso rientra in Piemonte a seguito di
uno scambio di prigionieri, prima di partire, quasi a
dimostrazione di come gli ufficiali francesi apprezzassero il
suo valore viene ricevuto dal generale Kellerman, comandante
delle truppe che avevano occupato la Contea di Nizza.
La piana di Mondovi – 22 marzo 1796
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Nei combattimenti che attorno a Mondovì segnarono la fine
della resistenza piemontese ebbe modo di distinguersi ancora
comandando le ultime resistenze dei Granatieri della brigata
Dichat, dopo che questi era caduto sul campo. Al termine del
conflitto gli vennero ancora una volta riconosciuti i suoi meriti
e per il suo comportamento venne promosso luogotenente
colonnello. Rimase poi per un breve periodo in disparte e
dopo Marengo si ritirò dal servizio militare, ma dopo la pace
di Luneville il vecchio Piemonte non esisteva più come non
esisteva più il Ducato di Savoia, questi lembi dell’ormai passato Regno di Sardegna erano divenuti Francia. Realisticamente bisognava farsene una ragione e prendere atto della
realtà senza cullarsi troppo nei ricordi anche perché in qualche
modo bisognava difendere i propri interessi familiari, così
Giuseppe Galleani d’Agliano come molti altri appartenenti alla nobiltà piemontese si mise al servizio della sua nuova patria. Fra il 1808 ed il 1812 fu Deputato della Stura al corpo legislativo, nel 1812 fu autorizzato ad assumere un titolo imperiale e venne nominato protettore di Ventimiglia. Attento
agli eventi dovette però cogliere l’occasione dei primi scricchiolii dell’impero napoleonico per comunicare a Vittorio
Emanuele I la sua devozione, questi che ci avesse creduto o no
prese per buona la dichiarazione, tanto da superare la diffidenza che poteva nascere verso chi per motivi anche legittimi
d’interesse e salvaguardia della famiglia in un certo momento
storico aveva scelto di servire la Francia, anche perché il suo
antico signore sembrava senza speranza, e poi cambiata la situazione, per gli stessi motivi tornava a servire lo stesso signore, e lo nominò alla fine di agosto del 1814 commissario
generale plenipotenziario nel ducato di Savoia coll’incarico di
riceverlo in restituzione dalla Francia. L’importanza dell’
incarico e motivi di reciprocità fecero poi sì che il 18 gennaio
del 1815 venisse promosso maggior generale, di fatto non
partecipò al conflitto contro i rigurgiti napoleonici, il compito
di andare in battaglia era bene fosse affidato a chi quel mestiere lo aveva fatto sempre e non a chi ormai da quasi diciassette
anni non aveva più sentito un colpo di fucile. Passò indenne
attraverso la questione dei moti, in famiglia fu suo fratello Renato ebbe a distinguersi col reggimento delle Guardie nel contrastare i ribelli. Nel 1822 Carlo Felice che ne doveva aver apprezzato la capacità in previsione dell’incarico che aveva in
animo di assegnargli lo promosse tenente generale e pochi
giorni dopo lo nominò Viceré di Sardegna. Se si tiene conto
che Carlo Felice era affettivamente rimasto legato a quest’ isola nella quale aveva passato alcuni degli anni più fattivi della
sua vita e che aveva stabilito con molti dei suoi abitanti rapporti personali che rimasero a lungo e che alcuni fra i suoi collaboratori più vicini. erano sardi, da questa nomina si comprende che la stima verso questo personaggio dovesse essere
assai alta. Il sovrano peraltro nell’inviarlo in Sardegna gli diede direttive precise e gli fece intendere che si aspettava da lui
che venissero a tradursi in fatti concreti. Esse riguardavano in
particolare la realizzazione della strada fra Cagliari e Porto
Torres, opera da considerarsi come difatti fu di straordinario
impegno. Si dovettero superare difficoltà di ogni genere dovute alla natura e all’andamento del terreno, alle acque stagnanti, e alla realizzazione delle necessarie opere di bonifica,
alla presenza della malaria e dei banditi. Il Galleani poté avvalersi di un altro personaggio di grande valore come l’ingegner
Carbonazzi, ma è indubbio che senza il suo costante impegno
e il sostegno del re l’opera non si sarebbe compiuta.
Francesco MALAGUZZI, TRE SECOLI DI
LEGATURE – Biblioteca Antica dell’Archivio di Stato
di Torino, Torino, 2012, pp. 41(testo) + XCVII (tavole
a colori).
Giuseppe Galleani d’Agliano
Dal punto di vista politico problema di peso ancor maggiore
gli si scaricò addosso, quello di dare esecuzione al cosiddetto
Editto delle Chiudende, emanato nel 1820 per favorire lo sviluppo di un nuovo regime fondiario che garantisse l’aumento
della produzione e che fra l’altro prevedeva la chiusura dei terreni aperti trasformandoli in proprietà privata. Con questo
editto fra l’altro era stabilito che qualunque proprietario avrebbe potuto limitare con una siepe, un muro, un fossato un terreno di sua proprietà non soggetto a servitù di pascolo, di passaggio, di fontana od abbeveratoio. L’editto conteneva disposizioni analoghe per i comuni che avrebbero dovuto distribuire
i propri terreni, dopo averli chiusi e ripartiti in lotti, a diversi
proprietari. Nell’editto inoltre erano liberalizzati la coltivazione e il commercio del tabacco, ritenuti vantaggiosi per lo sviluppo economico dell’isola. La mancata registrazione dell’
editto dagli organi Giuridici che davano esecuzione alle leggi
emanate dal sovrano nell’isola, la Reale Udienza a Cagliari e
la Reale Governazione a Sassari, sia per l’ostilità delle stesse
comunità di villaggio, dei feudatari che vedevano compromessi alcuni dei loro privilegi, sia per la crisi provocata dai fatti
del 1821 in Piemonte avevano bloccato il provvedimento che
il sovrano riteneva però importante per lo sviluppo della proprietà privata dei terreni da destinare all’agricoltura. Il Galleani stretto fra l’ordine del sovrano e la necessità di procedere
con gradualità per non provocare reazioni troppo forti che
potessero danneggiare l’equilibrio di un ordine pubblico che
era sempre un po’ incerto, procedette per gradi introducendo
le norme gradualmente che fra l’altro portarono all’acquisizione da parte dei privati di porzioni anche importanti di
domini feudali abbandonati ma che diedero luogo a lunghi
contenziosi. Altro campo cui il Galleani mise mano fu il riordino delle tariffe doganali sempre su imput del sovrano che
aveva avviato a favore dell’isola una serie di provvidenze a
sostegno dell’economia. Il 15 maggio 1823 chiuse il suo mandato lasciando Cagliari per essere nominato nel 1824 Governatore di Novara. Successivamente venne nominato Grande
Ospedaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e in
quello stesso anno fu creato cavaliere dell’Ordine della Santissima Annunziata. Morì a Torino il 14 maggio del 1838,
durante il regno di Carlo Alberto.
Pietro Gastone
Francesco Malaguzi
Il volume, presentato ai primi dello scorso febbraio nella sala
dell’Archivio di Stato, è l’ultimo della nutrita serie data alle
stampe dall’Autore dal 1989 a oggi ed è dedicato, come la
maggioranza di quanti la compongono, alla illustrazione del
grande patrimonio librario piemontese.
È lo stesso Malaguzzi a spiegarci come mai l’ultima nata non
rientri nella logica della collana, che censisce e passa in
sistematica rassegna le legature di pregio presenti nei fondi
librari subalpini (il primo volume è dedicato alla Val d’Aosta),
iniziata nel 1993 e registrante ben nove titoli. Infatti, segue il
frontespizio e le note editoriali, nitida al centro del foglio
avorio, una succinta, esplicita Giustificazione, nella quale –
dopo aver premesso che buona parte dei giacimenti librari,
presenti in biblioteche e archivi dell’Italia nord occidentale,
sono ormai stati passati al setaccio e i risultati stampati – si
dichiara che il completamento della ricerca sistematica non si
concilia con l’aspettativa di vita di un ottuagenario e,
conseguentemente, il progetto deve essere di giocoforza
abbandonato, pur senza concludere la ricerca, ma
indirizzandola nei confronti di singoli enti detentori, come già
attuato per le legature dell’Archivio Storico della Città di
Torino nel 1998 e, lo scorso anno, per quelle del fondo librario
del Museo di Palazzo Madama. Chi abbia pur superficiale
conoscenza dell’ottuagenario, avrà serie difficoltà a dare
credito a tale giustificazione. Ciò non soltanto perché la sua
alacre vivacità lo porta a sottoporsi a uno spietato ruolino di
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marcia, in patria e all’estero, partecipando e organizzando,
mostre, convegni, scrivendo articoli e saggi, visitando
raccolte, templi e mercati dell’antiquariato librario, che
costringerebbe qualsiasi trentenne a dichiarare ben presto
forfait, ma principalmente in quanto la sua determinazione
trascende decisamente la norma. Per cui, chi scrive è più che
certo – al di là dei voti amicali - che la collana, dopo breve
pausa, sarà ripresa e completata, prima di affrontare una
ulteriore piacevole fatica. Questo libro, di formato pressoché
quadrato (cm 28x23.5), legato in cartonato rigido, è ulteriore
comprova dell’attenzione riservata a quella che è tutt’altro che
pura forma: scelta di appropriata carta per il testo e le
illustrazioni, funzionale eleganza della grafica, eccellenza
delle fotografie, tanto in fase di ripresa che di riproduzione.
Sulla biblioteca, le accessioni, le singolari vicende, la
funzione, ipotetica, dichiarata ed effettiva, fanno luce, in
apertura, lo scritto del Direttore dell’Archivio di Stato di
Torino, Marco Carassi (dal titolo significativo, non meno che
veritiero: Una biblioteca piena di sorprese), e la introduzione
dell’Autore. Ai nostri fini è sufficiente tener presente, in primo
luogo, che la Biblioteca Antica dell’Archivio di Stato non va
confusa con quegli strumenti di lavoro ad archivisti e a
bibliotecari, che compongono la loro istituzionale working
library, ma costituisce un fondo del tutto autonomo, sotto il
profilo numerico piuttosto modesto (circa 8.000 volumi). Da
esso Malaguzzi ha scelto poco più di cento esemplari, le cui
legature spiccano non solo per intrinseca bellezza, ma per
rarità, tecniche di esecuzione e altri significativi aspetti. In più,
in qualche caso, ha consapevolmente eluso il vieto rigore del
metodo, favorendo l’estetica e il pregio del contenuto. Le
schede, evidentemente tecniche, sono seguite da note, ricche
di dati, che stimolano e soddisfano anche l’interesse
dell’araldista. La prima parte termina con conclusioni,
bibliografia, indice dei superlibros (armi sui piatti,
monogrammi e cifre, superlibros di possesso ed ex libris),
indice dei nomi e indice generale. La seconda, l’iconografia,
come ante detto, appaga l’occhio, surrogando al meglio il
piacere dell’oggettualità: certamente non è la stessa cosa
l’approccio tattile al reperto, ma, nel nostro caso, il senso della
vista rimane del tutto sazio.
Chi coltivi i nostri interessi, non lo sarà di meno. Ove non sia
un iniziato, non coglierà appieno l’artistica bellezza della
legatura cinquecentesca veneziana del Ms Commissione del
Doge Andrea Gritti (1523), ma non rimarrà di sicuro
indifferente di fronte alla splendida antiporta, miniata, tra
l’altro, dell’arma Dolfin, come analogamente avverrà con
l’altra antiporta, quella dell’analoga Commissione del Doge
Girolamo Priolo (1558), ove la presenza araldica è questa
volta garantita dallo stemma Cavalli. In entrambi i casi, in
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alto, domina il leone di San Marco, che però, presenta per il
Dolfin chiuso il libro dell’Evagelio. Quindi un incarico di
guerra, in cui non poteva avere spazio il noto motto: Pax tibi
Marce evangelista meus. Non potrà ugualmente sottrarsi all’incanto, che sprigiona dal raffinato gusto del fregio a losanga e cerchi, incastonante l’arma, a losanga anch’essa, di una
donna del real sangue di Francia, presente sul piatto posteriore di una prima edizione della Descrittione di tutta l’Italia
di Leandro Alberti. Superba la colorazione a tempera del frontespizio di Genealogia und Chronica des Durchlachten Hochgebornen Königlichen und Fürstlichen Hauses der Fürsten zu
Anhalt, pubblicato nel 1556 da Ernst Brotuff, con una prefazione del Melantone, il celebre personaggio della Riforma,
l’amico di Lutero e di Erasmo, che non disdegnava abbinare ai
severi studi teologici quelli relativi agli ascendenti e ai blasoni
dei principi tedeschi, disposti ad appoggiare – per ragioni tutt’
altro che religiose – il movimento protestante. Ovviamente è
solo il frontespizio e, ove avessimo la possibilità di sfogliare il
testo, ci troveremmo di fronte a centinaia di armi sovrane e
gentilizie di famiglie legate a cinquecento anni di storia del
Sacro Romano Impero.
Spiccano della campionatura, per bellezza intrinseca, rilevanza
storica e singolarità di materiali e di scelte araldiche, Les
Louenges du roy Louys XII, che Claude de Seyssel pubblicò
nel 1509. Il grande umanista savoiardo, che da professore di
diritto ed eloquenza nell’ateneo torinese, divenne consigliere,
maître des requêtes e diplomatico al servizio di due re di Francia, Luigi XII e Francesco I, che lo remunerarono con la cattedra arcivescovile di Torino, ove morì nel 1520, è figura di
spicco tra l’autunno del medioevo e il primo fiorire del rinascimento.
Il volume, scritto su commissione della regina Anna di Bretagna, è composto da fogli membranacei, che, uno volta usciti
dal torchio del tipografo Antoine Vérard, sono stati sapien-
temente colorati. L’impiego della pergamena, la cura grafica e
la bravura del pennello dei decoratori hanno concorso a fare
prendere un abbaglio ai catalogatori del 1840, che lo hanno
censito e collocato tra i manoscritti. Per quanto riguarda la
science du blason, deve dirsi, in primo luogo, che lo scudo
reale, timbrato in allora da corona aperta e carico già dei tre
gigli e non del seminato, ha per sostegni due cervi elevati.
Ora, è più che noto che i tenenti dell’arma del sovrano très
chrétien, sin dal secolo XIV, con Carlo V, e sistematicamente
dal 1461, con Luigi XI, erano due angeli. Essi erano raffigurati
come due giovinetti alati, rivestiti di una lunga dalmatica.
Talora erano armati di spada, in un caso uno di essi impugnava lo scettro e l’altro la main de justice e più spesso indossavano sulla dalmatica una cotta con l’arma gigliata. È vero
che alcuni re preferirono sostituire agli angeli altri supporti e
tra questi, Carlo VI e Carlo VII, padre e figlio, che fecero uso
di due cervi alati (l’impresa del cervo alato fu assunta poi dal
celebre connestabile di Borbone, col motto Cursum intendimus alis), mentre Luigi XII adoperava due istrici, desunti
dalla impresa, che alla figura dell’animale abbinava il motto
Cominus et eminus (‘da vicino e da lontano’, con riferimento
alla diffusa credenza che l’animale non fosse soltanto in grado
di pungere, ma anche di scagliare i suoi aculei contro gli avversari). Nel nostro caso, però, abbiamo due cervi, senza ombra di ali, mentre l’istrice fa mostra di sé al di sotto della punta
dello scudo, quasi a sostenerlo. Non poche le armi sabaude,
ovviamente su legature per lo più splendide, e delle famiglie
piemontesi si rivede con piacere la bella impresa delle cinque
frecce dei San Martino, congiunta al motto Sans despartir, che
funge pure da sostegni e da cimiero.
Interessante, almeno per il sottoscritto, imbattersi nell’arma
della famiglia messinese Furnari, duchi di Furnari, estintasi
nel XVIII secolo (la sua diramazione reggina, cui appartenne
Simone, celebre studioso cinquecentesco dell’Ariosto, fiorì
sino alla metà del secolo scorso.
Abbiamo seguito le orme dell’Autore, orientando, forse, le nostre scelte in base all’ingordo egoismo degli araldisti. Tanto
muove a considerare, in conclusione, che le selezioni poggia-
no, sì, su terreni aspri e sdrucciolevoli, ma rendono più lieve il
compito del pubblico, sollevato dall’imperativo interiore applicarsi proficuamente alla lettura di un testo, non sempre di
agevole comprensione ai profani. In verità, una ragione in più
per ringraziare Francesco Malaguzzi, che in questa circostanza
non fornisce soltanto la puntuale relazione tecnico-scientifica
dell’esploratore di una biblioteca, ma ci conduce per mano o,
meglio, guida il nostro occhio in un viaggio nella dimensione
del bello.
Angelo Scordo
L’Ordine Teutonico dal declino alla rinascita:
evoluzioni dal secolo XV
L’opera di evangelizzazione compiuta nell’Europa settentrionale rese l’Ordine Teutonico una realtà indiscutibilmente
importante nel secolo XV. Numerosissimi erano infatti i
villaggi che controllava, le città, le fortezze, le commende;
assai ricche le entrate in denaro.
Nonostante la falcidia di vite umane che l’epidemia della peste
aveva provocato nella prima metà del XIV secolo, l’Ordine
aveva tenuto saldamente. Le radici della sua crisi sono
piuttosto da avocarsi all’avversione dei sudditi tedeschi delle
città, sempre più orientati ad affrancarsi dalle limitazioni al
proprio sviluppo economico: alla fine del secolo infatti si
delinearono le prime associazioni contro gli abusi autoritari
dell’Ordine. Nate tempo prima in Prussia, dette associazioni
suscitarono nel tempo l’interesse dei Polacchi.
La borghesia mercantile mal tollerava le ingerenze dell’Ordine
nelle questioni commerciali ed i suoi privilegi. Le restrizioni
ai Paesi vicini (Polonia e Danimarca) limitavano di fatto gli
scambi commerciali.
Fu così che ebbe inizio la crisi dell’Ordine nel XV secolo. Il
principe lituano Jagellone sposò l’erede polacca di Luigi il
Grande e – battezzato nel 1386 – regnò sulla Polonia per
quarantotto anni, suggellando l’intesa polacco-lituana che
durerà fino alla scomparsa dello stato polacco di fine
Settecento. Ladislao II Jagellone – il quale mal sopportava
l’Ordine Teutonico – ormai convertito si eresse a difensore
dell’Occidente cristiano dal mondo barbaro, sostituendosi nello scopo all’Ordine, e non perse occasione di appoggiare le
rivolte dei sudditi teutonici contro di esso. La rivolta in
Samogizia del 1409 formalizzò l’alleanza polacco-lituana (a
cura di Ladislao II per la Polonia e di Vitold, Duca di
Lituania, intenzionato a riconquistare la Samogizia). La guerra
era prossima a scoppiare quando – alla fine del 1409 – re
Venceslao di Boemia impose una tregua fino a quando non
avesse emesso una sentenza di arbitrato: sentenza che –
pronunciata nella primavera del 1410 – riconosceva all’Ordine
Teutonico autorità sulla Samogizia. Nonostante il tentativo di
re Sigismondo d’Ungheria volto ad evitare il conflitto,
Ladislao – forte di numerosi mercenari di varia estrazione –
era pronto ad entrare in guerra, la quale scoppiò nel 1410.
L’Ordine poteva contare su circa cinquantamila uomini molto
preparati e disciplinati, contro i mercenari di Jagellone che
erano più del triplo. La battaglia del 1415 luglio 1410 presso
Tannenberg, inizialmente favorevole all’Ordine, finì a netto
favore di Ladislao. Il Gran Maestro Ulrich von Jüngingen
cadde in battaglia e le esili forze residue si ritirarono a
Marienburg, in attesa del nuovo capitolo a metà novembre che
elesse quale nuovo Gran Maestro Heinrich von Plauen. Ma
ormai l’Ordine, decimato, aspirava alla pace, la quale fu
siglata a Thorn il 1° febbraio 1411. Le parti rientrarono in
possesso delle terre conquistate dal nemico, salvo la
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Samogizia, che sarebbe tornata ai teutonici alla morte di
Jagellone e di Vitold. Il Trattato di Thorn stabiliva la libera
circolazione di merci e mercanti sia per via fluviale che per
via terrestre.
Jagellone II
Jagellone convertì i samogiti al cristianesimo con estrema
violenza.
L’Ordine, economicamente disastrato, confiscò i beni a
nobili e clero che avevano tradito, ed impose una pesante tassazione (sul reddito, non sul patrimonio) a tutte le categorie
sociale in maniera indistinta. Le città – soprattutto le più
ricche – fecero opposizione, e si erano create fratture motivate
dalle scelte del Gran Maestro (ad esempio, il matrimonio fra
religiosi), il quale sarà arrestato nell’ottobre del 1413. A gennaio 1414 l’incarico fu affidato a Michael Kuchmeister von
Sternberg, il quale fece rientrare le devianze eretiche hussite
favorite dal predecessore. Applicando le regole del Concilio di
Costanza, Kuchmeister adottò rigidi provvedimenti contro
l’eresia e gli eretici. Il Concilio nel 1416 sancì che la Samogizia dovesse esser posta sotto la sovranità dell’Imperatore per
le questioni temporali e sotto quella del Vescovo per le questioni spirituali: Jagellone e Vitold furono così assoggettati
all’Impero. La tregua si protrasse fino a metà 1419.
Nel 1422 Kuchmeister abdicò. Gli succedé Paul Bellizer von
Russdorf, che restò in carica fino al 1441. Jagellone attaccò
nuovamente l’Ordine,ma invano. Con la pace di Melno (1422)
fu ceduta la Samogizia alla Polonia, ad eccezione delle coste.
Paul Bellinzer von Russdorf
Nel 1430 fu istituito in Prussia un regime rappresentativo
attraverso la rifondazione del Gran Consiglio Nazionale.
Nel 1433 Jagellone ruppe la tregua e assoldò ottomila
mercenari hussiti e taboriti i quali – assieme alle truppe
polacche – misero a ferro e fuoco i territori dell’Ordine, fino
ad una prima tregua nel 1433 e ad una seconda nel 1435. Fra
le due tregue Jagellone morì.
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Il repentino indebolimento teutonico fu causato dal venir meno dell’appoggio dell’imperatore Sigismondo, impegnato a
combattere l’eresia hussita. Il potere papale era indebolito e lo
strumento della scomunica sempre meno temuto. Inoltre il
ricorso ai guerrieri mercenari esercitava sempre maggior peso
sulla pressione fiscale: ciò creava malcontento fra i sudditi e
indeboliva il consenso. Ed ancora, l’autorità del Gran Maestro
era stata pesantemente messa in discussione dal Maestro
Provinciale di Germania, Eberhard von Saunsheim, che lo affiancò come vicario nel 1438. I rappresentanti delle città e
quelli della nobiltà si coalizzarono per dar luogo alla Confederazione Prussiana (1440), avente come fine la difesa dei
privilegi acquisiti. Russdorf convocò l’Assemblea degli Stati,
ma questa soppresse il sistema delle imposte necessarie a
sostenere le spese militari. Il Gran Maestro abdicò.
Nel 1441 la Confederazione fu riconosciuta dall’Imperatore
Federico III, e fu eletto Gran Maestro Konrad von Erlichshausen, il quale durante il proprio mandato (che terminò nel
1449) curò l’equilibrio e la pace con Ladislao III di Polonia.
Gli successe nel 1450 Ludwig von Erlichshausen, che governò
per diciassette anni, durante i quali – appoggiato dal Papa e
dall’Imperatore – cercò di contenere la Confederazione. Ma
nel 1457 questa fomentò la rivolta ed assediò numerose città.
Ludwing von Erlichshausen
Nel 1454 la Confederazione si alleò con il re di Polonia ed
ebbe inizio la Guerra dei Tredici Anni, dalla quale l’Ordine fu
sconfitto. La Prussia ne usciva distrutta, ed i Gran Maestri che
si succedettero dal 1467 al 1497 si adoperarono per la ricostruzione dell’Ordine attorno alla sua nuova capitale, Könisberg. Nel 1498 fu eletto Gran Maestro il Principe Federico di
Sassonia: nel Capitolo del 1507 iniziò a ricostruire le truppe
attraverso nuove imposte e l’obbligo per ogni abitante di dotarsi di armatura ed archibugio a proprie spese, pena la perdita
del diritto di borghesia. Fino alla morte (1510) non si piegò
mai a rendere omaggio al re di Polonia. Gli successe Albrecht,
margravio di Brandeburgo, il quale come Federico si oppose
(nonostante l’invito dell’imperatore Carlo V) a rendere omaggio al re di Polonia: atteggiamento che portò nuovamente alla
guerra. Ma Carlo V era impegnato al contenimento del dilagare del luteranesimo, e nel 1521 indusse una tregua di quattro
anni fra Ordine e Polonia. Il Gran Maestro incontrò a lungo
Martin Lutero e nel 1523 invitò i Cavalieri ad infrangere i voti
ed a sposarsi, appoggiato dal Vescovo Polentz: le idee di Lutero si diffusero ampiamente nella Prussia Teutonica. Secolarizzò i beni dell’Ordine e si dichiarò vassallo del re di Polonia,
ricevendone il Ducato di Prussia (Trattato di Cracovia, 1525)
e trasformando l’Ordine di monaci-soldati in uno stato laico,
staccato dall’influenza papale, ispirato ai principi luterani e
legato al Re di Polonia.
Nel 1526 i Maestro Provinciale di Germania Dietrich von
Cleen prese pubblicamente posizione contro l’apostasia del
duca Albrecht e orientò l’Ordine ad un Capitolo nel quale fu
eletto Gran Maestro Walter von Cronberg, che dal 1529 poté
fregiarsi del titolo di “Gran Maestro e Maestro Tedesco”. Ma
l’impero teutonico era ormai smembrato. Prussia, Livonia e
molti principati avevano aderito alla riforma protestante. In
Sassonia i cavalieri si schierarono con la religione riformata
ma vollero restare nell’Ordine, creando di fatto una falange al
suo interno non riconosciuta ma tollerata dal Gran Maestro,
intanto, i fratelli e le commende si riducevano via via di numero.
Dal 1526 a oriente i Turchi Ottomani si erano insediati in
Ungheria. Massimiliano II, a difesa del Sacro Impero e del
mondo cristiano, pensò di creare un nuovo ordine che riunisse
i Cavalieri Teutonici ed i Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme (detti “di Malta” dal 1530, anno nel quale ricevettero
in feudo da Carlo V l’Isola omonima) e presentò l’idea alla
Dieta di Ratisbona (1576). Rodolfo II sviluppò il progetto e
propose che l’Ordine, come compenso per la difesa della cristianità dall’Islam, avrebbe potuto occupare un territorio ungherese in posizione strategica, sul quale costruire fortezze a
spese dei Teutonici. Ma i cavalieri erano stati decimati e spogliati dei beni, dei quali il Gran Maestro chiedeva la restituzione. L’Arciduca Massimiliano, coadiutore del Gran Maestro, fu arrestato dal re di Polonia Sigismondo III (il quale gli
usurpò il titolo), e liberato dietro firma del trattato di Beuthen
(1589), il quale prevedeva la definitiva rinuncia per l’Austria e
per l’imperatore ad ogni pretesa sulla corona polacca ed ai
territori di Livonia, Samogizia, Prussia, Polonia, Lituania,
Russia e Mazovia. Nel 1593 l’Ordine fu costretto ad alienare i
propri diritti sulla storica Commenda di Venezia per sdebitare
i propri impegni. Nel 1595 Massimiliano II divenne Gran
Maestro, e pose di fatto i teutonici sotto la protezione degli
Asburgo (asburgici saranno undici Gran Maestri su diciassette
fino al 1918). Nel 1606 riformò gli statuti con un occhio volto
alla ristretta situazione patrimoniale e l’altro all’utilizzo dei
cavalieri per il contenimento dell’avanzata turca.
Per i Teutonici la guerra fu lacerante, sia in termini di vite
umane che sotto il profilo della perdita dei beni dei quali i
principi protestanti (soprattutto quelli svedesi) si impadronirono. Per fortuna la pace di Westphalia stabilì la restituzione dei
beni religiosi o secolari ai proprietari. Si ebbe però, sia pure
gradatamente una profonda trasformazione: nella seconda
metà del secolo XVII i cavalieri teutonici ormai capeggiati da
principi laici al servizio dell’imperatore erano spesso impiegati per fronteggiare i Turchi. e i grandi dignitari dell’Ordine
assumevano cariche politiche per conto degli Asburgo. Gli
ideali cavallereschi di unità del mondo cristiano erano stati
messi in discussione dalla riforma di Lutero (più avanti di
Calvino); i cavalieri combattevano a difesa non dell’Ordine
ma dell’Impero. Nel corso del XVIII secolo saranno frequenti
i contatti dei teutonici con le potenti logge massoniche.
Il rapporto territoriale con gli antichi primigeni domini dell’
Ordine si allentò sino a rompersi quando nel 1701 l’imperatore Leopoldo I, per averlo alleato nelle guerra di successione, di Spagna incoronò re di Prussia Federico III di Brandeburgo (Federico I): sia l’Ordine (per gli antichi diritti che vantava sulla Prussia) che il Papa (Clemente XI) ne furono indignati, tanto che quest’ultimo non riconobbe il titolo reale fino
quasi alla fine del secolo XVIII. Di fatto, anche se non ancora
di diritto, la sede del Gran Maestro divenne Vienna
Nei primi anni del secolo XIX i fratelli-cavalieri erano ridotti
a poche decine; l’Ordine era molto clericalizzato. Nel 1800 le
truppe francesi occuparono Mariental. Nel 1805, con la Pace
di Presbourg, si stabilì che la carica di Gran Maestro spettasse
ad un principe della casata imperiale e divenisse ereditaria.
Nel 1809 Napoleone I dichiarò soppresso l’Ordine in tutta la
Confederazione del Reno ed attribuì il territori di Mariental al
regno di Wurtemberg. Restavano integri solo il Baliato d’Austria ed il Baliato dei Monti (Tirolo), la Commenda di Boemia
e quella di Slesia.
Al Congresso di Vienna l’Ordine non fu invitato (così come i
principi ecclesiastici del Sacro Impero). Dopo lunghe intercessioni del Gran Maestro Antonio Vittorio presso l’imperatore,
finalmente nel 1834 Francesco II annullò gli effetti del trattato
di Presbourg e restaurava l’Ordine quale istituzione autonoma
religiosa e militare ma feudo imperiale immediato, lasciando
al Gran Maestro la facoltà di nominare un coadiutore che gli
succedesse nella carica.
Massimiliano d’Asburgo
Nel 1618 l’Arciduca Carlo, vescovo di Brixen e di Breslau, fu
ammesso come cavaliere, e si presentò il problema della coerenza di armare un prelato, risolto da Papa Paolo V con la concessione delle necessarie dispense, da allora iterata negli analoghi casi. Si stabilì che nel futuro i Gran Maestri fossero
designati fra gli arciduchi titolari di carica episcopale: decisione che spostò l’asse dell’Ordine verso un alto grado di clericizzazione. La Guerra dei Trent’anni che seguì (fino al 1648)
mise a durissima prova il mondo tedesco, con la contrapposizione dei principi cattolici a quelli protestanti ed il pericolo costituito dai principi che si alleavano con gli stati esteri.
Antonio Vittorio Asburgo Lorena
Pur sotto il controllo dell’imperatore, l’Ordine amministrava i
propri beni. Nel 1835 fu eletto Gran Maestro l’Arciduca
Massimiliano Giuseppe, che in ventotto anni portò il numero
dei cavalieri da quattro a trenta, tutti di nobile estrazione. Nel
1839 fu votata la nuova regola, che rimarrà in vigore fino al
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1929. Con il capitolo del 1855 fu ristabilita l’istituzione delle
Sorelle Teutoniche (“Ospitaliere di Santa Maria di
Gerusalemme”), nate nel 1357 e soppresse nel secolo XVII.
Alla fine del secolo XIX ve ne erano duecentosedici. Fu dato
nuovo impeto alla creazione di fratelli-preti (cinquantaquattro), e l’Ordine conobbe un periodo di nuovo splendore e
di ritorno alla vocazione ospedaliera. Il successore Arciduca
Guglielmo ne proseguì la politica; nel 1880 costituì un
servizio sanitario affidato a volontari (Marianer), i quali
partecipavano con opere e finanze all’assistenza di malati e
feriti, e furono presenti anche sullo scenario delle guerre
balcaniche (1912-1913); nel corso della prima guerra mondiale l’Ordine poteva curare fino a tremila soldati di entrambi gli
schieramenti con quattro ospedali da campo e quindici colonne di camion e di ambulanze. Con la fine dell’impero austroungarico (1918) l’Ordine – ormai strettamente legato agli Asburgo - conobbe una nuova fase di declino, e veniva guardato
con sospetto. I nuovi stati che insistevano sui territori dell’
impero tendevano a confiscare i possedimenti dell’Ordine. Nel
1923 il Gran Maestro Arciduca Eugenio Ferdinando, per
alleggerire il clima di sospetto anti-asburgico, chiese ed
ottenne dal Papa Pio XI di abbandonare la carica.
e le attività ospedaliere in Germania, diversamente dai paesi
comunisti (Cecoslovacchia e Iugoslavia), ove rimase illegale.
La ricostruzione avvenne a cura dei successivi Gran Maestri
Marian Tumler (dal 1948 al 1970), Ildefons Pauler (dal 1970
al 1988) e Arnold Wieland (dal 1988), il quale ha potuto
riprendere le attività anche nei paesi ex-comunisti.
L’attuale struttura dell’Ordine comprende i fratelli (preti o laici), le sorelle e membri esterni (preti o laici che - a differenza
dei precedenti - non hanno pronunciato voti). Il Gran Maestro
ed i consiglieri sono eletti per sei anni. È organizzato in cinque Province: Italia, Germania, Austria, Slovenia, ex-Cecoslovacchia. Le attività sono di natura sanitaria, ospedaliera ed
assistenziale verso anziani e portatori di handicap: attività in
perfetta sintonia con le attività dei primi cavalieri cristiani.
Arma dell’attuale Gran Maestro Heinrich von Plauen
Francesco Zito
Sul tutto periodico della SISA riservato ai Soci
Direttore
Alberico Lo Faso di Serradifalco
Arciduca Eugenio Ferdinando Asburgo Teschen
Fu nominato coadiutore Norbert Klein, già vescovo di Brünn.
L’Ordine si connotò per natura religiosa e fu accusato da
alcuni membri della Chiesa di rappresentare una filiazione
ospedaliera dell’Ordine di Malta, al quale andavano restituiti i
beni. Papa Pio XI nominò padre Hilarin Felder di dirimere la
questione; egli abbracciò le ragioni teutoniche e ritenne di
adeguarne la regola, ratificata dal Papa nel 1929. Nacquero
così i “fratelli dell’Ordine tedesco di Santa Maria di
Gerusalemme”, ordine religioso indipendente dai vescovi e
dai poteri civili. Venne mantenuto il privilegio di attribuire
l’investitura cavalleresca. Il Gran Maestro è un Abate Mitrato.
La Santa Sede ha diritto di esercitare il controllo sull’Ordine.
Nel 1938, dopo l’integrazione dell’Austria alla Germania, i
teutonici vennero attaccati dai nazisti per la loro storia filoasburgica: l’Ordine venne sciolto, arrestati e deportati i membri (compreso il Gran Maestro Robert Schätzky), confiscati i
beni. Allo stesso tempo Himmler tentò di recuperare certa
simbologia teutonica ad uso dell’ideologia nazional-socialista
(pur privandola del profondo ideale cristiano). In realtà i cavalieri teutonici furono mere vittime del nazismo. Ed anche
per questo nel 1945 furono meglio considerati dalle autorità
austriache. Nel 1947 fu abrogato il decreto del 1938 e l’Ordine
cominciò a recuperare i possedimenti austriaci. Poté riprende-
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Comitato redazionale
Marco Di Bartolo, Andrew Martin Garvey, Vincenzo Pruiti,
Angelo Scordo
Testata del periodico
di Salvatorangelo Palmerio Spanu
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