a cura di - Aracne editrice

Transcripción

a cura di - Aracne editrice
A10
268
Università degli Studi di Cagliari - Dipartimento di Filologie e letterature
moderne, con il contributo della Facoltà di Lettere.
Con gracia y agudeza
Studi offerti a Giuseppina Ledda
a cura di
Antonina Paba
Copyright © MMVII
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133 A/B
00173 Roma
(06) 93781065
ISBN
978–88–548–1158–4
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: maggio 2007
I NDICE
Presentazione................................................................................... 1
-Bibliografia di Giuseppina Ledda ................................................... 5
Víctor I NFANTES
Hans Holbein, las Danzas de la Muerte y los primeros libros
de emblemas: ¿la imagen de un texto o el texto de una imagen? ...... 9
Ines R AVASINI
Le invenciones della Cuestión de amor
e l'eclissi dell'amor cortese............................................................. 27
Maria R OSSO
Elementi cosmici e paesaggio nella poesia di Garcilaso de la Vega.. 47
Aldo R UFFINATTO
Garcilaso o Sánchez de las Brozas? Cronaca di
un ragionevole dubbio ................................................................... 69
Anna B OGNOLO
Il romanzo in una stanza.
Le sale istoriate dello Sferamundi di Grecia .................................. 85
Blanca P ERIÑÁN
Una bruja literaria más................................................................. 105
Augustin R EDONDO
Jugando con los referentes históricos y narrativos:
la novela de Lope de Vega, Las Fortunas de Diana..................... 121
Fausta A NTONUCCI
Paradigma processuale e retorica giudiziaria
in alcuni drammi di Lope de Vega ............................................... 135
Indice
Valentina N IDER
Cam y la representación del Otro:
Calderón en el marco de la tradición............................................ 167
Maria Grazia P ROFETI
Gozzi "riedifica" Calderón: Le due notti affannose ...................... 185
Alessandro M ARTINENGO
Quevedo e le fonti siciliane.......................................................... 203
Giulia P OGGI
Arione e il delfino (Soledades, I, 1-21) ........................................ 211
Maurizio M ASALA
Le avventure di un ʻpicaroʼ bolognese del tardo ʻ500, fra il
Lazarillo e la Storia vera. Il Bartolino di Pompeo Vizani ............ 227
Pina Rosa P IRAS
La “información en Argel” di Miguel de Cervantes:
documento e/o enunciazione? ...................................................... 241
Luisa M ULAS
Un don Chisciotte italiano di fine Cinquecento? .......................... 255
Santa B OI
Don Quixote in Inghilterra ........................................................... 275
Lidia S EDDA
Dai bogatyri al principe del Gosplan: Don Chisciotte in Russia ..... 291
Giovanni C ARA
Controcanone e contrappunto barbarico. Lʼoccasione perduta
del romanzo spagnolo aureo ........................................................ 311
Giuseppe M AZZOCCHI
Gli angeli di Santa Teresa ............................................................ 329
Francis C ERDAN
Fray Hortensio Paravicino atacado y defendido (1625). El anónimo
Antihortensio y la Apología por la verdad de Juan de Jáuregui.... 347
Laura S ANNA
Gli occhi nelle orecchie. I sermoni di Lancelot Andrewes ........... 367
Indice
María A. R OCA M USSONS
Notas sobre Olivares y la iconografía del poder........................... 393
Sagrario L ÓPEZ P OZA
El gran duque de Osuna y las relaciones sobre su actuación en el
Mediterráneo como virrey de Sicilia y Nápoles ........................... 407
Henry E TTINGHAUSEN
Miserias sensacionales de la Inquisición de Cerdeña: la tentativa
de asesinato del notario Bañolas (Sassari, 1628) .......................... 441
Pedro M. C ÁTEDRA
Juan Coloma y su Década de la Pasión (Cagliari, 1576).............. 457
Tonina P ABA
Feste (e relaciones de fiesta) nella Sardegna del primo
Settecento: “un delirio de exorbitante vanidad”........................... 489
María Cruz G ARCÍA DE E NTERRÍA
“La merced que Vuestra Señoría me hace...”
(Formulario de cartas. 1728)....................................................... 511
Giovanni P IRODDA
Giuseppe Manno e le ʻamene lettereʼ........................................... 529
Gabriel A NDRÉS
Ideología y ficción: traducción y censura
de la literatura italiana en España (1936-45) ................................ 545
Elisabetta S ARMATI
Per uno studio delle strategie della descriptio
in Entre visillos di Carmen Martín Gaite...................................... 559
Sandro M AXIA
Lʼassedio e il Baratro. Lettura della “Bufera” di Montale ............ 575
Cristina L AVINIO
Oralità e performances narrative.................................................. 587
1
P RESENTAZIONE
Il volume che il lettore ha tra le mani nasce come segno dʼaffetto
per Giuseppina Ledda da parte di colleghi e discepoli, desiderosi di
celebrare la studiosa, lʼamica, la collega e la maestra che per decenni
ha svolto la propria opera tra le Università di Pisa e di Cagliari e che,
ormai da alcuni anni assente dalle aule universitarie, prosegue nellʼinstancabile attività di studio e di ricerca.
La carriera accademica di Pina Ledda, come confidenzialmente si
lascia chiamare da chi le sta più vicino, ha inizio nei primi anni Sessanta a Pisa, presso la cui Università segue lʼispanista Guido Mancini, conosciuto negli anni di studio a Cagliari. Tornata nella città di
origine, affianca nella docenza Dario Puccini, fraterno amico e studioso con il quale condivide, in anni contrassegnati da una particolare vivacità accademica, una felice stagione di scambi intellettuali,
alla quale talvolta si riferisce, durante le conversazioni, con un appena percettibile velo di nostalgia.
Negli anni Ottanta e Novanta continua la collaborazione con Pisa
nellʼambito dellʼattività del Dottorato in Ispanistica, allʼinterno del
quale terrà corsi specialistici e seminari di studio mentre è membro
effettivo, a Cagliari, del Collegio del Dottorato in Letterature Comparate.
I saggi critici raccolti in questi Studi offerti a G. Ledda si articolano lungo una doppia direttrice che riflette, al contempo, la cifra della
personalità della destinataria; su una si collocano gli omaggi dei colleghi, coi quali nel tempo ha intessuto un proficuo rapporto di confronto e di reciproche sollecitazioni culturali, sullʼaltra, quelli dei numerosi allievi, catturati dalla sua passione per la ricerca e lʼispanismo,
e oggi docenti anchʼessi, in buona misura, nelle Università italiane.
Lʼallegata (e certamente non completa) bibliografia di Pina, alla quale rimando per ogni curiosità, mi esime dal dettagliare i
suoi contributi di studiosa. Non posso, però, non segnalare la caratteristica di tali contributi, peraltro riconosciuta e messa in luce da molti
2
Presentazione
degli studiosi che hanno accolto lʼinvito di collaborare a questo volume, e che qui ringrazio.
Prima di giungere ad ambiti di ricerca più personali e propri, Pina
Ledda indaga alcuni aspetti del romanzo cavalleresco e della narrativa cinquecentesca, in una sorta di premessa ai ripetuti scandagli del
romanzo dei secoli dʼoro, Guzmán de Alfarache e, soprattutto, il Quijote, del quale pionieristicamente, sulla scia degli studi bachtiniani,
mette in luce echi e risonanze dialogico-carnevaleschi, avanzando
suggestioni interpretative di grande spessore.
Ma dove Giuseppina Ledda si rivela anticipatrice di una linea critica di là da venire, dando mostra di acume critico e di capacità intuitive poco comuni, è attraverso lo studio di aspetti e problematiche
della produzione letteraria barocca, un poco al margine dellʼinteresse
degli ispanisti di allora. Mi riferisco al suo Contributo allo studio
della letteratura emblematica in Spagna del lontano 1970, che inaugura un filone di ricerca che non avrebbe più abbandonato, giungendo ad esiti scientifici sulla cui validità il giudizio è unanime. Non
solo emblemi e geroglifici attraggono la sua attenzione di studiosa,
ma anche forme e modalità dellʼars praedicandi, della quale mette in
luce ibridazioni varie e, soprattutto, tecniche e strategie suasorie,
spesso sottilmente celate.
A Giuseppina Ledda va riconosciuto, pertanto, il merito di avere
combinato lʼattenzione per ambiti semi-inesplorati di studio e di ricerca con strumenti di analisi teoricamente e metodologicamente aggiornati, grazie ai quali i suoi studi hanno trovato grato accoglimento
nella comunità scientifica internazionale. Un aspetto, che mi piace qui
sottolineare, è proprio questa dimensione transnazionale della sua
ricerca scientifica — obbiettivo a cui ogni studioso serio aspira — e
la produttività di certe sue analisi, che a loro volta hanno innescato
ulteriori approfondimenti e ricerche in variate direzioni. Mi riferisco
alle sue fini letture delle relaciones de sucesos e de fiestas, sulle
quali ha prodotto ripetuti studi, e che hanno reso possibile nel 2001 a
Cagliari il III “Coloquio Internacional sobre relaciones de sucesos”
organizzato dalla SIERS (Sociedad Internacional para el estudio de
las relaciones de Sucesos), di cui Giuseppina Ledda è socio fondatore, insieme a Maria Cruz García de Enterría, Henry Ettinghausen,
Sagrario López Poza e Augustin Redondo.
Vari saggi, frutto di ripetute indagini sulla teoria e pratica dellʼoratoria sacra nellʼepoca aurea, aggiornati e integrati con contributi
inediti, sono confluiti in un recente volume, La parola e l’immagine,
Studi offerti a Giuseppina Ledda
3
parziale sintesi di anni e anni di ricerca su uno dei temi chiave della
sua attività di analista della produzione letteraria, il rapporto appunto
tra picta e verba. In questo mirabile libro, ottimamente accolto in
Italia e fuori di essa, Pina Ledda ha modo di applicare le sue competenze non solo di fine studiosa di opere letterarie ma di attenta interprete di fenomeni culturali complessi, in cui lʼopera dʼarte e le “ragioni retoriche” occupano un posto significativo.
Accanto a questo costante interesse per il Siglo de oro della letteratura spagnola, Giuseppina Ledda ha coltivato in parallelo lo studio
del romanzo contemporaneo, indagato soprattutto nel suo travaglio
formale e nella sperimentazione linguistica. Segnalo gli studi su Juan
Goytisolo, Max Aub e, ancor prima, su Galdós, come pure le varie
letture sulla produzione della diaspora successiva alla guerra civile
del 1936.
Infine, non posso tralasciare un ulteriore aspetto degli interessi
scientifici di Pina, quello per la produzione letteraria della Sardegna
spagnola, intesa sia come corpus di opere circolanti nellʼisola sia
come opere prodotte in loco da autori sardo-ispanici. Lʼaver promosso e coordinato la pubblicazione dei Cataloghi degli antichi fondi
spagnoli della Biblioteca Universitaria di Cagliari ha consentito a
studiosi anche di altre discipline di accedere a materiali
preziosi, di cui spesso non si aveva conoscenza diretta e, talvolta,
neanche notizia. Lo spoglio e lo studio di tali materiali è pienamente
in corso, unitamente al censimento e alla catalogazione di ulteriori
fondi custoditi presso altre biblioteche pubbliche e private dellʼisola.
Il profilo umano e di studiosa impegnata nellʼattività docente di
Giuseppina Ledda risulterebbe manco di una componente importante
se trascurassi di richiamare gli incarichi di responsabilità che — generosamente e con indubbie capacità gestionali — lʼillustre ispanista
ha assunto nel corso della sua carriera accademica. Ricordo, limitatamente agli anni di Cagliari, la Direzione del Dipartimento di Filologie e Letterature Moderne (1983-86 e 1988) e, nella seconda metà
degli anni Novanta, lʼincarico di Coordinatrice del Dottorato di Ricerca in Letterature Comparate e quello di Presidente del Corso di
Laurea in Lettere. Chi ha avuto modo di affiancarla in quegli anni, e
di vederla allʼopera in queste vesti, ne ha potuto apprezzare le doti di
equilibrio, lʼefficacia organizzativa, lʼazione ferma e incisiva a sostegno e difesa dellʼinsegnamento delle lingue e letteratutre straniere
(quando non era generalizzata e riconosciuta lʼimportanza del loro
4
Presentazione
studio) e, ancora, lʼorizzonte culturale ampio che ha sempre caratterizzato le sue proposte e la sua programmazione.
Nellʼintenzione di chi ha promosso questo volume di omaggio vi
era il desiderio di realizzare unʼopera che testimoniasse la fecondità
del magistero di Pina Ledda e la considerazione di cui i suoi lavori
godono nella comunità scientifica. Credo che tale risultato sia stato
conseguito. In esso compaiono, infatti, contributi di studiosi di varie
università italiane ed europee a cui è stato rivolto lʼinvito a partecipare. Altri colleghi, pur esprimendo plauso per lʼiniziativa, non hanno potuto, per gravosi impegni accademici e di ricerca, testimoniare
il loro affetto con uno scritto ma aderiscono ugualmente allʼomaggio. Ogni studioso ha liberamente avanzato una proposta di collaborazione, cercando di collocarsi nellʼambito degli studi in cui Pina ha
maggiormente indagato, ed ha “personalizzato” il proprio omaggio a
seconda della sua sensibilità, storia personale e formazione critica
proprie.
Sono stati accolti in questo volume anche alcuni saggi di studiosi
dellʼUniversità di Cagliari che nel dicembre 2005 hanno voluto onorare, con una giornata di studio dedicata a Miguel de Cervantes e
aperta da una relazione di Pina, il IV Centenario della pubblicazione
del Don Chisciotte, con contributi originali e dalla prospettiva dei
loro profili di studiosi italianisti, anglisti, slavisti.
Infine, mi piace ricordare che questo affettuoso omaggio si aggiunge a quello che nel novembre 2005 lʼUniversità di A Coruña
tributò a Pina Ledda e ad altri insigni studiosi, come riconoscimento
dei loro alti meriti nel campo della ricerca e degli studi di ispanistica. In quella occasione, come in altri Convegni Internazionali negli
anni precedenti, generosamente Pina tenne una lezione a una attenta
platea di giovani studiosi, riconoscenti per lʼininterrotto magistero
esercitato nei decenni. La stessa gratitudine si vuole esprimere con
questo volume, a nome anche delle varie generazioni di studenti che
hanno avuto lʼopportunità di poter accedere, attraverso le sue sempre
proficue e stimolanti lezioni, allʼinteressante e, spesso, sconosciuto
universo delle lettere spagnole.
Antonina Paba
5
Bibliografia di Giuseppina Ledda
-
«Lʼideale cavalleresco nella Crónica de Don Alvaro de Luna», in
Miscellanea di Studi Ispanici, 1962, pp. 93-98.
-
«Il romanzo storico di Gil y Carrasco», in Miscellanea di Studi Ispanici, 1964, pp. 133-146.
-
«Note sul Primaleón o Libro segundo del Emperador Palmerín», in
Studi sul Palmerín de Olivia, III, Pisa, 1966, pp. 137-158.
-
«Sulla Turiana di Juan de Timoneda», in Miscellanea di Studi Ispanici, 1966, pp. 150-169.
-
«Due interventi a favore del “castellano primitivo”», in Miscellanea
di Studi Ispanici, 1968, pp. 209-228.
-
Contributo allo studio della letteratura emblematica in Spagna
(1549-1613), Pisa, Università di Pisa, 1970.
-
«Sulla struttura tematica e sulle relazioni significative del Guzmán de
Alfarache», in Annali della Facoltà di Magistero di Cagliari, 34
(1971), pp. 119-140.
-
Il “Quijote” e la linea “dialogico-carnevalesca”, Cagliari, Fossataro, 1974.
-
«Il Quijote e la parola guida: in margine ad un indirizzo interpretativo)», in Miscellanea di Studi Ispanici, 1974, pp. 157-180.
-
Miguel de Cervantes: Rinconete y Cortadillo, El Licenciado Vidriera,
El celoso extremeño, eds. G. Mancini e G. Ledda, Pisa, Giardini Editori, 1976.
-
«Destrutturazione della “rappresentazione realista” e nuova strutturazione testuale in “Juan sin Tierra” di J. Goytisolo», in Annali della
Facoltà di Magistero di Cagliari, 5 (1978), pp. 29-67.
-
«Singolarità dei personaggi in Angel Guerra e loro ʻleggibilità.
Appunti per uno studio dei procedimenti formali del “discorso realista», in Annali della Facoltà di Magistero di Cagliari, I, 38 (19761977), pp. 3-27.
6
Bibliografia di Giuseppina Ledda
-
«Destrutturazione della “rappresentazione realista” e nuova strutturazione testuale in Juan sin Tierra di J. Goytisolo», in Annali della Facoltà di Magistero di Cagliari, 5 (1978), pp. 29-67.
-
«Nuove sperimentazioni narrative: lʼintertestualità e lʼautorappresentazione dellʼautore contro la “ripresa” del reale», in La cultura spagnola durante e dopo il franchismo. Atti del Convegno Internazionale
di Palermo (4-6.05.1979), Roma, Cadmo Ed., 1982, pp. 110-126.
-
«Forme e modi di teatralità nellʼoratoria sacra del ʻ600», in Studi
Ispanici, 1982, pp. 87-105.
-
«Introduzione», in Catalogo degli antichi fondi spagnoli della Biblioteca Universitaria di Cagliari, I: Gli incunaboli e le stampe cinquecentesche, Pisa, Giardini, 1982, pp. 11-14.
-
Gonzalo Pérez de Ledesma: La Censura de la elocuencia, (Zaragoza,
1648), intr. de G. Ledda (9-36), texto y notas al cuidado de G. Ledda
y V. Stagno, Madrid, Anejo del Anuario de Filología Española de
El Crotalon, 1985.
-
«Sullʼoratoria sacra di Pedro de Valderrama», in Studi Ispanici, 19851987, pp. 193-205.
-
«Lʼio nello spazio narrativo: note per una ʻautobiografiaʼ della “España peregrina”», in Fascismo ed esilio. Aspetti della diaspora intellettuale di Germania, Spagna e Italia, Pisa, Giardini, 1988, pp. 249-264.
-
«Leggere il Quijote», in Leggere il romanzo, Roma, Bulzoni, 1988,
pp. 69-82.
-
«“Antiguos y nuevos predicadores”: una polemica sullʼoratoria sacra
del ʻ600», en Symbolae Pisanae. Studi in onore di Guido Mancini,
Pisa, Giardini, 1989, pp. 311-325.
-
«Predicar a los ojos», en Edad de Oro, 8 (1989), pp. 129-142.
-
«Le rappresentazioni al vivo. Tecniche e strategie persuasive nellʼoratoria sacra del ʻ600», in Ragioni retoriche di discorsi letterari,
ed. G. Ledda, Roma, Bulzoni, 1990.
-
«Impegno ideologico, impegno letterario in Los ultimos cuentos de la
guerra de España di Max Aub», en Fascismo ed esilio, II. La patria
lontana: testimonianze dal vero e dall’immaginario, Pisa, Giardini,
1990, pp. 337-352.
-
«Per una lettura della festa religiosa barocca», en Dialogo. Studi in
onore di Lore Terracini, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 277-291.
Studi offerti a Giuseppina Ledda
7
-
«Práctica y arte concionandi en la Retórica de Fray Luis de Granada», en Anthropos. Documentos, 1992, pp. 108-114.
-
«Spoliare Aegyptios», in Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Cagliari, Miscellanea in onore di Jordi Carbonell, 15
(1991-92), pp. 1-17.
-
«Lʼispanismo in Sardegna», in L’apporto italiano alla tradizione
degli studi ispanici. Nel ricordo di Carmelo Samonà. Atti del Congresso AISPI (Napoli, 30.01-1.02.1992), Roma, Instituto Cervantes,
1993, pp. 129-133.
-
«Premessa», in La festa religiosa barocca, Studi Ispanici, 1991/1993,
pp. 51-58.
-
«El jeroglífico en el contexto de la fiesta barroca», en Actas del I
Simposio Internacional de Emblemática (Teruel, 1-2.10.1991), Teruel, Instituto de Estudios Turolenses, 1994, pp. 581-597.
-
«Tradizione esoterica ed intenzionalità didascalica nei geroglifici
della festa barocca», in A più voci: omaggio a Dario Puccini, Milano,
AllʼInsegna del Pesce dʼoro di V. Scheiwiller, 1994, pp. 224-233.
-
«La poesía popular en las relaciones de fiestas religiosas (siglo
en Anthropos. Literatura popular. Conceptos, argumentos y
temas, 166/67 (mayo-agosto 1995), pp. 77-80.
XVII)»,
-
«Contribución para una tipología de las relaciones extensas de fiestas
barrocas», en Las relaciones de sucesos en España (1500-1750). Actas del I Coloquio Internacional de relaciones (8-10.06.1995), Publications de la Sorbonne, Servicio de Publicaciones de la Universidad
de Alcalá de Henares, 1996, pp. 227-237.
-
«Los jeroglíficos en los sermones barrocos. Desde la palabra a la
imagen, desde la imagen a la palabra», en Literatura Emblemática.
Actas del I Simposio Internacional (La Coruña, 14-17.08.1994), La
Coruña, 1996, pp. 111-128.
-
«Gli emblemi nella festa o la festa degli emblemi. Celebrazioni religiose del Seicento», in La scrittura dell’effimero, Studi Ispanici 1994/
1996, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 1997,
pp. 147-162.
-
«Emblemas y configuraciones emblemáticas en la literatura religiosa
y moral del Siglo XVII», en Actas del IV Congreso Internacional de
AISO, Universidad de Alcalá de Henares, Servicio de Publicaciones
de la Universidad de Alcalá, 1998, pp. 45-74.
8
Bibliografia di Giuseppina Ledda
-
«Informar, celebrar, elaborar ideologicamente. Sucesos y ʻcasosʼ en
Relaciones de los Siglos XVI y XVII», in La fiesta. Actas del II Seminario de Relaciones de Sucesos (Coruña, 13-15.07.1998), Ferrol, Sociedad de Cultura Valle-Inclán, 1999, pp. 201-212.
-
«Estrategias y procedimientos comunicativos en la emblemática aplicada (fiestas y celebraciones, siglo XVII)», en Emblemata aurea. La
Emblemática en el Arte y la literatura del Siglo de Oro, Madrid,
Akal, 2000, pp. 251-262.
-
«Proyección emblemática en aparatos efímeros y en configuraciones
simbólicas festivas», en Del libro de emblemas a la ciudad simbólica. Actas del III Simposio Internacional de Emblemática Hispánica,
Castelló de la Plana, Universitat Jaume I, 2000, vol. I, pp. 361-376.
-
«Eclissi e rivalutazioni: la letteratura emblematica», in Eudossia, 1
(2002), pp. 13-32.
-
«Premessa» e «Le relazioni su “la invención de los cuerpos santos”»,
in Encuentro de civilizaciones (1500-1750). Informar, narrar, celebrar. Actas del III Coloquio Internacional sobre relaciones de sucesos
(Cagliari, 5-8.09.2001), Universidad de Alcalá-Università degli Studi
di Cagliari, Servicio de Publicaciones Universidad de Alcalá, 2003,
pp. 317-318, 319-328.
-
La parola e l’immagine. Strategie della persuasione religiosa nella
Spagna secentesca, Pisa, ETS, 2003.
-
«Varia presenza degli emblemi nella commedia aurea», in Rivista di
Filologia e Letterature Ispaniche, 7 (2004), pp. 255-270.
-
«Francisco de la Torre y Sevil, autor de relaciones extensas y breves», in Siglos dorados: homenaje a Augustin Redondo, Madrid, Castalia, 2004, vol. II, pp. 751-764.
-
«Representación de representaciones: la dimensión visual de fastos y
aparatos festivos en las relaciones de sucesos», in Las noticias en los
siglos de la imprenta manual. Homenaje a M. Agulló, H. Ettinghausen, M.C. García de Enterría, P. Ledda, A. Redondo y J. Simón, A
Coruña, SIELAE, 2006, pp. 107-117.
9
H ANS H OLBEIN ,
LAS D ANZAS DE LA M UERTE Y
LOS PRIMEROS LIBROS DE EMBLEMAS : ¿ LA IMAGEN
DE UN TEXTO O EL TEXTO DE UNA IMAGEN ?
Víctor Infantes
Universidad Complutense
La Profesora Giuseppina Ledda publicó en 1970 un estudio absolutamente innovador: Contributo allo studio della letteratura emblematica in Spagna (1549-1613), editado con el número 18 de la “Collana
di Studi” del Istituto di Letteratura Spagnola e Ispano Americana de la
Università di Pisa, pero, además, esta modélica monografía posee una
merecida medalla al valor filológico. Desde el instante de su salida impresa se constituyó en un clásico de la materia y, de paso, en una luminaria inicial insustituible en los estudios sobre la emblemática española; pronto se convirtió, también, en libro maldito, difícil (en verdad) de conseguir y, por último —pero esto no tiene más mérito que
mi recuerdo personal—, cuando lo conocí a finales de ese decenio, me
deslumbró. Andaba entonces lidiando mis peleas bibliográficas con
las Danzas de la Muerte y enseguida creí ver enlaces, referencias y
deudas iconográficas; en cualquier caso, devoré sus páginas y me convertí en emblemático confeso por culpa de aquel trabajo. Hoy aquel
deslumbramiento permanece vivo en mi memoria y no he encontrado
mejor manera de honrar a su autora en este merecidísimo homenaje
que volver a aquellas (im)probables conexiones entre los emblemas y
las Danzas macabras, en esta ocasión con Hans Holbein por medio.
Por ello, empecemos por algunos principios. Las Danzas Macabras
o de la Muerte1 son un universo gráfico y literario inabordable, cuya
1
Todo lo relativo a Las Danzas de la Muerte que encabeza la presentación de este
trabajo lo he tratado con la extensión suficiente en Las Danzas de la Muerte. Génesis
y desarrollo de un género medieval (siglos XIII-XVII), Salamanca, Universidad de Salamanca, 1997; de este libro saco el apretado resumen que anticipa el tema antes de
abordar la obra de Hans Holbein y, por ello, obvio la cita de una bibliografía desmesurada que el interesado encontrará, en cambio, en la publicación citada. Allí indico, y aquí recuerdo, que uso las mayúsculas iniciales, sin cursiva, para definir el género en su conjunto y ahorrarme así precisiones terminológicas que no parece necesario tratar en este lugar.
10
Víctor Infantes
mención evoca una multitud de elementos culturales de muy amplia
consideración; a nadie escapa su importancia y significación, fundamentalmente (también) por tres cuestiones generales.
En primer lugar, a lo largo de su existencia como género, conviven
una extensión considerable de testimonios literarios de muy diversa
índole, con otra cantidad igual de respetable de representaciones gráficas; ambas, unidas o separadas, se manifiestan como exponente de
una cosmovisión cultural de muy amplia y compleja interpretación.
En segundo, este género se produce —y vamos a denominarlo así,
sin más precisiones teóricas—, en sus diferentes manifestaciones de
orígenes y desarrollo, desde aproximadamente el siglo XIII, en toda la
Europa culta medieval, hasta bien entrado el siglo XVIII, en toda la
Europa de las Luces, dependiendo de los países y de las culturas específicas donde se observa su presencia; además posee una transmisión
(más o menos) mantenida de sus características más relevantes, siempre como evocación tardía de su importancia, a lo largo de los siglos
XIX y XX.
Por último, tenemos que sumar, sin la menor duda, un amplísimo
conjunto de interrelaciones folclóricas, teatrales, religiosas, musicales,
sociales, iconográficas, etc. que se superponen, interfieren y conviven
con los elementos literarios y gráficos que las constituyen; precisamente esta unión y esta dependencia presenta, no sólo muchos problemas críticos en los orígenes del género, sino que aumenta la complejidad de sus manifestaciones y el tratamiento que los autores ofrecen del tema.
Por todo ello, y para no extendernos en consideraciones fuera de
lugar, voy a diferenciar otros tres aspectos que sí tienen una cierta importancia para entender la obra de Hans Holbein y con ella nuestro
interés en la emblemática.
No interesa abordar aquí los complicados problemas de sus orígenes netamente medievales de los siglos XIII al XV, época donde surgen y se desarrollan con una sutilísima maraña de fuentes, influencias y dependencias de todo tipo; nosotros tratamos el asunto cuando
el siglo XVI europeo vive el género de las Danzas de la Muerte como
representación de un mundo medieval todavía cercano, pero ya no
relacionado directamente en la denuncia social, moral y filosófica que
supusieron en periodo anterior.
Tampoco consideramos los testimonios de las Danzas de la Muerte
en tres manifestaciones específicas: Danzas sólo literarias, especialmente poéticas; Danzas sólo plásticas, independientemente de la téc-
H. Holbein, Danzas de la Muerte y primeros libros de emblemas
11
nica (o técnicas) de su realización y ubicación, y Danzas plásticas y
literarias, unitariamente así concebidas como expresión global del género.
Y, finalmente, dado el extensísimo periodo cronológico en que se
manifiesta el género, desde la constitución medieval del mismo en
manuscritos y pinturas hasta finales del siglo XV, éste se transforma
en ediciones y grabados a partir de ese momento y entra, por tanto,
en competencia con un tipo de conocimiento y difusión en la época
ya de la imprenta; las relaciones y la propia evaluación de las Danzas
de la Muerte se rigen por otros parámetros culturales muy diferentes
de los que tuvieron una razón de ser en el mundo medieval.
Conviene, creo, matizar debidamente lo que debemos entender por
una Danza de la Muerte, siguiendo una definición que ya ofrecí en
su momento.
Se trata de una sucesión de textos e imágenes presididas por la
Muerte como personaje central —generalmente representada por un
esqueleto, un cadáver o un vivo en descomposición— y que, en actitud
de danzar, dialoga y arrastra uno por uno a una relación de personajes habitualmente representativos de las diferentes clases sociales.
Así definida, estaríamos ante una Danza de la Muerte que podríamos
denominar completa, es decir, con texto literario y representación gráfica, nunca superpuestas o integradas, sino manteniendo su condición
de universos estéticos independientes. El elemento plástico elegido
puede presentarse como pinturas o dibujos, sobre pergamino, papel,
tela u cualquier otro material y situarse en lugares que van desde el
libro al convento, pasando por el manuscrito, la sala o la lámina;
grabados en planchas para una tirada editorial o tallados en los lugares más sorprendentes, como una campana, la vaina de un puñal, frescos, relieves y bajorrelieves en cementerios, iglesias, catedrales, puentes, etc. Esta representación gráfica —independiente ahora de su técnica o de su ubicación— puede ir o no acompañada de un texto literario y por tal debemos entender, desde un escueto pie explicativo hasta
una composición poética de un número indeterminado de versos y
rimas, pasando por la leyenda, el dístico latino como motto, el commento en prosa o el punzante epigrama.
Esta unión daría, como hemos indicado con anterioridad, una
Danza de la Muerte completa, pero lo más habitual es la carencia de
uno de estos elementos y más aún la fragmentación —ocasional o premeditada— de ambos. Existen, pues, muchas Danzas de la Muerte que
sólo deberían denominarse gráficas, frente a otras, en cambio, estric-
12
Víctor Infantes
tamente textuales, que describimos abiertamente y sin más complicaciones, como literarias. Más complejo resulta de tratar otras muchísimas obras que toman elementos aislados de las Danzas para su constitución y que representan estados concretos de las mismas, dada la
acumulación de temas y motivos que las constituyen. Es necesario
precisar al hilo de la definición antes indicada, que la Muerte, o la caracterización que aparezca como tal de ella, debe ser el «personaje central»2, lo que excluye un sinfín de alegorías y representaciones metafóricas no implícitas, que tiene que «dialogar» con «una relación de
personajes habitualmente representativos de las diferentes clases sociales»; por tanto, es imprescindible que exista esa noción de diálogo, en donde la Muerte suele nombrar a los interlocutores por su oficio o condición social —gráficamente expuesta de forma explícita por
medio de los atributos que los identifican y realzada si existe la representación plástica— a la vez que sus palabras recogen una suma
de tópicos característicos del género: vanitas terrenal, ubi sunt?, moralidad, igualación, Juicio Final, arrepentimiento, etc. Al lado de este discurso literario, sea de la categoría o clasificación que se quiera establecer, debe existir también una mención evidente del elemento danza,
bien sea por alguna indicación explícita en el texto o bien por alguna
mención implícita a través del sentido, la actitud o la presencia de
algún tipo de scholia o acotación singular; en el caso gráfico, es necesaria la propia expresión de escorzo o la hechura plástica de algún
elemento visual que simbolice claramente la actitud de danzar.
Teniendo presentes estos principios, podemos tratar ahora sobre
una de las Danzas de la Muerte más célebre, conocida y difundida del
género, hasta el punto que, a pesar de tratarse de una obra del siglo
XVI, suele simbolizar como ninguna otra el conjunto de las restantes
obras, me refiero a la de Hans Holbein, el Joven, que reúne, además,
ciertas características que la erigen como una de las obras más relevantes. Se trata de una Danza de la Muerte singularmente representativa de la sociedad en que se inscribe; recoge toda una serie de testimonios gráficos, literarios y doctrinales de la cosmovisión cultural
del género; es especialmente expresiva desde el punto de vista plásti2
En este caso, y por la significación del concepto, cito dos trabajos específicos
de V. INFANTES, «La muerte como personaje literario de los siglos XVI y XVII», en
Le personnage dans la littérature du siècle d'or: statut et fonction, París, Éds. Recherche sur les Civilisations/Casa de Velázquez, 1984, pp. 89-102 y «La meditatio mortis
en la literatura áurea española», en Os “últimos fins” na cultura ibérica dos sécs. XV a
XVIII, Oporto, Instituto de Cultura Portuguesa, 1997, pp. 43-50.
H. Holbein, Danzas de la Muerte y primeros libros de emblemas
13
co, con una factura técnica irreprochable; está impresa e inmersa en
el mundo de la edición europea, lo que va a explicar una difusión y
una fama extraordinaria y, por último, está especialmente vinculada
con la vertiente emblemática que quiero (e intento) demostrar.
La Danza de la Muerte de Hans Holbein (Augsburg, 1497/1498-Londres, 1543)3, y vamos a denominarla de momento así, está dibujada por
el artista entre 1523 y 1526 en Basel; la ubicación en esta ciudad de
dos de las Danzas de la Muerte más conocidas, las denominadas Grossbaseler, en el Cementerio de los Dominicos, y la Kleinbaseler, en el
Convento de Klingenthal, y que a la fuerza debió conocer Holbein,
han dejado en la serie una influencia, por harto evidente, fácilmente
reconocible4. Los dibujos fueron grabados por Hans Lützelberger, quien
los vende —y este dato es muy importante—, a los hermanos impresores Melchior y Gaspard Trechsel; la táctica era la habitual en ese momento, baste recordar que nos encontramos dentro de una época en
que la imprenta, la edición y el mundo editorial juegan un papel primordial en la difusión de las ideas y el conocimiento, pero también
desde la perspectiva de un negocio que empieza a representar una
actividad económica importante.5
3
Usamos esta denominación, de todos conocida y aceptada, aunque ya veremos
a continuación que la obra nunca se ha llamado así y es una convención reconocerla
por el tema, que no por su titulación expresa. Por otro lado, parece imposible reunir
en una nota el más mínimo atisbo de la bibliografía sobre este autor, que desborda
cualquier intento de aproximación, hasta 1987 conocía no menos de 500 entradas,
desde Schmid hasta Pinder, pasando por Douce, Dibdin, Green, Lippmann, etc., de
cierta significación, sumando ediciones, estudios, monografías, artículos, etc.; la más
importante se halla recogida y seleccionada en INFANTES, Las Danzas de la Muerte,
cit., y a este lugar remitimos por necesidad. Desde entonces las referencias se aproximan a la centena.
4
Véase el trabajo monográfico de A.M. CETTO, «Die Basler Holbein-Tafel mit den
zwei Schadeln», Zeitschrift für Schweizerische Archaeologie und Kunstgeschichte,
18 (1958), pp. 182-186; pero tal relación no ha escapado a casi ninguno de los que han
tratado tanto la obra de Holbein como la historia cultural de las Danzas suizas, y de
nuevo la bibliografía (Massmann, Rosenfeld, Koller, etc.) es inabarcable.
5
Vid., especialmente, R. HIRSCH, Printing, Selling, and Reading 1450-1550, Wiesbaden, Harrassowitz, 1967, pp. 15-40, 90-113, etc.; E.L. EISENSTEIN, The Printing Press
as an Agent of Change. Communications and cultural transformations in earlymodern Europe, Cambridge (Mass.), Cambridge University Press, 1979, 1, pp. 68-84,
etc. y, de la misma autora, La revolución de la imprenta en la Edad Moderna europea [1983], Madrid, Akal, 1994, pp. 95-109. Se pueden añadir los colectivos editados
por P. AQUILON y H.-J. MARTÍN, Le Livre dans l'Europe de la Renaissance, Nantes,
Promodis, 1988 y R. CHARTÍER, The Culture of Print. Power and the Uses of Print in
Early Modern Europe, Princeton, Princeton University Press, 1989, entre otros.
14
Víctor Infantes
Fig. 1: Portada de la edición de Lyon, 1538.
La obra se imprime en 1538 por los Trechsel, cuya bellísima marca
tipográfica ostenta en la portada (Fig. 1) y en uno de los centros editoriales más importantes de la Europa del momento, Lyon, «Soubz l'escu
de Coloigne»6. Veamos detenidamente lo que contiene, pues no se trata
6
La simbólica divisa puede verse reproducida, con sus variantes, en M.L.-C.
SILVESTRE, Marques typographiques ou recueil des monogrammes, chiffres, enseignes,
emblèmes, devises, rébus et fleurons des Libraires et Imprimeurs qui out exercé en
France, depuis l'introduction de I'Imprimerie, en 1470, jusqu'il la fin du seizième
siècle: il ces marques sout jointes celles Libraires et Imprimeurs qui pendant la même
période aout publié, hors de France, des livres en langue française, Paris, Imp.
Renou et Maulde, 1853 (= Bruselas, Culture et Civilisation, 1966), pp. 176-177; para
H. Holbein, Danzas de la Muerte y primeros libros de emblemas
15
tan sólo de una edición con la Danza de la Muerte, sino que presenta
además otras piezas, no tenidas habitualmente en cuenta al estudiar
la obra, que componen una significativa antología mortuoria y devota.7
Tras el blanco de la portada, la edición se abre con dos piezas en prosa a modo de prefacio; la primera, en forma de carta (pp.3-8), Epistre
des faces de la Mort, como rezan los titulillos sobre la caja que la acompañan, del Prior del convento de Saint Pierre de Lyon, dirigida a Madame Iehanne de Touszele, que cumple la función de un memento mori
que prepara al lector ante el contenido de la obra, y a continuación, una
anónima homilía (pp.9-15) que lleva el significativo título de Diverses
Tables de Mort, non painctes, mais extraictes de l'escripture saincte,
colorées par Docteurs Ecclesiastiques, & vmbragées par Philosophes,
que refleja una écfrasis de la lectura posterior a través de unas «Tablas
de la Muerte, no pintadas», sino «coloreadas» por los Doctores de la
Iglesia y «sombreadas» por los Filósofos. Tras ellas se inicia la Danza
de Muerte propiamente dicha, sin ninguna indicación expresa de su
inclusión por medio de un epígrafe, título o titulillo, incluso empezando al vuelto del folio anterior. Se trata de los 41 grabados sobre los
dibujos de Hans Holbein a página entera (pp.16-56), con una cita bíblica encima con indicación de su fuente a modo de lemma y un cuarteto
debajo a modo de suscriptio8, que parece se deben a Gilles Corrozet;
el último grabado (p.56), en realidad un blason a modo de colofón de
la importancia de Lyon, véanse los dos colectivos editados por H.-J. MARTÍN, Cinq
études lyonnaises, Ginebra, Droz, 1966 y Nouvelles études lyonnaises, idem, 1969.
7
Utilizamos uno de los facsímiles (más asequibles) para todas las citas, el preparado por W.L. GUNDERSHEIMER, New York, Dover, 1971, con una “Publisher's Note”, pp. vii-xiv y traducción al inglés, sólo de la Danza de Holbein, pp. 106-146, aunque un año antes había aparecido el de París, Bernard Laville, 1970, con “Introduction” de P. Ahnne, 5-19. El original no se encuentra ni foliado ni paginado, por lo que
reponemos la numeración por páginas para facilitar las menciones del contenido.
Mantenemos todas las características del francés original y traducimos cuando sea
necesario para las aclaraciones. En castellano contamos con una traducción parcial,
sólo de las “Diverses tables” y de la Danza en sí, de J.M. TOLA, México, La nave de
los locos, 1977, titulada La danza de la muerte y Hans Holbein, el Joven, como autor
(y queremos olvidar, de hecho no sabemos el por qué de la cita, la de Madrid, Erisa,
1980).
8
Estos conceptos, básicos para entender la concepción retórica de la emblemática,
se usan (y se describen) con diferentes denominaciones, véanse las precisiones de
P.M. DALY, Emblem Theory. Recent German Contributions to the Characterization of
the Emblem Genre, Nendeln, KTO Press, 1979, pp. 26-50 y G. MATHIEU-CASTELLANI,
«Le défi de l'Embleme», Revue de Littérature Comparée, 256 (1990), pp. 597-603.
16
Víctor Infantes
la serie (Fig. 2), ha merecido un detenido estudio que ha pretendido
desentrañar su compleja alegoría simbólica.9
Fig. 2: Blason, último grabado de la serie (p. 56).
Los dos textos preliminares y la Danza de la Muerte forman un
primer grupo en el cuerpo del libro, pero éste se completa con una
serie de piezas anónimas que a modo de meditatio mortis cierran el
conjunto de la edición completando un manual de textos sobre la
muerte que prolongan el mensaje moral de la obra. El primero de ellos
9
Vid. G. MATHIEU-CASTELLANI, Emblèmes de la Mort. Le dialogue de l’image et
du texte, París, A-G. Nizet, 1988, pp. 37-50.
H. Holbein, Danzas de la Muerte y primeros libros de emblemas
17
(pp.57-72), dividido en ocho capítulos, se denomina Figures de la Mort
moralment descriptes, & depeinctes selon l'authorité de l'escripture,
& des sainctz Peres, en donde se glosan como metáforas emblemáticas las más conocidas “figurée faces” de la representación de la Muerte explicadas como loci icónico de su significación: bestia con cuernos, segador, rayo, casa oscura, etc.; el segundo (pp.73-85) se compone
de una lista bíblica de Les diuerses Mors des bons, et des mauluais du
uiel, & nouueau Testament; el tercero (pp.85-93) se trata de un vademécum de las Memorables authoritez, & sentences del Philosophes, &
orateurs Paye[n]s pour co[n]fermer les uiuans a no[n] craindre la Mort,
y el último (pp.94-104) un sermón sobre la confesión y la comunión en
el lecho de muerte, de hecho un breve ars moriendi, titulado De la
necessite de la Mort qui en laisse riens estre pardurable, debajo del
cual figura una cartela con el colofón de la obra: «Excudebant Lugduni
Melchior et Gaspar Trechsel frates. 1538».
Hemos dejado para el final la titulación de la obra, que suponemos
puesta por los editores10, donde, ni en esta ocasión ni como hemos visto
anteriormente, nada se indica de la persona de Hans Holbein: Les simulachres & historiees faces de la Mort, avtant elegamme[n]t pourtraictes, que artificiellement imaginées. Una traducción ad litteram
sería: «Simulacros e imágenes historiadas de la Muerte, tan elegantemente ilustradas, como artificiosamente imaginadas», pero que desde el
punto de vista del lector (y comprador) de su momento queremos carear con una (muy probable) traducción de la obra a cargo de Hernando de Villarreal en 1557, hoy desgraciadamente no localizada y que a
cambio sí reflejaba mucho mejor el contenido de la edición. En la cita
que conservamos figuraba como Imagines dela muerte traduzidas en
10
Era la práctica normal de la época, y más probablemente en este caso que no
existe ningún autor concreto; me he ocupado (secuencialmente) de ello en V. INFANTES, «Tipologías de la enunciación en la prosa áurea. Seis títulos (y algunos más) en
busca de un género: obra, libro, tratado, crónica, historia, cuento, etc. (1)», I. Arellano,
Studia aurea. Actas del III Congreso de la AISO, Pamplona, GRISO-LEMSO, 1996, III,
pp. 265-272, primera entrega de un amplio asalto a todas las formas de denominación
en esta época; no obstante, pueden verse precisiones teóricas en L.-H. HOEK, La marque du titre: dispositift sémiotiques d'une practique culturale, Amsterdam, Den Haag,
1982; A. ROTHE, Der Literarische Titel: Funktionen, Formen, Geschichte, Frankfurt,
Vervuert, 1986 o G. GENETTE, «Les titres», en su Seuils, París, Seuil, 1987, pp. 54-97;
incluso, para Francia y más cercano para nuestro interés, R. BERGERON, «Le nom du
livre. Maniers d'intituler les premiers livres imprimes en français», eds. M. Ornato y
N. Pons, Practiques de la culture écrite en France au XVe siècle, Louvain-La-Neuve,
Fédérations International des Instituts d'Études Médiévales, 1995, pp. 441-458.
18
Víctor Infantes
metro castellano con vna breve declaració[n] sobre cada vna. Vn sermon vtilíssimo y de mucha doctrina para saberse exercitar en la memoria de la muerte. Con otros tractados vtilíssimos, cuyo título vera
el lector ala buelta dela hoja; pero, además de lo que rezaba en el
frontis, contenía «todo en verso» otra antología, en este caso poética,
que aunque no relacionada textualmente con la edición lionesa, sí
mostraba la misma estructura de miscelánea piadosa: Espejo interior
del conocimiento de Dios y de sí mesmo, sobre un verso del seráfico
P. S. Francisco.- Un himno de Pedro Damiano traduzido en octava
rima.- Un tractado de los beneficios que el hombre ha recebido de Dios,
sobre un verso que está en un tractado del P. Francisco de Borja,
duque que era de Gandía de la Compañía de Jesus.- Octavas rimas
del sacratíssimo Nacimiento sobre un verso intercalar. Con otros
metros y sonetos devotos y provechosos.11
Libro (y no desde luego obra) en su origen, por lo tanto, múltiple y
en relación con otras muchas recopilaciones de la Europa de la Reforma que tanto debe a la influencia de la imprenta y a su difusión
por todos los países12. De la edición lionesa interesaron inmediatamente los bellísimos grabados, es decir la parte iconográfica del florilegio, desgajándose sin tardanza de las piezas morales que los acompañaban. De este modo, la serie de los mismos que formaban una Danza de la Muerte fue tomada como modelo del género a lo largo y lo
11
Copiamos lo que de ella indica P. SALVÁ Y MALLÉN: «[...] la cual describiré por
ser rara» en el Catálogo de la Biblioteca de Salvá, Valencia, Impr. de Ferrer de Orga,
1872 (= Barcelona, Porter, 1963), 1, p. 426, que termina con esta colación y con un juicio que no hace sino confirmar algunas de nuestras sospechas: «Muchas y graciosas
laminillas grabadas en madera. Sin foliación, signs. A-N todas de 8 hojas ménos la
última con solas 4. [...] Es obra de bastante mérito literario. Las láminas de origen germánico y otras circunstancias de la impresión, me hacen sospechar sí será esta alemana á pesar de sonar como de Alcalá»; valga recordar que él mismo con anterioridad
copia los datos de impresión: «En Alcalá. En casa de Ioan de Brocar, 1557. 8°», y
por ellos J. MARTÍN ABAD, La imprenta en Alcalá de Henares (1502-1600), Madrid,
ARCO/LIBROS, 1991, II, p. 667, ubica la impresión en su lugar correspondiente.
Nadie ha vuelvo a ver el libro desde entonces y todas las citas salen de las palabras de
Salvá.
12
Vid. el colectivo editado por J.-F. GILMONT, Palaestra Typographica. Aspects
de la production du livre humaniste et religieux au XVIe siècle, Aubel, P.-M. Gason,
1984 o el ya citado de EISENSTEIN, La revolución, cit., pp. 143-176; no obstante, en lo
que afecta a Holbein y, especialmente, a Lyon, puede consultarse N.Z. DAVIS, «Holbein's Pictures of Death and the Reformation at Lyon», Studies in the Renaissance,
III (1956), pp. 97-130 y F. ENKKEHART, Holbein-Schmid-Studien. Ein Beitrag zur
Geschichte der Renaissance und der Reformation am Oberrhein und Bodensee, Tübingen, Schriften zur Kirchen und Rechtsgeschichte, 1965.
H. Holbein, Danzas de la Muerte y primeros libros de emblemas
19
ancho de todas las épocas posteriores; baste citar una obra temáticamente relacionada con la edición lionesa, el Simulachri, histoire e figure de la morte. La medicina del'anima. Il modo e la via di consolar gl’infermi. Un sermone di San Cipriano, de la mortaità. Due oracioni, l'una à Dio, e l'altra a Christo. Un sermone di D. Giovan Chrisostomo, che si essorta à patienzia. Aiuntovi de novo molte figure mai
più stampate, publicado igualmente en Lyon, por Jehan Frellon, en
1549, que vuelve a integrar los grabados de Holbein en otra antología
de la meditatio mortis. Los textos se traducen y se editan enseguida al
latín por Gustav Oemel en 1542 y al alemán por Kaspar Schey en 1557,
pero serán los grabados los que llamarán la atención de multitud de
artistas, que reinterpretarán su diseño original en una extensa gama
de variaciones; de esta veintena de autores merece la pena destacar a
Josse de Negker (Ausburg, J. Deneker, 1554; 1561, 1581), Ederhardt
Kiesser (Frankfurt, K. Kupfferstechem, 1623; 1648), especialmente a
Wenceslaus Hollar (París, N. Pittau, 1651; 1790, 1794), Salomon van
Rusting (Nürnberg, s.i., 1707; 1726, 1733, 1741), y más tardíamente ya
en el siglo XIX, Utteweiel am Bodensee, Johan R. Schellenberg, etc. Por
el otro costado de la transmisión, determinadas escenas desgajadas de
la serie original, inundarán, como ilustración concreta, una serie de
obras vinculadas temática y formalmente con el modelo original; caso,
por ejemplo, de los Discorsi morali contra il dispiacer del morire, detto Athanatophilia de Fabio Glisentti (Florencia, G. Baleni, 1596); la anónima Tromba sonora per richiamai i morti viventi dalla tomba della
colpa alla vita della gratia (Venecia, s.i., 1597) o el famosísimo Theatrum mortis humanae tripartitum de Johan Weichard Valvasor (Saltzburg, J.B. Mayr, 1682), entre otros.
Sumemos, para terminar esta mención de Hans Holbein en sus incursiones por género de las Danzas, las capitulares que constituyen el
Alfabeto de la Muerte que dibujó probablemente en las mismas fechas
que la otra obra y que a modo de una Danza de la Muerte en miniatura
aparece por primera vez en las Vitae de Plutarco impresas por Bebel en
Basilea en 1531, pero también en los Contrafayt Kreüterbuch de Otto
Brunfels en la edición de Schotten de Strasburgo, c. 1534 y en el Alchoran de Dionisio de Leeuwis del mismo impresor de Strasburgo13 en 1540.
13
Vid., aunque otros también lo han tratado (Douce, etc.), la preciosísima edición de A.C. de MONTAIGLON, L'alphabet de la mort de Hans Holbein, entoure de
bordures du XVIe siècle et suivi d'anciens poèmes français sur le sujet des trois morts
et des trois vis, París, F. Didot, 1856.
20
Víctor Infantes
Este tipo de iniciales “parlanti”14 llegarán también a España de la mano
del calígrafo Juan de Ycíar en una segunda parte de su Arte suvbtilíssima por la qual se enseña a escrevir perfectamente, titulada Libro en
el qual hay muchas suertes de letras historiadas con figuras del Viejo
Testamento y la declaración dellas en coplas y también un abecedario
con figuras de la Muerte impresas ambas en Zaragoza en 1555.15
Hasta aquí no hemos hecho más que resumir (apresuradamente)
nada que no sea la descripción de uno de los bestseller de la primera
mitad del siglo XVI, con cerca de 40 ediciones (1542, 1545, 1547, 1549,
1561, 1562, 1572, etc.) repartidas por todo el continente (Lyon, Venecia,
Augsburg, Leipzig, etc.); y que significó la transmisión de un género medieval de amplia fortuna en la Europa del momento. Caben pocas dudas acerca de que Hans Holbein crea una interpretación plástica de las
Danzas de la Muerte, interesado en la representación visual de los motivos macabros del género, tal y como desde el siglo XIII venía sucediendo en los orígenes del mismo; otros intereses y otras (posibles)
relaciones son las que posteriormente sumaron unos textos poéticos y
unos encabezamientos a las primitivas imágenes de la Muerte. A nadie
puede escapar el recuerdo de la fecha de la aparición de Les simulachres, 1538, muy cercana a la génesis y difusión del Emblematum Libellus de Alciato, cuya princeps aparece en Augsburg16, por Heinrich
Steyner, en 1531; quizá valga la pena detenerse en estos asuntos, para
14
Así las denomina, acertadamente, F. PETRUCCI NARDELLI, La lettera e l'immagine.
Le iniziali 'parlanti' nella tipografia italiana (secc. XVI-XVIII), Florencia, Leo S. Olschki,
1991; tiempo ha que vamos (laboriosamente) recogiendo muestras similares en nuestra edición hispana, con la intención de completar un estudio similar al que citamos,
pero los testimonios nuestros no poseen la riqueza de los italianos, una primera entrega
ha aparecido en «Letras con historia. Apuntes sobre las capitulares figuradas en la cultura tipográfica del Renacimiento español (I)», Pliegos de Bibliofilia, 3 (1998), pp. 35-55.
15
El Arte, con el rótulo en la princeps de Recopilación suvbtilíssima intitulada
Ortographía práctica, tiene 8 ediciones desde 1548, en Zaragoza, por Bartolomé de
Nágera, y se puede ver el facsímile con “Introducción” de J. GARCÍA MORALES,
Madrid, Ministerio de Educación y Ciencia, etc., 1973, hasta 1596, pero sólo en la de
1555 se añade, de forma independiente, este Libro con 28 grabados, que no volverá
a editarse más; en nuestro estudio Las Danzas de la Muerte, cit., hemos localizado
letras sueltas, de éste y de otros alfabetos similares utilizados por algunos impresores (Porralis, Abián, etc), en diferentes obras a lo largo de la segunda mitad del siglo.
(Sobre el autor, véase, D. ALONSO GARCÍA, Joannes de Ycíar, calígrafo durangués del
siglo XVI (1550-1950), Bilbao, Junta de Cultura de Vizcaya, 1953).
16
Hay facsímile de HILDESHEIM, Georg Olms, 1977; pero véase para las características de esta edición, J. KÖHLER, «Warum erschien der “Emblematum liber”
von Andreas Alciat 1531 in Augsburg?», The European Emblem, Leiden, E.J. Brill,
1990, pp. 19-31.
H. Holbein, Danzas de la Muerte y primeros libros de emblemas
21
pensar que la obra de Holbein se inserta, aparte de la tradición plástica (y literaria) de las Danzas de la Muerte, en otra corriente gráfico/
literaria que recorrió en unos decenios toda Europa: los libros de emblemas, y podamos entender mejor los motivos de su constitución
editorial. Y también los de Gilles Corrozet y Hernando de Villarreal,
por supuesto; si no ¿por qué poner texto a una serie de grabados suficientemente significativos y ya adquiridos económicamente para su
utilización comercial?
Este humanista francés (París, 1510-París, 1568), impresor y librero17
de una desbordante actividad en los años que nos ocupan, es autor de
L'Hecatomgrahie, aparecida en París, por Denys Janot, en 1541, tercer
libro de emblemas considerado como tal, tras el de Andrea Alciato y
Le Théatre des bons engins de Guillaume de La Perriére, aparecido en
1539, en París, por el mismo Janot18. Es autor de una traducción de las
Fabulae de Esopo, que acompañada de 100 grabados de Bernard Salmeron, se publicó por Jacques Moderne en Lyon, en 154819; amén de
otras traducciones de autores clásicos (Ausonio, Cebetis Tabula) o más
recientes, como Marcello Ficino; fue, por demás, el editor de Alciato
en latín y francés, que desde las ediciones parisinas de Chrestien
Wechel, aparecen en la larga serie lionesa a partir de 154420. Tampoco
podemos olvidar al antes mencionado, Hernando de Villarreal, que
aparte de trasladar Les simulachres, es el primer traductor (parcial) de
Andrea Alciato, con su Emblema o escriptura de la justicia, aparecido
en Salamanca, en 154621, tres años antes que la completa de Bernardino
17
Vid., para referencias generales que recogen y seleccionan las más importantes, L'Europe des humanistes (XIVe-XVIIe siècles), Turnhot, CNRS/Brepols, 1995, p. 132.
18
Vid. el (suficiente) panorama bibliográfico que recoge J. LANDWEHR, French,
Italian, Spanish, and Portuguese Books of Devices and Emblems 1534-1827, Utrecht,
Haentjens Dekker & Gumbert, 1976.
19
Traída aquí como dato, merecería la pena atender con más decisión las posibles
interferencias con la emblemática, que ahora se me escapan hasta dónde y bajo qué
presupuestos, de la multitud de ediciones de la obra de Esopo que inundan el panorama cultural europeo en las mismas fechas de los libros de emblemas; a todos nos
viene a la memoria que las fabulae llevan unos grabaditos que se asocian indeleblemente con el contenido, con un motto y una explanatio, y que no fue así en sus inicios, sino a partir de un momento concreto que habría que delimitar por su (sospechosa) semejanza editorial con los emblemas. Quede la promesa de una investigación, ya
emprendida.
20
Vid., de nuevo y por comodidad, LANDWEHR, French, cit., pp. 28-35.
21
De esta iniciática transmisión de Alciato en nuestra cultura, precisamente en la
Salamanca áurea, me ocupé, localizando el único ejemplar, que ahora puede verse descrito en L. RUIZ FIDALGO, La imprenta en Salamanca (1501-1600), Madrid, ARCO/
LIBROS, 1994, 1, p. 359, atribuido a Juan de Junta, en V. INFANTES, «La presencia de
22
Víctor Infantes
Daza, Los emblemas de Alciato en rhimas españolas, publicada, precisamente (por dos veces) en Lyon, por Macé Bonhomme, y otra por
Guillaume Roville, en el mismo año de 1549.22
En este contexto, que no queremos alargar y relacionar con algunas otras obras aparecidas y difundidas por parecidas fechas y en
parecidas circunstancias, quizá habría que preguntarse y plantearse
algunas cuestiones relativas a Les simulachres con el fin de intentar
delimitar mejor su razón de ser genérica como obra, pero también
como edición.
La primera de ellas hace relación a su inclusión entre los libros de
emblemas originales, bien es verdad que a pesar de ciertas excepciones —aunque continuamente nos preguntemos qué libro de emblemas
no las tiene—, hasta el punto de pensar si existe de verdad un modelo
recurrente seguro a la hora de codificar las características comunes
de una obra tipo. Pueden argumentarse varias: el lemma es bíblico, el
epigrama no es latino, tienen una temática común y gráficamente no
existe una (marcada) delimitación espacial de la cartela (Fig.3 y 4); nada
especialmente significativo que no podamos encontrar en otros libros
anteriores o posteriores.
La segunda cuestión nos ayuda a entender mejor la convergencia de
una dimensión gráfica impresa que exhibe la interrelación entre los dos
significantes, el de la verba y el de la res (versus Alciato), sobre todo, teniendo presente las distintas intervenciones que sobre la obra original
ejercen el grabador, el autor o los autores de los textos y los editores.
una ausencia. La emblemática sin emblemas», ed. S. López Poza, Literatura emblemática hispánica, La Coruña, Universidad de la Coruña, 1996, pp. 93-109, especialmente, p. 97 y, posteriormente, en V. INFANTES, «La primera traducción de Alciato en
España: Hernando de Villa Real y su Emblema o scriptura de la Justicia (1546)», eds.
R. Zafra y J.J. Azanza, Emblemata Aurea. La emblemática en el arte y la literatura
del Siglo de Oro, Madrid, Akal, 2000, pp. 235-250; añádase, para completar este panorama en sus relaciones europeas, S. SEBASTIÁN LÓPEZ, «Influencia e interferencias
en los orígenes de la Emblemática española», Actas del I Simposio Internacional de
Emblemática, Teruel, Instituto de Estudios Turolenses, 1994, pp. 445-453.
22
Puede consultarse la edición y comentario de S. SEBASTIÁN, Madrid, Akal,
1985, que incluye, además, un «Prólogo» de A. EGIDO, pp. 7-17, y una «Traducción
actualizada de los Emblemas» de P. PEDRAZA y, más reciente, la de R. ZAFRA, Palma de Mallorca, José J. de Olañeta/Universidad de las Islas Baleares, 2003, con “Prólogo” de J. GOROSTIDI MUNGUÍA, pp. 5-10; los problemas de las dos ediciones lo han
tratado los críticos ya citados y K.-L. SELIG, Studies on Alciato in Spain, New York,
Garland, 1990, pp. 11-20, súmense también las palabras de F. R[ODRÍGUEZ] DE LA FLOR,
«Daza Pinciano», en Emblemas. Lecturas de la imagen simbólica, Madrid, Alianza,
1995, pp. 289-291.
H. Holbein, Danzas de la Muerte y primeros libros de emblemas
Fig. 3: Grabado n° 23 (p. 38).
23
Fig. 4: Grabado n° 24 (p. 39).
La tercera permite establecer el proceso de creación de la obra, al
conocer que los dibujos existían hacía más de 10 años y que, por
tanto, al contexto iconográfico se le añade el entramado textual; en este
caso, citas bíblicas y poemas que aportan una nueva alegoría literaria
a la alegoría gráfica ya determinada con antelación. En otras ocasiones
el proceso fue al contrario, pues contando con la existencia de colecciones textuales del tipo literario que se prefiera (en el caso de Alciato
una antologiae previa), se les superpone un programa plástico que
describe el entendimiento de las metáforas literarias.
Una última cuestión nos explica la inclusión de los grabados de
Holbein dentro de un manual formado de textos de diferente consideración retórica (carta, tratado, sermón, etc.), pero hermanados en dos
conceptos comunes: el tema de la muerte, y de hecho una meditación
sobre la misma, junto a la exposición de una dimensión eminentemente gráfica, pues no en vano se insiste en “simulachres”, “historiées
faces”, “tables colorées”, etc. Suponemos que la estructura de la obra, en
24
Víctor Infantes
la forma en que la conocemos ya editada, pero de la que nada sabemos
de su origen desde la existencia de los grabados, está compuesta por
las dos piezas preliminares, tópicas por otro lado en cualquier edición, la serie gráfica de los dibujos de Holbein, claramente concebida como un emblematum liber o al menos fácilmente relacionada con
la codificación de este tipo de obra, y un conjunto de textos posteriores que prolongan el tratamiento alegórico del tema de la muerte
(metáforas emblemáticas, ars moriendi, etc.). En este caso, creemos,
que sobre la existencia de unos dibujos de extraordinaria fuerza plástica que (re)creaban uno de los géneros de más auge en aquellos momentos del contexto cultural europeo, se proyectó una antología unitaria vinculada temáticamente por el tópico de la Muerte y relacionada en un espacio de alegoría gráfica y literaria; aunque esto es sólo
posible en un momento específico en que la emblemática ya existía
como género y que esta contaminación —porque creo que así debemos llamarla— era más que evidente.
Todo ello, que puede explicar la constitución de Les simulachres,
me hace (re)plantear ciertas consideraciones finales en torno a los orígenes del género emblemático y, especialmente, en el sentir de los editores e impresores de este tipo de libros, así como en el conocimiento
del lector de ese instante sobre la verdadera significación (¿retórica?)
de estas obras.
Hoy parece suficientemente demostrado que el origen editorial de
la emblemática, e insisto en esta apreciación —pues no en vano estamos ante unas obras que muy probablemente nacieron por la existencia misma de la imprenta—, pudo ser producto de una decisión
casual de ciertos impresores y editores: Chrestien Wechel, Jehan Janot,
Jacques Moderne, etc. que concibieron una propuesta editorial novedosa a partir del éxito fulminante de la primera edición de Alciato de
1531. Edición que no podemos olvidar, estaba compuesta de un florilegio poético, basado en su origen en la Selecta epigrammata graeca
—que Alciato ya había traducido del griego al latín en 1529— pero a
la que añadió hasta 105 composiciones de su pluma y a los que el impresor Steiner añade la representación gráfica imaginada por Breuil;
los nuevos epigramas de clara vocación ejemplar, encabezados por una
breve sentencia, fueron ilustrados por decisión del editor, dando origen
de esta forma (que creemos, sin duda, fortuita) a un nuevo género que
tuvo un éxito inmediato arrollador. En este breve espacio de tiempo,
1531-1538, en que aparecen algunas de las obras claves de la emblemática europea que marcarán el rumbo de otras muchas obras vincu-
H. Holbein, Danzas de la Muerte y primeros libros de emblemas
25
ladas (editorialmente) con ellas, no creo que fuera muy diferente para
los editores contar con la existencia de unos textos, que por su posible carácter visual se les añaden los grabados, o poseer unos grabados,
a los que agregan un entramado textual posterior como ilustración literaria. Me agrada pensar que estamos tratando de ediciones conceptuadas desde la óptica de un impresor y no (tanto) de obras imaginadas por los designios de los autores. Por ello, y desde una perspectiva
fundamentalmente editorial, la constitución de la mayoría de los primeros libros de emblemas responden a la necesidad de unir (y de
relacionar) los elementos textuales con los plásticos, para ofrecer a los
compradores la posibilidad de ejercer una doble lectura, literaria e
icónica, del contenido de las obras, aparte del valor puramente económico y comercial de una edición ilustrada.
¿Sentiría una diferencia muy apreciable el lector/comprador de los
libros (no de las obras) de este decenio de los años treinta entre títulos como Les simulachres (Los simulacros), L'Hecatomgraphie (La descripción) y Le Theatre des bons engins (El teatro de los buenos ingenios), presentados todos ellos editorialmente con una uniformidad gráfica y literaria similar? De hecho: ¿qué eran estos libros para aquellos
lectores renacentistas?, ¿distinguían (retóricamente) un libro de emblemas, con el mote, el grabado y el poema, de un libro con un lema,
una ilustración y un texto alusivo?23
Nosotros, críticamente, los tratamos al amparo de los libros de emblemas, porque reflejan unas características (más o menos) comunes
que nos facilitan su estudio, su clasificación y su entendimiento comparativo, pero quiero suponer que si esto es así —y para el lector de
entonces también lo era—, debemos incluir Les simulachres, no como
obra de Hans Holbein. sino como libro de “les fréres Trechel”, en la
misma lista emblemática en la que no han estado nunca; pensando
además que se reimprimieron mucho más que otros libros que nunca
volvieron a editarse. Probablemente no pasarían la codificación de
Paulo Govio24, ya tardía para nuestras fechas (por cierto), pero como
existen tantas excepciones como normas, no sé dónde situar Les simulachres, si entre las primeras o entre las segundas.
23
En un futuro trabajo abordaremos las “prácticas” de la lectura de estos libros,
asunto no tan elemental como a primera vista parece; tiempo habrá de atender algo
que requiere una cierta reflexión y tiempo.
24
Vid. el comentario al respecto que ofrece A. SÁNCHEZ PÉREZ, La literatura emblemática española (siglos XVIy XVII), Madrid, SGEL, 1977, pp. 19-27.
27
LE
INVENCIONES DELLA C UESTIÓN DE AMOR
E L ' ECLISSI DELL ' AMOR CORTESE .
Ines Ravasini
Università di Bari
Arte de la miniatura, con questa felice definizione Keith Whinnom
sintetizzava le caratteristiche di ciò che a suo parere costituiva «lo
mejor de la poesía cancioneril», alludendo non solo alla brevità di molti generi lirici, come canciones ed esparsas, ma anche alla concentrazione retorica peculiare del concettismo quattrocentesco1. Brevità e
concentrazione che, come ha ripetutamente sottolineato la critica2, si
condensano magnificamente nel genere dei motes, nelle invenciones e
letras esibite in occasione di tornei e feste di società, “incarnazioni”
per eccellenza della brevità concettista:
Podemos decir que si hay un género que pudiéramos definir como ‘típicamente cancioneril’, en el que se encarnasen las cualidades de la
poesía amatoria de los cancioneros, éste sería la letra o invención. […]
En ellas se sintetizan, por una parte, los conceptos con que se define la
poesía cancioneril: vocabulario reducido, conceptismo, dobles sentidos,
ingenio. Por otra, encontramos de modo sintético los recursos retóricos
preferidos de nuestros poetas del XV, entre ellos el simbolismo.3
Il presente articolo si iscrive nell'ambito del progetto di ricerca del Ministerio
de Educación y Ciencia HUM2006–11031–C03– 01 FILO, intitolato Lírica y cancioneros. Lírica ibérica: la encrucijada de Europa, diretto da Vicente Beltrán.
1
K. WHINNOM, La poesía amatoria de la época de los Reyes Católicos, Durham, University of Durham, 1981, pp. 50-51.
2
Molti studi tra quelli dedicati negli ultimi anni a motes e invenciones insistono
su tali peculiarità. Oltre a WHINNOM, cit., pp. 47-62, cfr. almeno J. BATTESTI PELEGRIN, «Court ou bref», in Les Formes brèves. Actes du Colloque International de La
Baume-les-Aix, 26-27-28 novembre 1982, Aix-en-Provence, Université de Provence,
1984, pp. 98-122; J. CASAS RIGALL, Agudeza y retórica en la poesía amorosa de cancionero, Santiago de Compostela, Universidade de Santiago de Compostela, 1995; I.
MACPHERSON, The Invenciones y letras of the Cancionero General, London, Department of Hispanic Studies-Queen Mary and Westfield College, 1998; A. DEYERMOND, «La micropoética de las invenciones», in Iberia cantat. Estudios sobre poesía
hispánica medieval, ed. de J. Casas Rigall-E.M. Díaz Martínez, Santiago de Compostela, Universidade de Santiago de Compostela, 2002, pp. 403-424.
3
M. MORENO, «El dulce placer de significar agudamente lo que se quiere decir:
Sobre una invención en LB1», Bulletin of Hispanic Studies, 78 (2001), p. 469. Sul
28
Ines Ravasini
Combinazione di immagine e testo (divisa e letra, o secondo la terminologia metaforica propria dell'emblematica cuerpo e alma), la invención è una sfida all'intelligenza: un testo breve (da uno a cinque
versi), criptico nella sua stringata allusività, che si associava ad una
figura posta ad ornamento dell'elmo del cavaliere, ricamata sui suoi
abiti o sulla gualdrappa del destriero, o ancora incisa in un gioiello;
tale binomio dava vita ad un insieme indissolubile in cui il testo serviva a chiarire il significato della rappresentazione figurativa e questa era necessaria per decifrare l'oscurità dei versi4. Da questa intima
relazione si produce il senso dell'invención che è sempre il risultato
di uno sforzo interpretativo, di un atto dell'ingegno. Poesia per la mente, dunque, ma anche poesia per gli occhi e per l'udito: in questo genere ibrido, sospeso tra immagine e parola, l'elemento visivo si coniuga
infatti con il ritmo e la musicalità dei versi.5
Le raccolte di invenciones trasmesse dai canzonieri peninsulari hanno attirato l'attenzione degli studiosi e molto è stato detto su queste antologie di letras assemblate, più o meno coerentemente, all'interno di
sillogi più ampie come nel caso del Cancionero General, di Hernando
del Castillo6, del Cancionero de Londres7 o, ancora, del Cancioneiro
Geral de Resende8. Né sono mancati studi dedicati a delucidare le missimbolismo nelle letras, v. WHINNOM, cit., pp. 51-54; CASAS RIGALL, cit., pp. 104114; DEYERMOND, La micropoética, cit., pp. 413-417.
4
Sulle molteplici accezioni del termine invención nel XV e XVI sec., cfr. F. RICO,
«Unas coplas de Jorge Manrique y las fiestas de Valladolid en 1428» (1965), in ID.,
Textos y contextos. Estudios sobre la poesía española del siglo XV, Barcelona, Crítica,
1990, p. 183, n. 21; un'esaustiva descrizione delle caratteristiche di divisas e letras,
si può leggere anche in MACPHERSON, The ‘Invenciones’, cit., pp. 11-15.
5
Sulle modalità di esposizione della letras nel corso dei tornei e della loro circolazione tra il pubblico, si veda la ricostruzione offerta da F. RICO, «Un penacho de
penas. De algunas invenciones y letras de caballeros» (1966), in ID., Textos, cit. pp.
190-192, in particolare n. 7; un'accurata descrizione dello svolgimento dei tornei è
offerta anche da MACPHERSON, The Invenciones, cit., pp 7-11. Un'ipotesi interessante è quella della «natura parateatrale delle invenciones» proposta da C. DE NIGRIS,
«Giochi verbali e nomi di donna nelle invenciones», in I Canzonieri di Lucrezia.
Los Cancioneros de Lucrecia, Atti del convegno internazionale sulle raccolte poetiche iberiche dei secoli XV-XVII (Ferrara, 7-9 ottobre 2002), a cura di A. Baldissera e G.
Mazzocchi, Padova, Unipress, 2005, pp. 286-287; la studiosa ipotizza che le letras,
oltre ad essere esposte durante il torneo, potessero essere recitate nel corso dei
festeggiamenti, specialmente quelli serali caratterizzati da un alto tasso di teatralità.
6
MACPHERSON, «The Invenciones», cit.
7
J. GORNALL, The Invenciones of the British Library Cancionero, London, Department of Hispanic Studies-Queen Mary and Westfield College, 2003.
8
Sulla sezione di motes del Cancionero de Londres e i suoi rapporti con il Cancioneiro Geral, cfr. J. GORNALL, «Invenciones and their authors at Zaragoza», La
Le invenciones della Cuestión de amor
29
teriose letras esibite da un singolo personaggio, decifrabili solo alla
luce della biografia del loro autore o dei circoli nobiliari in cui questi
si muoveva9; così come mi paiono stimolanti le osservazioni scaturite
dall'analisi ravvicinata di nuclei di invenciones create appositamente
per una specifica occasione o che ruotano attorno ad una medesima
immagine10. Da questa, oramai abbastanza nutrita, schiera di saggi
emerge la necessità, ribadita da tutti gli studiosi, di collocare l'invención nel contesto storico e sociale in cui viene sfoggiata: trattandosi
per lo più di testi composti ed ostentati da nobili cortigiani, appartenenti non di rado ad illustri famiglie, nella maggior parte dei casi non
potremmo sciogliere le criptiche allusioni delle letras se non fossimo
a conoscenza dei trascorsi biografici dell'autore e delle vicende storiche e politiche legate al suo milieu familiare. Il secondo aspetto che
connota gli studi sulle invenciones è quello teso ad individuare i meccanismi della agudeza connessi a questo specifico genere: l'analisi
puntuale dei testi ha messo in luce le tipologie dei giochi verbali, le
varie modalità di traductio messe in atto, il calembour a base di polisemie, omofonie e paronomasie, la creazione di veri e propri rebus e
sciarade, le arguzie costruite attorno ai nomi femminili e poi, ovviamente, il simbolismo innanzi tutto dei colori, ma anche quello desunto
da bestiari, erbari e lapidari, da aspetti della vita militare e cavalleresca, dall'universo cristiano…11 Rispetto a tale panorama critico, un
corónica, 28 (2000), pp. 91-100 e P. BOTTA, «Las fiestas de Zaragoza y las relaciones
entre LB1 y 16 RE», Incipit, 22 (2002), pp. 13-31.
9
Penso, ad esempio, all'attenzione dedicata alle invenciones di Diego López de
Haro, cfr. M.L. CUESTA TORRE, «Las invenciones de don Diego López de Haro», in
Proceedings of the Tenth Colloquium, ed. A. Deyermond, London, Department of
Hispanic Studies-Queen Mary and Westfield College, 2000, pp. 65-84 e K. KENNEDY, «Inventing the Wheel: Diego López de Haro and his invenciones», Bulletin
of Hispanic Studies, 79 (2002), pp. 159-174.
10
Rimane esemplare il saggio di RICO, Un penacho, cit., ma si veda anche MORENO, cit., che studia una serie di testi incentrati sull'immagine del gioco degli scacchi. Per quanto riguarda le invenciones che ruotano attorno ad una specifica circostanza storica, cfr. I. MACPHERSON, «Text, Context and Subtext: Five invenciones of
the Cancionero General and the Ponferrada Affair of 1485», in The Medieval Mind.
Hispanic Studies in Honour of Alan Deyermond, ed. by I. Macpherson and R. Penny,
London, Tamesis, 1997, pp. 259-274 e i saggi citati alla n. 8.
11
Impossibile dar conto di tutti i singoli contributi in questo senso. Mi limiterò
a ricordare che gli studi ‘pioneristici’ di RICO, Un penacho, cit., e WHINNOM, cit.,
pp. 47-57 contenevano già molti suggerimenti in questa direzione e, del resto, quasi
tutti gli studi finora citati si misurano con l'aspetto retorico e simbolico. Sono comunque molto utili per la loro impostazione sistematica CASAS RIGALL, cit., pp. 95114 e DE NIGRIS, cit.
30
Ines Ravasini
apporto stimolante è stato offerto alcuni anni fa da Alan Deyermond,
il quale affrontava lo studio delle invenciones da una prospettiva lievemente diversa. Lo studioso dedicava, infatti, un saggio a una sequenza di motes accomunati non da una circostanza storica, bensì dal
loro inserimento in un testo narrativo, la Cárcel de Amor di Nicolás
Núñez, continuazione della più celebre e omonima opera di Diego de
San Pedro. Come versi intercalati in una novela sentimental, questi
testi si svincolano dall' occasione reale ed entrano nell'universo della
finzione letteraria assumendo una funzione distinta e persino tratti stilistici differenti rispetto alle letras de invención create per giostre e
tornei; essi possono illuminare i contenuti della novela ed intrecciare
relazioni di significato con gli accadimenti narrati, devono essere letti
in rapporto al tessuto narrativo in cui si innestano senza tuttavia dimenticare la loro stretta relazione con la tradizione lirica coeva.
In questa prospettiva, sulla scia delle suggestioni evocate dallo studioso inglese, un testo di particolare interesse è senza dubbio la anonima Cuestión de amor, pubblicata a Valencia nel 1513 per i tipi di Diego Gumiel, una novela sentimental a metà strada tra la finzione e la cronaca che godette di una straordinaria fortuna nel corso del XVI secolo,
con numerose edizioni in Spagna e in Europa12. Ambientata a Napoli,
tra il 1508 e il 1512, si presenta — ad una prima lettura superficiale —
come un quadro di costume, fedele trascrizione della lussuosa e frivola vita mondana alla corte delle due tristi regine, Giovanna d'Aragona,
vedova di Ferrante (morto nel 1494) e sorella di Fernando il Cattolico,
e sua figlia Giovanna, vedova di Ferrandino (morto nel 1496). L'anonimo autore, che si presenta come testimone dei fatti narrati («vn gӁtil
hõbre que se hallo en todo» p. 42)13, addensa nelle pagine del romanzo
«vna caça: vn juego de cañas: vna egloga: ciertas justas: y muchos caualleros y damas con diuersos y muy ricos atauios: cõ letras y inuӁcio12
Il quadro più aggiornato delle edizioni antiche è quello offerto da R.C. GON«Notas sobre la difusión y la composición de la Qüestión de amor», in
Nunca fue pena mayor. Estudios de Literatura Española en homenaje a Brian Dutton,
ed. de A. Menéndez Collera-V. Roncero López, Cuenca, Universidad de Castilla-La
Mancha, 1996, p. 307, n. 13.
13
Tutte le citazioni sono tratte da Question de amor, ed. de C. Perugini, Salamanca, Universidad de Salamanca, 1995, edizione diplomatica del testo della princeps che si affianca a quella di M. Menéndez y Pelayo, pubblicata a suo tempo nel
tomo II delle Orígenes de la novela, Madrid, Bailly-Ballière, 1907, pp. 41-98. La
stesura di questo articolo era già ultimata quando sono venuta a conoscenza della
recentissima edizione curata da F. Vigier, cfr. Cuestión de amor, Paris, Presses de la
Sorbonne Nouvelle, 2006, che non mi è stato purtroppo possibile consultare.
ZALO GARCÍA,
Le invenciones della Cuestión de amor
31
nes» (p. 41). In questo turbine di feste, rappresentazioni teatrali, esercizi di caccia, giostre e tornei, i personaggi (che rimandano a personaggi storici della corte) sfilano dinanzi ai nostri occhi nei loro abiti
sontuosi, riccamente ornati, rinnovati ad ogni occasione festiva e
minuziosamente descritti nel dettaglio dei tessuti, dei colori e della
foggia. In questa pittura dei vestiti e dei travestimenti (non mancano
infatti anche momerías e feste in costume) spiccano le letras e divisas
ricamate sulle stoffe o dipinte sulle armi e la Cuestión de amor ci trasmette un corpus ricchissimo di invenciones. La celebrazione del fasto
cortigiano si intreccia con le avventure amorose dei due protagonisti,
Flamiano e Vasquirán e con il loro alterno ragionare sull' amore: la
struttura di base del testo è infatti, come dichiara il titolo, una cuestión cioè un dibattito sull'amore a modo di tenzone, sul modello dei
jeux-partis medievali, delle preguntas y respuestas dei canzonieri spagnoli e, soprattutto, delle «questioni d'amore» del Filocolo14. I due protagonisti dibattono su quale sia la sorte peggiore, quella di Flamiano
che ama Belisena senza essere riamato o quella di Vasquirán che,
dopo un amore corrisposto, ha visto spezzata la propria felicità a causa
della morte dell'amata Violina:
Entre el qual flamiano y otro que enla obra vasquiran se nõbra se
mueuevna cõtienda o quistion a manera de dialogo en demanda y repuesta [sic]: qual dellos dos con mas razõ dela fortuna como mas
lastimado o mas apassionado se deue quexar. Flamiano denamorada
passiõ sin remedio ni esperança en biuas llamas viendo se arder / o
vasquiran seyendo le muerta su amiga que era la cosa que enel mundo mas amaua. La qual estando en su poder la cruel muerte della de
toda esperança desesperado le dexo. Sobre lo qual con divuersas
[sic] letras y embaxadas largos dias contienden y al fin hallãdo se
juntos prosiguiendo la question sin dar le fin pendiente la dexan /
porque los que leyeren / sin leer tengan si querran ocasion y maneraen que altercar y cõtender puedan (p. 43).
La questione resta dunque sospesa e sarà compito del lettore, se lo
desidera, continuare la disputa e giungere ad una conclusione, concedendo la vittoria a uno dei due innamorati.
Un testo, come si può notare già da questa sommaria sintesi, dalla
struttura composita: per un verso, le letras che scandiscono la vita
14
Sulla questione delle fonti e della tradizione dei debates medievali, cfr. A. CHAS
AGUIÓN, «Qüestión de amor y la tradición medieval de las cuestiones de amor», in La
ficción sentimental: hablar de amor, n. monogr. di Ínsula, 651 (2001), pp. 20-22.
32
Ines Ravasini
mondana si affianacano a villancicos, canciones e coplas in cui i due
amanti disperati lamentano le proprie pene e, per l'altro, lo stesso debate attorno al quale si struttura il testo assume forme variegate, procedendo prima per scambio epistolare e poi nel dialogo diretto fra i
protagonisti. Inoltre, questa complessa novela ingloba al suo interno
anche testi più ampi, aprendosi al teatro e alla poesia allegorica: vi
possiamo infatti leggere un'egloga pastorale attribuita allo stesso Flamiano e una visión opera di Vasquirán in cui, secondo il modello
delle visioni allegoriche, si esprime la nostalgia per la donna amata e
il desiderio di morire per potersi ricongiungere a lei. Ma le vicende
personali dei due protagonisti si intersecano anche con le vicende
della Storia e la cronaca di palazzo cede il passo alla Cronaca dei
grandi eventi che sconvolsero l'Italia dei primi del Cinquecento15. Il
romanzo si conclude infatti con il terribile affresco della battaglia di
Ravenna, in cui l'esercito spagnolo, al fianco della Lega Santa, fu sopraffatto dal nemico francese. La tragedia irrompe con tutta la sua
violenza tra i nobili cavalieri, Flamiano muore e con lui molti altri
esponenti di quel mondo cortese. Se il romanzo appariva ad una prima lettura come un gioco destinato a una cerchia ristretta di complici
lettori “informati dei fatti”, un passatempo di palazzo in cui ci si autorappresenta dietro nomi fittizi offrendo numerosi indizi per poter
identificare personaggi, luoghi ed avvenimenti, non v'è dubbio che il
tragico finale rivela significati più inquietanti e sembra avanzare
delle riserve nei confronti di quella società, del suo stile di vita, persino dei valori cortesi che incarna.16
Come è noto, sin dalla fine del XIX secolo, la Cuestión de amor attrasse l'attenzione degli studiosi per la sua natura di roman à clef tanto
che l'aspetto storico, quasi documentale, del testo e la presenza di personalità di rilievo della corte napoletana dell'epoca, “occultate” dietro a nomi fittizi, costituirono il fulcro dell'interesse per la critica
tanto italiana, come spagnola; in particolare Benedetto Croce identi15
GONZALO GARCÍA, cit., pp. 316-319 prende in esame la possibilità che il testo
sia il risultato di distinte redazioni, di cui l'ultima – quella a noi nota – incorpora
materiali storici, slittando dal genere della novela sentimental verso quello, per certi
versi antitetico, delle relaciones de sucesos.
16
È questa, in estrema sintesi, la lettura proposta da G.P. ANDRACHUK, «The
Questión de amor and the Failure of Courtly Love», Revista Canadiense de Estudios
Hispánicos, 4 (1980), pp. 271-280 e ID., «The confrontation between reality and
fiction in Qüestión de amor», in Studies on the Spanish Sentimental Romance
(1440-1550). Redefining a Genre, ed. by J.J. Gwara and M. Gerli, London, Tamesis,
1997, pp. 55-72.
Le invenciones della Cuestión de amor
33
ficò quasi tutti i personaggi storici che si affacciano fra le pagine del
romanzo17, tra i quali Bona Sforza, futura regina di Polonia e duchessa
di Bari, Vittoria Colonna, il viceré Ramón de Cardona, il cardinale
Luis de Borja, per ricordare solo i più celebri. Le ipotesi avanzate da
Croce sono state accettate dalla maggior parte degli studiosi spagnoli,
tranne per quanto riguarda la controversa identità del protagonista
Vasquirán; questione non secondaria che si estende a quella della paternità dell'opera, dal momento che dietro tale personaggio sembra
celarsi la voce dell'anonimo autore della Cuestión.18
Del rinnovato interesse critico che ha investito la novela sentimental negli ultimi decenni, si è giovata anche la Cuestión de amor
che, a partire dagli anni Novanta, è stata oggetto di studi incentrati
sulla peculiare architettura narrativa e sul significato del romanzo, non
più ritenuto, come in passato, un testo dalla trama debole e sfilacciata,
17
B. CROCE, «Napoli dal 1508 al 1512 (da un antico romanzo spagnuolo)», Archivio Storico per le Province Napoletane, 19 (1894), pp. 140-163. Dello stesso
autore v. anche «La corte delle tristi regine a Napoli», ivi, pp. 354-375; entrambi i
saggi furono rielaborati nel cap. VII (La società galante italo-spagnuola nei primi
anni del Cinquecento) de La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, Laterza, Bari 1917.
18
Come è noto, lo studioso italiano propose di identificare l'anonimo con Juan
Vázquez, autore del Dechado de amor pubblicato nella seconda edizione del Cancionero General (1514), un testo poetico che presenta non pochi punti di contatto con
il romanzo; l'ipotesi fu raccolta e condivisa da Menéndez y Pelayo, il quale suggerì la
possibilità che Juan Vázquez potesse essere Juan Vázquez de Ávila, autore di un noto
cancionerillo gotico, cfr. M. MENÉNDEZ Y PELAYO, Orígenes de la novela (1905), ed.
de E. Sánchez Reyes, Madrid, CSIC, 19622, vol. II, p. 54. Più di recente, l'ipotesi di
Croce è stata cautamente ribadita anche da J. OLEZA, «La corte, el amor, el teatro y la
guerra», Edad de Oro, 5 (1986), p. 155 e da E.M. GERLI, «Metafiction in Spanish
Sentimental Romances», in The Age of the Catholic Monarchs, 1474-1516. Literary
Studies in memory of Keith Whinnom, ed. by A. Deyermond-I. Macpherson, Liverpool, Liverpool University Press, 1989, p. 59. Meno convinta appare, invece, Carla
Perugini che ha suggerito una possibile diversa identificazione, sottolineando le analogie tematiche e stilistiche fra i versi della Cuestión e quelli di un altro poeta coevo,
il comendador Escrivà, cfr. C. PERUGINI, «Question de amor. Estudio crítico», in
Question, cit., pp. 16-22. Dal canto suo, Gregory P. Andrachuk, sulla base di una
solida argomentazione imperniata sulla struttura e i contenuti del romanzo, ritiene
invece che Vasquirán possa essere identificato con un membro della potente famiglia
dei Cardona e, in concreto, con Alonso de Cardona, poeta anch'egli ben rappresentato
nel Cancionero General di Hernando del Castillo, cfr. G.P. ANDRACHUK, «Questión de
amor: Clues to Authorship», Bulletin of Hispanic Studies, 71 (1994), pp. 329-338 e
ID., «Questión de amor: More Clues to Authorship», Bulletin of Hispanic Studies, 71
(1994), pp. 423-440. Identificazione, quest’ultima, accettata senza riserve da A. DEYERMOND, «El estudio de la ficción sentimental: balance de los últimos años y vislumbre de los que vienen», in La ficción sentimental, cit., p. 6.
34
Ines Ravasini
scaturito dal “disordinato” affastellamento di microcronache della vita
mondana alla corte di Napoli19. In questi anni recenti, letture più attente e metodologicamente scaltrite hanno di volta in volta messo in luce
nuclei critici problematici come l'evocazione da parte dell'autore di
un lettore ideale contrapposto ad un fruitore più superficiale del testo20,
il ruolo attivo a cui è chiamato il lettore21, la consapevolezza dell'autore
nell'usare raffinate tecniche narrative22, il rapporto tra realtà e finzione23, l'articolata struttura del romanzo con le sue epistole intercalate e
la commistione di prosa e verso24, questione quest'ultima che abbraccia
quella più ampia delle “frontiere” della novela sentimental e della
ascrivibilità della Cuestión a tale genere25. Anche la questione delle
fonti e dei possibili modelli cui attinse l'anonimo autore26, così come
gli studi dedicati all'ambiente culturale della corte napoletana e di
quella dei duchi di Calabria a Valencia (in cui l'opera sicuramente
circolò e dove probabilmente nacque l'esigenza di darla alle stampe)27,
19
Non è il caso di ricordare i molti giudizi negativi sulla disorganica tessitura
della Cuestión. Fra i “detrattori” del romanzo, citerò solo D. CVITANOVIC, La novela sentimental española, Madrid, Prensa Española, 1973, pp. 239-247, che arriva a
considerarlo come un testo in cui si cristallizzano tutti i difetti del genere.
20
ANDRACHUK, «The Questión de amor and the Failure», cit.
21
R. ROHLAND DE LANGBEHN, «El papel del lector en Questión de amor
(1513)», Bulletin of Hispanic Studies, 69 (1992), pp. 335-346.
22
GERLI, cit., pp. 59-60.
23
ANDRACHUK, The confrontation, cit.
24
Sulla presenza di versi intercalati nella Cuestión si veda GONZALO GARCÍA, cit.,
pp. 309-315, che prende in esame la diffusione in canzonieri coevi dei testi lirici e
teatrali contenuti nella Cuestión; cfr. anche F. VIGIER, «Récit porteur et textes intercalés dans Questión de amor», in La constitution du texte: le tout et ses parties, La
Licorne, 46 (1998), pp. 195-206; V. BLAY MANZANERA, «Prosa y verso en la ficción
sentimental del siglo XVI: el caso de Questión de amor (Valencia 1513)», La corónica, 29 (2000), pp. 15-51; F. VIGIER, «Production littéraire à la cour valencienne et
napolitaine des “reines tristes” au début du XVIe siècle», in Écriture, pouvoir et societé
en Espagne aux XVIe et XVIIe siècles. Hommage du CRES à Augustin Redondo, ed. de P.
Civil, Paris, Presses de la Sorbonne Nouvelle, 2001, pp. 365-382, C. PERUGINI, «En
los versos de la Questión de amor», in I Canzonieri di Lucrezia, cit., pp. 341-352. Gli
ultimi due saggi mettono a confronto la Cuestión con la produzione lirica nata in
ambiente italiano-aragonese alla corte delle “tristi regine”, con particolare attenzione al Dechado de amor e alla parodica Visión delectable.
25
La bibliografia sulla questione del genere novela sentimental è oramai molto
ricca, per un aggiornamento recente rimando a DEYERMOND, Estudio, cit., pp. 3-9.
26
Per le fonti, cfr. CHAS AGUIÓN, cit.
27
La relazione tra l'opera e l'ambiente in cui è nata, è oggetto specifico degli studi
di M.F. AYBAR RAMÍREZ, Questión de amor: entre el arte y la propaganda, London,
Department of Hispanic Studies-Queen Mary and Westfield College, 1997; VIGIER,
Production, cit. e F. VIGIER, «Questión de amor (1513) como retrato del cortesano»,
Le invenciones della Cuestión de amor
35
sono stati riaffrontati in un'ottica nuova, distante dal taglio positivista della ricerca storica ed erudita che aveva caratterizzato i più antichi contributi sulla novela.
Alla luce di tali apporti recenti e sulla scia delle sollecitazioni nate
dalla lettura del saggio di Deyermond, ricordato poche pagine addietro, credo che motes e invenciones della Cuestión de amor. possano offrire lo stimolo per alcune, minime, osservazioni sul significato della
loro presenza nel romanzo. Centoventinove letras si susseguono nelle
pagine della Cuestión, nella maggior parte dei casi concentrate attorno
a eventi mondani: sedici invenciones vere e proprie (complete cioè di
una descrizione verbale della divisa oltre che della letra) sono presentate in occasione de «vna partida de justa quatro a quatro a ocho
carreras» (p. 49) in cui si descrivono le due empresas esibite da ciascuno degli otto concorrenti, le prime otto sfoggiate nel corso della
giostra e le altre alla «fiesta concertada para la noche en casa dela
señora duquesa de meliano» (p. 50)28; quarantaquattro letras ornano
gli abiti di dame e cavalieri che partecipano ad una partita di caccia;
sono, invece, descritte puntualmente solo quattro empresas tra quelle
dei molti gentiluomini che prendono parte a un juego de cañas; una
justa real offre, infine, l'occasione per illustrare venticinque invenciones dei «caualleros que ala tela salieron» (p. 153), seguite da altre
ventuno di coloro «que ala fiesta dela noche vinieron inuincionados»
(ibidem). Vi sono, poi, otto letras disseminate nel testo che non rimandano ad occasioni mondane, ma piuttosto alla sfera della vita intima,
in Modelos en la vida de la España del Siglo de Oro, vol. I El noble y el trabajador,
ed. de I. Arellano-M. Vitse, Madrid-Frankfurt am Main, Iberoamericana-Vervuert,
2004, pp. 27-48, che legge la Cuestión anche come “espejo de cortesano”, libro di
comportamento allo stile del Cortegiano di Castiglione. Sulla connessione tra la Cuestión e l'ambiente della corte dei duchi di Calabria a Valenza, cfr. anche OLEZA, cit.,
pp. 155-165, dove si mette bene in luce come la corte valenzana rappresentasse un
luogo idoneo per la fruizione (e quindi la stampa) del romanzo, visto l'alto numero
di nobili catalani ed italiani che, dopo anni di servizio alla corte delle due Giovanne,
erano approdati nella città levantina al seguito del giovane Ferrante, duca di Calabria, ultimo rampollo del ramo napoletano degli Aragona. Infine, sulla fruizione del
testo, cfr. C. PARRILLA, «La ficción sentimental y sus lectores», in De libros y lectores
en la España medieval, n. monogr. de Ínsula, 675 (2003), p. 24.
28
La proposta di due invenciones diverse (e, di conseguenza, di due abbigliamenti) sfoggiate da ogni partecipante, una in occasione del torneo vero e proprio,
l'altra della festa che lo chiude, può spiegare quanto osservato da J. GORNALL, «Invenciones from Tournament to Cancionero: Some Significant Patterns?», Bulletin of
Hispanic Studies, 82 (2005), p. 162, a proposito della frequente apparizione di coppie
di invenciones attribuite a uno stesso cavaliere.
36
Ines Ravasini
come quelle che ornano gli abiti di Flamiano e Vasquirán (nonché dei
suoi servitori) per celebrare il lutto per la morte di Violina (pp. 49, 56
e 57), o quelle degli addobbi sulla tomba della stessa Violina (pp. 58 e
125), o ancora il «título» inciso sulla porta del palazzo di Vasquirán
(p. 126). A queste ultime sono assimilabili le nove letras (a volte accompagnate anche da immagini) che Vasquirán ha fatto dipingere e
scolpire nella sua casa per esprimere il proprio dolore.
Un corpus consistente che per ampiezza può competere con quelli
tramandati dal Cancionero General o dal Cancionero de Londres, e
che offre il vantaggio di un'estrema compattezza dal momento che è
opera di un singolo autore e si ispira ad un ambiente ristretto, un
mondo chiuso su di sé in cui, ad ogni rinnovata occasione di incontro
festivo, vediamo sfilare ciclicamente gli stessi personaggi e non di
rado riproporre, nelle invenciones a loro attribuite, le medesime immagini e parole d'ordine. Un corpus coeso anche a livello lessicale e
nelle modalità di descrizione di abiti e immagini raffigurate nella divisa,29 denso di rimandi intertestuali, che trova proprio in questa insistita reiterazione di nomi, colori, simboli da una invención all'altra,
uno degli strumenti più utili per l'interpretazione delle singole letras.
Nel caso della Cuestión de amor, inoltre, la comprensione delle invenciones è facilitata dalle preziose indagini storiche di Croce e dalle note
al testo dell'edizione di Carla Perugini, che svelano le reali identità dei
personaggi fittizi e forniscono chiarimenti sui luoghi e gli eventi della
Napoli rinascimentale.
Il peso, anche numerico, delle invenciones nel romanzo si spiega, a
mio avviso, con il ruolo determinante che esse vi svolgono. Si è detto
che la Cuestión si presenta come un romanzo a chiave, come esplicita
l'autore sin dall'Argumento y declaración de toda la obra:
29
La presentazione di cavalieri e dame con la descrizione verbale dei loro abiti
e della parte pittorica della divisa si presenta come una sorta di rubrica, analoga a
quelle che introducono le letras nei canzonieri. Come si potrà notare a breve negli
esempi riportati, in queste sezioni di testo è evidente, da parte dell'anonimo autore,
la ricerca di uniformità sia nella struttura sintattica del periodo che nei criteri di
presentazione dei personaggi e del loro seguito, dei vestiti e degli ornamenti; tali
elementi, oltre alla già segnalata unitarietà di stile e lessico, contribuiscono in modo
consistente alla compattezza del corpus. Per una disamina attenta delle invenciones
della Cuestión de amor rimando a F. VIGIER, «Les devises éphémeres dans Questión de amor (1re éd. Valence, 1513)», in Problèmes interculturels en Europe, XVee
XVIII siècles, ed. de E. Baumgartner, A. Fiorato, A. Redondo, Paris, Presses de la
Sorbonne Nouvelle, 1998, pp. 37-49.
Le invenciones della Cuestión de amor
37
El autor enla obra presente [...] muda y finge todos los nõbres delos
caualleros y damas que enla obra se introduzen: y los titulos ciudades y tierras perlados y señores que enella se nõbran / por cierto respecto al tiӁpo en que se escriuio necesario: lo qual haze la obra algo
escura. Mas para quien querra ser curioso y saber la verdad las primeras letras delos nõbres fengidos son las primeras delos verdaderos
de todos aquellos caualleros y damas que representã. y por las colores de los atauios que alli se nõbran y por las primeras letras delas
inuenciones se puede tambien conocer quien son los seruidores y las
damas aquen [sic] siruӁ. E puesto que la dicha ficion haga la obra
algo sospechosa de verdad / es cierto que todos los caualleros y damas que enella se introduzen ala sazon se hallauan presentes enla
ciudad de napoles donde este tratado se cõpuso / y cada vno dellos
enefeto seruia ala dama que aqui se nõbra (pp. 42-43).
Ecco dunque una novela criptica, algo escura, in cui realtà e finzione si confondono; tuttavia, come in un esercizio enigmistico, l'autore indica al curioso lettore che la chiave per decifrare il mistero è
racchiusa proprio nei giochi di parole delle invenciones. Divisas e
letras sono dunque innanzi tutto uno dei luoghi della narrazione in
cui è contenuta la soluzione per scoprire la reale identità dei personaggi. Ma c'è di più. In un certo senso, l'intero romanzo si presenta
come una enorme invención e il linguaggio cifrato che è necessario
conoscere per decriptare l'enigma sotteso al testo è lo stesso che
entra in gioco nella decifrazione delle singole empresas: entrambi si
basano sul codice dei colori, sui giochi verbali attorno ai nomi di
donna, sui rebus costruiti con le iniziali o le lettere dei nomi propri.
Basterà ricordare alcuni esempi. I colori, innanzi tutto, che nelle
descrizioni degli abiti e delle invenciones giocano un ruolo fondamentale e che sono quasi ossessivamente richiamati dall'autore; essi
non solo rimandano alle insegne e agli stemmi delle casate nobiliari
dei personaggi reali, ma sono anche portatori di significati simbolici
che contribuiscono a definire i personaggi, il loro carattere o i loro
stati d'animo. Serva da esempio l'opposizione verde scuro / verde chiaro, ovvero speranza / disperazione:
La señora condesa dauertino / [sacó] vna saya de raso verde muy claro
y de terciopelo verdescuro a nesgas cõvnas alcarchofas de oro bordadas por ella / vna gorra del mismo terciopelo con las mismas alcarchofas de oro de martillo / vna guarnicion de terciopelo verde con las frãjas de seda verde clara cõ la misma bordadura con vna letra que dezia.
Delas dos la ques perdida
38
Ines Ravasini
mostrara a vuestras querellas
lo que aueys de coger dellas (p. 70).
Premines de castilpana salio todovestido de verde claro / ques esperança perdida / y los moços dela misma color / porque la dama que
seruia sus colores eran dos verde escuro y claro que son esperança
cobrada y perdida / el no saco mas dela vna cõ vna letra que dezia.
Pues quen mi toda es perdida
quan sin ella esta mi vida (pp. 73-74).
Talora, il simbolismo dei colori si sovrappone a quello derivato
dalla foggia stessa degli abiti, anch'essa descritta con una meticolosità
e un puntiglio degni di un trattato sull'arte sartoriale. Le liste di tessuto
con i colori di Belisena (Bona Sforza), blanco e encarnado, si intrecciano e confluiscono nella cappa di Flamiano il cui colore giallo è
simbolo della sofferenza d'amore:
vna capa de paño amarillo cõ vnas tiras de raso blãco y encarnado
antorchadas vnas con otras de tres en tres tiras guarnecida toda la
capa con vna letra que diga.
Son de vuestra condicion
porque sespere de vos
la color do van las dos (p. 66).
Frequenti sono i giochi di parole costruiti sulla paronomasia, come questo in cui la mariposa è immagine dell'esistenza irrequieta di
Flamiano:
con aljubas y capas de paño negro frisado enrrexadas encima de fresos de oro angostos puestos sobre pestañas blãcas en medio delos
quadros dela rexa auia sobre el paño vnas mariposas de plata con las
alas abiertas bolando: con vna letra que flamiano saco que dezia.
May reposa
la vida questa dudosa (p. 121).
o i rebus in cui la scomposizione di una parola (ad esempio, amarillo) unita ad alcune singole lettere produce un nuovo significato:
Vino el marques dela chesta vestido todo de amarillo / con los moços vestidos dela misma color: convna letra escrita en los pechos
desta manera que hablaua el color: y traya dos .R.R. y vna .A. en
medio puestas enlos pechos que queria dezir
Amar y llorar (p. 76).
Le invenciones della Cuestión de amor
39
E, ancora, i giochi attorno al nome femminile, come nel caso dell'albero della palma che allude alla palma della vittoria e quindi al
nome della donna amata, Vittoria Colonna:
el marques de persiana […] saco vnas palmas de plata sembradas
por la ropa: y vna palma grande en medio dela adarga con uvas [sic]
letras en torno que dezia
La primera letra desta
tengo yo enlas otras puesta (p. 99).
Analoghe sono poi le numerose invenciones che ruotano attorno
al significato simbolico dell'oggetto rappresentato nella divisa:
Saco el conde dela marcavnos paramӁtos y guarnicion de terciopelo
negro cõ vnas puertas de jubileo cerradas: sembrados todos los paramentos dellas hechas de plata con vna letra que dezia.
Aun que aya en todos los males
redempcion,
no sespera en mi passion (p. 51).
Saco el señor Camilo de leonis vnos paramentos de raso morado cõ
vnos castillos de cartas sembradas por encima de plata y la cimera
delo mismo. con vna letra que dezia
Tiene puesta misperança
el pensamiento
donde la derriba el viento (pp. 51-52).
Dunque, le singole invenciones “funzionano” utilizzando i medesimi artifici ingegnosi che servono a svelare circostanze storiche e
nomi dei personaggi sottintesi nella Cuestión; in tal modo, ogni microtesto da indovinare si rivela immagine del macrotesto, poiché riflette su scala ridotta l'intrigante enigma celato nella scrittura stessa
della Cuestión. In un certo senso, l'invención costituisce una sorta di
mise en abyme del romanzo, dal momento che l'artificio retorico che
soggiace al genere delle empresas coincide con l'artificio attorno al
quale ruota il rompicapo proposto dall'autore.
Vi è un'altra coincidenza nel romanzo che richiama l'attenzione
sulla funzione strutturale delle invenciones e che si collega al ruolo
attivo attribuito al lettore. Se l'elemento festivo costituisce una delle
linee narrative attorno a cui si sviluppa l'esile intreccio della novela,
l'altro asse portante è quello della questione d'amore intessuta dai due
protagonisti. Si ricorderà come l'approssimarsi della guerra interrompa
40
Ines Ravasini
bruscamente il dibattito, lasciandolo in sospeso e affidandone al lettore,
come si è detto, la risoluzione. Ad un esito analogo approda il gioco
del disvelamento della finzione con cui l'autore aveva mantenuto viva
l'attenzione dei suoi lettori fino a quel momento: costantemente in
bilico tra rappresentazione di una realtà storica e il suo travestimento
letterario, nel tragico frangente in cui la storia invade lo spensierato
scenario napoletano egli abbandona la fabula a favore della historia.
Y assi mismo se dexa despacificar las cosas quen la fiesta se siguieron
/ ni la determinacion del juyzio de los precios. esto tãto por la breuedad quanto porque pues que los atauios y inuenciones y letras estã relatados tengan los letores en que especular y porfiar / aquiӁ cada precio
se deue dar / segun el juyzio de cada vno. Y esto conformara con la
causa principal dela obra / pue su fundamӁto es sobre la porfia o quistion de flamiano y vasquiran. La qual tanbien se queda indeterminada.
[…] Agora aqui mudaremos el estilo o forma dela obra. Esto sera que
agora todos los caualleros y damas assi de titulo como los otros nombraremos por sus propios nombres enlas cosas acaescidas despues
desta fiesta / fasta la dolorosa batalla de rauen [sic]: adonde la mayor
parte destos señores y caualleros fuerõ muertos o presos. Y assi aura
otra manera en que poder especular Ӂ sacar por los nombres verdaderos los quen lugar de aquellos se han fengido o trasfigurado. Y ha de
saber el letor que aun que enlo que hasta aqui se ha escrito algo se aya
compuesto o fӁgido como al principio diximos / que enlo que agora se
escriuira ni ouo mas ni ha auido vn punto menos delo fue [sic] y como
passo. Assi que los agudos y discretos miren de aqui adelante los
nombres verdaderos y tornen a tras que alli los hallaran (p. 157).
Anche in questo caso il lettore è invitato a portare a compimento
il gioco e a scoprire il mistero dell'identità dei personaggi, non più
puntando solo sul proprio ingegno, finora sollecitato e messo alla prova dalle invenciones, bensì avvalendosi della chiave offerta da dati
storici che ora vengono esplicitamente forniti. È l'ultima sfida lanciata
all'intelligenza del lettore agudo y discreto, ma non v'è dubbio che il
piacere del gioco è offuscato dall'ombra della guerra ed è tacito l'invito
ad abbandonare il ludico intrattenimento della poesia (le invenciones)
e della letteratura (la cuestión) a favore di una lettura storica dei fatti.
Questa antitesi tra diversione letteraria e veridicità (tragica) della
storia che segna il passaggio verso la conclusione del romanzo, si
ripropone anche al livello dei contenuti trasmessi dalle empresas. In
una società dedita ad autorappresentarsi, le letras sfoggiate da dame
e cavalieri nei momenti di massima teatralizzazione, come la festa o
Le invenciones della Cuestión de amor
41
il torneo, rappresentano in primo luogo una forma di poesia “sociale”, pubblica e condivisa ed esprimono l'immagine che si vuole dare
di sé; non stupisce quindi l'insistenza anche sull'aspetto lussuoso dei
supporti, la preziosità delle stoffe e la ricercatezza dei ricami, gli ornamenti dei destrieri e le divise dei paggi, a ricordarci che questi
cavalieri oltre a recitare il ruolo del perfetto amante cortese sono anche l'espressione di un ceto che nella celebrazione del fasto cortigiano
ostenta potere e ricchezza. Le invenciones ci parlano, dunque, della
vita, dei giochi, delle danze, di una spensieratezza mondana in cui la
sofferenza sembra entrare solo attraverso le parole della codificata
poesia amorosa. L'insistenza sulle heridas, la muerte, il cuidado e tutto
il corredo di immagini ereditate dalla lirica amoroso-cortese discorda
dall'apparato scenografico della festa, sembra puro gioco di società,
rappresentazione teatrale in cui il cortigiano mette in scena se stesso
e la propria passione amorosa (proprio come avviene nell'Égloga in cui
Flamiano sotto il travestimento della favola pastorale racconta il rifiuto espresso da Belisena durante una partita di caccia). Flamiano, con la
sua propensione ad organizzare feste e juegos de cañas, sempre pronto a partecipare a tornei e battute di caccia per trovare l'occasione di
esibire il proprio dolore d'amante respinto, è il simbolo perfetto di
questo mondo tanto sfarzoso quanto vano. La vena malinconica delle
sue letras, l'assenza d'allegria annunciata nei motes, sembrano quasi
costituire un elemento ossimorico rispetto all'ambiente scintillante
della festa. L'opaca tristezza affidata ai versi ci fa scivolare verso il
polo opposto del romanzo, quello rappresentato da Vasquirán.
La sofferenza concreta di Vasquirán lo rende per certi aspetti un
personaggio antitetico rispetto all'amico, il suo comportamento leale
e tollerante nei confronti dell'egoista Flamiano ne fa un personaggio
nobile, vero campione della cortesia30. Vasquirán si avvale di una forma diversa di invención, non mondana, bensì adatta ad esprimere il
dolore per la morte di Violina nella solitudine del suo palazzo palermitano. In modo non dissimile da tanti eroi della novela sentimental31,
30
Cfr. ANDRACHUK, «The Questión de amor and the Failure», cit. Per VIGIER,
Production cit., pp. 377-378, Flamiano incarna l’elegia amorosa mentre Vasquirán
l’elegia funebre.
31
DEYERMOND, La micropoética, cit., pp. 407-408, osserva che nella continuazione alla Cárcel de Amor di Núñez, le letras non hanno nulla a che fare con tornei, ma
corrispondono a ricami degli abiti o incisioni sulle armi ed esprimono lo stato d'animo di chi le indossa. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, da Ardanlier e Liessa
nel Siervo libre de amor agli eroi dei libri di cavalleria. Ancora diverso il caso della
Cárcel de Amor di Diego de San Pedro, dove il mote non è scritto né ricamato o
42
Ines Ravasini
egli si è circondato di empresas che moltiplicano la sua sofferenza. La
casa in cui viveva con Violina è costellata di immagini e versi che richiamano alla memoria l'immagine della morte, quella reale della
donna e quella anelata dell'amante rimasto solo. Tali ornamenti architettonici funzionano con gli stessi meccanismi delle invenciones dei
tornei: a volte si tratta di figure dipinte sulle porte o le pareti, sui paramenti che addobbano le sale, accompagnate da versi
el primero que vi fue en vna puerta de vna sala principal vna muerte
pintada enella con vna letra que dezia.
Este enla puerta primera
do se vea
que mi vida la dessea.
Entrando enla salavi que toda estaua cubierta de vnas sargas negras cõ
vnos escudos bordados en medio de cada vna en que estauan las armas
de Vasquiran quarteadas con las deviolina con vnas flechas sembradas
por las sargas que la muerte las tiraua dela puerta con vna letra que dezia.
Con mis tiros he apartado
las vidas por ser mortales
mas no dellas las señales.
Vi andando por todas las otras partes dela casa que todas las puertas
estauan teñidas de negro de dentro y de fuera y la letra dezia.
La muerte dexoldolor
y tristeza de manera
que se muestra dentro y fuera (pp. 54-55).
altrove sono gli oggetti stessi dell'arredo a svolgere la funzione che
nelle invenciones spetta alla raffigurazione pittorica, così che la letra
illustra il significato simbolico che l'oggetto ha assunto dopo la
comparsa della morte nella vita di Vasquirán
auia vna muy rica fuente / la qual estaua seca que no corria con vna
letra en torno que dezia
Secaron la mis enojos
para pasalla en mis <en>ojos (p. 55).
vn rico espejo y segNJ yo note creo deuia ser con que violina se tocaua
segun lo que juzgue de vna letra que enel auia que dezia desta manera
Yo te miro por mirar
inciso, ma semplicemente assunto a motto di vita; l'intera esperienza sentimentale di
Leriano è, infatti, incorniciata da due motes: all'inizio del romanzo egli si presenta
come malato d'amore ripetendo la frase «En mi fe, se sufre todo», mentre alla fine
sintetizza il martirio d'amore nel lemma «Acabados son mis males», eco dell'evangelico «Consummatum est».
Le invenciones della Cuestión de amor
43
si verenti el bien que viste
y tu muestras te me triste (p. 56).
Le invenciones adempiono allora anche ad una funzione tematica:
se da un lato contribuiscono a costruire le diversità morali e caratteriali dei due protagonisti, dall'altro concorrono a dotare di sostanza due
degli assi tematici portanti del romanzo: la vita e la morte dell'amante cortese, la vita mondana della corte e la solitudine della morte.
Questa, annunciata sin dalle prime pagine dalla prematura scomparsa di Violina e riecheggiata nelle invocazioni di Vasquirán, nelle
battute finali del romanzo si fa via via più presente ed incalzante. La
catastrofe di Ravenna è preannunciata dal decesso di quattro esponenti
della corte a pochi giorni dalla battaglia: la contessa d'Avellino, il cardinale di Valencia don Luis de Borja, Leonora di Sanseverino principessa di Bisignano e Marina d'Aragona signora di Piombino, colpiti
da violenta malattia, si spengono uno dopo l'altro, e questa «fue la primera aldabada que enesta alegre corte de tristeza la fortuna començo a
dar» (p. 158). La morte di Flamiano e degli altri nobili spagnoli e napoletani, infine, è presagita dal sogno premonitore di Vasquirán. Il trionfo della morte cammina di pari passi con l'assunzione della realtà storica nel romanzo.
Quando la storia si impone sulla finzione, il gioco degli indovinelli
lascia il posto alla cronaca e non stupisce dunque che in questa parte
conclusiva la presenza di invenciones si vada affievolendo fino a scomparire. Il corteo dei nobili napoletani che partono per la guerra, con
alla testa il viceré, è sì descritto in tutto il suo splendore ma ora il lusso degli abiti («los atauios y gastos del visorey», pp. 160-161) gareggia
con la ricchezza delle armature (peraltro, a proposito de «los atauios
delos capitanes de gӁte darmas», l'autore preferisce descrivere «solo lo
delas armas», pp. 161-166) e si insiste sul numero dei cavalli e dei soldati. Le invenciones che ornano le armi o le finiture dei cavalli compaiono di rado («sus atauios eran de brocados y de sedas. sin manera
de diuisas ni inuenciones», p. 166), appena accennate («la fantasia dela
inuӁcion», «yua bordada la letra dela inuӁcion», p.162), diluite nella
prosa («en las cortapisas auia bordada vna letra de letras de oro que
dezia None cuesto / simil / al nostro», p. 162), o descritte con brevi pennellate, quasi incidentalmente («enlas barras de brocado auia en cada
vna tres cãdeleros de plata estãpados», «vnas pieças de plata estãpadas
en cada quadro eran vnas aes goticas», p. 163).
44
Ines Ravasini
Insomma le empresas non hanno più ragione di essere e lasciano il
campo alle imprese militari, sul gioco del torneo si riafferma la guerra. E la guerra non somiglia alle giostre combattute dinanzi alle dame
della corte: i ricchi atavíos del viceré e dei suoi soldati saranno irrimediabilmente distrutti, gli abiti e le armature sfarzose con cui li avevamo visti abbandonare Napoli per andare a servire il loro re e il santo
padre sono ora stracciati e macchiati di sangue («los cuerpos y ropas
teñidos de sãgre», p. 174), la polvere della battaglia avvolge la luminosa fastosità delle loro vite passate e la dissolve nel nulla. Un clima da
ubi sunt pervade le ultime pagine della Cuestión, e con Manrique
potremmo domandarci «¿Qué fue de tanto galán / qué fue de tanta invención / como traxieron?/ Las justas y los torneos,/ paramentos, bordaduras / y cimeras / ¿fueron sino devaneos,/ qué fueron sino verduras / de
las eras?».
Nel sogno di Vasquirán (così come nella lettera che Flamiano morente invia all'amico) la morte dei soldati spagnoli e italiani assume i
tratti del martirio cristiano e della onrrosa muerte: «lleuauã vnas cruzes coloradas enlos pechos […] vilos a todos cõ vnas coronas de flores
enlas cabeças / y vnos ramos enlas manos cantando muy alegres» (p.
174). I cavalieri cortesi si sono trasformati in martiri, combattendo al
servizio di Fernando il Cattolico e in soccorso del papa Giulio II
contro la Francia che insidiava i territori dello Stato Pontificio. Se, sul
piano della storia, la tragedia della guerra dissolve l'intera corte napoletana e il suo fasto, ma ha il potere di innalzare agli onori della
fama i suoi soldati divenuti eroici difensori della fede, sul piano della
finzione essa distrugge ciò che resta della tormentata esistenza di Vasquirán, colui che non ha avuto il tempo di raggiungere i compagni
prima della battaglia e sopravvive come testimone della loro disfatta32. La solitudine cui lo aveva condannato la morte di Violina investe
ora l'intera sua esistenza. Nelle parole del messaggero Felisel che gli
porta l'ultima lettera dell'amico, conosciamo l'infelice destino che lo
attende:
Agora podras vasquiran de verdad plañir / agora no tienes quien tu
porfia te vença / agora el mas delos solos te puedes llamar / […] agora
con razon pediras la muerte porque enella halles reposo / […] agora
tienes razon de aborrecer la vida / agora conozco que ninguno en des32
Flamiano nella lettera a Vasquirán lo assolve per non essere stato presente
alla battaglia: «Bien se que nos ternas embidia por no auer te hallado con nosotros
para no dexar nuestra compañia / como soy cierto que lo hizieras» (p. 176).
Le invenciones della Cuestión de amor
45
dichas te es ygual […] agora comiӁça de nuero [sic] a plañir y llorar
con la muerte de violina la de tu carissimo amigo y hermano flamiano
/ con todos quãtos amigos enel mNJdo tenias / pues que la muerte nƭguno te ha dexado. Assi que no me pidas mas particularidades de tu mal
y mis malas nueuas / sino que nƭguno te queda de quien alegrarte puedas. por esso en general comiӁça de todos a dolerte y de ti auer lastima
/ porque ellos cõ onrrosas muertes ya reposan / y tu con amarga y triste
vida beuiras desseandola (p. 175).
Felisel, memore forse del debate amoroso che i due amici avevano
intrecciato e di cui era stato messaggero, sembra concedere a Vasquirán la palma di vincitore della cuestión («agora no tienes quien tu
porfia te vença […] agora conozco que ninguno en desdichas te es
ygual»), ma tale vittoria travalica i limiti della disputa letteraria. La
scomparsa di Flamiano e degli altri cavalieri condanna Vasquirán ad
una vita deserta di affetti e gioie. Per lui, sopravvissuto di un universo
eclissato, non solo l'amore è svanito, ma anche quel mondo in cui
l'amore cortese ed i suoi effimeri rituali trovavano la propria ragione
di essere.
47
E LEMENTI
COSMICI E PAESAGGIO
NELLA POESIA DI G ARCILASO DE LA V EGA
Maria Rosso
Università di Milano
Orozco, analizzando lʼevoluzione del sentimiento de la naturaleza nella poesia spagnola, a proposito dellʼassimilazione del paesaggio nel Rinascimento, puntualizza:
No son motivos puramente estéticos sino vitales e intelectuales los
que determinan esta aparición del paisaje en la poesía renacentista.
A la general aspiración del humanismo a un orden mejor, apoyada
en la sobrevaloración de la cultura y el raciocinio, se une la fatal
añoranza de la vida pastoril que trae una época de hipercultura. Ello,
fundido al ideal neoplatónico de exaltación de lo natural, explica
cómo surge esta visión del paisaje apoyada como creación en lo intelectual y literario, pero construida con elementos naturales.1
In particolare, lo studioso attribuisce a Garcilaso il merito di aver
creato «uno de los primeros cuadros de paisaje real», amalgamando
le convenzioni virgiliane con «el recuerdo concreto de lo real y vivido»2, nelle strofe delle Egloghe II e III, nelle quali descrive la vista del
Tormes e del Tajo. In effetti, in questi versi, come vedremo, il poeta
supera la convenzionalità del paesaggio ideale ereditato dai classici,
seguendo un percorso in cui le allusioni al cosmo e i riferimenti alla
natura si arricchiscono progressivamente, fino a integrarsi in una raffinata struttura, con funzioni e modalità che mi propongo di approfondire nelle pagine seguenti.
Non sarà forse superflua una precisazione preliminare: perché gli
elementi cosmici diano luogo a un paesaggio, è necessaria una rappresentazione visiva, ossia lʼemittente deve assumere il ruolo di contemplatore, rispecchiando nella scrittura lo sguardo che, dallo spazio
generico, ritaglia uno scorcio definito nei suoi dettagli; infatti, «es
precisamente la mirada humana lo que convierte cierto espacio en pai1
E. OROZCO DÍAZ, Paisaje y sentimiento de la naturaleza en la poesía española, [1946], Madrid, Ediciones del Centro, 19742, p. 79.
2
Ibidem, p. 82.
48
Maria Rosso
saje», dichiara Claudio Guillén3, e Maderuelo puntualizza che, per poter parlare di paesaggio, «es necesario que exista un ojo que contemple
el conjunto y que se genere un sentimiento que lo interprete emocionalmente»4. Noteremo, allora, che nella poesia di Garcilaso le descrizioni paesaggistiche sono ben localizzate in funzione del genere,
essendo vincolate soprattutto allʼambito bucolico delle egloghe, a cui
tradizionalmente corrisponde lo stilus humilis.5 Esse sono del tutto
assenti nei sonetti, che contengono solo vaghe allusioni a coordinate
spaziali: mare e terra sono generici riferimenti nel motivo dellʼallontanamento dallʼamata («La mar en medio y tierras he dejado», Son.
6
III1) , così come la vastità del campo sottolinea lo straniamento dellʼinnamorato («El ancho campo me parece estrecho», Son.XVII5). Lo
sguardo dellʼemittente lirico segue una traiettoria introspettiva e lʼanalisi del mal dʼamore offusca la realtà esteriore; i confini dellʼio
verranno varcati gradualmente, cercando dapprima un termine di paragone nei casi esemplari dei personaggi mitologici. La vicenda di Orfeo (Son.XV) apre uno spiraglio verso la cornice cosmica, pervasa dallʼinfluenza animista, ma il poeta si limita a menzionare «el curso de
los ríos»2, «los diversos montes y sombríos»3, «los árboles»3, «peñascos
fríos»6, senza alcun intento di raffigurazione paesaggistica, perché
ciò che gli interessa è sottolineare è la sterilità del proprio canto
(«quejas y lamentos»3) di fronte alla crudeltà della dama, il cui «corazón endurecido»11 si rivela assai più insensibile degli elementi
naturali partecipi del dolore di Orfeo.
Nel Sonetto XXIX — in cui il poeta cede il protagonismo a Leandro,
narrando la fatale lotta dellʼamante contro il mare in tempesta —
«mar», «viento», «agua» e «ondas» sono le coordinate di un cosmo
antagonista, sordo alla supplica dellʼeroe. La burrasca non è contemplata con lo sguardo del descrittore, ma è evocata sinteticamente nel
suo dinamismo («esforzó el viento y fuese embraveciendo / el agua
con un ímpetu furioso»3-4), in quanto elemento funzionale subordinato
3
C. GUILLÉN, «Paisaje y literatura, o los fantasmas de la otredad», Actas del X
Congreso de la Asociación Internacional de Hispanistas (Barcelona, 21-26 de agosto de 1989), Barcelona, PPU, pp. 77-98 [78].
4
J. MADERUELO, «Introducción. El Paisaje», Actas. El Paisaje: arte y naturaleza (Huesca, 1996), Diputación Provincial de Huesca, 1997, pp. 9-12 [10].
5
Cfr. E.R. CURTIUS, «Il paesaggio ideale», in Letteratura europea e Medio Evo
latino, Firenze, La Nuova Italia, 1995, p. 224.
6
Tutte le citazioni dei versi di Garcilaso sono attinte da M. ROSSO GALLO, La
poesía de Garcilaso de la Vega. Análisis filológico y texto crítico, Anejo XLVII del
Boletín de la Real Academia Española, Madrid, 1990.
Elementi cosmici e paesaggio nella poesia di Garcilaso
49
ad evidenziare lʼardimento di «Leandro el animoso»1.
Nel Sonetto XI lʼevasione verso il mito porta a vagheggiare un meraviglioso mondo acquatico, dove la distanza fra lʼangustiosa realtà
dellʼemittente lirico e lʼarmonico spazio delle ninfe si neutralizza
attraverso una maestrale rielaborazione del motivo topico del fiumepianto7. Lʼevocazione delle favolose «moradas» fluviali, ispirata dalla
Prosa XII dellʼArcadia di Sannazaro8, si sintetizza in pochi dettagli
essenziali, in cui alla cosmicità del río si sovrappone un processo di
fabbricazione in pietre e colonne di vetro, materiali che trasformano
lo stato primario della natura in un prodotto artistico e culturale:
Hermosas ninfas, que en el río metidas,
contentas habitáis en las moradas
de relucientes piedras fabricadas
y en columnas de vidrio sostenidas,
(vss.1-4)
È lʼarte, infatti, e non la natura, a stendere un ponte fra il magico
mondo fluviale e le lacrime del poeta, producendo la metamorfosi
consolatoria in acqua («o convertido en agua aquí llorando»13), ossia
il passaggio al mondo-altro del mito ricreato attraverso la scrittura
poetica.
Per quanto riguarda le Elegie, le prescrizioni del genere formulate
nelle Anotaciones di Herrera richiamano la necessità di mantenere
un equilibrio di stile, fuggendo sia lʼaffettazione sia la “dicción humilde”9. Nella prima, la «Elegía al Duque de Alba en la muerte de
don Bernaldino de Toledo», Garcilaso sviluppa il tema funerario (uno
dei quattro riconosciuti da Herrera, insieme a quello amoroso, storico
e di circostanza) e, dopo aver espresso il suo dolore ed aver elogiato le
qualità del defunto, include argomentazioni consolatorie, ricorrendo a
exempla classici e a sentenze stoiche. In questo contesto, i riferimenti cosmici svolgono un ruolo del tutto secondario e vengono sporadicamente assimilati alle evocazioni mitologiche. Lʼallusione al luogo
funestato dallʼevento luttuoso si inserisce nel motivo della partecipazione della natura alla sofferenza umana, con la prosopopea mitica del
fiume Tormes, in cui le coordinate dello spazio reale vengono assorbite dalla visione di un mondo immaginario, sconvolto dalla morte:
7
Cfr. M. ROSSO GALLO, «Las leyendas mitológicas en los sonetos de Garcilaso
de la Vega», Voz y Letra, 12:1 (2001), pp. 23-38 [29-31].
8
J. SANNAZARO, Opere Volgari, a cura di A. Mauro, Bari, Laterza, 1961, p. 61.
9
F. de HERRERA, Anotaciones a la poesía de Garcilaso de la Vega, ed. I. Pepe y
J.M. Reyes, Madrid, Cátedra, 2001, pp. 558 e ss.
50
Maria Rosso
El viejo Tormes, con el blanco choro
de sus hermosas Nimphas, seca el río
y humedece la tierra con su lloro,
no recostado en urna, al dulce frío
de su caverna umbrosa, mas tendido
por el arena, en el ardiente estío;
con ronco son de llanto y de gemido,
los cabellos y barvas mal paradas
se depedaça y el sotil vestido.
(vss. 142-150)
Più avanti, lʼesempio della temperanza dimostrata da Venere nel
dominare il dolore provocato dalla morte di Adone, accoglie un breve accenno al locus amoenus, che rappresenta lʼarmonia universale
emanata da un animo capace di mantenersi sereno nelle avversità:
Y luego, con gracioso movimiento,
se fue su passo por el verde suelo,
con su guirlanda usada y su ornamento;
desordenava con lascivo buelo
el viento su cabello y con su vista
(vss. 235-240)
sʼalegrava la tierra, el mar y el cielo.
NellʼElegia II e nellʼEpistola, entrambe dedicate a Boscán, il tema amoroso conduce lungo i sentieri argomentativi della confessione
intima, senza includere allusioni paesaggistiche. Per esempio, il termine monte è privo di ogni accezione spaziale ed ha semplicemente un
valore metaforico riferito alle difficoltà della vita (El. II, «Y assí, en mitad dʼaqueste monte espesso»26). Nella traiettoria delle Canzoni e delle
Egloghe, come evidenzia una stimolante analisi di Nadine Ly10, il progressivo distanziamento dalla diretta espressione dellʼio, con il graduale ampliamento dei limiti spazio-temporali, implica la proiezione dei
paesaggi dellʼanima in lugares amenos. La Canzone I, ancora vincolata
ai confini soggettivi dellʼio-amante, si apre con una professione di perseveranza, in cui lʼemittente lirico raffigura unʼipotetica terra inospitale, mediante un frame, ossia una «sceneggiatura intertestuale», che serve
a rappresentare una situazione stereotipa11. Si tratta, in questo caso, di un
locus orridus, evocato attraverso lʼenumerazione di quattro elementi
(sol2, arena3, yelo4, nieve5), connotati dal topos degli estremi climatici:
10
Nadine LY, «Garcilaso: une autre trajectoire poétique», Bulletin Hispanique, 88:
3-4 (1981), pp. 263-329.
11
Cfr. U. ECO, Lector in fabula, Milano, Bompiani, 19985, pp. 81-83.
Elementi cosmici e paesaggio nella poesia di Garcilaso
Si a la región desierta, inhabitable
por el hervor del sol demasiado
y sequedad dʼaquella arena ardiente,
o a la que por el yelo congelado
y rigurosa nieve es intractable,
del todo inabitada de la gente,
por algún accidente,
o caso de fortuna desastrada,
me fuéssedes llevada,
y supiesse que allá vuestra dureza
estava en su crueza,
allá os yría a buscar como perdido,
hasta moriros a los pies tendido.
51
(vss. 1-13)
Non cʼè, evidentemente, alcun proposito descrittivo, ma soltanto
la prefigurazione di luoghi immaginati, generici parajes12. I primi
versi che adempiono al requisito di offrire una rappresentazione visiva, connotata sul piano emotivo e sensoriale, appaiono nellʼesordio
della Canzone III, dove il poeta, rivitalizzando il topos del locus amoenus, registra innanzitutto una percezione uditiva (il rumore del fiume), poi, con rapide pennellate, inserisce i tratti colti dallo sguardo (la
limpidezza dellʼacqua, il verde e i fiori) per tornare, infine, alle sensazioni sonore (il canto degli usignoli):
Con un manso rüido
dʼagua corriente y clara,
cerca el Danubio una isla, que pudiera
ser lugar escogido
para que descansara
quien como estó yo agora no estuuiera,
do siempre primavera
parece en la verdura
sembrada de las flores;
hazen los ruyseñores
renovar el plazer o la tristura,
con sus blandas querellas,
que nunca día ni noche cessan dellas.
(vss. 1-13)
La menzione di un nome geografico, secondo una diffusa consuetudine letteraria, crea un ancoraggio fra il paesaggio idealizzato e il
12
Per la differenza fra paraje e paisaje, cfr. MADERUELO, cit., p. 10.
52
Maria Rosso
mondo reale, provocando un effetto di identificazione dellʼio emittente con la figura storica dellʼautore. Il riferimento allʼisola del Danubio
collega lʼenunciazione lirica con un momento preciso dellʼ itinerario
vitale di Garcilaso (il confino dellʼestate del 1532), ma lo scenario
subisce un processo di idealizzazione, presentandosi come il luogo
dellʼeterna primavera, descritto con gli elementi canonici del locus
amoenus: fra lo sguardo del poeta e la realtà del paesaggio, si frappone la convenzione del frame, dentro la quale si dissemina e si trasfigura lʼesperienza autobiografica. Si conferma il processo intellettuale
a cui Salinas ascrive lʼesaltazione rinascimentale della natura:
el poeta del Renacimiento ve la naturaleza a través de una complicada serie de reflexiones. Entre la naturaleza real y su mente se interponen los lentes maravillosos de las ideas. No pueden satisfacerse
con los árboles, sino sólo con la idea de los árboles.13
È quanto avviene nella stanza iniziale della Canzone III, dove la
bellezza ideale del luogo evidenzia il contrasto fra lʼarmonia della
natura e lo stato dʼanimo dellʼio lirico, emarginato dalla perfezione
dello scenario, che poi si introietta nella propria sfera interiore (strofe II-IV), per concludere con unʼapostrofe al Danubio, confidente cosmico al quale il poeta affida i propri versi. Come osserva Arce Blanco, «el claro proceso de transformación de la experiencia personal en
objeto de arte descansa sobre un andamiaje cuidadosamente elaborado», in cui lʼisola e il fiume diventano «símbolos multívocos, en doble
serie de analogías y correspondencias: isla = prisión, poeta, razones;
río = salida, mundo, versos»14, ossia gli elementi del locus amoenus
acquisiscono una connotazione supplementare, secondo una modalità
di elaborazione paesaggistica evidenziata da Cioranescu nei Secoli dʼOro, nella quale «el interés del paisaje se confunde con el del símbolo».15
In questa direzione, Garcilaso apre una via in area ispanica per rivitalizzare il topos del paesaggio ideale, colmandolo di significati
aggiuntivi, ma è nel contesto delle egloghe che elabora il processo di
raffinamento. NellʼEgloga I, la descrizione dello scenario si colloca
nella quarta strofa, quando il poeta (emittente extradiegetico) — dopo
13
P. SALINAS, La realidad y el poeta, [1940], Barcelona, Ariel, 1974, p. 110.
M. ARCE BLANCO, «Cerca el Danubio una isla», in Studia Philologica: Homenaje ofrecido a Dámaso Alonso, I, Madrid, 1960, pp. 91-100; cito da La poesía de
Garcilaso, ed. de E.L. Rivers, Madrid, Ariel, 1974, pp. 103-117 [111].
15
A. CIORANESCU, «Naturaleza y artificio», in El Barroco o el descubrimiento
del drama, Universidad de la Laguna, 1957, p. 71.
14
Elementi cosmici e paesaggio nella poesia di Garcilaso
53
unʼintroduzione dedicatoria, in cui annuncia il soggetto del componimento, vincolandolo al genere pastorale («El dulce lamentar de dos
pastores»1, «ovejas»4, «amores»5) — assume la funzione narrativa, mettendo un filtro fra il proprio io di poeta e lʼio dei personaggi (Salicio
e Nemoroso), ossia fra il mondo in cui si svolge lʼenunciazione e il
mondo bucolico della creazione letteraria, a cui appartiene lʼameno
paesaggio. È evidente che il poeta lo evoca attraverso una visione ideale, intrisa di memorie poetiche, delineandolo sobriamente nei suoi tratti
visivi e acustici essenziali, che evidenziano la luce dellʼalba, il verde
del prato e il suono dellʼacqua, a cui si accorda il canto dei pastori; in
questa cornice, si presenta Salicio disteso ai piedi di un faggio, albero
tradizionalmente vincolato allo stilus humilis, come ricorda Curtius:16
Saliendo de las ondas encendido,
rayaba de los montes el altura
el sol, cuando Salicio recostado
al pie de una alta haya en la verdura,
por donde el agua clara con sonido
atravesaba el fresco y verde prado,
él, con canto acordado
al rumor que sonaba
del agua que pasaba,
se quejaba tan dulce y blandamente,
como si no estuviera de allí ausente
la que de su dolor culpa tenía;
(vss. 43-54)
I dettagli della natura circostante verranno poi ripresi nelle parole
dei pastori, funzionando come vincolo connettivo che percorre lʼegloga; infatti, Segre, nella sua splendida analisi dellʼegloga, ha evidenziato i fitti «nessi tra le parti narrative e i lamenti», notando che «il
locus amoenus […] è descritto, oltre che dal poeta, da Salicio […] ed è
invocato a testimone da Nemoroso»17. I successivi rinvii inquadrano
il paesaggio nella prospettiva dei due locutori intradiegetici, dalla
quale derivano diverse sfumature emotive: allo sguardo del poetanarratore si sovrappone lo sguardo dei personaggi, che contemplano
il cosmo circostante attraverso i filtri della memoria o il prisma deformante della loro attuale alienazione.
16
Loc. cit. (cfr. nota 8).
C. SEGRE, «Analisi concettuale della prima egloga di Garcilaso», in Le strutture e il tempo, Torino, Einaudi, 1974, pp. 161-182 [163-164].
17
54
Maria Rosso
Nella sesta strofa, le parole di Salicio riportano in primo piano il
riferimento alla luce del sole che si va propagando sul mondo, mentre
egli, relegato a un perenne pianto («Siempre ʼstá en llanto esta ánima
mezquina»81), si sente escluso dal dinamismo del cosmo: il rinvio,
oltre ad attivare il motivo dellʼestraniazione dellʼamante infelice, ha
la funzione di una didascalia scenografica, che segna il flusso temporale (il sole nascente dei versi introduttivi ora «tiende los rayos de su
lumbre / por montes y por valles»71-72). Poco dopo (vss.99-104), il pastore enumera gli attributi del locus amoenus, proiettandoli nel passato,
quando la natura aveva per lui un valore positivo, mediato dalla presenza dellʼamata, mentre nel presente (vss.216-224) la bellezza del
paesaggio acuisce il dolore del tradimento, tanto da volersene allontanare per recidere un legame ormai alienato18. Il ricorso allʼanafora,
con la triplice ripetizione del verbo ves unito al deittico aquí, evidenzia il movimento dello sguardo di Salicio sullo scenario:
Ves aquí un prado lleno de verdura,
ves aquí unʼespessura,
ves aquí un agua clara,
en otro tiempo chara,
a quien de ti con lágrimas me quexo.
(vss. 216-221)
Segre ha magistralmente analizzato «la diversa modalità del distacco» che «si riflette pure nella diversità di atteggiamento dei due pastori verso la natura»19. Infatti, il lamento di Nemoroso propone una serie
di variazioni intorno a un nucleo di motivi comuni che percorrono
tutta lʼegloga. Egli esordisce invocando come confidenti gli elementi
del locus amoenus, testimoni della passata felicità, interpellati uno ad
uno, fino a ricomporre il gradevole quadro dello scenario naturale:
Corrientes aguas, puras, cristalinas,
árboles que os estáis mirando en ellas,
verde prado, de fresca sombra lleno,
aves, que aquí sembráis vuestras querellas,
yedra, que por los árboles caminas,
(vss. 239-244)
torciendo el paso por su verde seno:
La stessa istanza allocutiva è indizio del legame che ancora sente
Nemoroso con il paesaggio, dove si racchiude la memoria del bene
18
19
Cfr. SEGRE, ibidem, pp. 178 e 181.
Ibidem, p. 173.
Elementi cosmici e paesaggio nella poesia di Garcilaso
55
perduto («¡O bien caduco, vano y presuroso!»256), per quanto il luogo,
sconvolto dal passaggio della morte, si sia ormai trasformato in «este
triste valle»253. Anche per Nemoroso la perdita della donna amata sconvolge lʼordine della natura e agli occhi del pastore il locus amoenus
si è mutato in un luogo inospitale (vss.296-309), dove il «verde prado»241 è ormai infestato dalle erbacce infeconde («la mala yerba al
trigo ahoga»300) e al posto dei fiori ci sono rovi («estos abrojos»306) innaffiati dalle sue stesse lacrime, divenute una pioggia malefica («Yo
hago con mis ojos / crecer lloviendo el fruto miserable»308-309). Per lʼinfelice amante, la natura, invocata come confidente, appartiene alla
memoria del passato, giacché per lui ogni bene è ormai racchiuso «en
la fría, desierta y dura tierra»281, insieme alle spoglie di Elisa. Nel mondo terreno, il suo sguardo coglie solo segni di desolazione e di morte
e, pertanto, egli può trovare conforto solo prefigurando un altro locus
amoenus, situato nellʼal di là e immune dalla fugacità della vita (vss.
402-407).
Nella strofa finale del componimento il poeta riprende la parola e
completa la cornice narrativa con una raffigurazione dello scenario
al tramonto, dove lo smorzarsi della luce è rappresentato da un suggestivo chiaroscuro poetico:20
Nunca pusieran fin al triste lloro
los pastores, ni fueran acabadas
las canciones, que sólo el monte o a,
si mirando las nubes coloradas,
al tramontar del sol bordadas de oro,
no vieran que era ya passado el día.
La sombra se ve a
venir corriendo apriessa
ya por la falda espessa
del altíssimo monte, y recordando
ambos como de sueño y acabando
el fugitivo sol, de luz escaso,
su ganado llevando,
se fueron recogiendo passo a passo.
(vss. 408-421)
Non vengono più menzionati alcuni dettagli che, con il rapido avanzare delle ombre notturne, sono ormai impercettibili allo sguardo:
20
Per il dialogo intertestuale con Virgilio e Sannazaro, si vedano le note di B.
Morros a Garcilaso de la Vega, Obras poéticas y textos en prosa, Crítica, Barcelona
1995, pp. 139 e 469.
56
Maria Rosso
mancano, infatti, accenni al «verde prado» (nominato nei vss.48, 216
e 241) e allʼ«agua clara» (vss.47, 178 e 218), il cui suono si spegne insieme ai lamenti di Salicio e Nemoroso. Il dilagare del buio smorza
poco a poco la visione del paesaggio, lasciando solo il profilo «del
altíssimo monte»417, attento uditore.
Se la materia primaria dellʼegloga deriva dalla tradizione del bucolismo virgiliano e ricrea lʼambiente pastorale, in cui la natura non
è un semplice scenario, ma assume il ruolo di testimone e confidente,
Garcilaso rivitalizza gli elementi costitutivi colmandoli di una densa
polisemia, in una direzione metaforica o simbolica. Per esempio, nel
pianto di Nemoroso, come ha notato Segre21, il sole si identifica con
lʼamata, per cui il tramonto si rapporta alla morte di Elisa, fino al
sopraggiungere di una nuova alba, quando il pastore, conclusa la vita
che per lui è ormai notte, potrà finalmente ricongiungersi con Elisa
nellʼaldilà (vss.310-323). A sua volta, il lessema polisemico «sombra»
si riferisce, da un lato, alla frescura del locus amoenus e, dallʼaltro,
sia allʼoscurità della notte, sia alle tenebre metaforiche originate dal
lutto. Nella prima accezione, secondo i canoni del frame retorico,
lʼombra è vincolata alla presenza degli alberi, da cui si dirama
unʼaltra fitta rete di rinvii, con valenze simboliche: nellʼintroduzione
dedicatoria (vss.35-42) — dove si delimita il genere del componimento,
contrapponendo lʼepica alla bucolica —, lʼ«árbol de victoria»35 allude
al lauro che cinge la fronte del viceré di Napoli per le sue imprese
militari, alla cui «sombra»39 cresce lʼedera, non solo simbolo di amicizia e fedeltà, ma anche corona del poeta, che si eleva riflettendo
nella propria scrittura le virtù eroiche dellʼillustre personaggio. Nel
monologo di Salicio, le immagini emblematiche dellʼedera e della vite
allacciata allʼolmo esprimono il senso di lacerazione provocato dal
tradimento dellʼamata («viendo mi amada yedra / de mí arrancada, en
otro muro asida, / y mi parra en otro olmo entretejida»135-137), mentre
più avanti lʼedera intrecciata agli alberi è uno dei confidenti cosmici
invocati da Nemoroso («yedra, que por los árboles caminas, / torciendo el paso por su verde seno»243-244).
Il motivo del cosmo confidente si riallaccia al mito di Orfeo, che
affiora nelle parole di Salicio, quando egli nota la partecipazione
emotiva della natura al suo pianto:
Con mi llorar las piedras enternecen
su natural dureza y la quebrantan;
21
Cfr. ibidem, pp. 168-169.
Elementi cosmici e paesaggio nella poesia di Garcilaso
57
los árboles parece que se inclinan;
las aves que me escuchan, cuando cantan,
con differente boz se condolecen
y mi morir cantando me adevinan;
las fieras, que reclinan
su cuerpo fatigado,
dexan el sossegado
(vss. 197-206)
sueño, por escuchar mi llanto triste.
Mentre il coinvolgimento di pietre, alberi e animali rende più
tangibile lʼinsensibilità della spietata Galatea, Nemoroso, dal canto
suo, attribuisce il potere orfico alla voce dellʼamata («y aquella boz
diuina,/ con cuyo son y acentos / a los ayrados vientos / pudieron amansar»372-375) ed accusa di crudeltà la dea Lucina, sorda alle preghiere di
Elisa morente.
Nella polisemia che intensifica le suggestioni del locus amoenus,
con risonanze mitologiche, lʼacqua del fiume ha un ruolo cardinale,
fin dalla prima strofa narrativa, dove appare innanzitutto come produttrice di suono. Nel lamento di Salicio, il ritornello («Salid sin
duelo, lágrimas, corriendo») collega lo scorrere del pianto con il fluire
del corso dʼacqua22, che, inoltre, è lo specchio in cui il pastore contempla la propria figura, cercando una conferma del proprio valore
personale, con un richiamo implicito al mito di Narciso:
No soy pues bien mirado
tan disforme ni feo,
que aun agora me veo
en esta agua que corre clara y pura;
(vss. 175-178)
Il primo elemento invocato da Nemoroso è proprio lʼacqua, nella
quale si specchiano gli alberi («Corrientes aguas, puras, cristalinas, /
árboles que os estáys mirando en ellas»239-240). Lo scorrere del fiume,
segno della vitalità e del dinamismo cosmico, scandisce lʼarmonia
della natura e, nel tempo felice, accompagna il dolce sonno di Nemoroso; Salicio, invece, anche nel momento della pienezza amorosa, è
turbato da infausti presagi, dal gracchiare della «siniestra corneja»110
al sogno in cui, tormentato dallʼarsura estiva, rincorre vanamente lʼ«agua fugitiva»125 del Tajo, improvvisamente deviato dal suo alveo
abituale (vss.116-125). Lʼacqua fuggitiva, che evoca implicitamente il
22
Cfr. SEGRE, ibidem, p. 164.
58
Maria Rosso
mito di Tantalo, rappresenta lʼoggetto del desiderio irraggiungibile sullo scenario onirico di una natura alterata, prefigurazione della rottura
dellʼequilibrio cosmico — sancito per Salicio dalla fedeltà di Galatea
— e, contemporaneamente, è simbolo della fugacità, tantʼè che, nellʼultima strofa dellʼegloga, lʼaggettivo «fugitivo» si ripete abbinato a
«sol»419, sottolineando lo scorrere del tempo (e, come osserva Segre,
«il ciclo diurno del sole costituisce un correlato del tempo poetico»23).
Lʼacqua svolge una funzione essenziale anche nel contesto dellʼEgloga II, fin dallʼesordio, quando Albanio si presenta con lo sguardo posato sulla fonte, le cui mirabili qualità sono evidenziate dallʼattributo topico di essere calda in inverno e fredda in estate:24
En medio del invierno está templada
el agua dulce desta clara fuente
y en el verano más que nieve elada.
¡O claras ondas, cómo veo presente,
en vyéndoos, la memoria dʼaquel día,
de que el alma temblar y arder se siente!
En vuestra claridad vi mi alegría
escurecerse toda y enturviarse:
quando os cobré, perdí mi compañía.
(vss. 1-10)
Nella prospettiva del pastore, la limpidezza della «clara fuente»2
rappresenta lo specchio della memoria e diviene, paradossalmente,
causa di ottenebramento. Ne scopriremo la ragione più avanti, quando Albanio, con unʼanalessi che riporta al tempo felice delle battute
di caccia in compagnia di Camila25, giunge a narrare lʼepisodio culminante della fonte-specchio, situato nello stesso scenario dellʼazione
principale, che viene descritto dal pastore attraverso il filtro dei ricordi, in cui rivivono le sensazioni suscitate della brezza primaverile,
i colori e i profumi dei fiori, il riverbero dorato della fonte (vss.437448). Comʼè noto, spronato da Camila a rivelarle i motivi della sua tristezza (vss.455-466), Albanio lʼinvita a scoprire nella fonte lʼidentità
della sua amata (vss.467-472): lʼacqua, da ingrediente topico del locus
amoenus, diventa così strumento dellʼazione, lo specchio che, attraver23
Ibidem, p. 164.
Nello scenario allegorico dei Milagros di Berceo ci sono «fuentes claras, corrientes / en verano bien frías, en ivierno calientes»3c-d; e la stessa virtù è posseduta
dalla fonte perenne di Bacco descritta nel Libro de Alexandre (coplas 1173-1174).
25
Vss. 185 e ss., dove è evidente il dialogo intertestuale con la Prosa VIII dellʼArcadia di Sannazaro.
24
Elementi cosmici e paesaggio nella poesia di Garcilaso
59
so lʼimmagine, supplisce alla parola soffocata dal vincolo del divieto.
La fonte, infrangendo il tabù, provoca la fuga della fanciulla, che più
tardi, invocandola come confidente, ne sottolineerà il ruolo attivo nella vicenda:
¡Ay, dulce fuente mía y de quán alto,
con sólo un sobresalto, mʼarrojaste!
¿Sabes que me quitaste, fuente clara,
(vss. 744-747)
los ojos de la cara? […]
E poi, quando accuserà Albanio di aver violato la loro amicizia,
«quiriéndola torcer por el camino / que de la vía honesta se desvía»818819, Camila si appellerà alla stessa fonte come testimone: «Esta fuente
lo diga, que ha quedado / por un testigo de tu mal processo»827-828. La
«claridad»8 dellʼacqua-specchio, che smaschera la verità occultata
dal silenzio, per lʼamante determina la perdita dellʼoggetto del desiderio ed origina il suo ottenebramento mentale, restando vincolata allʼevento traumatico. Lʼintensa pulsione di morte provata da Albanio
(vss.874-882) culmina in uno stato di follia, in cui egli si crede puro
spirito depauperato del corpo (vss. 890-896), finché pensa di ritrovare
la propria identità fisica nel riflesso della fonte. Il riferimento al mito
di Narciso — con lʼinfluenza dellʼelaborazione neoplatonica formulata
da Marsilio Ficino, come hanno dimostrato Rivers26 e Gargano27 —
denuncia lʼinsania dellʼuomo che, invece di ricercare le bellezze superiori, confonde la meta delle proprie aspirazioni e desidera il corpo,
ombra dellʼanima, fragile e corrente come lʼacqua, condannandosi allʼinfelicità. Nella limpidezza della fonte, Albanio vede la sua «alegría /
escurecerse toda y enturviarse»8-9 proprio a causa dellʼamore insano,
che lo allontana dallʼarmonia della natura; come lʼio-protagonista della
Canción III, è consapevole della bellezza del locus amoenus, ma non
può più esserne partecipe e, come Salicio nellʼ Egloga I, sente il desiderio di allontanarsene:
El dulce murmurar deste ru do,
el mover de los árboles al viento,
26
E.L. RIVERS, «Albanio as Narcissus in Garcilasoʼs Second Eclogue», in Hispanic Review, 41 (1973), pp. 297-304.
27
A. GARGANO, «Albanio e il “miroërs perilleus”», in Fonti, miti, topoi. Cinque
studi su Garcilaso, Napoli, Liguori, pp. 107-121. Gargano, oltre che alla teoria ficiniana, riferisce lʼepisodio della follia di Albanio anche alla concezione erotica medievale, per cui lʼinnamoramento consiste nel vagheggiare unʼimmagine (unʼombra o un
fantasma).
60
Maria Rosso
el suave olor del prado florecido,
podrían tornar dʼenfermo y descontento
qualquier pastor del mundo alegre y sano:
yo solo en tanto bien morir me siento.
[…]
Quiero mudar lugar y a la partida
quiçá me dexará parte del daño,
que tiene el alma casi consumida. (vss. 13-18 e 25-27)
La corrispondenza cosmica si manifesta, invece, negli altri due pastori, Salicio e Nemoroso, questʼultimo guarito dalla tristezza dellʼ«amor insano»1093 grazie alle efficaci cure del sapiente Severo, che lʼha
restituito alla «libre vida»1105, nella quale torna «el alma a su naturaleza»1127 e «ʼl perdido reposo al alma buelve»1130. Lʼingresso di Salicio,
al ritorno dopo un lungo viaggio, inquadra lo scenario dalla prospettiva di chi, dopo esserne stato lontano, apprezza pienamente la «dulce
soledad»40 del mondo pastorale ed esprime il suo ideale di una vita
priva di affanni mondani in un monologo basato sul motivo del beatus ille (vss. 39-43). Garcilaso si ispira ai sei versi dellʼEpodo II (2328) — in cui Orazio canta la delizia del riposo «modo sub antiqua ilice,
/ modo in tenaci gramine»23-24 fra i suoni dellʼacqua e degli uccelli —,
incrementando i dettagli del locus amoenus, a cominciare dalla maggiore varietà di alberi che sostituiscono lʼ“antico leccio” del componimento latino:
A la sombra holgando
dʼun alto pino o robre,
o dʼalguna robusta y verde enzina
(vss. 51-53).
Lʼindeterminazione di «un» e «alguna», insieme allʼalternativa «o»,
denuncia la visualizzazione puramente mentale di Salicio, che allʼinizio del suo monologo vagheggia una situazione di quiete, su uno
sfondo monocromatico («verde enzina»53, «verde selva»56), più che
contemplare concretamente la natura. Pochi versi dopo, il deittico
«aquel» indica un contatto diretto con il luogo circostante, percepito
soprattutto attraverso lʼudito («ruido»65, «canto»68, «dulce armonía»69,
«susurrando»74) e lʼolfatto («olores»72):
Combida a un dulce sueño
aquel manso ruido
del agua, que la clara fuente embía;
y las aves sin dueño,
Elementi cosmici e paesaggio nella poesia di Garcilaso
con canto no aprendido,
hinchen el ayre de dulce armonía;
házeles compañía,
a la sombra bolando
y entre varios olores
gustando tiernas flores,
la solícita abeja susurrando.
Los árboles, el viento
al sueño ayudan con su movimiento.
61
(vss. 64-76)
Il piacere sensoriale suscitato da questo paesaggio essenzialmente
sonoro, in cui torna il riferimento alla «clara fuente»66, viene evidenziato dal ricorso allʼamplificatio (per esempio, ai suoni dellʼacqua e
degli uccelli si aggiunge il ronzio delle api) e dallʼiterazione di termini che sottolineano il sentimento di pace (sueño64/76 e dulce64/69, che
rinvia gli aggettivi semicamente affini manso65 e tiernas73). Salicio,
emotivamente partecipe della «dulce armonía»69, esclama: «¡O natura, quán pocas obras coxas / en el mundo son hechas por tu mano!»8081. E più avanti riporterà lʼattenzione sulle delizie del locus amoenus,
in quanto scenario ideale per lʼascolto della narrazione di Nemoroso,
iniziando ancora da una sensazione uditiva, per posare poi lo sguardo
sui prati variopinti e tornare, infine, al suono della «fuente clara»1152;
lo spazio circostante viene connotato emotivamente dalla doppia ricorrenza dellʼattributo «dulce» (vss.1147 e 1153):
nuestro ganado pace, el viento espira,
Filomena sospira en dulce canto
y en amoroso llanto sʼamanzilla,
gime la tortolilla sobre lʼolmo,
preséntanos a colmo el prado flores
y esmalta en mil colores su verdura,
la fuente clara y pura murmurando
(vss. 1146-1153)
nos está combidando a dulce trato.
Il racconto di Nemoroso si apre con la descrizione del paesaggio
in cui è situata la residenza dei duchi dʼAlba sulle rive del Tormes e
presenta «uno de los primeros cuadros de paisaje real que ofrece la
poesía española», a cui si riferisce Orozco28. Se Salicio incarna la voce
bucolica ed è il cantore del delizioso scenario in cui si colloca lʼazione
28
Si veda la nota 1.
62
Maria Rosso
principale, a Nemoroso, nel contesto dellʼEgloga II, compete invece
la voce del narratore epico, che subordina il paesaggio alla funzione
laudatoria. La rappresentazione, in questo caso, non scaturisce da
uno sguardo immediato, ma è affidata esclusivamente alla parola del
relatore, con il fine pragmatico di concretizzare il luogo nellʼimmaginazione del destinatario, cominciando dal frame del luogo sempre
verde, o dellʼeterna primavera29, a cui si aggiungono poi dettagli riferibili alla località concreta dove abita il sapiente Severo30, «aquella
tierra dʼAlva tan nombrada»1072, contrassegnata non solo dal nome del
fiume, ma anche dal pendio coronato dalle torri:
En la ribera verde y deleytosa
del sacro Tormes, dulce y claro río,
ay una vega grande y espaciosa,
verde en el medio del invierno frío,
en el otoño verde y primavera,
verde en la fuerça del ardiente estío.
Levántasse al fin della una ladera,
con proporción graciosa en el altura,
que sojuzga la vega y la ribera.
Allí está sobrepuesta la espessura
de las hermosas torres, levantadas
al cielo con estraña hermosura,
no tanto por la fábrica estimadas,
aunque ʼstraña lavor allí se vea,
(vss. 1041-1055)
quanto por sus señores ensalçadas.
Si deve notare che i particolari riconducibili al paesaggio reale si
proiettano sul piano metaforico, in rapporto con lʼencomio del casato
dʼAlba: infatti, la ridondanza del sema “altezza” non si limita a configurare il luogo, ma è rapportata agli attributi dei suoi nobili signori, che si riflettono sul panorama circostante. Dopo il lungo racconto di Nemoroso — in cui si svolge la parte panegirica — e la comune decisione di affidare Albanio alle cure di Severo, il calare delle ombre notturne annuncia la conclusione dellʼegloga; ed è nuovamente Salicio a posare lo sguardo sul paesaggio circostante e a rivolgere al compagno lʼimperativo «Mira entorno»1870, in un invito a
29
Cfr. MORROS, cit., p. 497.
Comʼè noto, il personaggio è la trasposizione letteraria della figura storica di
Severo Varini, precettore del futuro duca dʼAlba, don Fernando de Toledo.
30
Elementi cosmici e paesaggio nella poesia di Garcilaso
63
contemplare i segni di vita umana che giungono dai poggi («y verás…»):31
Recoge tu ganado, que cayendo
ya de los altos montes las mayores
sombras con ligereza van corriendo.
Mira entorno y verás por los alcores
salir el humo de las caserías
de aquestos comarcanos labradores.
Recoge tus ovejas y las mías
y véte tú con ellas, poco a poco,
por aquel mismo valle que solías.
(vss. 1867-1875)
Se nel contesto dellʼEgloga II la consueta funzione di scenario del
locus amoenus viene rinnovata attraverso la variazione di prospettiva
(allo sguardo alienato di Albanio si contrappone quello sereno di Salicio, che ha il ruolo di esaltare le meraviglie della natura) e mediante la
funzione strumentale di uno dei suoi elementi essenziali, la fonte,
vincolata al mito di Narciso in una sottile speculazione sulla filosofia
dellʼamore, nellʼEgloga III il topos è sottoposto a un ulteriore processo di raffinamento, tramite unʼidealizzazione degli elementi della
realtà che trasfigura il paesaggio del Tajo, per creare un mondo mitico, abitato da ninfe, le quali evocano nei loro arazzi storie leggendarie di amanti sventurati e, fra i celebri esempi mitologici, includono la
vicenda di Elisa e Nemoroso. Dopo una parte introduttiva, che contiene la dedica alla destinataria («illustre y hermosíssima María»2) e
un sintetico riferimento allʼargomento della composizione («De
quatro Nymphas que del Tajo amado / salieron juntas, a cantar me
offrezco»53-4), il poeta presenta lo scenario:
Cerca del Tajo, en soledad amena,
de verdes sauzes ay una espessura,
toda de yedra revestida y llena,
que por el tronco va hasta el altura
y así la texe arriba y encadena,
que el Sol no halla passo a la verdura;
el agua baña el prado con sonido,
alegrando la yerva y el o do.
(vss. 57-64)
31
Come segnala B. MORROS, «La recogida del ganado junto a la descripción del
atardecer y el humo de las cabañas son elementos tradicionales en el género pastoril
desde Virgilio, Bucólicas, I, 82-83» (cit., p. 222).
64
Maria Rosso
Il primo attributo messo in evidenza è la «soledad amena»57, seguito dalla percezione visiva del verde della fitta vegetazione, dove
il bosco di salici e lʼedera rigogliosa non solo difendono il luogo
dallʼarsura dei raggi del sole, garantendo il requisito canonico dellʼombra, ma tutelano lʼisolamento sacrale del luogo, che si prepara
ad accogliere le ninfe, attratte dalla delizia del «prado ameno»71; e,
infine, si aggiunge il riferimento al suono dellʼacqua. Nelle due strofe seguenti, cʼè un mutamento di prospettiva, sottolineato dal cambio
dei tempi verbali dal presente al passato, che coincide con il passaggio dalla funzione descrittiva a quella narrativa: la focalizzazione del
poeta si alterna con quella del personaggio (la dea fluviale), cosicché
il locus amoenus si presenta ora attraverso un punto di vista generale, con tratti visuali e sonori, («pudieran los ojos…/ determinar»67-68,
«seʼscuchava»79), ora attraverso lo sguardo della ninfa, enfatizzato
dallʼiterazione del verbo “ver” («vido»72, «vio»76):
Con tanta mansedumbre el cristalino
Tajo en aquella parte caminaua,
que pudieran los ojos el camino
determinar apenas que lleuava.
Peynando sus cabellos de oro fino,
una Nympha del agua do morava
la cabeça sacó y el prado ameno
vido de flores y de sombras lleno.
Movióla el sitio umbroso, el manso viento,
el suave olor de aquel florido suelo;
las aves en el fresco apartamiento
vio descansar del trabajoso buelo.
Secava entonces el terreno aliento
el Sol, subido en la mitad del cielo;
en el silencio sólo seʼscuchava
(vss. 57-80)
un susurro de abejas que sonava.
In ampi inserti descrittivi, il poeta si preoccupa di rendere verosimile il mondo del suo racconto ed enumera dettagliatamente i materiali utilizzati dalle ninfe per realizzare le loro opere, mettendo in
luce lo stretto legame fra il Tajo (la natura) e i ricami pittorici delle
dee (lʼarte), che devono le loro sostanze primarie proprio al fiume.
Nelle strofe dedicate alle scene degli arazzi, la narrazione poetica è il
riflesso dellʼarte figurativa, cosicché la parola, riproducendo unʼim-
Elementi cosmici e paesaggio nella poesia di Garcilaso
65
magine, sperimenta nella pratica della scrittura il famoso detto oraziano «ut pictura poesis». Lʼultima tela, «mostrando de su claro Tajo
/ en su labor la celebrada gloria»197-198, non presenta «de los pasados
casos la memoria»194, ma raffigura la morte recente di Elisa, includendo lʼencomio della regione natale del poeta, qualificata come «la
más felice tierra de la España»200. Mediante il ricorso allʼekphrasis, la
parola poetica riproduce lʼeffetto illusionistico della “pittura”32, che
offre un quadro dinamico dellʼirruente sinuosità del fiume e poi, ampliando la panoramica, si estende alla vista del monte, con i suoi
edifici storici, in un intreccio di natura e arte. La corsa del Tajo viene
scandita in due momenti, evidenziati dallʼopposizione «ímpetu»204/
«mansedumbre»213, che corrispondono rispettivamente a una prima
fase, in cui «el caudaloso río»201 appare nel suo stato naturale, governato da una forza istintiva, e a una seconda, in cui si assoggetta allʼ«artificio»216 delle opere umane:
Pintado el caudaloso río se vía,
que en áspera estrecheza reduzido,
un monte casi alrededor tenía,
con ímpetu corriendo y con ru do.
Querer cercarlo todo parecía
en su bolver, mas era afán perdido;
dexávase correr en fin derecho,
contento de lo mucho que avía hecho.
Estava puesta en la sublime cumbre
del monte, y desdʼallí por él sembrada,
aquella illustre y clara pesadumbre,
dʼantiguos edificios adornada.
Dʼallí con agradable mansedumbre,
el Tajo va siguiendo su jornada
y regando los campos y arboledas,
(vss. 201-216)
con artificio de las altas ruedas.
Spitzer ha segnalato che «in the Velázquez-like picture within the
picture […] the river […] is thus made to appear on two planes in our
poem»33; ebbene, è da notare che proprio sul primo piano, quello in
32
Spitzer osserva che Garcilaso usa il verbo pintar come cultismo semantico,
dal latino pingere, che aveva anche il senso di “ricamare” («Garcilaso, Third Eclogue, lines 265-271», Hispanic Review, 20 (1952), pp. 243-248 [246]).
33
Ibidem, pp. 247-8.
66
Maria Rosso
cui il poeta-narratore introduce lo scenario, ricorre il termine «mansedumbre»57, come attributo del locus amoenus, il paesaggio elaborato dallʼartificio della letteratura, dove il fiume è apparentemente
immobile, in uno stato di quiete, mentre il movimento è evidenziato
sullʼaltro piano, dove il poeta non presenta lo sguardo rivolto direttamente sul paesaggio, ma mediato dalla rievocazione pittorica. Lʼinquadratura generale dello scenario, che include le ninfe dedite alle
loro opere, subisce unʼastrazione ideale, in cui solo il nome proprio
«Tajo» rinvia a un luogo effettivo; dentro lʼarazzo, invece, la prospettiva si estende per includere connotati del mondo reale, che rendono
riconoscibile il fiume concreto. La reciprocità dei due piani, lʼuno
incastonato nellʼaltro, porta a compimento il processo di mitificazione
del Tajo, qualificato sul primo livello come locus amoenus popolato
da ninfe e poi, sul secondo, come copia o imitatio della realtà filtrata
dagli occhi di Nise e immortalata nei ricami della tela. La simultaneità dello scenario e della raffigurazione artistica provoca un effetto
di convergenza temporale che neutralizza lo sfasamento fra i diversi
momenti a cui corrispondono gli episodi racchiusi nella cornice
dellʼegloga: nel presente dellʼenunciazione, il poeta narra, al passato,
lʼazione principale, nella quale le dee fluviali emergono dalle onde
per godere della bellezza delle rive del Tajo; nei loro arazzi si attualizzano tre “antiche storie” e lʼepisodio della recente morte di Elisa, innalzata alla «dignidad de un mito clásico», come osserva Jones34.
Mentre ad ognuna delle altre tele il poeta dedica tre strofe, allʼopera di
Nise riserva ben nove stanze, sommando un insieme di dettagli che
formano una sequenza in movimento; infatti, dopo la presentazione
del luogo, con un primo piano del fiume, sulla scena dellʼarazzo appaiono «las silvestres diosas»218, partecipi dellʼ evento luttuoso:
Todas, con el cabello desparzido,
lloravan una Nimpha delicada,
cuya vida mostrava que avía sido
antes de tiempo y casi en flor cortada.
Cerca del agua, en un lugar florido,
estava entre las yervas degollada,
qual queda el blanco cisne quando pierde
(vss. 225-232)
la dulce vida entre la yerva verde.
34
R.O. JONES, «Garcilaso, poeta del humanismo», Clavileño, V/28, 1954, pp. 17; cito da La poesía de Garcilaso, ed. di E.L. Rivers, Barcelona, Ariel, 1974, p. 67.
Elementi cosmici e paesaggio nella poesia di Garcilaso
67
Dalla panoramica generale si ritaglia uno scorcio di locus amoenus, i cui elementi — fiori, erba ed acqua — hanno unʼestensione figurata, equiparando Elisa a un fiore reciso e a un cigno morente35. Nella
strofa successiva, il motivo bucolico della scritta incisa sulla corteccia di un pioppo funge da «epitafio»239 e da didascalia che integra
lʼarte figurativa, in una raffinata struttura ad incastro: infatti, il ricorso alla citazione non solo permette a Elisa di auto-identificarsi al di
là della morte, ma dà anche espressione al dolore di Nemoroso (figura assente dalla scena), con lʼinclusione di una seconda citazione, in
cui si riflette lʼeffetto dʼeco del grido dellʼamante, che si propaga nel
cosmo, risuonando attraverso il monte e il Tajo.
Il sopraggiungere del tramonto mette fine allʼopera delle ninfe e
riconduce al primo piano dellʼazione del componimento, con una descrizione del passaggio dal giorno alla notte, animata dallʼavvicendarsi del sole e della luna e dal movimento dei pesci nellʼacqua:
Los rayos ya del Sol se trastornavan,
escondiendo su luz al mundo cara
tras los altos montes y a la Luna davan
lugar para mostrar su blanca cara.
Los peces a menudo ya saltavan,
con la cola açotando el agua clara,
quando las Nymphas, la labor dexando
hazia el agua se fueron passeando.
(vss. 273-280)
A differenza di quanto avviene nelle altre due egloghe, il crepuscolo non coincide con la conclusione, ma apre una nuova sequenza
con il canto amebeo di Tirreno e Alcino, in cui vengono evocati gli
elementi della natura dentro il binomio amore e cosmo, nella ludica
alternanza di voci che fluisce sul filo dellʼanalogia e del contrasto. Il
canto dei due pastori irrompe nellʼisolamento sacrale delle ninfe, che
spariscono nelle onde, lasciando solo la fugace traccia della «blanca
espuma»375. Le rive del Tajo diventano così il luogo mitico dove la
poesia, includendo in sé la pittura e il canto, sublima la realtà contingente per evadere verso un mondo favoloso, in cui — come osserva
35
E.L. RIVERS osserva che «el cisne se convierte en un poeta que canta al morir;
“la dulce vida” no es un simple reguero de sangre que gotea sobre la hierba, sino
que, como el arroyo en el locus amoenus de la estrofa 8, discurre musicalmente,
“baña el prado con sonido,/ alegrando la yerva y el o do» . («La paradoja pastoril
del arte natural», in La poesía de Garcilaso, cit., pp. 285-308 [305]).
68
Maria Rosso
Spitzer, commentando i vss.265-271 — lʼarte «glorifies illusion and describes, as it were by claras luces, the sombras vanas of Nature, Love
and Art».36
Dámaso Alonso, cercando di decifrare il misterioso fascino del
paesaggio garcilasiano, evidenzia il potere evocativo delle parole e
la musicalità che scaturisce dal ritmo e dalla rima, con il sapiente
ricorso allʼhiperbaton e allʼencabalgamiento37; riconosce che il poeta si colloca «en una larga tradición» per rivitalizzare «el tópico del
lugar ameno […] tan viejo como el mundo», anche se «podríamos
leer los supuestos modelos de este pasado, y veríamos que no hay en
ellos nada, absolutamente nada, de esos valores expresivos»38. È
evidente lʼeredità di consolidate convenzioni letterarie che perpetuano
il locus amoenus come sfondo delle pene amorose dei pastori idealizzati, in un contrasto fra la perfezione della natura e la deviazione
dellʼanimo umano dalla fonte suprema del bene. Lʼantico retaggio si
manifesta anche nella centralità che assume lʼacqua nei paesaggi di
Garcilaso, poiché — come osserva López Bueno — «en la búsqueda del
propio espacio, ataviado con los ropajes de una noble tradición, las
riberas de los ríos son el lugar más ampliamente frecuentado, tanto que
Iventosch no duda en calificarlo de “centro básico natural de lo pastoril”»39. Tuttavia, è altrettanto palese che lʼ inconfondibile voce del poeta
toledano ricrea il topos con unʼimpronta originale: nei confini del
verso e della strofa, cʼè lʼaccurato cesellamento delle forme, con i valori espressivi rilevati da Alonso; allʼ interno del testo, nella sua unità complessiva, il paesaggio ideale supera i percorsi triviali grazie al
potenziamento dei suoi dettagli che si intrecciano sul tessuto connettivo, continuamente arricchiti da echi metaforici, simbolici e mitici.
E poi, chissà che non abbia ragione Dámaso Alonso quando afferma
che «tratar de explicar la poesía de Garcilaso o cualquier gran poeta,
es bucear en el misterio».40
36
SPITZER, cit., p. 247.
D. ALONSO, «Garcilaso y los límites de la estilística», in Poesía española. Ensayo de métodos y límites estilísticos, Madrid, Gredos, 19815, pp. 47-108.
38
Ibidem, pp. 64, 62 e 67.
39
B. LÓPEZ BUENO, «La oposición ríos/mar en la imaginería del petrarquismo y
sus implicaciones simbólicas. De Garcilaso a Herrera», in Analecta Malacitana, IV,
2 (1981), pp. 261-283 [261].
40
ALONSO, cit., p. 105.
37
69
G ARCILASO O S ÁNCHEZ DE LAS B ROZAS ?
C RONACA DI UN RAGIONEVOLE DUBBIO
Aldo Ruffinatto
Università di Torino
Com’è noto, nel pubblicare la sua seconda edizione delle poesie
di Garcilaso (Salamanca 1577-B77), Francisco Sánchez de las Brozas
aveva aggiunto tre sonetti ai sei che già si presentavano come inediti
nella sua prima edizione (Salamanca 1574-B74), e lo aveva fatto affidandosi, almeno ufficialmente, a un generico «libro de mano», senza
altre indicazioni1. Un «libro de mano» probabilmente diverso sia dal
cosiddetto «ejemplar de mano muy antiguo» al quale allude il Brocense nella sua edizione del 15742, sia dal ms. definito «original de mano muy antiguo» che lo stesso Brocense dichiara di avere utilizzato per
introdurre nuove correzioni nella sua edizione del 15773. Comunque
sia, da quel momento il numero dei sonetti attribuiti a Garcilaso raggiunse quota 38 (29 della princeps, più 6 di B74, ed altri 3 di B77)
giacché i tre estrapolati, a detta del Brocense, dal «libro de mano»,
così come i sei di B74, vennero fatti rientrare quasi a pieno titolo nel
corpus autenticamente garcilasiano.
1
Obras del excelente poeta Garci Lasso de la Vega. Con anotaciones y enmiendas del Maestro Francisco Sánchez Catedrático de Retórica en Salamanca, En Salamanca, Por Pedro Lasso, 1577 («[Sonetos XXXVI-XXXVIII] que se tienen por de Garci
Lasso, de un libro de mano», apud Hayward KENISTON, ed., Garcilaso de la Vega,
Works. A Critical Text with a Bibliography, edites by H.K., New York, Hispanic Society of América, 1925 [Reprinted with the permission of the original publishers
Kraus Reprint Corporation, New York 1967], p. 346).
2
Obras del excelente poeta Garci Lasso de la Vega. Con anotaciones y enmiendas del Licenciado Francisco Sánchez Catedrático de Retórica en Salamanca,
En Salamanca, Por Pedro Lasso, 1574 («En lo que toca a la diligencia de emendar algunos lugares: parte es mía, y parte de algunos amigos, y parte de otros exemplares que
yo procuré aver para este efecto: entre los quales ayudó mucho uno muy antiguo de
mano que nos quiso comunicar el señor Tomás de Vega criado de su Magestad por
el qual allende de emendar los lugares en que se faze mención en las anotaciones se
restituyeron y cunplieron algunos versos que faltavan en los impressos», Prólogo al
lector, apud KENISTON, p. 343).
3
«De nuevo corregidas y emendadas por un original de mano muy antiguo: y
añadidas algunas obras suyas que nunca se han impresso» (Edición de 1577, apud
KENISTON, p. 345).
70
Aldo Ruffinatto
Ho detto “quasi a pieno titolo”, perché a soli tre anni di distanza da
B77 Fernando de Herrera nelle sue Anotaciones alle Obras de Garcilaso de la Vega4 sollevava pesanti dubbi sull’autenticità di due dei
tre sonetti aggiunti in seconda battuta dal Brocense, così come non
riteneva opportuno accogliere nella sua edizione uno dei sei sonetti
di B745. Tracce di diffidenza nei riguardi dei sonetti aggiunti dal Brocense si ritrovano ancora in Tamayo de Vargas6 che, nonostante il suo
esplicito tono anti-herreriano, relega in nota il Soneto “Mi lengua va
por do el dolor la guía” associandosi in tal modo al rifiuto di Herrera; e in Azara7 che preferisce non inserire nella sua edizione annotata
uno dei tre sonetti aggiunti da B77 e, più precisamente, il primo dei tre:
“Siento el dolor menguarme poco a poco”.
Purtroppo, la genericità dell’indicazione offerta dal Brocense («un
libro de mano») non consente di identificare nessuna pista esterna utilizzabile almeno ai fini della collocazione di questa testimonianza in
un certo ambito (come nel caso, ad esempio, dell’original de mano usato per l’edizione del 1574 del quale si dice che appartenesse a Tomás
de Vega, «criado de su Majestad»), sicché la sua attendibiltà dovrà
essere valutata esclusivamente sulla base dei dati interni, cioè sulla
base della materialità dei dati offerti da questa testimonianza. Il critico, insomma, si dovrà cimentare nella difficilissima e rischiosissima
operazione di risconoscimento o disconoscimento della paternità garcilasiana dei tre sonetti aggiunti dal Brocense nel 1577 muovendosi
entro i confini non sempre ben delineati dell’usus scribendi del poeta
toledano.
Cominciamo con la presentazione dei tre sonetti incriminati, nell’ordine in cui vengono proposti da B77 e con la numerazione generalmente accolta da tutti gli editori moderni di Garcilaso.
Nel primo dei tre, numerato XXXVI, il poeta dissertando sulle pene
d’amore, dichiara che il dolore avendolo portato alla pazzia ha diminuito anche la sua sensibilità nei riguardi del dolore stesso, ma non
ritiene che l’esser diventato pazzo l’abbia davvero immerso nella paz4
Obras de Garci Lasso de la Vega con Anotaciones de Fernando de Herrera
[...], en Sevilla, por Alonso de la Barrera, Año de 1580.
5
Si tratta del Soneto che nell’ordine sequenziale normalmente accettato porta il
numero XXXII: “Mi lengua va por do el dolor la guía”.
6
Garcilasso de la Vega. Natural de Toledo, Príncipe de los Poetas Castellanos
de don Thomás Tamaio de Vargas, Madrid, Luis Sánchez, 1622.
7
Obras de Garcilaso de la Vega, ilustradas con notas de don José Nicolás de
Azara, Madrid, Imprenta Real de la Gaceta, 1765.
Garcilaso o Sánchez de las Brozas?
71
zia, anzi gli ha dato la possibilità di conoscerla meglio e dal suo interno fino a tal punto che se cessasse di essere pazzo diminuirebbe la
sua capacità d’intendere. Riconosce comunque di essere danneggiato
sia dal senno sia dalla pazzia: il primo se ne va proprio perché appartiene al soggetto, la pazzia lo uccide perché a lei si è affidato il soggetto stesso. Conclude affermando che ciò che alla gente può sembrare uno sproposito, cioè l’essere contento di un male che lo sta
distruggendo, rappresenta invece per lui l’unica felicità.
Questo il testo così come ce lo presenta il Brocense:
Siento el dolor menguarme poco a poco,
no porque ser le sienta más senzillo,
mas fallece el sentir para sentillo,
después que de sentillo estoy tan loco;
ni en sello pienso que en locura toco,
antes voy tan ufano con oýllo
que no dexaré el sello y el sufrillo,
que si dexo de sello, el seso apoco.
Todo me empece, el seso y la locura:
prívame éste de sí por ser tan mío;
mátame estotra por ser yo tan suyo.
Parecerá a la gente desvarío
preciarme deste mal do me destruyo:
yo lo tengo por única ventura.
Occorre precisare che per questo sonetto non vi sono altre testimonianze all’infuori di B77, neppure nella tradizione manoscritta a noi
pervenuta e che nella seconda metà del Cinquecento aleggiava intorno alle edizioni del Brocense presentando, insieme ad altri autori,
porzioni più o meno vaste della produzione poetica di Garcilaso.8
Il secondo dei tre sonetti añadidos, quello che porta il numero
XXXVII, presenta in una sorta di paesaggio allegorico la situazione
penosa di un cane che piange e si dispera perché ha perso il suo padrone. Al soggetto poematico è affidata la consolatio basata sulla constatazione che anche gli esseri umani, pur essendo razionali, provano
allo stesso modo il mal de ausencia.
Eccone il testo secondo la lezione di B77:
8
Per una rassegna completa di queste testimonianze si veda: M. ROSSO GALLO,
La poesía de Garcilaso de la Vega. Análisis filológico y texto crítico, Anejos de la
BRAE, Madrid, 1990, pp. 55-96.
72
Aldo Ruffinatto
A la entrada de un valle en un desierto
do nadie atravesava ni se vía,
vi que con estrañeza un can hazía
estremos de dolor con desconcierto:
aora suelta el llanto al cielo abierto,
ora va rastreando por la vía;
camina, buelve, para, y todavía
quedava desmayado como muerto.
Y fue que se apartó de su presencia
su amo, y no le hallava, y esto siente;
mirad hasta do llega el mal de ausencia.
Movióme a compassión ver su accidente;
díxele, lastimado: “Ten paciencia,
que yo alcanço razón, y estoy ausente.
Questo sonetto, oltre a B77, gode anche delle seguenti testimonianze manoscritte: 1) ms. 17969 de la Biblioteca Nacional de Madrid (siglato Mg), 2) ms. 17689 de la Biblioteca Nacional de Madrid (siglato
Mz), 3) ms. 1649 de la Biblioteca Universitaria de Barcelona (siglato
Mc), 4) ms. 3888 de la Biblioteca Nacional de Madrid (siglato Mn).
La varia lectio proposta dai manoscritti9 dimostra che in nessuno
di loro si può riconoscere il “libro de mano» usato dal Brocense, essendo le loro varianti di qualità inferiore rispetto alle corrispondenti
lezioni di B7710. Alcune, infatti, sono facilmente qualificabili come veri
e propri errori, altre denunciano in modo palese la loro natura di
innovazioni introdotte autonomamente dai singoli copisti.
Il terzo dei tre sonetti aggiunti, numerato tradizionalmente XXXVIII,
affronta un tema consueto della poesia cortese, quello della passione
che vien tenuta nascosta per timore di una ripulsa da parte della dama. Il poeta piange e sospira, ma soprattutto si duole perché non osa
confessare all’amata la ragione di questa sua condizione. Né può abbandonare l’aspro cammino in cui si trova ripercorrendolo a ritroso,
9
Riporto qui a titolo di imprescindibile documentazione le varianti in oggetto: 2.
nadi Mg; travessava Mc; via] oya Mg, Mz, Mc, Mn. 3. que] om. Mc; can] pero Mc. 4.
estremo Mn. 5. agora Mn, Mg; suelta el llanto] alzando el rostro Mz, sube su llanto Mc.
6. agora Mg, Mn, aora Mz; va] om. Mz, Mn. 7. y toda via] todo el dia Mn. 8. quedando
Mn, andava Mz; como] y casi Mn. 9. y es que vio apartado Mz. 10. amo] dueño Mz,
duenio Mc; le] lo Mz; halla Mn; esto siente] aquesto brama y s. Mc. 11. ved a quanto
lega Mc. 12. movime Mn; ver] con Mg, Mz, de Mn, om. Mc. 13. dixele] y dixe Mc,
que dixe Mz. 14. estoy] vivo Mn.
10
Vedi ROSSO GALLO, La poesía de Garcilaso, cit., pp. 485-486.
Garcilaso o Sánchez de las Brozas?
73
perché la semplice considerazione delle esperienze passate gli procura un senso di svenimento. Vorrebbe salire sull’alta cima ma a dissuaderlo sono i tristissimi casi di quanti l’hanno preceduto sulla stessa via;
inoltre, si è spenta anche la luce della speranza che gli permetteva di
muoversi nel buio dell’oblio.
Questo il testo proposto da B77:
Estoy contino en lágrimas bañado,
rompiendo siempre el ayre con sospiros,
y más me duele el no osar deciros
que he llegado por vos a tal estado;
que viéndome do estoy y en lo que he andado
por el camino estrecho de seguiros,
si me quiero tornar para huyros,
despayo, viendo atrás lo que he dexado;
y si quiero subir a la alta cumbre,
a cada paso espantarme en la vida
exemplos tristes de los que han caýdo;
sobre todo, me falta ya la lumbre
de la esperança, con que andar solía
por la oscura región de vuestro olvido.
Anche in questo caso alla testimonianza di B77 si affiancano altre
testimonianze manoscritte e, più precisamente, 1) il ms. II-1579 de la Biblioteca de Palacio de Madrid (siglato Mb), 2) il ms. 3902 de la Biblioteca nacional de Madrid (siglato Md) e, infine, il ms. 371 de la Bibliothèque National de Paris (siglato Ms). Come in precedenza, la qualità delle
varianti offerte dai mss.11 denuncia la loro appartenenza alla categoria
dei derivati o dei sottoprodotti di B77, sicché non risulta neppure lontanamente pensabile che possano essere annoverati fra i possibili aspiranti ad assumere il ruolo del fantomatico “libro de mano» del Brocense.
Esclusa, dunque, per via ecdotica questa possibilità non resta che la
via dell’analisi del testo per cercare di dare una risposta alla domanda
sulla reale paternità garcilasiana dei sonetti «nuevamente añadidos» dal
Brocense nel 1577 e, in subordine, sull’aspetto ed eventualmente sulla
provenienza del codice o «libro de mano» depositario delle aggiunte.
11
3. duele] mata Ms; el] om. Md, Ms; no] nunca Mb, Md, Ms. 4. que soy por vos
venido Ms. 5. mas viendo donde e. Ms; en] om. Mb, Md, Ms; andando Mb. 7. si me
pruevo apartar Ms. 8. dexado] pasado Mb, Md, Ms. 9. si a subir pruebo a la dificil c.
Md, si a s. p. la d. Ms, y si a s. p. ya en la c. Mb. 10. en] om. Ms. 12. me falta ya] faltame la Ms, Mb, Md.
74
Aldo Ruffinatto
Maria Rosso, alla quale dobbiamo una dettagliata esplorazione delle varianti che il Brocense dice di aver ricavato da varie fonti manoscritte (dal cartapacio de Tomás de Vega menzionato nell’edizione del
1574 all’original de mano muy antiguo cui si fa cenno nell’edizione
del 1577) ha dimostrato con sicuri argomenti l’assoluta indipendenza di
queste fonti da quella o quelle usate per le aggiunte; in particolare,
per ciò che concerne B74: «hay que observar que la concisa advertencia Obras añadidas, que introduce los sonetos inéditos de 1574, no
autoriza de ninguna manera la identificación de su fuente con el cartapacio de Tomás de Vega»12. Osservazione che appare facilmente
estensibile a B77, là dove «el original de mano muy antiguo», suggeritore di altre varianti testuali, non sembra aver nulla a che vedere con
il «libro de mano» fonte dei tre sonetti aggiunti «que se tienen por de
Garci Lasso».
Da questa semplice considerazione, per altro autorizzata dalla stesso Sánchez de las Brozas, discende almeno una importante conseguenza: a differenza dei vari manoscritti che fanno sentire la loro presenza in diversi punti dell’opera di Garcilaso e che quindi, como sostiene, Maria Rosso dovevano essere «códices mucho más completos que
los manuscritos que han llegado hasta nosotros»13, la fonte dei sonetti aggiunti non doveva essere poi molto diversa da quei cartapacios
antológicos della seconda metà del XVI secolo che contenevano un po’
di tutto: cartas en prosa y versos, sonetos, glosas, villancicos, sermones, diálogos, chistes e altre cose del genere. Insomma, un qualcosa
di analogo al ms. II-1579 de la Biblioteca de Palacio de Madrid (siglato Mb), il quale non a caso, insieme a tutte queste cose, presenta due
sonetti inediti attribuendoli a Garcilaso.14
12
Vedi ROSSO, cit., p. 60.
Ibidem, p. 59.
14
Nel f. 4v di questo ms., infatti, si legge: “Garçilaso de la Vega a la muerte de la
reina Dido”, titolo seguito dal testo di un sonetto che mai nessuno si è sognato di
assegnare per davvero a Garcilaso nonostante che la sua qualità sia di gran lunga
superiore ai due sonetti inediti attribuiti a Garcilaso dal Lastanosa-Gayangos (Mg),
e certamente non inferiore ai primi due sonetti añadidos di B77. E ancora: “El mesmo
[Garçilaso] al disfabor de su dama”, altro titolo seguito dal testo di un altro sonetto
(il cui primo verso così suona:«O alma que en la mía puedes tanto») per il quale valgono le cose dette in precedenza. Quest’ultimo, tra l’altro, è tramandato anche dal
Cancionero general de obras nuevas… Esteban de Nájera, Zaragoza 1554, ma come
anonimo e con varianti rispetto a Mb. Rafael Lapesa (La trayectoria poética de Garcilaso, Revista de Occidente, Madrid, 1968, p. 194) aggiunge che nella raccolta manoscritta Flores de varia poesía, compilata nel 1577, questo stesso sonetto viene presentato come opera di don Pedro de Guzmán.
13
Garcilaso o Sánchez de las Brozas?
75
Stando così le cose e partendo dalla constatazione già segnalata in
nota che a nessun critico è mai venuto in mente di inserire questi due
sonetti nel circuito autenticamente garcilasiano, non appare del tutto
fuori luogo una domanda di questo genere: se i tre sonetti aggiunti dal
Brocense nel 1577, in luogo della sua edizione a stampa ci fossero
pervenuti soltanto attraverso una testimonianza manoscritta, come, ad
esempio, quella di Mb, li avremmo davvero accolti nelle nostre edizioni moderne di Garcilaso? O non avremmo piuttosto preso in seria
considerazione i dubbi manifestati a suo tempo da Herrera per i primi
due (XXXVI e XXXVII) e da Azara, seppure limitatamente al primo dei
tre (XXXVI)?
E’ chiaro che la questione relativa alla paternità delle obras añadidas da B77 non può essere tenuta separata dal tentativo di profilare
un’immagine del «libro de mano» che ne costituisce la fonte, nel senso
che se si vuol riconoscere un’impronta autenticamente garcilasiana
in tutti e tre i sonetti allora si dovrà accantonare l’ipotesi formulata in
precedenza sulla possibile appartenenza di questa testimonianza alla
categoria dei cartapacios antologici affini ad Mb, per abbracciare un’altra possibilità: quella cioè di prodotti originali e inediti pervenuti attraverso qualche recondito cammino nelle mani del Brocense. Se,
invece, si riesce a dimostrare il contrario diverrà ancor più credibile
un profilo del libro de mano analogo a quello dei menzionati cartapacios.
Proviamo quindi a muoverci nella direzione dell’analisi del testo,
scegliendo come primo campione d’indagine il sonetto sul quale confluiscono i sospetti sia di Herrera sia di Azara, vale a dire il XXXVI:
“Siento el dolor menguarme poco a poco”. Sospetti che dai due commentatori antichi passarono ad alcuni editori moderni di Garcilaso
come, ad esempio, ad Adolfo de Castro che nel riportare il sonetto in
questione, ma in ultima posizione (cioè con il numero XXXVIII), annotava quanto segue: «Sánchez y Tamayo tienen por de Garcilaso este soneto. Herrera y Azara lo omiten en sus colecciones. Yo lo tengo por
indigno de Garcilaso»15; a Navarro Tomás che nella sua famosa edizione del 1911 così scriveva: «Tal vez [el XXXVI] no es sino un pobre
soneto advenedizo, que debe su fortuna al desconocido editor de aquel
libro de mano en que lo encontró el Brocense, figurando entre las de15
Poesías de Garcilaso de la Vega, en «Poetas líricos de los siglos XVI y XVII»,
colección ordenada por don Adolfo de Castro, vol. I, Biblioteca de Autores Españoles, desde la formación del lenguaje hasta nuestros días, XXXII, Madrid, 1854, p. 37.
76
Aldo Ruffinatto
más composiciones de Garcilaso como lujo de la misma mano»16; o
ancora a garcilasisti illustri come Rafael Lapesa che nella sua Trayectoria poética di Garcilaso, dopo aver trascritto la prima quartina del
nostro Soneto, segnalava in nota quanto segue: «Soneto de autenticidad problemática; es uno de los que el Brocense “tomó de un libro de
mano” porque “se tenían por de Garcilaso”»17.
Tornando ai commentatori antichi, converrà ricordare che, a differenza di Herrera e di Azara, Tamayo de Vargas non aveva esitato ad
accettare come autentica la testimonianza del secondo Brocense, in ciò
confortato da una presunta «paridad del estilo» e da una non meglio
precisata «conformidad de los sujetos» tra questo e gli altri sonetti di
sicura paternitá garcilasiana. Modernamente, seppure dopo un’esitazione iniziale, si schierava con Tamayo il più famoso tra gli editori
del toledano, Elias Rivers, rilevando «semejanzas estilísticas con el Soneto III (“La mar en medio y tierras he dexado”), sobre todo con los
tercetos de éste»18. Sulle cui tracce paiono ormai assestarsi gli attuali
editori di Garcilaso e, in particolare, Bienvenido Morros che colloca
questo sonetto tra i prodotti giovanili del poeta19, pur precisando che
sono stati manifestati dubbi sulla sua autenticità («…se ha dudado de
su autenticidad, a pesar de algunas coincidencias estilísticas con el
soneto III»).20
A completamento di questo quadro critico-editoriale, non possiamo
sottacere che gli stessi argomenti linguistici e retorici usati prima da
Elías Rivers e poi da B. Morros per la collocazione del soneto tra i
prodotti giovanili di Garcilaso, erano serviti a Maria Rosso per dimostrare esattamente il contrario. La studiosa, infatti, faceva notare che
l’artificio del poliptoton nei componimenti che la princeps attribuisce al toledano «nunca afecta a una composición entera, sino que se li16
Apud KENISTON, p. 276.
p. 207 (ora in Rafael LAPESA, Garcilaso: Estudios completos, Bella BellatrixIstmo, Madrid, 1985, p. 51, n. 63).
18
Cfr. GARCILASO DE LA VEGA, Obras completas, Edición de Elías L. Rivers,
Castalia, Madrid, 1981 p. 158. Le terzine in questione così suonano: «De cualquier mal
pudiera socorrerme / con veros yo, Señora, o esperallo,/ si esperallo pudiera sin perdello./ Mas de no veros ya para valerme,/ si no es morir ningún remedio hallo:/ y si
éste lo es, tampoco podré havello».
19
«El poliptoton inicial con el verbo sentir y el enrevesado conceptismo (propio
de algunas composiciones del Cancionero general de 1511) sugieren una fecha temprana...» Cfr. GARCILASO DE LA VEGA, Obra poética y Textos en prosa, edición de Bienvenido Morros, Estudio preliminar de Rafael Lapesa, Crítica, Barcelona, 1995, p. 60.
20
Ibidem.
17
Garcilaso o Sánchez de las Brozas?
77
mita a unos pocos versos, que generalmente siguen a la descripción,
en términos claros y fluidos, del estado de ánimo del sujeto poemático», e aggiungeva che «el conceptismo aquí no tiene la función de
dramatizar una parte del mensaje [como en el Soneto III], sino que se
convierte en el móvil, el hilo conductor, al que se subordinan todos los
ingredientes funcionales», per concludere che «este procedimiento no
responde absolutamente a la tipología de las obras de Garcilaso publicadas en la princeps».21
Cerchiamo ora di osservare un po’ più da vicino queste impressioni
di lettura, muovendo proprio dal Soneto III che, secondo i fautori della
paternità garcilasiana del XXXVI, presenterebbe chiare affinità e coincidenze stilistiche con quest’ultimo, soprattutto nelle già menzionate
terzine (vedi nota 16). Le due quartine iniziali, infatti, non appaiono
contaminate in modo massiccio da fenomeni stilistico-retorici (almeno
sul versante delle figure del discorso: paronomasie, poliptoti, sinonimie, omonimie, etc.), ma si limitano ad esporre in modo chiaro, grazie
ad una evidente fluidità discorsiva, una particolare situazione del soggetto poematico. Nella prima quartina, in particolare, vien fatto cenno
ad un allontanamento fisico, nello spazio, del soggetto amante dall’oggetto amato («La mar en medio y tierras he dexado / de quanto
bien, cuytado, yo tenía»), un allontanamento progressivo, ben sottolineato dalla successione dei gerundi, verso genti e terre straniere («y
yéndome alexando cada día,/ gentes, costumbres, lenguas he passado»). Mentre nella seconda, il soggetto amante manifesta la sua sfiducia in un possibile ritorno («Ya de volver estoy desconfiado»); cerca quindi di immaginare un possibile rimedio («pienso remedios en
mi fantasía»), ma non vede altra via d’uscita all’infuori della morte
(«y el que más cierto espero es aquel día / que acabará la vida y el
cuydado»).
Gli artifici stilistico-retorici si condensano, invece, nelle terzine22,
dove l’opposizione “veros / no veros” (che è l’equivalente di “presencia / ausencia”), e le correlate “remedio / mal”, “esperar / perder”, appaiono immerse in una marcata sequenza di infiniti (“socorrer, [veros], esperar, perder, [no veros], valer, morir, haver”), in poliptoti (pudiera [10,12], podré [14]), in iterazioni verbali (esperallo [11,12]), in
iterazioni sinonimiche (socorrerme…valerme [9,12]), in rime desinenziali (socorrerme:valerme; perdello:havello [9,12;11,14), o pseudo21
22
Ed. cit., pp. 482-483.
Vedi n. 18.
78
Aldo Ruffinatto
desinenziali (esperallo:hallo [10,13]) e in allitterazioni più o meno pronunciate («si esperarlo pudiera sin perderlo»; «…para valerme / si no
es morir, ningún remedio hallo»). Ma non si tratta di un “ornato” fine
a se stesso o addirittura inutilmente complicato come a suo tempo
aveva segnalato Azara: «Los seis últimos versos forman una antítesis
ridícula, y con trabajo se descubre lo que quieren decir: esto es, que
morirá si ve o no ve a su Dama»23; si tratta bensì di una meditata e ben
articolata distribuzione dei significanti, qui deputati a creare un effetto
di senso ben diverso dal significato che sembra di poter cogliere in
superficie.
La parafrasi dell’ultima terzina compiuta da Bienvenido Morros,
sulle tracce per altro di Navarro Tomás24 e di Elias Rivers25, non potrebbe essere più illuminante a questo riguardo, nel senso che ci propone una lettura esemplare nella sua superficialità: «mas no hallo
más remedio que la muerte para curarme de no veros; y, si la muerte
es el remedio, tampoco con este remedio podré curarme, porque, una
vez muerto, no os veré»26. Ma questo non è l’effetto di senso trasmesso dal gioco dei significanti; lo sarebbe se Garcilaso avesse davvero
voluto trasmettere un messaggio affine a quello proposto dai numerosi componimenti d’ambito cancioneril sulla «presencia, ausencia
della Dama». Cosa che, tra l’altro, poteva essere ottenuta senza un
così grande dispendio di «juegos de ingenio».
L’ultima istanza semantica di Garcilaso, invece, è qui sottesa a una
proposizione “indecidibile” che intende di fatto collocarsi al di là delle
barriere imposte dalla ratio differenziante e normativa. L’opposizione
“veros / no veros” risulta, infatti, coinvolta in una catena di significanti
che ne determina la neutralizzazione (veros ĺ esperar [veros] ĺ esperar [poder veros] ĺ perder[esperar poder veros] ĺ no veros); così
come ad un analogo fenomeno di neutralizzazione appaiono sottopo23
Apud Antonio GALLEGO MORELL, Garcilaso de la Vega y sus comentaristas,
Gredos, Madrid, 19722, p. 667. Ma non si dimentichi che ben prima di Azara, Herrera
non aveva certo risparmiato critiche feroci all’ultima parte di questo soneto e, in
particolare, al suo ultimo verso: «Flojo y desmayado verso, y sin ornato y composición alguna para remate de tan hermoso soneto, pero artificioso para lo que pretende; porque con aquel lasamiento y número caído y sin espíritu descubre su intención» (apud GALLEGO MORELL, p. 322).
24
Cosí egli scrive, infatti, nella nota corrispondente contrastando la lettura di Azara: «No es cierto: el poeta no dice que morirá se ve a su dama; todo lo contario».
25
«Lo que quiere decir es esto: que no viéndola, su único remedio es morir; pero si muere, tampoco tendrá remedio, porque muerto, no la verá» (ed. cit., p. 71).
26
MORROS, ed. cit., p. 14.
Garcilaso o Sánchez de las Brozas?
79
ste le opposizioni correlate: “esperar / perder” (se è vero che il primo
si stempera nel secondo nel breve spazio di un endecasillabo: «si esperallo pudiera sin perdello»), e “remedio / mal” (dato che nel primo si
disseminano i significanti fonetici della morte [morir ĺ remedio], mentre il secondo, mal, si ricollega alla “esperanza” mediante gli artifici
della rima al mezzo e della rima per l’occhio [mal : esperallo]). Lette
in questi termini, le due terzine del Soneto III mettono in discussione il
remedio ideato dalla fantasia del soggetto poematico nella seconda
quartina («pienso remedios en mi fantasía,/ y el que más cierto espero
es aquel día / que acabará la vida y el cuydado») e profilano un abisso
semantico connotato da una disperazione senza fine, analoga a quella
espressa dai mistici con la formula “que muero porque no muero”.
Com’è evidente, non c’è nessun “conceptismo cancioneril” in tutto ciò ma un insistente lavoro della parola sulla parola capace di creare un universo drammatico nuovo, non più sorretto dalle solide basi
concettuali (più o meno ornate) della ratio ma sfumato verso orizzonti che si collocano ben al di là delle capacità di ricezione delegate alla
“fantasía”27. In questo contesto gli artifici retorico-stilistici, lungi dal
determinare l’impianto formale del componimento orientandolo verso luoghi comuni facilmente riconoscibili dal destinatario, aggrediscono in modo diretto l’impianto semantico dello stesso rovesciando lo
statuto del segno linguistico e creando effetti di senso imprevisti e
inattingibili per altre vie.
Su un piano ben diverso si colloca il Soneto XXXVI, che appare,
come sottolinea opportunamente Maria Rosso, «totalmente fundado en
una cadena iterativa y en una sintaxis caracterizada por las cláusulas
causales y adversativas y por las negaciones»; artifici che «no tienen
la función de dramatizar una parte del mensaje, sino que se convierten en el móvil, el hilo conductor al que se subordinan todos los ingredientes funcionales»28. Ed è, inoltre, un percorso pieno di trabocchetti messi lì apposta per confondere le idee al lettore e complicare
in modo del tutto artificiale uno dei temi più frequentati dalla lirica
cancioneril, quello della “enfermedad de amor”. A cominciare dal pri27
«La fantasía - scrive Herrera nel suo commento - es potencia natural de la ánima sensitiva, y es aquel movimiento o acción de las imágenes aparentes y de las
especies impresas [...] son tres las facultades interiores de la ánima, que Galeno llama
regidoras, dejando el entendimiento, que el médico lo considera poco: la memoria, la
razón y la fuerza de imaginar, que es la fantasía, común a todos los animados, pero
mucho mayor y más distinta en el hombre» (apud GALLEGO MORELL, pp. 321-322).
28
ROSSO, cit., p. 158.
80
Aldo Ruffinatto
mo verso («Siento el dolor menguarme poco a poco»), dove un iperbato e un uso arcaico del verbo menguar hanno tratto in inganno quasi
tutti i commentatori, da Rivers a Labandeira a Bienvenido Morros che
leggono concordemente: «Siento el dolor irme consumiendo poco a
poco», mentre non è il soggetto amante che si sta consumando per il
dolore, ma è il dolore stesso che diminuisce nella percezione del soggetto amante29, come traspare nitidamente dalla enfatizzazione (iperbato) del dolor e dall’uso del verbo menguar nel senso, obsoleto, di
“faltar, disminuir”.
Altri trabocchetti poi sono disseminati in questa prima quartina,
anche in modo abbastanza grossolano, se è vero che la sequenza verbale marcatamente ripetitiva (siento [1], sienta [2], sentir, sentillo [3],
sentillo [4]) non si limita a configurare la ben nota figura del “poliptoto”, ma aggiunge a titolo di ulteriore complicazione semantica una
pesante dilogia determinata dalla diversa funzione sintattica che il lessema sentir assume nell’ambito dello stesso contesto: verbale e nel
senso di “experimentar o percibir sensaciones” ai vv. 1, 2 e 4; sostantivale e nel senso di “sentido, sensibilidad, entendimiento, razón”, al
v. 3. E se è, inoltre, vero che nel secondo verso riappare la figura dell’iperbato visibile nello scambio di posizione tra “ser” e “sienta” (la
disposizione normale dei termini dovrebbe, infatti, essere la seguente: «no porque le sienta ser más sencillo», dove, tra l’altro, sencillo
riprende e specifica il concetto della diminuzione del dolore espressa
in precedenza). Artifici, a quanto pare, destinati a creare un certo grado
di obscuritas, favorendo cioè l’emergenza di quell’effetto animico
che la retorica definisce “alienazione” (“straniamento” nel lessico dei
formalisti russi) che nasce sostanzialmente dall’attivazione di alcuni
tropi in funzione di deviatori della freccia semantica.
Tocca poi all’opposizione “estar / ser” il compito di favorire il passaggio dalla prima alla seconda quartina («…estoy tan loco / ni en sello
pienso…», dove il ricorso ai tropi si fa ancor più massiccio e pesante:
dall’iperbato («ni en sello pienso…», v. 5), alle iterazioni (sello, vv. 5,
7, 8), ai poliptoti («dejaré el sello», «dejo de sello», vv. 7, 8), alla sinonimia dettata da un rapporto consequenziale («…en locura toco / …el
seso apoco», vv. 5 e 8), alle varianti sinonimiche di sentir nella sua
29
Non cade però nell’inganno G. Sansone nella sua veste di traduttore italiano
dei Sonetti di Garcilaso che opportunamente traduce il primo verso del Soneto
XXXVI in questo modo: «Sento il dolor scemare lentamente» (cfr. GARCILASO DE LA
VEGA, Sonetti, con testo a fronte, a cura di Giuseppe E. Sansone, Guanda, Parma,
1988, p. 97).
Garcilaso o Sánchez de las Brozas?
81
doppia dimensione verbale e sostantivale («oíllo…sufrillo», vv. 6, 7;
«seso», v. 8), alle paronomasie («sello…seso»), in un crescendo di artifici chiaramente deputati ad accrescere, ma sempre ed esclusivamente
sul piano dei metaplasmi e della metatassi30, l’obscuritas.
Successivamente, la ripresa nella prima terzina dei due termini
inseriti nel primo e nell’ultimo verso della seconda quartina (seso e
locura) apre la strada all’emergenza nella seconda parte del sonetto
di un marcato tessuto anaforico segnato in massimo grado dai deittici: éste, estotra, mío, suyo, ai quali vengono affidati di due percorsi (1.
seso ĺ éste ĺ mío; 2. locura ĺ estotra ĺ suya) ugualmente catastrofici: «prívame éste de sí», «mátame estotra». E si noti bene, l’artificio
metatassico (qui pilotato dall’anafora) non determina la neutralizzazione dell’opposizione “seso / locura”, ma ne predica la complementarietà, come traspare, tra l’altro, dall’assenza dell’unica figura che a
questo livello (metatassico) avrebbe potuto agire nella direzione opposta: mi riferisco, ovviamente, alla simmetria incrociata o chiasmo.
Qui, infatti, le “specie sintattiche” dei vv. 10 e 11 appaiono rigorosamente ordinate in una regolare simmetria che ricorda molto da vicino
la tecnica parallelistica della lirica medievale, mentre, nella loro
successione, rispettano l’ordine stabilito dal verso 9: seso in prima
posizione, locura in seconda. Tra l’altro, non siamo neppure troppo
lontani da un eccesso di parallelismo, nel senso che la struttura parallelistica abbraccia anche altri livelli del linguaggio (oltre a quello
sintattico) estendendo le equivalenze alla morfologia, al ritmo e ad
alcuni significati fino a creare nel poema un effetto di banalità.
A questo punto, il soggetto poematico (in quanto autore), ritenendo
troppo alto il grado di alienazione generato dalla sua audacia discorsiva, tenta nell’ultima terzina di porre rimedio (remedium) agli eccessi, e lo fa nei termini riservati al docere informativo31: confessando,
cioè la sua audacia («Parecerá a la gente desvarío (audacior ornatus)32
30
Faccio, ovviamente, riferimento alla ben nota terminologia del Gruppo μ (J.
DUBOIS, F. EDELINE, J.M. KLINKENBERG, P. MINGUET, F. PIRE, H. TRINON, Rhétorique générale, Paris, Larousse, 1970, pp. 67-86).
31
Si ricordi che «los poetas practican el docere como finalidad poético-didáctica
(praecipere, monere) dentro de la utilización intelectual y moral de la poesía (prodesse, idonea vitae dicere)» (cfr. Heinrich LAUSBERG, Elementos de retórica literaria. Introducción al estudio de la filología clásica, románica, inglesa y alemana,
Versión española de Mariano Marín Casero, Madrid, Gredos, 1975, p. 49).
32
«En la intención efectiva y en el efecto, el ornatus es una alienación con las
funciones de delectare y de movere. Los grados de alienación superiores pueden
considerarse como audacior ornatus» (LAUSBERG, p. 90).
82
Aldo Ruffinatto
/ preciarme deste mal do me destruyo») e chiedendo scusa al pubblico per aver fatto ricorso all’artificio alienante («yo lo tengo por única ventura»); una richiesta di perdono implicita nella specifica delimitazione di campo: l’alienazione (qui identificata con «este mal do
me destruyo»), infatti, non supera i confini del soggetto (yo).
L’indagine potrebbe continuare ancora a lungo, nella direzione,
ad esempio, dei luoghi comuni o delle tematiche concernenti la filosofia dell’amore nella lirica spagnola dei Secoli d’Oro, ma io ritengo
che queste scarne ma puntuali osservazioni sulla morfologia del Soneto XXXVI siano più che sufficienti per confermare quanto si diceva
in precedenza a proposito della superficialità e dell’artificiosità del
tessuto verbale di questo componimento. Un “ornato” fine a se stesso, o, per meglio dire, un ornato che si prefigge di creare un universo
di significazione derivandolo interamente dalle figure metaplasmiche
e metatassiche; un acutum dicendi genus che si appoggia a strumenti
intellettuali alienanti, o paradossali, nel linguaggio (agudeza de palabra) per invitare il lettore a compiere un proprio sforzo mentale
che gli consenta di attraversare il ponte tra il paradosso e la significazione proposta. Nient’altro che un esercizio presentato all’attenzione
del destinatario perché possa compiacersi della propria intelligenza
e, nel contempo, farsi complice del pensiero dell’autore.
Quanto tutto ciò sia lontano dalla vera poesia, in generale, e da
Garcilaso, in particolare, appare del tutto superfluo sottolinearlo, tanto
più che le differenze emergono proprio da quei contesti che dovrebbero, invece, palesare significative coincidenze e per ciò stesso identità d’autore; mi riferisco, ovviamente, alle presunte affinità stilistiche tra questo sonetto e il Soneto III, seppure limitatamente alle terzine. Da un lato, dal lato di Garcilaso, i “juegos de ingenio” aprono la
strada alla meravigliosa stagione della lirica spagnola rinascimentale
e confluiranno nel dominio eccelso della poesia barocca (Góngora,
Quevedo, etc.); dall’altro, dal lato di questi prodotti incautamente attribuiti a Garcilaso, la “agudeza de palabra” rinvia a chiare lettere al conceptismo della poesia cancioneril (l’adozione dei metri italiani non
basta a cancellare questa profonda impronta) e troverà qualche tempo dopo uno sbocco naturale non nella poesia ma nell’agudeza degli
oracoli, più o meno “manuali”, di Gracián.
L’analisi del testo condotta su questo primo campione di descrizione ci orienta, dunque, verso una ben precisa risposta, offrendo una
patente di legittimità ai sospetti di Herrera e di Azara, corroborando
le dichiarazioni forti di Adolfo de Castro (che lo considera «indigno
Garcilaso o Sánchez de las Brozas?
83
de Garcilaso») e di Tomás Navarro Tomás (che parla di “un pobre soneto advenedizo”), giustificando i dubbi di Rafael Lapesa, e ribadendo, infine, la validità delle tesi enunciate da Maria Rosso.
Non ho a mia disposizione altro spazio per prendere in considerazione gli altri due sonetti, né desidero tediare ulteriormente i miei
lettori con esercizi che alcuni di loro (in particolare Pina Ledda, alla
quale il presente lavoro è dedicato nel segno di una profondissima
stima e di una costante amicizia) saprebbero fare molto meglio di me.
Continuerò eventualmente il mio discorso in altra sede, limitandomi
per ora ad affermare che almeno per ciò che concerne il primo dei tre
sonetti aggiunti dal Brocense nella sua edizione del 1577 è assai
difficile ipotizzare una fonte attendibile o, comunque, una fonte diversa da quei cartapacios che circolavano nella seconda metà del
Cinquecento portandosi appresso un pesante bagaglio di false attribuzioni. A meno che, con un pizzico di malignità in più, non vogliamo pensare che a confezionare il falso avesse provveduto lo stesso
Brocense, la cui esperienza in fatto di traduzione di sonetti petrarcheschi e la cui capacità creativa (nell’ambito specifico della poesia
italianeggiante) non può certo essere messa in discussione.33
33
Cfr. Avelina CARRERA DE LA RED, Francisco Sánchez de las Brozas, Obras,
II Poesía, Institución Cultural “El Brocense”, Cáceres, 1985, pp. 47-52.
85
IL
ROMANZO IN UNA STANZA .
L E SALE ISTORIATE DELLO S FERAMUNDI DI
G RECIA
Anna Bognolo
Università di Verona
Lo Sferamundi di Grecia (1558-1565) compare a Venezia, per i tipi
di Michele Tramezzino, come tredicesimo libro di quel ciclo di Amadís de Gaula che aveva rinnovato in Spagna le sorti del romanzo
cavalleresco in prosa e aveva goduto durante il XVI secolo di un
successo di pubblico senza precedenti, intrattenendo intere generazioni di lettori in tutta Europa. Le ʻaggiunteʼ di Mambrino Roseo da
Fabriano meritano attenzione appunto per la loro collocazione nel contesto europeo dato che, assieme ai libri spagnoli, furono poi tradotte
in francese, tedesco, olandese.1
Non è il caso di addentrarsi nellʼintricata trama che avviluppa i
pronipoti di Amadis in ulteriori estreme avventure dʼamore e di guerra. Mi limiterò invece a prendere in esame alcuni segmenti testuali
— le descrizioni di pareti affrescate — che appaiono facilmente isolabili, grazie alla loro relativa autonomia, nel mare magnum delle
vicende del romanzo; tali segmenti, non del tutto privi di interesse in
virtù della loro centralità narrativa, permettono di ritornare al problema generale dei contatti tra immaginario figurativo e letterario,
tema cruciale nella riflessione rinascimentale sulle arti, ultimamente,
in vari contesti, tornato al centro dellʼattenzione critica.2
1
Mambrino Roseo da Fabriano fu il traduttore italiano dei cicli cavallereschi di
Amadis e di Palmerin, e del Florambel de Lucea; tradusse anche opere di Antonio
de Guevara e Pedro Mexía. Oltre allo Sferamundi di Grecia (in sei corpose parti, di
circa 500 carte ciascuna, 1558-1565) produsse altre sette continuazioni dellʼAmadís
e sei del Palmerín. Cfr. A. BOGNOLO, «Il ʻProgetto Mambrinoʼ. Per una esplorazione
delle traduzioni e continuazioni italiane dei ʻlibros de caballeríasʼ», Rivista di Filologia e Letterature Ispaniche, 6 (2003), pp. 190-202; S. NERI, «El ʻProgetto Mambrinoʼ.
Estado de la cuestión», in Actas del VI congreso de la Asociación de Cervantistas
(VI CINDAC: 13-16 dicembre 2006), Alcalá de Henares, Centro de Estudios Cervantinos, 2007 (in corso di stampa).
2
Escludendo lʼambito del Barocco, tanto conosciuto da chi leggerà queste pagine,
rimando solo a due volumi italiani recenti, che offrono riflessioni stimolanti e una
ricca bibliografia: Ecfrasi. Modelli ed esempi tra Medioevo e Rinascimento, ed. di G.
86
Anna Bognolo
Mambrino Roseo scriveva a Venezia negli anni tra il 1540 e il 1560,
in un ambiente culturale fervente e spregiudicato in cui, grazie allʼintraprendenza di poligrafi e tipografi, trionfava la letteratura di intrattenimento in volgare3. Le traduzioni in prosa dei romanzi spagnoli
erano state intraprese anni prima (Palmerino d’Oliva, trad. Roseo 1544;
Cavalier della Croce, trad. Lauro 1544). Nel 1560, dopo una lunga rielaborazione alla luce delle teorizzazioni neoaristoteliche e al contatto
con il gusto delle migliori corti italiane, era uscito lʼAmadigi di Bernardo Tasso, con lʼintroduzione di Lodovico Dolce, che da parte sua
stava riscrivendo in ottava rima il Palmerín e il Primaleón. Opere
tutte che esemplificano la convergenza, nella Venezia di metà del Cinquecento, delle due tradizioni del romanzo cavalleresco, la spagnola
in prosa e lʼitaliana in ottava rima, entrambe con salde radici romanze nella materia carolingia e arturiana, da sempre variamente intersecate. Convergenza che avviene allʼinsegna di due tendenze contrapposte: il tentativo ʻaltoʼ di forgiare lʼesuberanza del materiale romanzesco spagnolo nello stampo di una scrittura esigente, tesa a misurarsi
innanzitutto con il modello ariostesco, di cui può essere lʼemblema
Bernardo Tasso; dʼaltro canto lʼapertura commerciale rappresentata dal
catalogo ʻbassoʼ della tipografia Tramezzino, presso la quale Roseo
lavorava, che mescola e moltiplica allʼinfinito le pagine delle “spagnole romanzerie”, oggetto di avida lettura dei molti e di disprezzo dei colti.
Perciò, se Roseo vantava unʼassoluta dimestichezza con la tradizione romanzesca spagnola, di cui per ventʼanni era stato il più attivo traduttore, tuttavia poteva aver ricevuto altri stimoli dalla produzione cavalleresca italiana, quella rigogliosa tradizione canterina del
Quattrocento che, messa alla prova in modo irreversibile dalla raffinatissima sfida di Ariosto, si depurava attraverso le discussioni di
poetica e lungo il sofferto percorso di Torquato Tasso, misurandosi
sempre più seriamente con i modelli della classicità sulla via che con4
duceva al poema eroico . Viene spontaneo mettere a confronto le pareVenturi e M. Farnetti, Roma, Bulzoni, 2004; e P.V. MENGALDO, Tra due linguaggi.
Arti figurative e critica, Torino, Bollati Boringhieri, 2005.
3
Basti il richiamo a R. BRAGANTINI, «“Poligrafi” e umanisti volgari», in Storia
della letteratura italiana, ed. E. Malato, vol. IV: Il primo Cinquecento, Roma, Salerno
Editrice, 1996, con bibliografia essenziale.
4 Se ne può ricostruire il percorso facendo riferimento alle inquadrature di M.
VILLORESI, La letteratura cavalleresca. Dai cicli medievali all’Ariosto, Roma, Carocci, 2000; M. BEER, Romanzi di cavalleria. Il ‘Furioso’ e il romanzo italiano del primo
Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1987. Per il pieno Cinquecento R. BRUSCAGLI, «Il romanzo delʻ500. “Romanzo” ed “epos” dallʼAriosto al Tasso», in Il romanzo. Origine
Il romanzo in una stanza. Le sale istoriate dello Sferamundi di Grecia
87
ti affrescate di Roseo con le numerose ecfrasi italiane coeve, ben note
e ottimamente studiate; ma ciò induce a porsi il problema più ampio
del rapporto tra la scrittura di Roseo e la tradizione romanzesca italiana, che allo stato attuale degli studi è appena possibile sfiorare.
La descrizione di un fatto figurativo tra Quattro e Cinquecento non
è affatto una ricorrenza occasionale, ma è una costante, presente con
insistenza, pur con declinazioni diverse, sia nella tradizione spagnola
che in quella italiana. Lʼecfrasi, che aveva caratterizzato il poema epico fin dallʼIliade, era abituale nel genere cavalleresco. Lo studio condotto da Guido Baldassarri sul corpus dei romanzi e dei poemi italiani vale a delinearne i caratteri.5
Va ricordata innanzitutto la varietà delle arti rappresentate. La gamma dei supposti referenti comprende le arti maggiori e minori: si va
da bassorilievi delle porte istoriate, a cicli pittorici di logge e sale di
palazzi, arazzi e mosaici di pavimenti, manufatti di oreficeria e ricamo. Ma va subito notata la totale assenza del rinvio a referenti reali, a
opere dʼarte antiche o contemporanee: il riferimento è tutto interno alla
tradizione letteraria, con preferenza per il repertorio della classicità.6
Va sottolineata poi la genericità della descriptio, la scarsità di indicazioni che vadano al di là della pura enunciazione dei contenuti: i
pochi cenni descrittivi si limitano a rendere conto dei referenti sul
versante dei significati, con lʼuso di figure della ripetizione e dellʼenumerazione, senza mai veramente impegnarsi a descrivere la situazione
iconografica. Lʼallineamento dei puri contenuti, elusivo ai fini figurativi, ricorre alla ripetizione illusionista di avverbi di luogo e verba
e sviluppo delle strutture narrative nella letteratura occidentale, Pisa, ETS, 1987, pp.
53-69 e soprattutto S. JOSSA, La fondazione di un genere: il poema eroico tra Ariosto e Tasso, Roma, Carocci, 2002. Inoltre F. SBERLATI, Il genere e la disputa: la
poetica tra Ariosto e Tasso, Roma, Bulzoni, 2001.
5
Uso qui il termine ʻecfrasiʼ nel suo significato più ristretto di descrizione di
unʼopera dʼarte. Baldassarri preferisce parlare di ʻsegmenti figurativiʼ: G. BALDASSARRI, «Ut poesis pictura. Cicli figurativi nei poemi epici e cavallereschi», in La
corte e lo spazio: Ferrara estense, ed. G. Papagno e A. Quondam, Roma, Bulzoni, 1982,
v. II, pp. 605-635. Ancora suggestive per lʼabbondanza dei rimandi le pagine di P. RAJNA, Le fonti dell’Orlando Furioso, rist. della seconda edizione accresciuta dʼ inediti, a cura di F. Mazzoni, Firenze, Sansoni, 1975, pp. 376 ss. Appare invece superato G.
KURMAN, «Ecphrasis in Epic Poetry», Comparative Literature, 26, 1974, pp. 1-13.
6
«Le ipotesi di connessioni dirette tra fatti figurativi e letterari cadono presto».
Si tratta di «Un serbatoio di materiali postulati ab initio come iconografici, e invece
inscindibili dal codice e dalla grammatica del “genere” narrativo», BALDASSARRI,
“Ut poesis pictura”, cit., pp. 613 e 615.
88
Anna Bognolo
videndi; ma la narrazione risulta discontinua, per quadri, spesso indifferente a una puntuale delimitazione e scansione in sequenza delle
scene7. Va notata anche la tendenza a proporre la raffigurazione di interi cicli, mentre risulta rarissimo il rinvio a singoli episodi.
Se la precisione nellʼevidentia figurativa lascia a desiderare, di contro prevale il commento sulla preziosità iperbolica dei materiali e lo
straordinario livello qualitativo dellʼesecuzione. Si assiste a una profusione dʼoro, argento e gemme su tessuti, sculture e in cicli pittorici; sono
tutti casi di fattura prodigiosamente superiore, dove le soluzioni magiche dei poemi quattrocenteschi si allineano allʼeccellenza dellʼarte di
Vulcano dei poemi classici. Si assiste una sorta di «elevamento a potenza dellʼʻauraʼ delle arti figurative»; come osserva Baldassarri, «la mimesi dei fatti figurativi pare abbia diritto di cittadinanza allʼinterno dei
singoli poemi solo a patto di dichiarare preventivamente il suo rinvio
a un referente superumano: arte magica, arte divina, arte insomma non
umana, al limite quindi, dellʼossimoro se non della contraddizione».8
Ciò risponde a giustificazioni di ordine ideologico. Il racconto, infatti, con un salto nel contesto extraletterario, si spinge fino a implicare i rapporti di committenza tra scrittore e principe, elevando la situazione contemporanea a momento culminante e chiave interpretativa, ragione stessa del poema. Se nellʼantichità classica lʼecfrasi rappresentava il luogo omologo allʼintero poema, il microcosmo che ne
rispecchiava su scala ridotta il macrocosmo, nei poemi italiani acquista la funzione di luogo privilegiato dellʼideologia di corte, dove si
dispiegano i racconti mitologici degli eroi eponimi o progenitori del
principe (per es. Ruggero e Rinaldo): microcosmo quindi non come copia, ma forma del mondo9. Nella letteratura cavalleresca italiana, di
salda egemonia ferrarese, prevale in definitiva lʼecfrasi dinastica.10
Se si allarga lo sguardo alle altre letterature europee, si ritrovano
senza novità significative le caratteristiche tipologiche sopra delineate.
7
Ibidem, pp. 616-618.
Ibidem, pp. 622.
9
Ibidem, pp. 629.
10
Ibidem, pp. 630 ss. Su questo si veda soprattutto R. BRUSCAGLI, «Lʼecfrasi dinastica nel poema eroico del Rinascimento», in Ecfrasi. Modelli ed esempi, cit., pp.
269-292, che postula in questo unʼomogeneità europea: «né se sporgessimo lo sguardo fuori dʼItalia, nelle altre letterature europee, troveremmo, credo, novità rimarchevoli rispetto a tale canone», p. 281. In particolare interessa lʼecfrasi encomiastica di B.
Tasso, ibidem p. 287. Sul tema dinastico associato agli spazi proiettivi nella letteratura
spagnola cfr. J. CHECA, Gracián y la imaginación arquitectónica: espacio y alegoría de la Edad Media al Barroco, Potomac, Scripta humanistica, 1986, pp. 49 e 52.
8
Il romanzo in una stanza. Le sale istoriate dello Sferamundi di Grecia
89
Ciò vale indubbiamente per la Spagna e in particolare per i libros de
caballerías, in virtù della comune radice romanza, ma anche di un gusto cortigiano condiviso11. Il contesto architettonico sempre più elaborato dei castelli, dei mausolei e delle cripte sepolcrali12, erede plateresco di una tradizione allegorica fiorente in Spagna forse più che in
Italia, trova nuovo vigore nel pieno Cinquecento e continua a ospitare affreschi, vetrate, gallerie di ritratti, ma anche statue, automi, processioni e foschi tableau vivant.
Nello Sferamundi vi sono quattro ricorrenze del motivo, che non
presentano speciali spunti di originalità. Vi ritroviamo la ricchezza
esuberante delle architetture, la tendenza a presentarsi sotto forma di
ciclo, lʼesiguità dei veri e propri dettagli descrittivi e un tratto di autoreferenzialità, questo sì diverso dalla tradizione italiana, su cui ci soffermeremo più avanti. Prendiamo in esame due esempi, il Palazzo della Montagna Artifaria (Sferamundi IV, capp. 39-42) e la Sala del Sole
e della Luna (Sferamundi III, capp. 132- 136).13
Il primo episodio coinvolge uno dei protagonisti, Astrapolo re di
Siranchia, in una vicenda amorosa che si sviluppa su due momenti
diversi. Lʼantefatto risale al volume precedente (Sferamundi III, 15-20),
11
Per una panoramica sulla penisola iberica A. EGIDO, «La página y el lienzo:
sobre las relaciones entre poesía y pintura» en Fronteras de la poesía en el Barroco,
Barcelona, Crítica, 1990, pp. 164-197. Cfr. inoltre E. BERGMANN, Art Inscribed: Essays on Ekphrasis in Spanish Golden Age Poetry, Cambridge, Mass., Harvard Univ.
Press, 1979. Vorrei ricordare tre recenti interventi nel volume Lettere e arti nel Rinascimento, ed. L. Secchi Tarugi, Firenze, Franco Cesati, 2000: si tratta di G. MAZZOCCHI, «Lʼekphrasis nellʼegloga spagnola del Rinascimento», pp. 247-260; P. PINTACUDA, «Lʼekphrasis nella poesia castigliana del ʻ400», pp. 261-278; V. Tocco,
«Lʼekphrasis nei Lusiadas di Camoes», pp. 279-288. Sui libros de caballerías L.
ORDUNA FERRARIO, «La descripción como recurso narrativo en la literatura caballeresca castellana», in La función narrativa y sus nuevas dimensiones, Buenos Aires,
Mac Graw, 1999, pp. 412-419; ID., «La función de la ekphrasis en los relatos caballerescos», Letras, 40-41 (1999-2000), pp. 107-114.
12
Sulle architetture A. BOGNOLO, «Il meraviglioso architettonico nel romanzo cavalleresco spagnolo», in Lettere e arti nel Rinascimento, cit., pp. 207-219; e S. NERI,
L'eroe alla prova. Architetture meravigliose nel romanzo cavalleresco spagnolo del
Cinquecento, Pisa, ETS, 2007 (in corso di stampa); inoltre ID., Las arquitecturas
maravillosas en los libros de caballerías. Antología, Alcalá de Henares, CEC, 2007
(in corso di stampa). Inoltre J. DUCE GARCÍA, «Fantasías caballerescas: aproximación
al motivo de los castillos encantados», in Actas del IX Congreso Internacional de la
Asociación Hispánica de Literatura Medieval, eds. C. Parrilla e M. Pampín, A Coruña,
Universidade da Coruña, Toxosoutos, 2005, 2, pp. 213-232.
13
Gli altri due casi sono le pitture murali dei palazzi di Ginolda nello Sferamundi
V, cap. 91 e Sferamundi VI, cap. 46.
90
Anna Bognolo
quando la regina Calidora di Clotone14, innamoratasi di Astrapolo per
fama, lo aveva ospitato alla sua corte, ma non aveva voluto far ricorso alle arti magiche, preferendo non forzare il suo amore. Infine,
informata da unʼamica maga sulle nobili origini, ma anche sul diverso
futuro matrimoniale dellʼeroe (avrebbe sposato la principessa Rosalva), generosamente lo aveva lasciato andare al suo destino di felicità
coniugale. Tuttavia lʼamata moglie Rosalva era morta prematuramente
(Sferamundi IV, 37) e Astrapolo, pur immerso nella più profonda disperazione, si era trovato suo malgrado nuovamente disponibile. Rientra in scena perciò lʼamica maga che, per indurre il nuovo amore, si
avvale ora di tutti i mezzi di seduzione del lusso decorativo rinascimentale: il meraviglioso palazzo della Montagna Artifaria, con i suoi
ameni giardini e le sue sale affrescate.15
Riassumiamo la situazione: oppresso dalla tristezza per la morte
della moglie, Astrapolo vaga senza meta, come Amadís verso la Peña
Pobre, accompagnato solo dal suo scudiero. Nei pressi della Montagna
Artifaria i due si imbattono in un «bellissimo palagio nuovamente
fabricato… di meravigliosa construttura»; Astrapolo, desideroso di solitudine, non intende sostarvi, ma la signora del palazzo cortesemente lo convince a restare e lo accompagna nelle stanze a lui destinate.
Si può immaginare la sua sorpresa al comprendere che i dipinti alle
pareti narrano la storia del suo primo amore:
Il re […] andò mirando quelle bellissime e spaziose sale, che eran
tutte figurate di bellissime figure, con titoli […] nel legger de i quali si
commosse tutto, perciocché si vidde egli stesso quivi dipinto dal naturale con lettere che diceva: Astrapolo re di Siranchia; e quando ben
pose mente vidde che era lʼhistoria dellʼamor suo con la bella reina
di Clotone quivi dipinta così dal naturale che parea viva e sì bella
che fece alterare il cuore nel petto al re e fargli tornar la serenità del
suo viso con i suoi soliti colori (c. 123 v).
14
In questi capitoli per errore viene chiamata Sidonia, poi Calidora, infine nel V
libro Belisaura. Simili imprecisioni non sono rare nella scrittura di Roseo.
15
La montagna Artifaria è, nel Palmerín de Oliva, cap. 17, il luogo fatato della
prima avventura, in cui Palmerín sconfigge il Serpente. Anche nella Terza parte del
Florisel de Niquea, cap. 38, le Montañas Artifarias sono il luogo in cui una incantatrice raccoglie le erbe magiche. Non credo abbiano nulla a che fare con il termine
ʻartifaraʼ (ʻpaneʼnel gergo del marginalismo spagnolo) da cui il nome della rivista dʼiberistica del Dipartimento di Scienze Letterarie e Filologiche di Torino (http://www.
artifara.com/).
Il romanzo in una stanza. Le sale istoriate dello Sferamundi di Grecia
91
La visione lenisce il lutto recente e rinnova il ricordo dellʼamore
passato, tanto che il re «ogni hora più si rallegrava e rigioiva… di che
si meravigliava egli stesso». Ma si tratta di un incantesimo: la signora
del palazzo è infatti la maga che, appresa la notizia della morte dellʼinfanta Rosalva, aveva eretto il palazzo e creato le immagini a bella
posta. E così, più la contemplazione durava, più lʼincantesimo faceva
effetto. Il cavaliere, «non sapendo da quella dolce vista levarsi della
figura della reina da lui già tanto amata», resta in estasi fino a sera. Il
mattino seguente «poco o nulla [ricorda] dellʼamor della infanta Rosalva» e non fa che pensare ossessivamente alla «bella e virtuosa reina
di Clotone»; dopo che lʼaveva vista «istoriata così dal naturale», «gli
pareva unʼhora un anno di andare a rivederla in quella sala» (c. 134 v).
Gli rimane un unico cruccio: il dubbio sul carattere inverosimile di
immagini che evidentemente immortalano fatti suoi privati, ignoti a
tutti. La spiegazione — pensa — si trova nella superiore bellezza di lei,
di fama tale da far presumere che ne sia giunta notizia fino a quelle
remote regioni.16
La signora del palazzo lo invita a immergersi perdutamente nella
contemplazione:
La donna che era sagace e accorta lo invitò ad andare a vedere quella
pittura sapendo averla incantata sì forte, che quanto più mirava la figura della reina più veniva ad accendersi nel suo amore. Il re non
tardò a entrar in quella sala, e rimessosi a rimirar quella bella reina
coʼl vedere le parole successe fra loro ne i sui amori, che tutte eran
quivi descritte, sentiva una gloria e un contento incomparabile […]
Né sapeva da la sua vista levarsi esaminando tutte le fatezze del suo
viso, la dispostezza della sua persona e tutte le parti dal capo alle
piante, e con questo era venuto in tanta dolcezza di amore, che si
sentiva tutto liquefarseli il cuore (c. 137 r -v).
Il giorno seguente, sicura ormai dellʼirreversibile effetto del dipinto, la maga passa allʼazione: durante la notte carica il re e lo scudiero
dentro una nuvola e vola «invisibilmente per aere» al regno di Clotone
(cap. 42). Intanto la regina Calidora, che non ha mai voluto affidarsi
16
«Molto si meravigliava donde fosse avvenuto che quivi fosse descritto il fatto
del suo amor con lei, che a lui pareva che fosse molto secreto […] - Come si è di lei e
dellʼesser suo potuto qua haver notizia nonché del nostro amore? […] E quello discorrendo fra se diceva: la fama della sua infinita e incomparabil beltà si devʼessere
sparsa per tutto lʼuniverso, e deve haver illustrata questa provincia ancora, e come
cosa divina e segnalata e è stata quivi in pitura ritrata».
92
Anna Bognolo
alla magia per alterare il corso degli eventi, è ignara di tutti questi
maneggi. La maga aveva agito a sua insaputa e «per maggior cautela» aveva rincarato la dose con un anello incantato, poiché — dice
Roseo — «a donne e a popoli e a fanciulli talora bisognava fare ben
per forza e contra il voler loro» (c. 141 r).
Il mattino seguente la maga informa il cavaliere incredulo — «voi
vi burlate» — dellʼavvenuto trasferimento magico, invitandolo a costatare che, per quanto il palazzo appaia lo stesso, lʼaffresco è mutato. La
parete istoriata che evocava lʼantico amore, con tutte le circostanze
previe17, dʼincanto è svanita, lasciando posto alla cronaca più recente, fino a registrare, in presa diretta, il passato appena avvenuto.
Il re andò con la donna che lo condusse in una sala simile a quella
che havea veduta dipinta, e in nulla differenziava da quella se non
nella pittura, e nellʼhistoria che era di un altro andare, perché non
conteneva come nellʼaltra historia di quando il re si innamorò della
reina e la reina di lui e quando fu ricevuto da lei nel regno di Clotone,
ma vi si vedeva tutto il fatto della disperation di lui per la morte dellʼinfanta Rosalva, e come stando egli in Trabisonda, avutane nuova
fu per morirne dal dolore […] e come al fin partì da quella corte e se
ne venne sotto la montagna Artifaria, ove trovò la donna che lo ritenne ad albergar con lei; e si vedeva ella quivi ritratta dal naturale
dipinta con i medesimi vestimenti o per dir meglio del medesimo color della veste che portava e tutti gli altri suoi abiliamenti. Ma quel
che era più da notare, che la figura dimostrava tutti i ragionamenti
che egli aveva fatto con lei intorno allʼamor della reina di Clotone, e
come avendo destinato il lor partir per quel regno, dormendo erano
dentro a una nuvola stativi portati per aere, e quel che era più, che in
un altro quadro si vedeva descritto le amorevole accoglienze che la
reina gli faceva, e in questo finiva la pittura (cc. 143 v-144 r).
Si può immaginare la meraviglia del giovane di fronte a un fatto
che appare impossibile «senza opra di incantamento»; come in due
fotogrammi successivi di un film, il dipinto ora narra una nuova situazione — i colloqui avuti con la maga la sera precedente nonché il
viaggio prodigioso — e preannuncia perfino la lieta accoglienza della
regina. Non è chiaro se si tratti dello stesso palazzo (trasportato anchʼesso «per aere») o di un altro (svanito il primo e sorto il secondo,
17
«Narrava di passo in passo come egli, vinti i giganti e incoronato nel regno di
Siranchia, si apparecchiava di andare a vedere questa bella reina», fatti narrati nello
Sferamundi III, 2-9.
Il romanzo in una stanza. Le sale istoriate dello Sferamundi di Grecia
93
uguale ma diverso). Grazie allʼintercessione della magia, comunque, il
giorno seguente i due antichi amanti si ritroveranno, convoleranno a
nozze e concepiranno dei figli (cap. 45).
Se vogliamo, allora, condurre un confronto con i caratteri rilevati da
Baldassarri, riscontriamo analogie riguardo alla straordinaria ricchezza dellʼambiente in cui si dispiega il ciclo pittorico e alla vaghezza
descrittiva delle parole che dovrebbero render conto del dipinto.18
Evidentemente la funzione narrativa del dipinto è la philocaptio,
la cattura amorosa per opera magica. Inoltre, il caso dellʼamante incantato nellʼammirare il volto dellʼamata in un dipinto coincide con
lʼantico motivo cortese dellʼinnamorarsi di un ritratto, un tipo particolare di amor de lohn (si noti anche lʼiperbolica durata della contemplazione). Senza necessariamente richiamare sofisticate teorie rinascimentali di cui nel romanzo ʻdi consumoʼ si avverte probabilmente una debole eco19, il precedente più diretto si può trovare in un episodio nellʼAmadís de Grecia, in cui la maga Zirfea regina di Árgenes, la più importante incantatrice del repertorio di Feliciano de Silva, offre il ritratto dellʼeroe Amadís alla fanciulla Niquea, provocandone lʼistantaneo innamoramento20. Un riferimento appena più remoto,
che Roseo traduttore però conosceva bene, può trovarsi nel Primaleón
(cap. 70), dove si narra di come don Duardos si innamori della bella
Gridonia vedendola ritratta in un affresco, «tan propia y perfeta co-
18
Malgrado ne sia elogiata lʼeccellenza realistica («parea viva»), il dipinto è
evocato da immagini così poco definite, nelle circostanze degli avvenimenti e nella
gestualità dei personaggi, che (come nel caso del «pintor de Úbeda» di cervantina
memoria, Don Quijote II, 3 e 71) necessitano dellʼapposizione di titoli per capire di chi
e di cosa si tratta. Ma si tratta di una convenzione: le iscrizioni identificative sono sempre presenti nella tradizione spagnola. La superficialità figurativa del ritratto si rivela
anche nellʼindugio sul carattere più facilmente riconoscibile, il colore dei vestiti.
19
Come ad es. la tradizione dellʼimmagine dipinta nellʼanima, cfr. G. SERÉS, La
transformación de los amantes. Imágenes del amor de la antigüedad al Siglo de Oro,
Barcelona, Crítica, 1996.
20
«[La] reina de Árgenes embió a su hermano el Soldán pintado en un pergamino
sacado al natural todo lo passado en el Castillo de las Siete Guardas, con todos los
hechos que el Caballero de la Espada allí hizo cuando fue desencantado el Emperador
e Lisuarte. El soldán holgó mucho con aquella historia, porque con su saber la reina lo
hizo tan al natural como si propiamente ellos fueran. E por dar plazer a su fija embiole la historia para que la viesse. La princesa, como viesse pintado aquél de quien
ella tantas nuevas avía oído, súbitamente sintió en su coraçón ser rasgado de la
dulce flecha de amor, tanto que sin ninguna color quedó en el rostro». Feliciano de
SILVA, Amadís de Grecia, ed. A.C. Bueno Serrano e C. Laspuertas Sarvisé, Alcalá de
Henares, CEC, 2004, II parte, cap. XXIII, pp. 296.
94
Anna Bognolo
mo si fuera viva en carne».21
Al di là dello specifico significato narrativo, ciò che interessa sottolineare è il ruolo mnemonico del dipinto, non solo per il personaggio,
ma soprattutto per il lettore, per il quale le immagini valgono come un
riepilogo, inducendo a ricordare avvenimenti narrati nel libro molto
tempo prima. Funzione interna amorosa, quindi, ed esterna riepilogativa.
Ma si possono rilevare altri spunti, seppure appena emergenti; in
particolare vi sono allusioni ad alcune delle aporie riguardanti lo statuto della finzione di cui si prenderà gioco Cervantes. Nei libros de caballerías, che si pretendono storici, lʼarte è tenuta a tramandare la memoria: si dipinge il fatto da ricordare e celebrare per le generazioni
future. Lo si può fare in presa diretta: è il caso dellʼuccisione dellʼEndriago da parte di Amadis, quando lʼimperatore di Costantinopoli incarica unʼequipe di pittori di fissare il ritratto dellʼorrenda bestia a memoria dellʼimpresa22. Altro caso, a cui si accennerà più avanti con
lʼesempio del Clarián de Landanís, è quello del cavaliere che trova
già scritta la cronaca dellʼavventura appena portata a termine. Lo
stesso avviene per la sala di Astrapolo, dove la pittura, copia della
narrazione, registra fatti e colloqui appena avvenuti. Lʼeffetto di admiratio per lʼimmediatezza della registrazione (la magica mutazione
del dipinto) genera la stessa sorpresa che prova don Chisciotte allo
scoprire che la sua storia «andaba ya en libros» quando «aún no estava
enjuta en la cuchilla de su espada la sangre de los enemigos que había muerto» (Don Quijote II, 2-3). La spiegazione, che attribuisce la
responsabilità di questa impossibile registrazione ai poteri di un mago
conoscitore dei più reconditi pensieri — «debe de ser algún sabio
encantador el autor de nuestra historia, que a los tales no se le encubre
21
Primaleón, ed. M.C. Marín Pina, Alcalá de Henares, CEC, 1998, cap. LXX, pp.
149 ss. Ma innamorarsi del ritratto è analogo a vedere lʼamata attraverso lo specchio;
non si può prescindere dal riferimento al motivo parallelo dello specchio magico,
prolifico nei libros de caballerías. Un esempio è nel Don Silves de la Selva, quello
in cui Lucendus vedrà lʼimmagine dellʼinfanta Fortuna e ne resterà ferito dʼamore, cfr.
I. ROMERO TABARES, Silves de la Selva. Guía de lectura, Alcalá de Henares, CEC,
2004. Sul complesso significato degli specchi cfr. G. POGGI, «Vetri, specchi, cristalli: la verità e i suoi riflessi in S. Teresa, Cervantes, Gracián», in L’ombra, il doppio,
il riflesso. Quaderni di Lingue e Letterature, 1997, pp. 101-125.
22
G. RODRÍGUEZ DE MONTALVO, Amadís de Gaula, ed. J.M. Cacho Blecua, Madrid,
Cátedra, 1987-88 (capp. 70-75). Anche BALDASSARRI «Ut poesis pictura», cit., p. 634
rileva la presenza di segmenti figurativi che «fissano immediatamente per lʼeternità
avvenimenti appena narrati nel poema» e rinvia fra gli altri al Palmerino e allʼAmadigi.
Il romanzo in una stanza. Le sale istoriate dello Sferamundi di Grecia
95
nada de lo que quieren escribir» — pone in realtà il problema prettamente teorico del carattere convenzionale dellʼomniscenza dellʼistanza narrativa nel romanzo. Il sabio, evidentemente, è un alter ego del
narratore.
Lʼinteresse dellʼesempio precedente sta nella relativa complessità
prodotta dalla mutazione della pittura nei due momenti successivi.
La seconda ecfrasi, invece, pur essendo alquanto più statica, è ben
più ambiziosa. Sulle pareti della sala è affrescata, infatti, una sintesi
completa del ciclo di Amadis.
La Sala del Sole e della Luna rappresenta la meraviglia architettonica culminante sullʼitinerario che conduce due dei protagonisti,
Astrapolo e Lindamarte, con le loro rispettive amate Rosalva e Eliana,
verso la Valle dʼAmore, dove dovranno liberare il loro amico principe
di Palomaro dalle malie di unʼincantatrice (Sferamundi III, capp. 120131). Il viaggio cerimoniale del corteo capitanato dai due cavalieri è
totalmente eterodiretto dalla regia dei maghi Zireno e Zirzea, che guidano la compagnia su un percorso articolato a tappe successive come
una entrada real, conducendo ogni sera i personaggi in lussuosi alloggi appositamente allestiti, sempre diversi: tende di tela dʼoro in un
giardino fiorito, il castello incantato della Rocca dʼAmore, le capanne
di una magnifica brigata di cacciatori. Lʼintento dei maghi non è altro
che dilettare la comitiva:
[…] i savi Zireno e Zirzea (per opra deʼquali tutte queste cose gli
avvenivano) perché havessero il camino prospero e in niuna parte
noioso, tutti i piaceri e le consolationi gli apparecchiavano che si avesse, sempre variandogli, potuto pensare (Sferamundi III, cap. 132,
c. 439r).
Il corteo regale giunge infine in vista di uno splendido palazzo (Sferamundi III, capp. 132-136).
Viddero un palagio in mezzo la campagna di tanta grandezza che pareva una picciola città, di sì bella e gentil costruttura che era cosa di
gran vaghezza il mirarlo (c. 439 v).
Appare poi una «bellissima matrona pomposamente vestita», che
accoglie gentilmente le dame e i cavalieri.
96
Anna Bognolo
Quando furon dentro un grandissimo cortile rimasero attoniti di maraviglia. […] Erano le loggie a torno a torno sì ample e sì spatiose che eran gli occhi di tutti invaghiti in mirarle. Le stanze terrene nel quali furono dalla nobile donna condotte per mostrar lor la casa, erano tutte dipinte di musaico con ricchissimo lavoro e apparevan tanto commode
e ornate di sì ricchi e sontuosi letti che in casa del maggior imperator
del mondo non si sarebbon veduti più eccellenti e più ricchi (c. 440 v).
Le dame sono impazienti di salire al piano superiore per «le ample e magnifice scale fabbricate di finissimi marmi», e giungono così
alla sala «che era quaranta canne lunga con la sua debita proporzione
di grandezza», dove «viddero cosa di infinito stupore»:
a lʼun de i capi di essa risplendeva un picciol Sole di tanto splendore
che abbarbagliando la vista di tutti, niun poteva gli occhi affissarvi
liberamente; dallʼaltro lato contrario che era su la entrata, risplendeva
una Luna che, se ben non havea molto di lume per rispetto del lume
del sole, si vedeva nondimeno la naturale effigie sua sì come noi la
vedemo nel suo cielo. Dalli altri dui lati della spatiosa e ampia sala
erano tutte figure di mosaico di stupendo lavoro, tutte di famosi heroi e cavalieri signalati con i successi delle cose loro (c. 441 r).
Lʼinteresse del complesso figurativo23 che copre le pareti della sala
sta nella sistematicità e completezza con cui illustra, quadro per quadro, il ciclo completo di Amadis de Gaula. Le porzioni in cui è suddivisa la parete scandiscono infatti le gesta di ognuno dei cavalieri
protagonisti di un libro del ciclo spagnolo, così come esso si era
configurato prima dellʼintervento di Roseo. Possiamo seguire con lo
sguardo le figure, obbedendo lʼinvito del verbum videndi.
A destra (nella «facciata a man dritta») si dislocano su tre fasce
orizzontali rispettivamente le vicende dellʼAmadís propriamente detto
(libri I-IV), quelle narrate nelle Sergas de Esplandián (libro V) e quelle
del Lisuarte de Grecia di Feliciano di Silva (libro VII). Vi si vedono:24
23
Il termine ʻmosaicoʼ non va preso alla lettera; potrebbe significare semplicemente ʻopera artistica o figurativaʼ.
24
Per comodità ho numerato i quadri e li ho collocati visivamente in un elenco.
Il ciclo di Amadis comprende i libri seguenti: I-IV: Amadís de Gaula (1508); V: Sergas de Esplandián (prima del 1510); VI: Florisando, di Páez de Ribera (1510); VII:
Lisuarte de Grecia, di F. de Silva (1514); VIII: Lisuarte de Grecia, di Juan Díaz
(1526); IX: Amadís de Grecia, di F. de Silva (1530); X: Florisel de Niquea I e II, di F.
de Silva (1532); XI: Florisel III (Rogel de Grecia) di F. de Silva (1535) a cui si aggiunse il Florisel IV (Rogel de Grecia II) (1551); XII: Don Silves de la Selva, di Pedro
Il romanzo in una stanza. Le sale istoriate dello Sferamundi di Grecia
97
[1] tutte le battaglie successe nellʼamor del famoso Amadis di Gaula
con la sua bella Oriana, tutti i suoi gran fatti e tute le cose avvenutegli con lei
[2] di sotto poi appariva tutta la gran storia dipinta dei gran fatti dello imperator Splandiano et dellʼamore et delle cose successe in esso
fra lui e le bella imperatrice Leonorina
[3] nella terza poi si vedeva tutta lʼhistoria di Lisuarte di Grecia fra
lʼamor della principessa Onoloria e lui, la battaglia marittima e terrestre avuta con lʼimperatrice Abra e Zairo e finalmente come la
prendesse per moglie.
A sinistra («dalla man stanca») si vedono gli avvenimenti dellʼAmadís de Grecia (libro IX), del Florisel de Niquea (libro X) e del Rogel
de Grecia (Libro XI), ancora incompiuti.
[4] nel primo e più alto spatio dipinta tutta lʼhistoria di Amadis di
Grecia come fosse da fanciullo involato, come capitasse nel regno di
Saba, quel che ivi fece e come se ne fuggisse, lʼamor fra lui e la principessa di Francia, quel che per lei fece, e come poi si innamorasse
della principessa Nichea nel mirar la sua effigie che gli portava Bussendo il nano. Tutto il fatto della Torre dellʼUniverso e come quivi
sotto abito e forma di Nereida ottenesse il desiderato amor della sua
donna, e finalmente questo primo spatio conteneva tutto il successo
della sua historia puntalissimamente.
[5] nel secondo spatio era tutto il fatto dellʼamore e notabili battaglie
di don Florisello, lʼamor preso alla bella Silvia sua zia vestita in abito
pastorale con lʼamor di Darinello e tutto quello che era fra lor seguito.
[6] Nel terzo e ultimo spatio si vedeva in figure rappresentato tutta
lʼhistoria e gli amori diversi di don Rogello con tutti i suoi gloriosi
fatti, ma non era questa pittura finita ancora (c. 442 r).
Nelle due pareti frontali sono rappresentate le storie del Don Silves de la Selva (libro XII) e dello Sferamundi stesso (libro XIII),
ovviamente altrettanto incompiute.
[7] Sotto il sole che era nel quadro in luogo più alto, in faccia della
sala era lʼhistoria di don Silves, il suo nascimento e tutti i suoi magnade Luján (1546). Il libro sesto e lʼottavo non ebbero fortuna e qui si trovano esclusi.
Cfr. Emilio José SALES DASÍ, «Las continuaciones heterodoxas (el «Florisando» de
Páez de Ribera [1510] y el Lisuarte de Grecia [1526] de Juan Díaz) y ortodoxas (el
«Lisuarte de Grecia» [1514] y el «Amadís de Grecia» [1530] de Feliciano de Silva)
del «Amadís de Gaula», in Edad de Oro (Libros de caballerías, textos y contextos),
XXI, 2002, pp. 117-152.
98
Anna Bognolo
nimi e valorosi gesti, né anco questa parte era totalmente finita, ma
vi era lasciato lo spatio per finirla.
[8] Dalla contraria parte del sole ove era la luna era lʼhistoria del
principe Sferamundi di Grecia con i suoi valorosi fatti, e quei di Amadis dʼAstra, e gli amori fra loro e le due sorelle figliole dello imperator di Parti, la principessa Ricciarda e lʼinfanta Rosaliana, ma sopra
le figure e le pitture di esse non erano scritti i nomi perché non essendo anco pubblicati i matrimonii fra loro non volea lʼartefice di tanta
opra che si sapessero i lor nomi.
Roseo costruisce insomma una sala celebrativa della genealogia
romanzesca del suo eroe, culminazione vivente dellʼintero ciclo; conferisce quindi a posteriori una patente di nobiltà al suo personaggio,
coinvolgendo nel suo disegno i libri di Montalvo, di Feliciano de Silva
e di Pedro de Luján.
Come si deduce dallʼincompiutezza degli ultimi quadri, il dipinto,
come il precedente, registra i fatti in tempo reale («non essendo anco
pubblicati…») e compie soprattutto una funzione riepilogativa. I diversi quadri rappresentano di fatto dei richiami, delle brevi analessi
ripetitive, la cui ampiezza comprende un libro per ogni quadro; ma la
descrizione nel suo complesso ricostruisce la totalità del precedente
narrativo, costituendo unʼanalessi completa, senza soluzione di continuità tra lʼopera degli scrittori spagnoli e il racconto di Roseo25.
La funzione di questi richiami è quella di rinfrescare la memoria di
una vicenda troppo vasta per essere letta e ricordata dʼun fiato, ma che
si può aiutare a ricostruire per inquadrature successive, con questʼaffresco di una sala, che diventa così una specie di camera picta del
ricordo, un vero e proprio teatro della memoria, non esente dallʼallusione a fascinosi palazzi della realtà.26
25
Nei termini di G. GENETTE, Figure III. Discorso del racconto, Torino, Einaudi, 1976, pp. 102 ss.
26
Basta pensare allo Schifanoia di Ferrara. Tra lʼaltro nellʼonomastica (Sferamundi, Astrapolo) è esplicito il rimando astrologico. Molte famiglie nobili facevano
decorare i palazzi con affreschi celebrativi di pretese antiche glorie familiari. Un
esempio rilevante è il Castello del Cataio degli Obizzi (1570-1573), affrescato da
Giovan Battista Zelotti e descritto da Giuseppe Betussi, su cui si veda J. KLIEMAN,
«Cicli di affreschi a soggetto storico nel Cinquecento», Arte Lombarda, 2-3-4 (1995),
pp. 103-109. Lo stesso Mambrino Roseo potrebbe essere lʼiconografo di un ciclo di
affreschi di tema classico nella Rocca dei Colonna a Castelnuovo di Porto, secondo
Paola IAZURLO, «La loggia di Federico Zuccari a Castelnuovo di Porto: nuovi ritrovamenti», Bollettino d’arte, LXXXVII, serie VI, nº 120 2002, pp. 113-134 (ringrazio
Francesco Fiumara per questa informazione). Sui teatri della memoria basta menzio-
Il romanzo in una stanza. Le sale istoriate dello Sferamundi di Grecia
99
Nei libros de caballerías questo della memorial hall è un topos
diffuso, in cui vengono a confluire matrici diverse. Vale la pena di
distinguere i fili di questo intrico di tradizioni: non perché le pagine
di Roseo siano il risultato di un complesso lavoro di tessitura — anzi,
sono una costruzione piatta nella sua generica fissità — ma per dar conto di un percorso che nei libros de caballerías appare più ricco di
implicazioni di quanto a prima vista potrebbe sembrare.
La prima immagine che si può legittimamente evocare è la sala
affrescata del palazzo di Morgana, dove Lancillotto prigioniero aveva dipinto la storia del suo amore e più tardi Artù avrebbe trovato
conferma del suo tragico tradimento. Se per i personaggi questo episodio ha una funzione narrativa interna che definirei drammatica, per
il lettore è una sorta di mise en abyme: il racconto rappresenta se stesso in una stanza-microcosmo, che ne racchiude, per immagini, gli snodi essenziali.27
Anche nella sala dello Sferamundi si tratta di storie dʼamore, ma
soprattutto — tema tipico dellʼecfrasi — della rassegna completa degli
eroi, assimilabile, per la funzione di conservazione della memoria, alle
gallerie celebrative di amanti, guerrieri o personaggi esemplari chiamate Case della Fama, che incarnano una tendenza allegorica di lunga
durata: dalla tradizione umanistica (si pensi al Laberinto de Fortuna
di Juan de Mena), fino alla ritualità dei templi del romanzo pastorale
(Diana, libro IV) o al linguaggio emblematico delle visioni mnemotecniche del rinascimento e barocco28. Le cripte sono anche legate a
nare L. BOLZONI, La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell’età
della stampa, Torino, Einaudi, 1995.
27
Lancelot, in The Vulgate Version of Arthurian Romances, ed. H.O. Sommer,
Washington 1908-13, 7 voll. (V, 52). Cfr. Gerhard WILD, «Von der “Chambre aux
images” zur “Camera obscura”: Medienimagination im Lancelot, bei Guillem de
Torroella, in den libros de caballerías, bei Cervantes und Proust», in De orbis Hispani
linguis litteris historia moribus, ed. A. Schönberger e K. Zimmermann, Frankfurt am
Main, Domus, 1994, pp. 683-714.
28
Come mostra la ricostruzione di M.R. LIDA, «La visión de trasmundo en las
literaturas hispánicas», in H.R. Patch, El otro mundo en la literatura medieval (1950),
México, FCE, 1983 pp. 369-449. Cfr. anche J. MONTEMAYOR, La Diana, ed. de J.
Montero, Barcelona, Crítica, 1996, pp. 165-213 e 386 e ss.; G. CORREA, «El templo de
Diana en la novela de Jorge de Montemayor», Thesaurus, 16 (1961), pp. 59-76 e F.A.
DE ARMAS, «Caves of Fame and Wisdom in the Spanish Pastoral Novel», Studies in
Philology, 3 (1985), pp. 332-358. Le ecfrasi della Diana forse vengono da stimoli
italiani, come insinua M. CHEVALIER, L’Arioste en Espagne (1530-1650). Recherches
sur l’influence du “Roland Furieux”, Bordeaux, 1966, pp. 276-77. Sui sogni allegorici
100
Anna Bognolo
un itinerario abbastanza preciso del motivo del palazzo sotterraneo e
divengono uno spazio fuori dalla storia, un luogo di salvaguardia dalla
morte, come avviene ancora nella parodia cervantina della Grotta di
Montesinos.29
Nei libros de caballerías le sale ʻsacrarioʼ sono un luogo comune,
e possono ospitare un monumento sepolcrale, la rappresentazione di
un trionfo amoroso, o un mausoleo di glorie guerriere, dove la memoria si conserva per mezzo di statue assise su troni, cicli di affreschi
alle pareti, o attraverso lʼimmortalità dei personaggi procurata tramite incantamento.30
cfr. Ch.R. POST, Medieval Spanish Allegory, Georg Olms, Hildesheim-New York,
1971 e B.E. KURTZ, «Diego de San Pedroʼs Cárcel de Amor, and the tradition of the
allegorical edifice», Journal of Hispanic Philology, 8 (1984), pp. 123-38. Uno sviluppo
ipertrofico dellʼallegoria, ambientata in spazi sempre più complicati e preziosi, si
trova nei libros de caballerías a lo divino, come La Peregrinación de la vida del
hombre o Caballero del Sol, di P. Hernández de Villaumbrales (1552) ed. a cura di
H. Salvador Martínez, Madrid, 1986 (la Séptima morada ospita lʼecfrasi dei re di
Spagna); cfr. lo studio di J. CHECA, «“El caballero del sol” de Hernández de Villaumbrales y el género de las novelas de caballerías “a lo divino”», Crítica Hispánica,
10 (1988), pp. 49-66.
29
M.L. MENEGHETTI, «Palazzi sotterranei, amori proibiti», Medioevo romanzo,
12 (1987), pp. 443-56; su Juan Rodríguez de Padrón cfr. M.R. LIDA, Estudios sobre la
Literatura Española del Siglo XV, Madrid, Porrúa Turanzas, 1978, pp. 106-116. Il
topos ha in Spagna una vitalità indubbia, gettando radici nella tradizione romanza
(la storia di Merlino sepolto in una grotta di cristallo e la storia di Febus il Forte nel
Roman de Palamedes), attraverso il Baladro del Sabio Merlín e il romanzo sentimentale (la Estoria de dos amadores di Juan Rodríguez del Padron) che vi collocano i
sepolcri di amanti sventurati. Sullʼecfrasi di sepolcri cfr. anche L. ORDUNA FERRARIO, «La función de la ekphrasis en los relatos caballerescos», cit. Fondamentale è lo
studio di J.M. CACHO BLECUA, «La cueva en los libros de caballerías: la experiencia
de los límites», in Descensus ad inferos. La aventura de Ultratumba de los héroes (de
Homero a Goethe), ed. P.M. Piñero Ramírez, Sevilla, Universidad, 1995, pp. 99-127.
Infine A. EGIDO, «Cervantes y las puertas del sueño. Sobre la tradición erasmista del
ultramundo en el episodio de la cueva de Montesinos», e «La de Montesinos y otras
cuevas», in ID., Cervantes y las puertas del sueño. Estudios sobre La Galatea, el
Quijote y el Persiles, Barcelona, PPU, 1994, rispettivamente pp. 137-78 e pp. 179-122.
Sui viaggi allʼaltro mondo C. SEGRE, Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle
immagini dell’aldilá, Torino, Einaudi, 1990, pp. 3-66; C. ALVAR, «El viaje al más allá
y la literatura artúrica», en Literatura y fantasía en la Edad Media, ed. Juan Paredes
Nuñez, Granada, Universidad, 1989, pp. 15-26.
30
Cʼè poca differenza nella tradizione, tra i personaggi incantati sui troni e le loro
statue funerarie, rispettivamente espressione letterale e figurata della loro immortalità. Da non dimenticare, alle origini, la Halle aux Images del Tristan di Thomas; cfr.
A. RONCAGLIA, «La statua di Isotta», Cultura Neolatina, 31 (1971), pp. 41-67. Vi
sono scene ferme, ma anche un campionario di figure in movimento: automi, statue
semoventi, processioni dove si recitano ruoli legati a valori e antivalori cavallere-
Il romanzo in una stanza. Le sale istoriate dello Sferamundi di Grecia
101
Si creano così delle genealogie cavalleresche pseudo-storiche, in
cui sono ritratti i cosiddetti «Nueve de la Fama», panteon assoluto
della cavalleria, che rappresentano una sorta di traslatio militiae e
creano un compagnonnage tra eroi biblici, classici e del romanzo cavalleresco medievale31. Può fornirne un esempio la cripta degli eroi
della Grotta di Ercole nel Clarián de Landanís (1518) dove, su ricchi
troni sono collocate le statue di eroi biblici e classici (Sansone, Giuda
Maccabeo, Ercole e Ettore), e di coppie di amanti famosi (Tristano e
Isotta, Lancillotto e Ginevra) ai quali il cavaliere andrà ad aggiungersi.
Alla conclusione dellʼavventura nel panteon degli eroi compare, infatti, anche la sua statua e unʼiscrizione celebra la sua gloria. Non è tutto:
sulla via del ritorno egli trova già scolpite su marmo le avventure che
ha compiuto e più avanti ne trova la cronaca redatta in lettere dʼoro32.
Come è evidente, la funzione immortalante che fa del cavaliere attuale
lʼultimo anello di una catena di glorie passate è la stessa delle ecfrasi
di Roseo, ma qui è moltiplicata per tre, nella rappresentazione plastica
(statua e bassorilievo) e nella scrittura.
Lo Sferamundi a paragone risulta più contenuto, dato che la serie
degli antenati si limita ad evocare eroi strettamente appartenenti al
ciclo, senza ammantarsi di riferimenti classici e biblici, e presenta sicuramente un rapporto più stretto con il modello offerto da Feliciano de
Silva in numerose immaginifiche descrizioni. Ad esempio nel Castillo
de las Siete Torres (Amadís de Grecia, cit., I capp. 27-30, pp. 101 e ss.)
lʼeroe giunge, superando varie prove, a una grande sala riccamente
schi, cfr. NERI, L’eroe alla prova, cit. Cʼè infine poca distanza, come funzione
narrativa, tra certe sequenze profetiche e certe possibilità visionarie offerte da specchi o sfere di cristallo, antesignani delle attuali telecamere, che permettono di vedere battaglie lontane, svelano sequenze di immagini profetiche, offrono aggiornamenti in tempo reale su ciò che accade nel resto del mondo. Un solo esempio: nel
libro XI, Rogel di Grecia, cap. 76: una «poma muy grande a manera de espejo»
situata nella torre più alta dei Palazzi dellʼÍnsula No Fallada, permette di vedere ciò
che avviene in ogni angolo del mondo. F. de SILVA, Florisel de Niquea (parte III), ed.
J. Martín Lalanda, Alcalá de Henares, CEC, 1999, p. 234.
31
Di solito sono tre eroi biblici, tre classici, tre medievali o “moderni”. Lo spettro di possibilità comprende in genere Davide, Sansone, Giasone, Enea, Ercole,
Ettore, Achille, Alessandro, Cesare, Lancillotto, e via via gli altri eroi della tradizione cavalleresca romanza.
32
G. VELÁZQUEZ DEL CASTILLO, Clarián de Landanís, ed. G. Anderson, Newark
(Delaware), Juan de la Cuesta, 1995, p. 413 e ss. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. La terza parte dell’Espejo, opera di Marcos Martínez, narra il viaggio alla grotta
di Anglante, lo scontro con i «Nueve de la fama», la visita al palazzo meraviglioso che
ospita un pantheon degli eroi. Riassunto in P. GAYANGOS, «Discurso preliminar», in
Libros de caballerías, Madrid, Atlas, 1963, p. LIV.
102
Anna Bognolo
arredata dalle statue dʼoro di tutti gli incantatori del ciclo: ognuno di
loro indica, affrescate sulle pareti, le avventure che ha creato ed i cavalieri che le hanno portate a termine33. Nel castello dellʼAlto Roquedo (Florisel de Niquea (parte III), cit., capp. 86-88, pp. 275 ss.) la processione delle donne più belle dellʼantichità (tra cui Polissena ed Elena di Troia) scorta Leonida fino ad un enorme salone circolare illuminato da una cupola a vetrate che, con esuberanti colori, raffigura tutte
le avventure del ciclo; al centro sta la statua della Sabia Zirfea, mentre in una sala adiacente assisi su troni si trovano incantati Amadís,
Oriana e re Artù. Infine, in un paratesto del Don Silves de la Selva,
forse più vicino allo Sferamundi per date e contenuti, Pedro de Luján,
imitando evidentemente modelli anteriori, allude a una preziosa sala
che ospita il sepolcro del re Amadís, coperta di vetrate decorate con le
storie di tutto il suo lignaggio.34
In ogni caso quella che si presenta come una fittizia galleria di eroi
romanzeschi può essere vista anche come enunciazione di una reale
dinastia letteraria, un omaggio ai padri delle fiction precedenti e una
rivendicazione della continuità del genere. Lʼautore, elencando i precursori del suo eroe di carta compie inoltre la funzione fondamentale
di ricostruire le linee portanti della trama dellʼintero ciclo, in una
sorta di riassunto delle puntate precedenti ad uso di un pubblico distratto. Tuttavia, in questo modo, più che riempire i vuoti, ne crea la
consapevolezza: rende coscienti i lettori dellʼincompletezza dei dati.
Intendo dire che, come avviene per certe interminabili saghe moderne
come Harry Potter o Guerre stellari, per le quali lʼipertesto informa33
Lʼavventura del Castillo de las Siete Torres dipinta su di una pergamena aveva generato lʼamore di Niquea per Amadís de Grecia, vedi supra.
34
È la «Ynvención de la presente hystoria», premessa al testo; lʼautore accede a
una «quadra ricamente obrada, que tan transparente era como si de un claro diamante
fuera hecha, figurada de grandes historias que eran todos los hechos del rey Amadis y
de los príncipes de Grecia que fueron de su linaje». Un certo interesse desta lʼOlivante de Laura di A. de Torquemada (1564, contemporaneo a Roseo) in cui gli eroi
non sono scolpiti o dipinti o tessuti in un arazzo, ma vivi e in movimento: lʼautore
racconta di come ha assistito a un torneo in cui i cavalieri famosi, da Sansone a
Ettore, da Alessandro a Lancillotto, fino ad Amadís e ai suoi innumerevoli successori, si misuravano al cospetto della maga Ypermea: A. de TORQUEMADA, Don Olivante de Laura, a cura di I. Muguruza, in Obras completas, Madrid, Turner (Biblioteca Castro), 1994, «Prólogo». In proposito si veda I. MUGURUZA, «Sobre el prólogo
del Don Olivante de Laura, de Antonio de Torquemada», in Evolución narrativa e
ideológica de la literatura caballeresca, ed. M.E. Lacarra, Bilbao, Universidad del
País Basco, 1991, pp. 127-144. Analoga galleria di personaggi si trova nel Palazzo
di Anglante, nel prologo della III Parte del Espejo de príncipes di M. Martínez.
Il romanzo in una stanza. Le sale istoriate dello Sferamundi di Grecia
103
tivo consultabile in internet vale a ricostruire il percorso ma anche ad
indicare il volume o il DVD mancante, è probabile che il breve ragguaglio svolga una doppia funzione: da un lato quella riepilogativa per i
lettori smemorati, dallʼaltro quella pubblicitaria sui lettori che si scoprono meno informati e sono così incitati a colmare le lacune.
Lʼimpressione è che si tratti, insomma, non solo di reti finto-celebrative, imitazioni delle ecfrasi dinastiche del rinascimento italiano,
ma di zone del testo che finiscono per avere il ruolo di una specie di
plaquette pubblicitaria di informazione editoriale, dove allʼansia di
gloria letteraria è subentrato un più prosaico desiderio di successo
nelle vendite. Evidente è, a questo proposito, il ruolo delle pitture
non finite: romanzo e affresco scorrono paralleli, la storia continua!…
Affezionati lettori, continuate a leggere e a comprare!
Per concludere, riprendiamo alcuni fili. Nello Sferamundi la visione della sala dipinta avviene in un sereno contesto cortigiano, durante il soggiorno di una nobile comitiva in un mirabile palazzo in cui la
padrona di casa, spesso una maga che si compiace di sorprendere,
invita i suoi ospiti a prendere alloggio. Lʼesame del ciclo figurativo
rappresenta il culmine del percorso ameno di una visita guidata alle
meraviglie della costruzione, che è sempre opera di incantamento; la
sua funzione, pur nelle sue diverse modulazioni, è quella di un tempio della memoria, a volte con il fine di favorire un intrigo amoroso.
La durata iperbolica della contemplazione blocca i personaggi sospendendone ogni azione. Rispetto alla tradizione più vicina, quella
spagnola dei libros de caballerías, si tratta di sceneggiature meno
dinamiche e complesse. Nei libri di Feliciano de Silva, infatti, lʼecfrasi si presentava quasi sempre al culmine di una successione di
avventure, come elemento centrale di una prova suprema di valore
cavalleresco durante lʼespugnazione di un castello; in tal modo la
funzione celebrativa dellʼopera dʼarte si attivava immediatamente al
ridosso di unʼimpresa e a volte ne era addirittura un componente. La
presenza di statue, affreschi e vetrate, insomma svolgeva generalmente un ruolo ben più drammatico di quello decorativo di intrattenimento ʻturisticoʼ.
A differenza della tradizione italiana, inoltre, le ecfrasi di Roseo
si collocano in un campo di relazioni assolutamente interno al testo;
gli eventuali riferimenti alla realtà extratestuale si svolgono esclusivamente sul piano intertestuale del ciclo. Questa assenza assoluta di
allusività esterna non deve sorprendere, se pensiamo alla figura so-
104
Anna Bognolo
ciale di Roseo, al suo impegno di instancabile poligrafo e al suo labile, quasi inesistente, legame di committenza con la corte ferrarese.
Sebbene molte delle lettere dedicatorie di Tramezzino, fra cui spicca
quella ad Alfonso II, siano rivolte a dignitari estensi35, scrittore e stampatore si muovono liberamente ai margini della corte, in uno spazio
periferico dove sarebbe fuori luogo proporre, come nei poemi maggiori, lʼecfrasi quale occasione per il dispiegamento di una proiezione dinastica. Nella Venezia indaffarata e conflittuale della metà del
Cinquecento, ciò che vale è piuttosto unʼoperazione di marketing:
per questo, le ecfrasi di Roseo, più che misurarsi con il nascente poema eroico, scorrono ancora nellʼalveo scavato dalla letteratura spagnola; se risultano meno tormentate e artificiose di quelle di Feliciano
de Silva, è perché la sua scrittura è rivolta al vasto pubblico, desideroso di svago, degli acquirenti italiani.
35
La traduzione di Roseo dellʼAmadis di Grecia (1550) e la continuazione
(1564) portano la dedica di Michele Tramezzino ad Alfonso II dʼEste; gli altri
volumi del ciclo sono dedicati a giovani della corte estense: Bonifazio, Ercole e
Ippolito Bevilacqua, Virginia Trotta, Lucrezia Coga, Eleonora Pia Bevilacqua. Le
sei parti dello Sferamundi sono invece dedicate a nobili veneziani: Federico Cornaro, Benedetto Delfino, Gerolamo Lippomano, Marcantonio Memmo, Bernardo Giustiniano, Andrea Gussoni.
105
U NA
BRUJA LITERARIA MÁS
Blanca Periñán
Università di Pisa
Hace poco comunicábamos a la comunidad científica el feliz hallazgo que la Dra. M. Teresa Cacho Palomar, en su reciente trabajo de
investigación de manuscritos hispánicos en bibliotecas italianas, ha
confirmado al estudiar un fondo, nueva adquisición de la Biblioteca
Estense de Módena1. Se trata de una copia manuscrita completa de la
perdida Farsa de la Costança contenida en un códice misceláneo.
Considerada el único texto teatral salido de la pluma de Cristóbal de
Castillejo, es la farsa una pieza procaz, blasfema y escandalosa que
por tales características debió tener en su época difusión sólo manuscrita. De ella se desgajó desde antiguo el largo Sermón de amores
que circuló impreso y que se incluye siempre entre las Obras del
autor quedando del resto de la pieza sólo un resumen del contenido
de los actos hecho por Moratín y editado por Foulché-Delbosc.2
1
M.T. CACHO y B. PERIÑÁN, «La Farsa de La Costança recuperada», Rivista di
Filologia e Letterature Ispaniche, 7 (2006), pp. 1-20. Previamente ha dado noticia
de este descubrimiento la bibliotecaria Cristiana ARESTI: «La Farsa della Costanza
di Cristóbal de Castillejo, un inedito nella Raccolta Pio Falcò di Savoia alla Biblioteca Estense Universitasria di Modena», en Memorie scientifiche giuridiche letterarie, Accademia nazionale di Science letterarie ed storiche di Modena, s. VIII, vol.
VIII, fasc. III, 2005.
2
A un antiguo manuscrito de la farsa, conservado en la biblioteca del monasterio de El Escorial, le tocó la mala suerte de entrar a formar parte de los libros del
famoso saqueo sufrido en la de San Antonio por el benemérito Bartolomé José
Gallardo. La historia clamorosa de esta pieza manuscrita la trazó con claridad don
Ramón Foulche-Delbosc en el lejano año 1916 al editar en la Revue Hispanique el
único segmento de la Farsa perdida (que son los apuntes de Moratín en la versión
manuscrita de su Orígenes) junto con el Sermón de amores castillejiano, texto éste
que se sabía formaba parte de la Farsa y que ha navegado sin naufragio a lo largo de
los siglos, a pesar de ser tan irreverente y deslenguado como la farsa, pero que contó
con publicación exenta ya en vida de Castillejo y que entró en la edición póstuma de
sus Obras, censurada por López de Velasco; véase R. FOULCHE-DELBOSC, «Deux
oeuvres de Cristóbal de Castillejo», Revue Hispanique, 36 (1916), pp. 489-620; J.P.W.
CRAWFORD, «The Relationship of Castillejo’s Farsa de la Costanza and the Sermón
de amores», Hispanic Review, 4 (1936), pp. 374-76. La mejor bibliografia relativa a
106
Blanca Periñán
El fondo recientemente adquirido en Módena pertenecía a la biblioteca privada de la familia Falcó, Príncipes Pío de Saboya, del Marquesado de Castel Rodrigo, que desde el siglo XVII había tenido una
estrechísima relación con Italia, donde esta rama de la familia se había
establecido en el siglo XIX 3. La Farsa de la Costança se encuentra en
el códice Epsilon 32.3.4 (Estero 198), un volumen facticio compuesto
de impresos y manuscritos de los siglos XVI y XVII. Estaba en condiciones deplorables de conservación, a causa de los insectos y de la
humedad, por lo que ha sido restaurado, aunque resulta en ocasiones
de difícil lectura. Es posible que este volumen se compusiera no mucho
más tarde de 1618, última fecha que aparece en varios de los impresos.
Para la enrevesada historia de la transmisión de La Farsa remito
al artículo arriba señalado en la primera nota. En esta ocasión deseo
ofrecerle a Pina Ledda un aspecto curioso contenido en uno de los
actos de esta deslenguada pieza teatral cuya acción encontraron los
eruditos que pudieron leerla en los siglos XIX y XX, bastante atípica;
como Gallardo, que habló de su «poca acción, demasiada semejanza en
algunas situaciones, episodios mal unidos a la fábula» aunque también
usó apreciaciones positivas relativas a su «mucha gracia cómica, maestría en el uso del idioma y en la versificación facilidad y dulzura».4
Como las más conocidas obras de Castillejo cuales el Diálogo de
mujeres o el Aula de cortesanos, es una mezcla de especies literarias
en libertad de agrupación y ensamblaje, con incorporación de abundantes escenas cómicas, según un magistral dominio del diálogo y de
su poética; en aquéllas el receptor disfruta de una conversación levemente escenificada al ser el diálogo, en palabras de Prieto, «el género más propicio a la comunicación renacentista»5 en el panorama de
la tradición, directa e indirecta, la obra de Castillejo, se lee en C. ZILLI, No ay temor
/ que no le prive el amor. Sull’Historia de Píramo y Tisbe di Cristóbal de Castillejo, Bari, Adriatica Editrice, 2003; para la bibliografia secundaria vid. R. REYES (ed.),
C. de Castillejo, Antología poética, Madrid, Cátedra, 2004. Para las ediciones del
Sermón vid. M.D. BECCARIA, Vida y obra de Cristóbal de Castillejo, Madrid, Anejos
del B.R.A.E., 1997; R. REYES (ed.), C. de Castillejo, Obra completa, Madrid, Turner
-Biblioteca Castro-, 1999 y R. REYES, Estudios sobre Cristóbal de Castillejo (Tradición y modernidad en la encrucijada poética del siglo XVI).
3
La Dra. Cacho tiene ya entregado a la imprenta su Catálogo de los manuscritos
hispánicos de la Biblioteca Estense Universitaria, en donde aparecerá una relación
más detallada de la historia de esta familia y la posible formación de este Fondo.
4
Cfr. FOULCHE-DELBOSC, cit., p. 492.
5
A. PRIETO, «El diálogo renacentista en Castillejo», Homenaje a A. Zamora Vicente, III, 2, Madrid, Castalia, 1992, pp. 261-76.
Una bruja literaria más
107
las letras hiapanas. El amplio uso de la copla de pie quebrado, en conjunción con la inclusión de facecias sumamente funcionales, constituyen los polos de la verdadera renovación poética castillejiana guiada por la búsqueda de una fórmula feliz en la que incrustar contenidos plenamente renacentistas cuales exaltación de la vida y censura
eclesiástica6. En esta Farsa el autor concede al mismo tipo de arquitectura un claro y decidido estatuto dramatúrgico: una acción preparada en los primeros actos, seguida de un núcleo estático formado
por la doble estructura de un largo sermón y la preparación de un
final que subvierte la situación inicial, todo cosido bajo un doble
registro expresivo: diálogo arrusticado el de las dos parejas y llaneza
del paródico sermón en la lengua alusiva de un fraile y un cura rurales.
Al ser mi propósito entresacar de su contexto el segmento textual
que en esta ocasión me interesa comentar, no será superfluo, para mejor contextualizarlo, ofrecer la sinopsis completa de los actos que componen la Farsa:
Acto I. Aparece la malcasada Marina, joven identificada por su habla,
al igual que los otros personajes de la pieza, como rústica, aunque no
sayaguesa, discutiendo con su marido el viejo Antón, de manera desbocada y desinhibida (“floxo, cuitado, facino / que ya para vos, Antón,/ regocijos malos son:/ son paternostre y buen vino / y mear;/ farto
tengo que lavar / el sarro de las orinas / y catar entre vecinas / camisas
que remondar”): le acusa de impotencia (“tenés froja la barriga / y arrugado el gallinero”), de darle sólo de comer sin cumplir con sus deberes
matrimoniales, salpicando sus parlamentos de violentas maldiciones
y graves acusaciones de falta de moralidad colectiva (haber quemado
el bosque de madroños, hurto del alacabala del concejo). Sigue un
largo monólogo en el que, desde su punto de vista de persona madura, el viejo Antoni se queja de su suerte recordando mejores partidos
en su vida anterior y echándole en cara a Marina los muchos regalos
que le ha hecho (descritos según el gusto de las grandes acumulaciones cómicas al límite de lo disparatado). Manifiesta duramente su deseo de estar casado con otra persona que sea mayor como él, y anuncia, en el cierre del acto, una voluntad de tomar iniciativas oportunas.
6
Importantes apreciaciones sobre experimentalismo y renovación del lenguaje
poético de Castillejo en BECCARIA, Vida y obra de Cristóbal de Castillejo, cit. y en
REYES, Estudios sobre Cristóbal de Castillejo, cit., así como en la Introducción a su
Antología poética, cit.
108
Blanca Periñán
Acto II. De manera gemela se presenta el altercado entre la otra pareja especular: ella, la vieja Costança, que da nombre a la farsa, y su
marido, Gil, joven distraído en otros amoríos, embobado precisamente
de la joven Marina. La lengua de Costança es aun más desbocada y
escandalosa que la de los actantes anteriores; iguales quejas, igual
recuerdo de los bienes por ella aportados a la boda, expuestos según
el esquema compositivo del ajuar disparatado; el joven en sus intervenciones confiesa haberse casado por puro interés al estar falto de
dinero y, en violentas peleas en la escena, amenaza matarla o trocarla por una mujer joven. Costança, muy capaz de superarlo en sus
violencias verbales (“si vos, Gil, huerdes artero / yo tanbién seré lletrada”), invoca un abundante santoral cómico grotesco (“Ai, mezquina
/ señora Santa María / daime vos algún sojeto / Soponçio, santo Niceto...”) y sale corriendo a pedir ayuda al cura.
Acto III. Se ha cambiado de espacio teatral. Un cura, genéricamente
así llamado, presenta a los feligreses a un fraile venido de Florencia,
apelado muy grotescamente el maestro Pujavante fray Puntel, de la
Orden de Espetel, a quien pide imparta un sermón en la ocasión de su
breve estancia en el lugar. Tras larga indecisión, el fraile accede y da
comienzo al que llamará más adelante “Sermón de Cupido”, que será
el Acto IV.
El Sermón (2.890 vv.) es la versión larga del que conocemos editado repetidas veces y atribuido a Castillejo (aunque el injertado en
esta pieza presenta numerosas e importantes variantes de sustancia)7.
Estructurado según la técnica sermocinante, con su invocación blasfema a Celestina, su tema y sus particiones, llenan su contenido elementos peculiares de los sermons joyeux tardomedievales entreverados con la amplia materia ovidiana del ars amandi y de los remedia
amoris. Es una celebración extraordinaria de la potencia del omnia
vincit amor, monarca de la sensualidad que no dispensa venias a
ninguno de los estamentos religiosos. La primera parte evoca casos
de amor no correspondido y la segunda felices casos de amor “con
igualanza”; en ambas van incrustadas cantidad de anécdotas, tanto
clásicas como populares, grotescas, escatológicas, de fuerte carga
erótica, con remites a fuentes hispánicas e italianas. Es la conclusión
una propuesta de amor libre en el que cada cual elija lo que desea,
cada amante se aderece según su gusto, con tal de que haya consen7
Resultarán manifiestas en la edición de la Farsa que tengo preparada y que se
dará a la imprenta en breve.
Una bruja literaria más
109
timiento entre las dos partes. Éste va a ser en realidad el objetivo de
la doble pareja, Marina-Antoni y Costança-Gil, y la solución del
doble problema en los actos siguientes.
En la segunda parte del sermón se asiste a un verdadero canto al
amor carnal, a la desnudez, al iter amoroso que empieza por la vista,
aumenta con la palabra ʊen la línea de la novela sentimentalʊ y se
concluye con descripción de la belleza del encuentro erótico. Abundan las citas específicas intertextuales, las alusiones, la anecdótica
faceciosa y grotesca para cerrar el todo estratégicamente con la clave
de que el amor es “una pequeña locura”. Le sigue al sermón, de fina
escritura cultamente paródica, una especie de continuación a la manera de misa carnavalesca en la que el cura guía a los presentes en
una confesión general sobre los pecados de lujuria cometidos por
todos los estamentos (incluida la papisa: «...otorgada / por la papa
enamorada / Juana, inglesa de nación,/ que yendo en la procesión /
parió porque iva preñada / rebentando»), confesión altamente irreverente («yo pecador / me confieso al dios de amor / y a su madre, la
carnal / y no santa..»), que se concluye con una absolución blasfema.
Acto V. En un encuentro de alta comicidad lingüística, los dos maltratados maridos debaten sobre amores y genealogía de las propias
mulas; vuelven a sus cuitas amorosas y deciden acudir al cura para
proponerle, en la línea de lo oído en el sermón, el trueque o permuta
de las esposas tras referir ambos la mala vida que les infligen las dos
diabólicas mujeres. No encuentra gran dificultad el cura en acceder,
se consulta con el fraile intentando convencerlo a declarar soluble el
matrimonio esgrimiendo el fácil argumento de la simonía y buen
partido económico que le sacarán a la operación. Lo presentan astutamente como indulgencia y bula singulares citando autoridades burlescas y esgrimiendo latinajos macarrónicos; los gañanes, contentos
de la propuesta, se van en busca de Marina y Costança.
Acto VI. El fraile y el cura, en desembarazado diálogo, descubren su
verdadera identidad: son falsos religiosos que van por los pueblos
empreñando mozas; se divierten echándose en cara numerosas historias lúbricas y se deduce que con latines y patrañas van engañando
por el mundo cuando van a predicar (“apareja tu escopeta / que bienen
los animales / porque destos y otros tales / hincho yo mi burjuleta”).
Acto VII. Entran las dos parejas. Al anunciar la decisión del divorcio
a las respectivas esposas, será Costança quien oponga fuerte resistencia, por inquina y venganza hacia Gil y por estar firmemente con-
110
Blanca Periñán
vencida de la indisolubilidad del vínculo sacramental, aunque de ello
se ofrece una visión posibilista y humanística que, entre bromas, incluye algunas veras: “Mas el tiempo que se muda / y cambia las intenciones / ha descubierto raçones / con que l’ombre se sacuda / deste
yugo;/ por lo qual al papa plugo / dar en esto decisión / por escusar
qu’el varón / no sea de sí verdugo / matador,/ porque l’ombre pecador
/ y la mujer pecadora / entre quien amor no mora,/ son ministros de
dolor / entre sí”. Tan recia es la resistencia de Costança que el marido tendrá que recurrir a pedirle al cura que se la lleve aparte e intente convencerla como sea. El argumento usado por el atrevido e irresponsable cura ante Costança, que niega con fuerza la violencia que
se le quiere imponer, es de tipo analógico: el hombre en su propia
casa tiene poder de ordenar, la casa del papa es la iglesia, luego el
papa en su casa puede poner y quitar, hacer y deshacer. Al final vence la ley de la mayoría por encima de la reticencia y tibia adhesión
de Costança. Siguiendo la línea paródica que estructura toda la pieza, se representa la nueva unión de la doble pareja, con rituales litúrgicos que son un repaso paródico de elementos cuales artículos de fe
como condiciones necesarias para la unión (si tienen parentesco entre
sí, si se han conocido carnalmente etc.). Se concluye con el divorcionuevo matrimonio: se cogen de la mano las nuevas parejas y repiten
tres veces las palabras (burlescas) del rito (parodiado). La oración final, totalmente carnavalesca, es una especie de Misa del asno en latín (“asinarum asinorum....”) con la que se prometen fidelidad nueva
y concluyen con baile “porque boda sin caramillo / no vale un maravedi”. Baile cuya letra es una especie de glosa sobre la malcasada.
Leída con atención y detenimiento filológico, la Farsa permite reflexionar sobre múltiples aspectos de una de las prácticas escénicas
peculiares y sorprendentes del primer siglo XVI; por una parte entra
en directa relación con la comedia urbana o celestinesca al contener,
si no todos, algunos de los rasgos más pertinentes en esa especie
teatral ya bastante definida8: Celestina invocada como protectora en
8
Después de los estudios de Menéndez Pelayo, Bataillon, Hillard y Heuguas,
tratan la cuestión de manera actualizada J.M. DÍEZ BORQUE, Los géneros dramáticos
en el siglo XVI, Madrid, Taurus 1987, pp. 90-92; M.A. PÉREZ PRIEGO, Cuatro comedias celestinescas, Sevilla-Valencia, UNED, 1993, Introd., pp. 9-47; ID., El teatro
en el Renacimiento, Madrid, Eds. del Laberinto, 2004, pp. 56-58. De manera específica tratan sobre los grados de imitación del modelo en las continuaciones celestinescas, cfr. K. WHINNOM, «El género celestinesco: origen y desarrollo», en La literatura en la época del Emperador. Actas de la Academia Literaria Renacentista (VVII), Salamanca, Universidad, 1988, pp. 119-130; S. ARATA, «Una nueva tragico-
Una bruja literaria más
111
sustitución paródica de la Virgen; el tema del amor carnal, el lenguaje blasfemo, ambientación en interiores urbanos, inclusión de elementos casi entremesiles, abundancia de consejas y paremias, uso
cómico de la magia. Al presentar introito y argumento, siete actos,
final cantado y danzado, seis actantes y desarrollo de una acción con
cambio de escenas, entra de lleno en la fórmula codificada por Torres Naharro, según la famosa definición en el prohemio de la Propaladia, de comedia ‘a fantasía’, al ser «un artificio ingenioso de
notables y finalmente alegres acontecimientos por personas disputado [...] de cosa fantástica o fingida que tenga color de verdad aunque
no lo sea». En cuanto farsa igualmente contiene en gran densidad
todos los elementos de la comicidad: lo escatológico, lo disparatado,
lo descompuesto, lo erótico. La larga inclusión de pieza amplia de tipo
paródico ʊpor muy a-teatral que nos parezca a los modernosʊ, al
igual que la Vigilia de la enamorada muerta en la Egloga de Plácida
y Victoriano enciniana y como los muchos latines paródicos en las
gemelas comedias celestinescas9, confirma probablemente el carácter
de pieza escrita para ser leída en círculos cortesanos, o cuanto menos
cuenta con un público no popular sino culturalmente cualificado cual
era el de muchos ambientes humanisticos y académicos del primer
siglo XVI.
Con muchas otras en el siglo, la farsa se coloca como una muestra de un gusto aún no plenamente perfilado dentro de lo que fue la
búsqueda de la fórmula teatral triunfante posterior; con gran probabilidad pudo ser representada pero no ante público abierto sino como
ejercicio entre entendidos de un tipo de gracias y agudezas, consumidas entre placer y sagacidad de vida. Se yergue además como uno
de los textos más libres de los siglos áureos, entre los más blasfemos
y atrevidos del primer siglo XVI, con su fuerte eros evocado en la
escena sin pelos en la lengua, con una gran figura femenina, de extraordinaria fuerza y humanidad a pesar de sus rasgos grotescos,
retratada a través de una vivísima oralidad. La fórmula estrófica
elegida es la decididamente mimética de la lengua de uso, cristalizada en la ágil quintilla de pie quebrado, en adhesión a Torres Naharro,
media celestinesca», en Celestinesca, 12, 1 (1988), pp. 45-50; C. BARANDA, «De
Celestinas: problemas y metodología», en Celestinesca, 16, 2 (1992), pp. 3-32.
9
Véase, por ejemplo, latinajos y parodias de oraciones en la Comedia Tesorina,
pp. 72-73, 92-94 y 108 de la ed. en PÉREZ PRIEGO, Cuatro comedias, cit.; en la
Comedia Tidea, en la misma obra, p. 154 y en el Auto de Clarindo, ivi, pp. 279-280.
112
Blanca Periñán
llena de coloquialismos y de elementos de la vida cotidiana, con una
llaneza y una naturalidad en el arte de incrustar anecdótica aguda y
faceciosa de alto nivel artístico.
El peliagudo argumento tocado de la solubilidad del matrimonio
ʊfiltrado, como siempre en literatura, a través de la magia de la
ficción, y gracias al estatuto de lo cómicogrotescoʊ queda convertido en clara diversión, sin pretensiones de fuerte anticlericalismo,
pura carcajada para ambiente estrictamente cortesano, con sus ideales de urbanitas y jocunditas en función de renovación.10
En el acto V, concluido el doble sermón, los dos varones intentan convencer al cura de la carga insoportable que es para ellos soportar el
estatus matrimonial con las dos diabolicas mujeres que les han tocado en suerte; y para ello el autor construye, en arquitectura simétrica,
una serie de retratos hipergrotescos que llevan a la exacerbación la
tópica genérica de transgresión del decorum: las figuras femeninas, la
joven y la vieja, quedan reducidas a turpitudo en el cuerpo y en el alma, al igual que en las dos escenas iniciales del Acto I habían quedado
destruidas las figuras masculinas por boca de la joven y de la vieja.
No podía faltar en la tópica denigratoria del retrato de vetula la
consabida ecuación vieja=bruja. Es el último de los argumentos usados
por Gil, después de los muchos asquerosos detallismos sobre la turpitudo física de Costança en la que prevalecen las miserias infinitas
de bubas, piojos, landres en los sobacos y partes íntimas. Con gran
hábilidad, la pluma del autor se desliza en un momento del acto hacia
otras descripciones y alusiones al trabajo de la protagonista. Transcribo el segmento textual que lo contiene11:
(fol. 296r) GIL [...] e sabe façer hechiços
más que tres encantadores
nigromantes.
Este didomingo d’antes
5
acojó sin mi lliçençia,
fabrando con reberençia,
dos diabros d’estoriantes
10
PRIETO, cit, pp. 261-76.
Transcribo el texto añadiendo puntuación y acentuación según el uso moderno modificando exclusivamente el uso gráfico de u por v en sus valores consonánticos; introduzco acentuación diacrítica en los monosílabos són = sino, á = ha. Y numero los versos en cuanto segmento, sin remitir a su exacta colocación en el acto V.
11
Una bruja literaria más
10
15
20
25
30
35
40
45
relamidos
que, quando los bio dormidos,
apañóles los aprietos
y cató.s los falso petos
y los senos escondidos,
y sacóles
un libro de refasoles
d’uñas letras coloradas,
todas engaramitadas
que semejan caracoles;
con el qual
y un cacho de pedernal,
y con barbas de cabrón,
façe una conjuraçión
sobr’unos granos de sal
amarillos.
Y tiene n’unos trapillos//
(col. B)bucados de pan de Antoño
e pedaçicos de paño
cortados de los orillos
sin tixera.
E tiene ne l’espetera
detrás de los taxaderos
llenos agujeros
de pelotillas de çera
punçetadas;
e unas abujas fincadas
en unos coraçonçillos,
e unas pumas de rastillos
con’ as puntas remachadas
por derecho;
e sebo de can desfecho
en sangre de palominos,
e unos granos negrestinos
que dis que son de felecho
y de dura.
¡Miafe, yo no tengo duda
són qu’es una fechiçera!
Porque Juana la partera
anda tan bien muy aguda
n’esta dança.
E con esta pernotança
113
114
Blanca Periñán
50
55
60
65
días ha que llo barrunto
e mil beçe lle pregunto:
¿Qu’es esto, deçí, Costança,
qué pendençia?
Pardiós, esta buestra çiençia
a mí nada no me praçe.
Respóndeme que façe
porque lle tenga querençia
e amorío.
Mas es un gran disbarío
que, juria a la fe, señor,
no le tengo más amor
que si fuese mármol frío;
ni á poder
que yo la pueda querer
quanto al matrimoño monta [...]
Incorporamos la deliciosa microescena a la abundante literatura
de descendencia celestinesca, tanto en la descripción del utillaje brujeril como en la de las prácticas y actividades que constituyen la
caracterización de una hechicera profesional. Como lleva hace tiempo señalando la crítica, en “lo celestinesco” sucesivo a la gran obra
primigenia, se convirtió en rasgo genérico, junto con otros, la inclusión burlesca de las dotes maléficas en las viejas terceras y un uso de
la magia, distante y cómico, ajeno al del modelo12. Por supuesto que
nada tiene que ver esta breve escena con la riqueza del laboratorio de
la madre Celestina y los doscientos productos de su rebotica, y menos interesante es su farmacopea que la de otras presentes en piezas
teatrales del ciclo celestinesco o textos de cordel, como por ejemplo
el testamento de Celestina en pliego del XVII13, o la incluida en otras
12
Cfr. los estudios citados en las notas 8 y los trabajos fundamentales de A.
VIAN, «El pensamiento mágico en Celestina, ‘instrumento de lid o contienda’», en
Celestinesca, 14, 2 (1990), pp. 41-91, y de la misma estudiosa «Transformaciones
del pensamiento mágico: el conjuro amatorio en la Celestina y en su linaje literario», en Cinco siglos de Celestina. Aportaciones e interpretaciones, R. Beltrán y J.
L. Canet eds., Valencia, Universitat de València, 1997, pp. 209-238; P. BOTTA, «La
magia en La Celestina», en Dicenda, 12 (1994), pp. 37-67.
13
El testamento de Celestina, editado en B. PERIÑÁN, Poeta ludens. Disparate,
perqué y chiste en ellos siglos XVI y XVII. Estudio y textos, Pisa, Giardini, 1979, pp.
154-159.
Una bruja literaria más
115
continuaciones celestinescas14. Sin embargo, a pesar de la relativa
brevedad del segmento que presento, creo que sus elementos constituyentes y la concatenación con que están hilvanados no carecen de
interés.
Lo primero que se advierte en el cuadro descrito por boca del marido es que se presenta al personaje definido como “fechicera”, apelativo atribuido a prácticas de actividades menos graves que las brujeriles, las peores y más perseguidas; aunque las ocupaciones a que
según Gil se dedica la vieja Costança, como se verá, caen en parte
dentro de la brujería “ancestral”: se nos dice que es más hábil «que
tres encantadores nigromantes» juntos (vv. 1-3); y no es nunca insignificante que se explicite aquí la más peligrosa de las magias, la trágica o negra, la que consistía en andar por los cementerios recogiendo elementos de los cadáveres para confeccionar los conjuros.
Siguiendo el orden en que se construye el segmento, vemos abrirse el todo con la narración indirecta de una visita clandestina de clientes, práctica la más común de la tercería amorosa en la que las hechiceras acogían en sus casas las peticiones de remedia amoris. Y son
precisamente dos estudiantes, como en la mejor tradición celestinesca, eco de la presencia en ciudades universitarias, sobre todo Salamanca, de ambientes ligados a cultura hermética, quienes se presentan, connotados diabólicamente, aunque en el lenguaje grotesco de
fuerte rusticismo deformante propio de toda la Farsa: son “estoriantes relamidos” (vv. 7-8), nombrados cómicamente, como se hace con
los cerdos ‘con perdón’ = “fabrando con reberençia” (v. 6).
De la escena se deduce que Costança los adormece con algún alucinógeno y, una vez sin conciencia, les “apaña los aprietos” (v.10), es
decir les ‘prepara con cuidado y diligencia’ las ‘opresiones’, vale decir ʊsegún Autoridadesʊ las necesidades o dificultades por las que se
hubiesen dirigido a ella en petición de remedia. Apañar es sintagma
absolutamente específico del campo semántico en cuestión: véase en
el Auto de Clarindo, en situacion gemela, vv. 2227-8 «pues yo te prometo a mi / que yo las apañare».
La operación que sigue es de no clara interpretación: el “catarse”
los falsos petos, por ir en forma reflexiva parece dicho de sí misma,
es decir equivaldría a ‘Costança busca algo que llevaba escondido
ella misma en el pecho’ ya que “peto” podía significar ‘adorno o
14
Auto de Clarindo, escena V, o Tragicomedia de Polidoro y Casandrina, segmento citado por A. VIAN, Transformaciones, cit., pp. 230-231.
116
Blanca Periñán
vestidura que se pone en el pecho para entallarse’, es decir, aquellos
rellenos que criticaba Quevedo junto con las pantorrilas falsas (Aut.)
De debajo de tales elementos del vestuario parece que saca “un libro
de refasoles” que lleva muy escondido; el genitivo parece alusión
burlesca a páginas musicales (re-fa-sol), indicando rayas y círculos
como notas musicales, probable creación léxica del autor. Y lo lleva
escondido ʊdeducimosʊ por ser el que contenía los conjuros con
que efectuar la práctica brujeril que Costança está a punto de preparar. La modalidad burlesco-alusiva indica a las claras que se trata de
un algo perseguido. Está escrito con letras que parecen espirales,
garabatos (“todas encaramitadas / que semejan caracoles”)15, y son
“d’uñas letras coloradas”, es decir rojas. Se está indicando algo
escrito en árabe (más bien que en hebreo) por el aspecto de la escritura, y con ello el autor pinta tal y como era la realidad brujeril de la
época, en la que pululaban ensalmadores, desaojaderas, saludadores,
conjuradores que se valían de las llamadas “nóminas”, signos mágicos o papeles con nombres, fórmulas y oraciones; que eran precisamente de “vermejas letras”, color de bermellón, siempre presente y a
veces especificado como escritura efectuada con sangre sacrifical de
distintos animales (tintura de azafrán, o bermellón, o sangre de murciélago o de cabrón); recuérdese en el famoso conjuro de Celestina
las «bermejas letras, por la sangre de aquella noturna ave con que
están scritas»16, en herencia de la magia seria medieval en la que
famosas habían sido las palabras de Arnau de Vilanova «de characteribus scriptis cum sangue vesperetilionis»17. Más que evocación de
los conocidos libros misceláneos hispanoárabes, hispanohebreos y
aljamiados de la última edad media y renacimiento18 creo que en
nuestro segmento se alude a las corrientes “nóminas” antedichas.
15
Voz no registrada, probablemente construida sobre engarabatar ‘poner en
forma de garabato’, que era ‘instrumento de hierro cuya punta vuelve hacia arriba
en semicírculo’, así como garabatear letras o escritos es ‘escribir o formar semicírculos y garabatos mezclados con rayas mal formadas’ (Aut.)
16
Cito por F. de ROJAS, Tragicomedia de Calisto y Melibea. Edición de Zaragoza 1507; edición interpretativa de F. Lobera Serrano, Roma, Bagatto Libri, 1996,
p. 41. Cfr. VIAN, El pensamiento mágico, cit., p. 57; VIAN, Transformaciones, cit.,
p. 217 y CÁTEDRA, cit., pp. 107-108.
17
Citado en M. MENÉNDEZ PELAYO, Historia de los heterodoxos españoles, III,
Madrid, BAC, 1978, p. 377, n.1.
18
Para los contextos mágicos cfr. P. CÁTEDRA, Amor y pedagogía en la Edad
Media. (Estudios de dectrina amorosa y práctica literaria), Salamanca, Universidad, 1989, especialmente el cap. 2, pp. 85-119; cfr. también VIAN, El pensamiento
Una bruja literaria más
117
Con tal escritura y un utillaje para hacerse luz (“un cacho de pedernal”, v. 19)19 y las hiperconocidas en tales tareas “barbas de cabrón”
(v. 20)20, la vieja se dispone a hacer lo que se dice manifiestamente
una “conjuración” (v. 21). Lo hace sobre unos granos de sal que, por
llamar amarillos, debían ser de azufre.
La escena no contiene un conjuro verbal explicitado, como es usual
en la celestinesca, sino que se desliza, en un crescendo de la descripción, hacia otros aspectos brujeriles más oscuros: se nos informa que
Costança se dedica también a la llamada “magia simpática”, la que se
hacía con sustancias que de alguna manera imitan el fin deseado gracias a la intercesión de la hechicera y su pacto diabólico y que, aprovechando un sinfín de objetos dotados de poderes mágicos, permitían
a las fuerzas demoníacas su acción activándose contra los hombres21;
se creía que los objetos producían afinidades por semejanza o contacto; en general eran los dientes, y los cabellos o la más famosa soga o
hilo los objetos empleados con que se ataban las voluntades en la philocaptio22 al inocular, por contacto, pasión devoradora en la víctima,
locura de amor. Los objetos especificamente utilizados por Costança
son los trozos de pan mordidos por una persona (“bucados de pan de
Antoño”)23 pues se suponía que había pasado a ellos algo de la personalidad psíquica de la víctima; están envueltos en “trapilllos” (v. 24)
(‘paño roto, gastado, desechado por inútil’); la evocación casi automática que sugiere el texto es la del otro conocido pasaje de Celestina:
«venían a ella muchos hombres y mujeres, y a unos demandava el pan
do mordían, a otros, de su sopa; a otros de sus cabellos».24
mágico, cit., p. 57; VIAN, Transformaciones, cit., p. 217 y J.L. CANET, «La Celestina
y el mundo intelectual de su época», en Cinco siglos de Celestina, cit., pp. 43-60.
19
Véase, por ejemplo “candelas” en otras escenas nocturnas, como en la Tragedia Policena, p. 19b, cit. en VIAN, Transformaciones, cit., p. 223.
20
«baxa la sangre del cabrón y unas poquitas de las barbas que tú le cortaste»,
Celestina, ed. cit., 41, 27. Las barbas de macho cabrío se usaban en la magia simpática, por ser el animal más lujurioso y estaba presente siempre en los actos sabáticos, cfr. VIAN, El pensamiento mágico, cit., p. 58.
21
Véase P. RUSSEL, “La magia, tema integral de La Celestina”, en Studia Philologica in honorem D. Alonso, Madrid, Gredos, 1963, III, pp. 337-354, p. 246.
22
CÁTEDRA cit., pp. 107-109 y VIAN, El pensamiento mágico, cit.
23
Textualmente, para que la rima sea perfecta, habría que leer “antaño” pero se
perdería el sentido que es perfecto si va referido a los bocados de un amante (o
enemigo).
24
Celestina, 23,12; véase también “un poco de pan mordido” que se cita en
VIAN, El pensamiento mágico, cit., p. 230.
118
Blanca Periñán
De la familia semántica de lo textil se nos dice que Costança guarda igualmente un tipo de tela que, al llamarla “pedaçicos de paño /
cortados de los orillos / sin tixera” (vv. 26-28) y al no ser superficie en
que se envuelve algo, bien pudiera ser la “telilla de feto”, segmentos
de algo que no se corta precisamente con tijeras, es decir cofia fetal
o “mantillo de niño”, considerado amuleto de poderes extraordinarios o el que servía fundamentalmente para reconstruir virgos25.
Y, como en los conocidos modelos, bien enmascarado entre los
fogones, Costança tiene un recóndito escondite en los agujeros detrás
del menage cocineril. Lo tiene en la “espetera” (‘tabla con garfios donde se cuelgan las carnes y otras cosas de cocina’), “detrás de los taxaderos” (v. 30)26, y lo tiene lleno de “pelotillas de cera / punçetadas”
(vv. 32-33), que eran, según Autoridades, ‘bolitas armadas de puntas
de vidro, de que usan los disciplinantes para hacerse llagas’; junto con
ello se nos presentan ante los ojos las famosas, eternas, “abujas” esplícitamente clavadas (“fincadas”) en “unos coraçonçillos” vv. 34-35,
tan propios de la brujería ancestral y trágica para hacer lo que se quiere a otro en imagen o en algo de su persona. También aquí recurre el
recuerdo de Celestina que «a otros dava unos coraçones de cera, llenos de agujas quebradas»27. Lo encontramos abundantemente en otras
continuaciones, como en la Tragedia Policena donde Claudina, además del “aro de cuba” y de la “candela” tiene “un corazón de cera que
tiene las más agujas”.28
Más oscuro es el pasaje siguiente, que parece textualmente deteriorado, en el que se cita un instrumento, “pumas de rastillo / con as
puntas remachadas / por derecho” (vv. 36-38); de ser “pumas” una mala lectura de un plausible “puntas” referido a las que tiene el rastrillo
(‘instrumento con que se limpia el lino u cañamo’), sería redundante
respecto al verso siguiente que vuelve a contener el mismo término
“puntas”. Pudiera ser “puma” la ‘pieza hueca de plata u oro, con agujeros, usada para confeccionar medicinas o aromas contra el contagio’,
‘cazoleta que exhala aromas’ (Aut.). Pero en este caso el genitivo que
sigue resulta textualmente dificultoso. En cualquier caso el “rastrillo”,
25
Cfr. VIAN, El pensamiento mágico cit., p. 57.
Cita estudios sobre el aspecto estructural de los laboratorios celestinescos BOTTA
cit., p. 45; y véase también, por ejemplo, en la Tragicomedia de Polidoro y Casandra el escondite de la Corneja en un rinconcillo detrás de la cama, en VIAN, Transformaciones, cit., pp. 230-31.
27
Celestina, 23,15.
28
Apud VIAN, Transformaciones, cit., p. 223.
26
Una bruja literaria más
119
al llevar ‘unas púas que tiene remachadas y puestas en círculo’, podría estar indicando el espacio mágico asi evocado y no descrito.29
Los demás menjunjes de farmacopea que siguen son de los más
clásicos en la confección de pociones hechiceriles y filtos en conjuros para provocar amores o evitarlos: el “sebo de can” (v. 39) (cfr. “sebo de texón” en el Auto de Clarindo, v. 2152), “desfecho” en sangre de
pollos de paloma (vv. 39-40); los granos “negrestinos” (v. 41) o verde
oscuro30, son los del famoso helecho, sustancia de entre las más recurridas en las confecciones brujeriles de la magia erótica, por sus
poderes esterilizantes, aunque también afrodisíacos31; y junto a ellos
la “ruda”, sustancia emenagoga por excelencia y aliviadora de endemoniados.32
Los versos finales del segmento ponen en relación a la vieja con
otra vieja, partera como era tradicional, que le es compañera de oficio, y van precedidos de una contundente afirmación de la condición
de Costança (“Miafe, yo no tengo duda / son qu’es una fechicera!” vv.
44-45). Puede que al decir el autor que las dos mujeres están, metaforicamente, “nesta dança” (v. 48), se aluda a encuentros brujeriles nocturnos auténticos del saba, cultos demoníacos colectivos.
El marido, en conclusión, le echa en cara lo sospechoso de las
prácticas que observa (“días á que llo barrunto” v. 50) y que él llama,
en sentido propio, “ciencia”: «Qu’es esto? Deci, Costança / què pendençia? / Pardiós, esta vuestra çiençia / a mí no me praçe nada» (vv. 5255). Aunque en el contexto epocal el concepto de magia natural no
era extracientífico, y hechicería y magia se unen a la medicina y a la
farmacia, los autores denunciaban el escepticismo y a la vez la convicción y permanencia de las creencias. Para lectores normales un
texto como éste podía ser prueba de la existencia real de práctica
demoníaca33. Costança muy hábilmente contesta no negando sino diciendo que hace lo que hace para obtener de Gil, su marido, el efecto
(mágico) de la “querencia”, es decir la philocaptio ya que era el nom29
El espacio mágico puede ser tan curioso como el “aro de cuba” presente en la
Tragedia Policena, vid. VIAN, Transformaciones, cit., p. 223.
30
El CORDE consigna ocurrencias que acompañan el adjetivo tanto a gemas o
piedras como al helecho.
31
Cfr. VIAN, Tansformaciones, cit., pp. 54 y 56.
32
Ivi, pp. 54 y 59.
33
El estudio de CÁTEDRA cit. documenta la práctica y creencia de philocaptio
en ambientes universitarios y científicos (cap. II, pp. 85-112), así como los de RUSSEL
y CANET cit.
120
Blanca Periñán
bre vulgar de ésta, la bienquerencia o atenuada práctica farmacológica moderadamente diabólica. Confirma pues la protagonista sus
operaciones de tercería con confecciones de filtros. Referido al marido, burlescamente se deduce que el hechizo en busca de la philocaptio no ha obtenido efectos deseados, por supuesto. Ni los quiere
el desafortunado esposo.
El segmento analizado se concluye dando paso en el parlamento
de Gil a otros crueles aspectos de la misoginia exacerbada y burlesca
que llevan la intención de convencer a fraile y cura a descasar a
quienes se han retratado como víctimas de la crueldad femenina. Los
tonos alusivos y burlescos están en perfecta consonancia con toda la
tópica burlesca del sermón y de los ingredientes farsescos, comunes
a tanta literatura humanístico-renacentista. Y aunque tal haya sido el
tono del cuadro brujeril visto, en el que, por supuesto, la magia no
era funcional como lo fue en la pieza maestra original, de alguna
manera queda patente una tácita voluntad de representación de algo
que, en la conciencia de lectores o público, podía tener ambigua
práctica lúdica, de aceptación y burla a la vez.
La escritura de la Farsa, en total sintonía con el resto de la producción poética castillejiana, confirma a grandes letras el “realismo
humanístico” plenamente renacentista de Castillejo, predicado por
Antonio Prieto así como las evaluaciones que recientes estudiosos
como Rogelio Reyes, M. Dolores Beccaria (y quien escribe esta líneas) desde hace tiempo llevan haciendo de esta interesante figura de
vir facetus, intelectual perfectamente ambientado en las cortes europeas de los primeros decenios del siglo.
121
J UGANDO
CON LOS REFERENTES HISTÓRICOS Y
NARRATIVOS : LA NOVELA DE L OPE DE V EGA ,
L AS F ORTUNAS DE D IANA
Augustin Redondo
Université Sorbonne Nouvelle-CRES
El éxito de las cervantinas Novelas ejemplares, a partir de su primera edición, en 1613, ha enraizado en España la novela, no ya al
“itálico modo”, sino al “hispano modo”. Desde entonces, todos los
que deseen escribir relatos de este tipo han de tener los ojos puestos
en los textos de Cervantes y el “género” ha de desarrollarse sobremanera.
Lope de Vega, el viejo rival, que ha triunfado gracias a la “comedia nueva”, también quiere desafiar al adversario sobre el terreno de
la narración corta. Pero tiene que diferenciarse de él y para ello va a
adoptar la vía lúdica. Sin embargo, en un primer tiempo, ha de hacer
un tanteo, que no rompe con la tradición lírica y pastoril de su Arcadia, publicada unos años antes, en 1598, como parece insinuarlo el título adoptado para este primer relato, Las fortunas de Diana1, el cual,
además, no podía sino remitir a las Dianas hispánicas anteriores, en
particular a la más célebre y difundida, la de Jorge de Montemayor.
A primera vista, el elemento esencial del texto sería pues el pastoril, lo que es una manera de desconcertar al lector y de reírse con él
cuando éste vea que los tiros van a menudo hacia otra dirección.
Además, la novela se halla inmersa en un conjunto mucho más
amplio que lleva un título bucólico, La Filomena —sale en 1621—, en
que dominan las poesías líricas, algunas de ellas de ambiente pastoril2. Dentro de este marco, el relato novelesco desaparece casi, pues
sobre un total de 220 folios, sólo representa 17 folios o sea muy po1
Nos hemos servido de la ed. siguiente: Novelas a Marcia Leonarda, ed. F. Rico,
Madrid, Alianza Editorial-El libro de Bolsillo (citamos por ella). Las fortunas de
Diana están en las pp. 27-72. Puede verse también la ed. de A. Carreño, Madrid, Cátedra, 2002.
2
Hemos utilizado la edición princeps: La Filomena con otras diversas Rimas,
Prosas y Versos, Madrid, en casa de la Viuda de Alonso Martínez, a costa de Alonso Pérez, 1621, BNM: R. 30634.
122
Augustin Redondo
co, y sólo figura a partir del fol. 59, como si se hallara disuelto entre
diversas poesías. Desde este punto de vista, también hay una correspondencia indiscutible entre los textos que dominan en ese volumen
misceláneo y Las fortunas de Diana, novela que asimismo viene a ser
una verdadera miscelánea en que, como en la Arcadia y en la Diana
de Montemayor, la hibridación es lo que domina, con esa mezcla de
prosa y poesía, pero también con esa manera muy lograda de jugar
con los diversos elementos compositivos.
La Filomena va dedicada a una dama, doña Leonor Pimentel, una
de esas damas que tanto apreciaban las poesías líricas y asimismo los
libros de pastores y de amores (como se dice en nuestra novela acerca de la hermana del estudiante), libros tanto más apreciados cuanto
que en ellos los amores pasaban por una fase desdichada, lo que parecía indicar el título de la narración lopesca. En efecto,"fortunas" significa "borrascas", "tempestades", y pues desgracias, en sentido propio
o figurado (posteriormente, el narrador hablará de las "desdichas" de
Diana)3.
Por otra parte, Lope ha conocido la muerte de Felipe III y la subida al trono de su hijo (el 21 de marzo de 1621), el joven Felipe IV, dominado en un primer tiempo por ese trío constituido por don Bartolomé de Zúñiga, por el conde de Benavente, su pariente cercano, y por
el conde de Olivares (el futuro conde-duque), emparentado éste con
los otros dos4; y está el Fénix afiliándose al nuevo poder. De ahí su
dedicatoria a doña Leonor Pimentel, hermosa dama, ya celebrada por
él y por otros poetas, que pertenecía a la familia del conde de Benavente, y que, después de la muerte de éste (el día 21 de noviembre de
1621), había de casarse rápidamente con el hijo del difunto, heredero
del condado5. Desde este punto de vista, todo conduce a pensar que
3
Véase por ejemplo, E.J. WEBER, «A Lexical Note on afortunado 'unfortunato'», Hispanic Review, 33 (1965), pp. 347-359.
4
Véase ELLIOTT, El conde-duque..., p. 101.
5
Doña Leonor Pimentel se casó con el nuevo conde de Benavente a 20 de octubre de 1622 (véase Noticias de Madrid (1621-1627), ed. A. González Palencia, Madrid, Ayuntamiento de Madrid, 1942, p. 40). Era «Dama de la Señora Infanta y hermana del Marqués de Tabara» (ibid.). Hay que recordar que, al inicio del reinado de
Felipe IV, el conde de Benavente, el padre del novio, era una de las figuras más
importantes del gobierno (cfr. J.H. ELLIOTT, El conde-duque de Olivares, Barcelona,
Crítica, 1990, p. 101). Por otra parte, hay que tener presente que la segunda condesa
de Olivares, la madre del privado y futuro conde-duque, se llamaba doña María
Pimentel de Zúñiga (véase G. MARAÑÓN, El Conde-Duque de Olivares (la pasión
de mandar), Madrid, Espasa Calpe, 1952, 3a ed., p. 20), es decir que pertenecía a la
Referentes históricos y narrativos. Lope de Vega, Las Fortunas de Diana
123
la dedicatoria debió de escribirse entre el 21 de marzo y el 21 de noviembre de 1621 y asimismo que el volumen debió de salir antes de
esta última fecha.
Pero esa hibridación, ya señalada, está relacionada asimismo con
las dos dedicatorias, dado que frente a doña Leonor, también aparece
otra mujer a quien va destinada la novela, la célebre Marcia Leonarda
(trasunto literario de la amante de Lope, la hermosa Marta de Nevares
que tantas artes practicaba admirablemente). Es ella quien le ha pedido al dramaturgo que se transforme en “novelador” y, según lo que
éste indica, ha sacado entonces de sus papeles Las fortunas de Diana,
lo que implicaría que el texto ya estaba escrito, aunque es más probable que se trate de un puro artificio retórico.
Frente al narrador (máscara de Lope), la narrataria (Marcia Leonarda) va a desempeñar un papel fundamental. Introduce el autor otra
manera de novelar, en que la obra se elabora merced a un diálogo
humorístico —diálogo truncado en realidad— entre él y ella, inspiradora
y presunta lectora del texto, personaje presente y ausente a un tiempo6.
Ella da la ocasión de esas digresiones —intercolunios los llamará el
escritor posteriormente— en que la narración se interrumpe para dirigirse a la dama con donaire, prever sus reacciones y, de paso, poder
reflexionar sobre las vías seguidas por el relato, sobre la verosimilitud, los personajes o la lengua utilizada.
Por ello, desde un principio, y dirigiéndose a esta dama en una especie de prólogo unido directamente al texto mismo de la novela,
Lope intenta situarse en la manera de concebir ese nuevo arte de
novelar. Al buscar una filiación a tal tipo de relato corto, apunta decididamente a la tradición italiana recuperada por los franceses pero
comete el error de creer que se emparenta con el cuento folklórico y
con los libros de caballerías. Sin embargo tiene que confesar que el
escribir novelas es para él novedad. Y si no puede menos de referirse
gran familia de los Pimenteles, la de los condes de Benavente. Bien se ve que Lope de
Vega desea estar en gracia con los que constituyen el nuevo núcleo que ejerce el
poder. Acerca de la dedicatoria de su Circe de 1624 a Olivares y de los vínculos que
crea entre el héroe de su novela Guzmán el Bravo y el linaje del favorito, cfr. nuestro
estudio, «Du contexte historique au jeu narratif dans une nouvelle de Lope de Vega:
Guzmán el Bravo (1624)», Hommage à Henri Larose, Les Langues Néo-Latines, 310
(1999), pp. 43-67, y más directamente, pp. 45-50.
6
Véase el principio del texto, pp. 27-28. Sobre el personaje de Marcia Leonarda,
y para ahorrar bibliografía, véase por ejemplo, A. RALLO GRUSS, «Invención y diseño
del receptor femenino en las Novelas a Marcia Leonarda», Dicenda. Cuadernos de
filología hispánica, 8 (1989), pp. 161-179.
124
Augustin Redondo
a Cervantes, el ilustre rival, es para rechazar en seguida lo que éste
había ideado. En efecto, el escritor de este género de narración —dice
Lope— ha de ser “hombre científico”, es decir tener amplios conocimientos, ser uno “de los que entienden” o por lo menos ser “gran cortesano”7. El Fénix sugiere que su rival no posee tales capacidades, a
la diferencia de lo que le pasa a él.
Es que, más allá de Marta de Nevares, el comediógrafo escribe para un público cortesano y ha de adoptar un tono y un estilo brillantes,
fulgurantes, divertidos, los que corresponden al vir facetus que también sabe ser vir doctus según las lecciones suministradas por el Cortesano de Castiglione y el Galateo español de Lucas Gracián Dantisco8. De ahí que, para referirse a las invenciones de su novela, no vacile en acudir por una parte a la tradición de los relatos de Heliodoro
que él mismo había utilizado en su obra El peregrino en su patria, y
por otra, a la fórmula de la comedia nueva creada por él. En cierto
modo, su Arte nuevo de hacer novelas debe mucho a su práctica teatral, pues ha escrito un gran número de textos para los corrales.
Por eso escoge una orientación lúdica, la del juego y de la pirueta,
que se manifiesta de varias maneras. Pero en este trabajo, complementario de los que hemos publicado ya sobre las Novelas a Marcia Leonarda9, sólo estudiaremos dos facetas de esta técnica: el juego con
los elementos históricos y el juego con los elementos narrativos.
*
7
Véase Las fortunas de Diana, p. 28.
Sobre esta dialéctica, véase por ejemplo, A. PRIETO, La prosa española del siglo
XVI, Madrid, Cátedra, 1986, cap. I: "El vir doctus et facetus" (pp. 17 y sigs.). Acerca
del Cortesano de Castiglione, hemos utilizado la traducción al castellano de 1534,
realizada por Boscán: ed. M. Menéndez Pelayo, Madrid, CSIC, 1942. Sobre el particular, cfr. M. MORREALE, Castiglione y Boscán: el ideal cortesano en el Renacimiento español, 2 vols., Madrid, Anejos del “Boletín de la Real Academia Española”,
1959. Por lo que hace al Galateo español [1a ed.: 1593], nos hemos servido de la ed.
M. Morreale, Madrid, CSIC, 1968.
9
Véanse nuestros estudios: «La desdicha por la honra: de la concepción lúdica
de la novela a la transgresión ideológica», en “Otro Lope no ha de haber”. Atti del
Convegno internazionale su Lope de Vega, ed. M.G. Profeti, 3 vols., Firenze, Editrice
Alinea, 2000, I, pp. 159-173; «Du contexte historique au jeu narratif dans une nouvelle
de Lope de Vega: Guzmán el Bravo» (cfr. supra, nota 5); «Teatralidad, trayectoria
narrativa y recorrido ideológico en una novela de Lope de Vega, La prudente venganza», en Estaba el jardín en flor... Homenaje a Stefano Arata, Criticón, 87-89
(2003), pp. 733-744 (reproducido ahora en A. Redondo, Revisitando las culturas del
Siglo de Oro. Mentalidades, tradiciones culturales, creaciones paraliterarias y literarias, Salamanca, Ediciones Universidad de Salamanca, 2007, pp. 227-237).
8
Referentes históricos y narrativos. Lope de Vega, Las Fortunas de Diana
125
Bien es sabido que en varias ocasiones durante el reinado de Felipe III, Lope tuvo pretensiones de ser cronista real. Pero todos sus
intentos fracasaron y, según parece, ya en 1620, tal vez antes, el Fénix
había abandonado toda esperanza de conseguir el codiciado cargo10.
No es pues extraño que en Las fortunas de Diana pueda divertirse y
divertir al lector jugando con los referentes históricos como lo hiciera más de una vez en sus comedias.
Diana, disfrazada de joven campesino, se halla puesta en contacto
con el duque de Béjar cuando éste estaba cazando por sus tierras y
este prócer va a ser su protector. A primera vista, el grande de quien
se trata parece ser don Alonso López de Zúñiga, el VI duque, que fue
ensalzado por los poetas de su época11. Es célebre, sobre todo, por la
dedicatoria del Quijote, pero Lope también le había dedicado un soneto en sus Rimas de 160212. Este prócer era ante todo un gran cazador
y ya en 1609 había pretendido el cargo de “cazador mayor” de Felipe
III13. La exaltación que se hace de él en la novela puede ser muy interesada por parte de Lope y esto implicaría que el relato debió de escribirse antes de 1619, fecha en que muere el duque.
Sin embargo, donde aparece el juego con la historia es cuando se
indica en el texto que el duque viene a la Corte porque «determinóse
el Rey Católico en la conquista del reino de Granada y envió a llamar los Grandes» (p. 63). ¿De qué rey se trata y de qué conquista?
Nótese que el título de “Rey Católico” se dio por antonomasia a
Fernando de Aragón, el marido de Isabel de Castilla. En tal caso, la
conquista del reino de Granada sería la que corresponde al final de la
Reconquista, a finales del siglo XV. Pero el nombre de “Rey Católico”
10
Véase H. BERSHAS, «Lope de Vega and the Post of Royal Chronicler», Hispanic Review, 31 (1963), pp. 109-117.
11
Sobre la Casa de Béjar, y las características de los duques, véase ahora A. ROJO
VEGA, «El duque de Béjar, Cervantes y Juan de Navas», en El mecenazgo literario
en la casa ducal de Béjar durante la época de Cervantes, ed. J. Ignacio Díaz, Burgos,
Fundación Instituto Castellano y Leonés de la lengua, 2005, pp. 211-262, y más
directamente, pp. 211-232.
12
Entre los poetas que le ensalzan figuran Lope, Cervantes, Góngora, Franciso
de Rioja, etc. Recuérdese que el duque tuvo parte en la publicación de las Flores de
poetas ilustres que reunió Pedro de Espinosa y salieron en Valladolid en 1605. Sobre
el sexto duque véase además L. ASTRANA MARÍN, Vida ejemplar y heróica de Miguel
de Cervantes Saavedra, vol. 5, Madrid, Instituto Editorial Reus, 1953, pp. 572-586;
R. JAMMES, pp. 73-81 de su ed. de Las Soledades de Góngora, Madrid, Castalia, 1994.
13
Véase lo que escribe L. CABRERA DE CÓRDOBA, Relaciones de las cosas sucedidas en la Corte de España desde 1599 hasta 1614, Salamanca, Junta de Castilla y
León, 1997, p. 387.
126
Augustin Redondo
se dio luego de manera específica a los soberanos españoles de la Casa
de Austria, no tanto al emperador Carlos V, como a Felipe II y después
a sus descendientes. Podría pues aludir el texto a Felipe II y en tal
caso se referiría a la guerra contra los moriscos de las Alpujarras,
sublevados entre 1568 y 157014. No obstante, ya que la última parte de
la historia va a verificarse en las Indias, el texto podría aludir asimismo a la conquista del Reino de [Nueva] Granada (es decir a la
actual Colombia), en época de Carlos V. Por otra parte, si bien antes
de la época del emperador, el nombre de Grande se halla documentado,
fue no obstante en 1520 cuando Carlos V dio a la “grandeza” un rango aparte dentro de la nobleza15. O sea que no se sabe en qué momento histórico estamos ni de qué duque de Béjar se trata. De todas formas, no podría ser el VI duque, al cual nos hemos referido.
De la misma manera, este prócer viene a ser “Comendador mayor”
de Alcántara (p. 67), pero no consta que esto pasara con ninguno de
los que vivieron en el siglo XVI ni en época de Felipe III. El que sí
fue maestro de dicha orden fue uno de sus antepasados, don Gutierre,
pero en época de Juan II de Castilla, o sea en la primera mitad del siglo
16
XV, antes de que se creara el ducado (en 1485) .
Lope juega con la historia y la cronología, baraja las cartas y las distribuye como le da la gana, sin que esto tenga mayores consecuencias.
Pero hay más. Si Diana sale para las Indias con título de virrey es
para restablecer la situación en las tierras del Nuevo Mundo, recientemente conquistadas y «para castigar los culpados en la muerte del
que lo había sido, de que cada día venían a España quejas y procesos»
(p. 70). Como en su recorrido justiciero llega a Cartagena de las Indias,
la cual formaba parte de la Nueva Granada, dependiendo estas tierras
del virreinato del Perú, es lícito pensar que a ella se la ha mandado
como virrey del Perú. Todo remite a ese período turbio de las guerras pizarristas de los años 1544-1546, año este último en que el primer virrey, Blasco Núñez Vela, fue matado, según parece, por un se14
Sobre el particular, véase la síntesis de A. DOMÍNGUEZ ORTIZ y B. VINCENT,
Historia de los moriscos. Vida y tragedia de una minoría, Madrid, Revista de Occidente, 1978, pp. 35-56.
15
El tema ha sido muy controvertido. Véase por ejemplo, A. DOMINGO ORTIZ, La
sociedad española en el siglo XVII-La nobleza, Madrid, CSIC, 1963, p. 215; D. GARCÍA
HERNÁN, La nobleza en la España moderna, Madrid, Istmo, 1992 p. 20 y p. 58, notas
33 y 34; etc.
16
Véase nuestro estudio, «La bibliothèque de don Francisco de Zúñiga, Guzmán
y Sotomayor, troisième duc de Béjar (1500?-1544)», Mélanges de la Casa de Velázquez, 3 (1967), pp. 147-196, y más directamente, pp. 150-151.
Referentes históricos y narrativos. Lope de Vega, Las Fortunas de Diana
127
cuaz de Gonzalo Pizarro, habiéndose sublevado éste contra la Corona. Carlos V envió al Perú al licenciado Pedro de La Gasca para reducir la rebelión y hacer justicia (los partidarios de Gonzalo Pizarro fueron vencidos y él fue degollado en abril de 1548)17. Entre los virreyes
posteriores, el más célebre, tal vez, fue Francisco de Toledo, quien ha
sido el verdadero organizador del Perú, entre 1569 y 1581. Su tarea
legislativa y justiciera le mereció el nombre de “Solón del Perú”18.
La ida de Diana a las Indias y su actuación debe mucho a este contexto así como a los personajes de La Gasca y de Toledo (¿será pura
casualidad si ella sale de Toledo y vuelve a pasar por esta ciudad,
antes de marcharse a América?). Si el uno fue el “Solón del Perú”, ella
será “el sol de España” en las Indias.
Asimismo Diana, que llega a ser privado del rey (todo remite ahora
a la época de Felipe III), tiene que abandonar la Corte por ser «odiosa
su privanza como cosa sin fundamento de sangre y dignos servicios
de paz y guerra» (p. 70). ¿Estará pensando Lope en Rodrigo Calderón,
el privado del privado (es decir del duque de Lerma) quien vino a ser
marqués de Siete Iglesias, a quien se podría aplicar la frase citada, y
quien, como Diana, llegó a tener «los papeles de más calidad e importancia» (p. 67)?19
Sea lo que fuere, Lope se divierte jugando con los referentes históricos, saltando de una época a otra, cogiendo lo que le apetece y desechando lo que no le interesa. Desde este punto de vista, es decididamente anacrónico20. Lo que le importa es tejer una historia de homo ludens, en que el movimiento y la acción se aceleran —como en sus
comedias— para entretener al lector. Éste bien se da cuenta, en más de
17
Sobre el particular, véanse por ejemplo, T. HAMPE et al, Historia del Perú,
Barcelona, Lexus, 2000, pp. 101 y sigs.; M. BURGA, Historia de América andina; vol.
2: Formación y apogeo del sistema colonial (siglos XVI y XVII), Quito, Universidad
Andina Simón Bolivar-Libresa, 2000, IIa parte: "Guerras civiles...".
18
Véase L. HANKE, La lucha española por la justicia en la conquista de América, Madrid, Aguilar, 1967, p. 295.
19
Sobre Rodrigo Calderón y sus características, véase la tesis de nuestro doctorando O. BORGERS, Rodrigo Calderón et la Cour de Philippe III, 2 vols., Université de
Paris III-Sorbonne Nouvelle, 1986. Acerca del linaje, del contexto familiar y de las
etapas de la subida de don Rodrigo, pueden consultarse las páginas que le dedica M.
BATAILLON en Pícaros y picaresca, Madrid, Taurus, 1969, pp. 61 y sigs. Se pueden
encontrar también unos cuantos elementos útiles en el libro de A. FEROS, El duque de
Lerma. Realeza y privanza en la España de Felipe III, Madrid, Ed. Marcial Pons, 2002.
20
Véanse asimismo las observaciones de Rozas sobre la utilización de la historia (crónica) por Lope en sus comedias: J.M. ROZAS, Estudios sobre Lope de Vega,
ed. preparada por J. Cañas Murillo, Madrid, Cátedra, 1990, pp. 470 y sigs.
128
Augustin Redondo
una ocasión, de los saltos y de los cruces históricos que introduce el
novelador, pero ha aceptado de una vez el pacto narrativo propuesto
por el autor y se deja llevar, gustoso, por el ritmo de la narración.
*
No es pues extraño que, desde el principio del relato, Lope sitúe la
historia en un pasado reciente («no ha muchos tiempos», p. 28) y dé la
impresión de contar hechos ocurridos realmente, ya que experimenta
la necesidad de disfrazar los nombres de los protagonistas (ibid.).
Del mismo modo, al final del texto, alude a lo que le han dicho acerca de la manera de portarse de Diana disfrazada que no hubiera revelado a Celio su verdadera identitad antes de llegar a Sevilla. Por fin,
pide licencia a Marcia Leonarda para llevar al hermano y a la madre
de Diana la buena noticia del regreso de la joven, acompañada de su
marido Celio y de su hijo. En cierto modo, Lope se transforma en relacionero que está refiriendo unos sucesos aparentemente ocurridos. Pero
está jugando con la historia ya que no se trata de una historia/crónica
sino de una historia/ficción.
Este juego con una forma narrativa, la relación de sucesos (que él
mismo había utilizado como tal en otras ocasiones)21, se compagina con
otros tipos de juegos narrativos.
Casi desde el principio, uno de los referentes utilizados es el de la
Celestina que viene a relucir acerca del encuentro entre Diana y Celio, homotético del de Melibea y Calixto. Más adelante, la introducción de Celio en la habitación de su amada gracias a una escala (aquí
escala de cuerda) evoca asimismo la situación de Calixto quien sube
al huerto de Melibea, siendo tanto la cámara como el jardín símbolos
de la feminidad22. Por ello el vocabulario empleado por Celio al pedirle a su dama autorización de “entrar dentro” (p. 34) viene a ser un
vocabulario “marcado”, como en otros textos23, o sea que su conformidad equivale a la aceptación de relaciones sexuales y en efecto, de
resultas del trato carnal, la joven queda encinta.
Sin embargo, puesto a jugar con los referentes narrativos el autor
se sirve de otros esquemas de relato.
21
Acerca de las relaciones de sucesos y su utilización por Lope en sus novelas,
véase también lo que hemos escrito en «Teatralidad, trayectoria narrativa y recorrido ideológico...», pp. 734-735 y en Revisitando las culturas..., pp. 229-230.
22
Sobre la utilización de la Celestina en otra de sus novelas, cfr. ibid., p. 738 y
p. 233, respectivamente.
23
Véase por ejemplo, P. ALZIEU, R. JAMMES e I. LISSORGUES, Poesía erótica del
Siglo de Oro, Barcelona, Crítica, 1984, n° 133-3.
Referentes históricos y narrativos. Lope de Vega, Las Fortunas de Diana
129
Por ejemplo, hay rasgos de “novela sentimental”, gracias al proceso
de cartas entre los dos amantes, antes de la posesión, con un intercambio de billetes amorosos24. Pero en realidad se trata de una transgresión, con relación al código de tal tipo de literatura, ya que, de manera indirecta, es ella quien conduce al amado a adoptar la solución
necesaria para llegar a verse y a comunicar (en todos los sentidos de
la palabra).
No obstante, lo que llama sobre todo la atención es el juego con
la literatura pastoril. Los rasgos de bucolismo son abundantes en las
poesías insertas en la novela y significativamente tres de ellas empiezan por la palabra “selvas”25. Además, el ambiente de los libros de pastores se trasluce no sólo en el título, sino en un largo trozo de la narración en que Diana está en contacto con el mundo campestre y
pastoril; y ella misma se disfraza de pastora. Aparecen pues los cantos lastimosos de los zagales, como en las églogas de Garcilaso o en
las diversas Arcadias (incluyendo la de Lope). Pero el novelador ironiza acerca de los tópicos manejados por tales textos, guiñándole el
ojo al receptor, al dirigirse a esa lectora privilegiada, Marcia Leonarda. Por ejemplo, al referirse a la comida que Filis le ofrece a Diana:
«sacó de su zurrón lo que vuestra merced había oído que suelen tener
en los libros de pastores» (p. 46)26. Asimismo, al pedirle al mayoral si
sabe «tañer algún instrumento como suelen de ordinario los pastores
andaluces» (p. 52), Diana, en vez de referirse al esperado rabel, dice que
tañe un laúd, instrumento cortesano, que, ipso facto, pone de manifiesto que el joven zagal no es lo que aparenta ser. Pero el relato sigue
como si tal cosa, gracias a la connivencia lúdica que se ha establecido entre el narrador y los lectores.
Paralelamente, si en el “prólogo” se había referido el autor a su
obra El peregrino en su patria, tan influenciada por la llamada “novela bizantina”27, aquí recupera asimismo esta tradición con los amores
24
Sobre el sistema del "billete amoroso", véase M.L. BENARDO, Crisol de amantes. El billete amoroso en el Siglo de Oro, Madrid, Ed. Fundamentos, 2001.
25
Véanse las pp. 55, 63 y 68.
26
Sobre los "libros de pastores", véanse especialmente, F. LÓPEZ ESTRADA, Los
libros de pastores en la literatura española, Madrid, Gredos, 1974; J.B. AVALLEARCE, La novela pastoril española, Madrid, Istmo, 1975.
27
Sobre el particular, véanse M.A. TEIJEIRO FUENTES, La novela bizantina española. Apuntes para una revisión del género, Cáceres, Universidad de Extremadura,
1988; J. GONZÁLEZ ROVIRA, La novela bizantina de la Edad de Oro, Madrid, Gredos, 1996; C. MARGUET, Le roman d'aventures et d'amour en Espagne, XVIe-XVIIe
siècles, Paris, L'Harmattan, 2004.
130
Augustin Redondo
desdichados de Diana y de Celio, la separación de los amantes, el viaje
marítimo y las tormentas (ya insertas en el título), los diversos peligros, las pasiones amorosas suscitadas por la heroína, la llegada a
otras tierras dentro y fuera de España hasta alcanzar las Indias, la reunión feliz de los amantes al final, pero también la alternancia de relatos relacionados con Diana (sobre todo) y con Celio, etc. No obstante,
Lope indica a las claras que está jugando con estos esquemas narrativos y humorísticamente, sabe tomar sus distancias con referencia a
tal tipo de narración, provocando la connivencia del lector. Por ejemplo, acerca del primer intercambio de palabras entre los dos enamorados, apunta: «en estas dos palabras de Celio y nuestra turbada Diana se fundan tantos accidentes, tantos amores y peligros que quisiera ser un Heliodoro para contarlos, o el celebrado autor de la Leucipe
y el enamorado Clitofonte» (p. 31). Del mismo modo, por haber contado largamente lo que le había ocurrido a Diana y no haber hablado
de Celio, separado de ella, interrumpe el relato y, dirigiéndose a la
narrataria, indica:
¿Quién duda, señora Leonarda, que tendrá vuestra merced deseo de
saber qué se hizo nuestro Celio, que hace muchos tiempos que se
embarcó para las Indias, pareciéndole que se ha descuidado la novela? Pues sepa vuestra merced que muchas veces hace esto mesmo
Heliodoro con Teágenes, y otras con Clariquea, para mayor gusto
del que escucha en la suspensión de lo que espera (p. 60).
No obstante, está parodiando el sistema de Heliodoro pues la separación de los amantes tiene su origen en sus lascivos amores y en el
resultado de ellos, el embarazo de Diana, lo que está en contradicción con la honestidad de los personajes de los relatos bizantinos.
Por otra parte, Lope que, desde un principio, no pierde de vista su
práctica de comediógrafo no vacila en introducir en la narración, en
son de burla, elementos que remiten a la técnica teatral, sugiriendo
por ejemplo que la novela se podría dividir en tres jornadas. Es lo
que indica cuando el piloto de la nave está contando lo que le pasó:
«no quise aguardar el suceso, porque hay fábulas que hasta la segunda jornada llegan felicemente y a la tercera se pierden» (p. 62). Asimismo, cuando Celio le cuenta largamente a dicho piloto lo que le ha
ocurrido, esto provoca un comentario irónico del narrador: «a la traza
que suelen ser las narraciones de comedia, que hay poeta cómico que
se lleva de un aliento tres pliegos de un romance» (p. 61).
Referentes históricos y narrativos. Lope de Vega, Las Fortunas de Diana
131
Además, al jugar con las técnicas narrativas, se divierte (y el lector
con él) en hacer contar tres veces el lance de las joyas de Diana que
se lleva por la noche un desconocido, al pensar ella que se trata de
Celio: la primera, por el narrador (p. 37), la segunda, por ese desconocido (alias el piloto del barco), y la tercera, por Celio quien relata a
Diana —que ha presenciado el suceso— lo que le confió el piloto. Esta
variación de miradas y pareceres sobre el mismo caso, que podría ser
muy cervantina en otro contexto, demuestra hasta qué punto la novela tiene una dimensión lúdica.
De una manera parecida, se ríe Lope con el receptor de la utilización de ciertas situaciones tópicas. Por ejemplo, cuando Diana se ha
disfrazado de pastor y la hija del mayoral la mira con ojos enamorados, le declara a Marcia Leonarda: «Paréceme que dice vuestra merced que claro estaba eso, y que, si había hija en esa casa, se había de
enamorar del disfrazado mozo» (p. 52). En otra ocasión, Diana, vestida de hombre, que ha venido a ser la protegida del duque de Béjar y
le acompaña, tiene unos arrestos muy varoniles. En efecto, habiéndosele descomedido un criado al prócer, el joven se enfrenta con el atrevido y le da "una gentil cuchillada" (p. 66)28. Frente a tan inverosímil
manera de actuar por parte de una dama (aún disfrazada de hombre),
el autor sale del paso con una pirueta, que no puede sino provocar la
sonrisa del lector: «Diana, por donaire, solía tomar las espadas negras —con que se entretenían Otavio, su hermano, y Celio— con las
doncellas de su casa» (p. 66). ¡Regocijado espectáculo, opuesto a lo
que prescribían el recato femenil y el decoro, el de esas mujeres, vestidas como tales, ejercitándose al manejo de las espadas29! Sin embargo, el lector que ha adoptado la orientación lúdica del relato le sigue
28
Sin embargo, Diana no es ninguna "mujer varonil". Sobre este tema, véanse
por ejemplo, M. MCKENDRICK, Woman and Society in the Spanish Drama of the Golden Age (A study of the "mujer varonil"), Cambridge, Cambridge University Press,
1974; F. DELPECH, «'Mujer hay en la guerra': remarques sur l'exemplaire et curieuse
carrière d'une guerrière travestie, Juliana de los Cobos», en Relations entre hommes
et femmes en Espagne aux XVIe et XVIIe siècles, ed. A. Redondo, Paris, Publications
de la Sorbonne-Presses de la Sorbonne Nouvelle, 1995, pp. 53-65.
29
El trozo evoca algunas escenas del “mundo al revés” en las cuales se ve que
las mujeres manejan la espada en lugar de los hombres. Acerca del “mundo al revés”
y de las representaciones que ha suscitado, véanse especialmente, L'image du monde renversé et de ses représentations littéraires et para-littéraires de la fin du XVIe
siècle au milieu du XVIIe, eds. J. Lafond y A. Redondo, Paris, Vrin, 1979; F. TRISTAN,
Le monde à l'envers, Paris, Hachette, 1980.
132
Augustin Redondo
la corriente a tan divertido creador y saborea las graciosas explicaciones que inventa.
Ese carácter lúdico aparece, paralelamente, con arreglo a los nombres de los personajes.
Bien se conocen las creencias antroponómicas de los españoles
del Siglo de Oro ya que, según la tradición platónica pero asimismo
judeocristiana, «el nombre es como imagen de la cosa de quien se
dice», como lo afirma fray Luis de León30.
El nombre de la protagonista, Diana, no sólo remite a una tradición
pastoril sino que evoca a la diosa huraña y siempre virgen, personificación de la luna y hermana de Apolo, el sol. Lope juega con estos
elementos e invierte los atributos correspondientes. La Diana de su
novela se deja rápidamente vencer por el enamorado, hasta quedar
encinta. Cuando están ya separados y se ha perdido ella en el campo,
después de salir de Toledo, tiene que descalzarse para pasar un arroyo y alude entonces a una escena íntima, unida al erotismo del pie31:
«Miró a este tiempo sus mismos pies y acordándose cuán estimados
eran de Celio...» (p. 40).
Y si bien Diana es la hermana de Apolo, podrá transformarse en
éste cuando vaya vestida de hombre: «no tenía el rostro afeminado,
con que pareció un hermoso mancebo, un nuevo Apolo» (p. 49) y también, cuando desempeñe el papel de virrey del Perú, podrá ser “el sol
de España” en las Indias, no dejando de ser “el sol del mundo” para
Celio (p. 60).
Pero si es luna y sol al mismo tiempo, tiene que estar vinculada al
cielo, o sea a Celio (anagrama de cielo), llevando ella misma el nombre de Celio (p. 70), en la última fase de sus transformaciones, cuando
ignora dónde está su amado.
Este juego de máscaras que se vale de los nombres, de los símbolos mitológicos y de los cambios de identidad, con inversiones, cruces y duplicaciones —que se podrían analizar desde la perspectiva de
la iniciación— conduce a comunicar un mayor atractivo al relato, sin
dejar de poner de relieve el virtuosismo del autor.
*
30
Véase Los nombres de Cristo, prólogo, en Id., Obras completas, ed. F. García, Madrid, BAC, 1959, p. 398.
31
Sobre el particular, véase nuestro libro, Otra manera de leer el "Quijote". Historia, tradiciones culturales y literatura, Madrid, Castalia, 1998, 2a ed., pp. 164-166.
Referentes históricos y narrativos. Lope de Vega, Las Fortunas de Diana
133
Novela primeriza de Lope, Las fortunas de Diana abre una vía diferente de la cervantina en la manera de concebir la narración, ya
que lo que domina en ella es la orientación lúdica que el autor ha de
utilizar asimismo en las novelas siguientes. Al jugar tanto con los
referentes históricos como narrativos, delinea un entretenido recorrido en que la connivencia con el receptor, valiéndose del personaje de
Marcia Leonarda, le da la posibilidad de transgredir humorísticamente
los códigos del relato para el mayor deleite del lector.
135
P ARADIGMA PROCESSUALE E RETORICA GIUDIZIARIA
IN ALCUNI DRAMMI DI L OPE DE V EGA
Fausta Antonucci
Università di Roma Tre
1. A quasi ventʼanni di distanza, mi propongo di riprendere e approfondire per questo Omaggio alcune osservazioni che avevo avuto
modo di fare negli anni fecondi del Dottorato di ricerca, sulla scorta
degli insegnamenti e dei suggerimenti di lavoro e di analisi fornitici
da Pina Ledda in un indimenticabile seminario pisano-cagliaritano.
In quel lavoro ormai lontano analizzavo lʼorientamento retorico di un
ristretto corpus di opere lopiane accomunate tematicamente dalla
presenza di un protagonista selvaggio (El nacimiento de Ursón y Valentín, El animal de Hungría, El hijo de los leones), e le mettevo a confronto con refundiciones più tarde1. Oggi vorrei restringere lʼobiettivo,
limitandomi alla produzione di Lope de Vega, e a un solo tipo di discorso retorico, quello giudiziario, ma ampliando al tempo stesso il
corpus, in modo da comprendere un numero di opere più significativo.
Tuttavia, per evidenti ragioni di spazio, ho dovuto limitare comunque
la scelta delle opere da analizzare a un solo macrogenere, quello dei
drammi, nellʼaccezione in cui lo usa nei suoi lavori Joan Oleza, «en
la medida en que… permite reintegrar las funciones teatrales de la
tragicomedia y de la tragedia en una sola, la función moralizadora…
sin por otra parte confundirlas».2
1
F. ANTONUCCI, «A proposito di retorica e teatro nel XVII secolo spagnolo»,
Studi Ispanici, 1987/88, pp. 243-269.
2
J. OLEZA, «Los géneros en el teatro de Lope de Vega: el rumor de las diferencias», in Del horror a la risa. Los géneros dramáticos clásicos. Homenaje a Christiane Faliu-Lacourt, eds. I. Arellano, V. García Ruiz, M. Vitse, Kassel, Reichenberger,
1994, pp. 235-250. Un tentativo importante di individuare un criterio nelle definizioni
lopiane di tragedia e tragicommedia è quello di E.S. MORBY, «Some observations on
tragedia and tragicomedia in Lope», Hispanic Review, 11:3 (1943), pp. 185-209; sullʼutilità di superare questa non facile distinzione, M. VITSE, Éléments pour une théorie
du théâtre espagnol du XVIIe siècle, Toulouse, France-Ibérie Recherche, 1988, pp.
315-324, con bibliografia; una considerazione sulla terminologia utilizzata nel Siglo
de Oro anche in M.G. PROFETI, «De la tragedia a la comedia heroica y viceversa», in
Theatralia III (III congreso internacional de teoría del teatro: Tragedia, Comedia,
Canon), ed. J.G. Maestro, Vigo, Universidad de Vigo, 2000, pp. 99-122.
136
Fausta Antonucci
I titoli che ho selezionato, pur non esaustivi della produzione lopiana riconducibile al macrogenere dramma, sono tuttavia sufficientemente rappresentativi e si dispongono lungo un arco di tempo molto
ampio, che va dal 1590 circa (Carlos el perseguido) al 1631 (El castigo sin venganza), passando per il 1596 (El marqués de Mantua),
1596-98 (Los comendadores de Córdoba), 1604 (Peribáñez y el Comendador de Ocaña), 1604-06 (El mayordomo de la duquesa de Amalfi),
1612-14 (Fuente Ovejuna), 1620-23 (El mejor alcalde el rey), 1620-25
(El caballero de Olmedo)3. La scelta di concentrare la mia attenzione
su questo tipo di opere è nata da una constatazione empirica:
lʼabbondanza di situazioni (di discorso e di intreccio) di tipo giudiziario che vi si riscontra. Un fatto questo che può essere determinato da
uno o più dei seguenti elementi, tutti e tre caratteristici del modello
tragico sotteso a molti drammi: il riuso del motivo della falsa accusa,
la presenza di una colpa grave o delitto cui fa seguito unʼazione processuale, la presenza, tra le dramatis personae, del massimo rappresentante dellʼautorità politica nella sua veste di arbitro delle contese
e di suprema istanza giudiziaria.
Il discorso giudiziario non offre difficoltà definitorie, essendo uno
dei tre tipi di discorso di parte previsti dalla retorica aristotelica,
quello che «ha come modello il discorso di un avvocato davanti al tribunale, specialmente nel processo penale», per dirla con Lausberg4. I
drammi che prendo in considerazione non presentano tuttavia soltanto singoli discorsi giudiziari (di accusa o di difesa), ma anche veri e
propri dibattiti, la cui definizione retorica, che cito sempre da Lausberg, potrebbe benissimo corrispondere al teatro stesso, che crea azione con le parole: «la somma dei discorsi tenuti in una situazione dallʼarbitro della situazione e dagli interessati alla situazione, allo scopo
di modificare la situazione medesima» (p. 14). Lo specifico delle opere
che verranno qui analizzate è nel fatto che questa rete di discorsi si
inserisce, per porzioni di testo più o meno estese, in situazioni di
intreccio (dunque fattuali, non soltanto discorsive) modellate sul paradigma del procedimento processuale penale: dato un delitto, occorre
scoprirne il colpevole e dimostrarne la colpevolezza (tramite indizi,
testimonianze, prove o confessione diretta), per poi procedere alla sen3
Le date proposte sono quelle indicate da Morley e Bruerton nella loro fondamentale Cronología de las comedias de Lope de Vega (1940), trad. spagnola dellʼedizione rivista del 1963, Madrid, Gredos, 1968. Ulteriori eventuali precisazioni
verranno offerte in nota nei paragrafi relativi alle singole opere.
4
H. LAUSBERG, Elementi di retorica (1949), tr. it. Bologna, Il Mulino, 1969, p. 20.
Paradigma processuale e retorica giudiziaria (Lope de Vega)
137
tenza ed alla sua esecuzione. Osservare le opere che costituiscono il
corpus scelto, alcune delle quali assai famose e studiate, dal punto di
vista di quello che ho scelto di chiamare paradigma processuale, ci
consente di scoprire fra di esse rapporti inediti, e allʼinterno di ciascuna di esse possibilità di interpretazione non sempre scontate.
2. Tralasciando El nacimiento de Ursón y Valentín (1588-95), cui
mi sono dedicata nel mio già citato lavoro, un caso tipico di dramma il
cui intreccio si basa sul motivo, originariamente tragico, della falsa
accusa, è Carlos el perseguido, opera composta da Lope nel 15905.
Joan Oleza vi ha visto un esempio di tragedia palatina, rispondente al
modello giraldiano della tragedia di lieto fine6; lieto fine che è frutto
di unʼinnovazione di Lope rispetto alla sua fonte, una novella di Bandello7. La vicenda prende le mosse dallʼamore della duchessa di Borgogna Casandra per Carlos, «camarero» del duca; respinta, Casandra
accusa falsamente Carlos di aver tentato di sedurla, e insiste a più
riprese con il marito affinché punisca il colpevole. Il duca però non dà
molto peso alle accuse della moglie, e questa non ha pace finché, scoperto lʼamore segreto di Carlos per Leonora, sorella del duca, si dispone a uccidere il figlio di entrambi. Il delitto viene tuttavia sventato,
Carlos si decide a svelare il motivo della persecuzione di cui è oggetto, e il duca condanna la moglie allʼesilio, nominando Carlos suo erede. Si tratta di una trama molto coesa e lineare, con appena un accenno di intriga secundaria che ruota intorno allʼamore di due cortigiani per Leonora: uno, Feliciano, che ha la cattiva idea di chiedere a
Carlos di fargli da intermediario con lʼamata; lʼaltro, Ludovico, che,
vistosi negare la mano di Leonora dopo che il duca ha scoperto la
relazione tra questa e Carlos, si fa persuadere da Casandra ad uccidere il rivale.
Se si considera lʼintreccio dal punto di vista delle dinamiche sentimentali si evidenzia una coppia protagonista, formata da Carlos e da
Leonora, nella quale lʼamore è fedele e corrisposto; una coppia deu5
Eʼ la data che riporta la copia apografa facente parte della cosiddetta Collezione Gálvez. Morley e Bruerton la datavano come anteriore a maggio 1602.
6
J. OLEZA, «La comedia y la tragedia palatinas: modalidades del Arte Nuevo»,
Edad de Oro, 16 (1997), pp. 235-251.
7
Infatti in Bandello il duca uccide di sua mano la moglie calunniatrice. Sul rapporto con le fonti si veda il Prologo allʼedizione, condotta da Silvia Iriso e María
Morrás, per la Parte primera de comedias de Lope de Vega, tomo 1, Lleida, Milenio,
s.a., pp. 257-458 (da questa edizione saranno tratte tutte le mie citazioni).
138
Fausta Antonucci
teragonista, formata dal duca e da Casandra, caratterizzata al contrario da mancata reciprocità, e da dissimulazione e infedeltà nella persona di Casandra; infine, alcuni personaggi (Casandra, Feliciano, Ludovico) che tendono a rompere lʼunità della coppia protagonista, desiderando lʼuno o lʼaltra dei suoi componenti. Non andrebbe poi dimenticato il forte vincolo affettivo che unisce il duca a Carlos, con un
sentimento assimilabile a una paternità adottiva, che lo porta a oscillare continuamente fra lʼamore coniugale e quello filiale. E proprio
questʼultimo sentimento che caratterizza il personaggio del duca balza
in primo piano qualora si consideri lʼintreccio da un altro punto di
vista: quello delle dinamiche giudiziarie. Infatti, in gran parte, la trama
di Carlos el perseguido non è altro che un susseguirsi di requisitorie di
accusa e di discorsi di difesa, pronunciati rispettivamente da Casandra
e Carlos davanti al duca; e di monologhi del duca che, alla ricerca di
un giusto giudizio, si fa continuamente influenzare ora dallʼuna, ora
dallʼaltra delle due parti in causa8. Osservata da questo punto di vista,
dunque, la trama presenta una struttura triangolare, e coincide di fatto
con lʼiter processuale, dalla prima accusa, che si dà nella parte iniziale
del I atto, alla sentenza definitiva, che occupa la parte finale del III atto.
In realtà, già i primissimi versi (1-35), quelli che aprono lʼopera,
sono una requisitoria: lʼaccusa di Casandra allʼAmore che lʼha spinta
ad amare un inferiore e non le dà però la forza necessaria a dichiararsi. Quando finalmente trova questa forza, ma Carlos elude con garbo e fermezza le sue avances, allora Casandra ricorre allʼautorità del
marito formulando la sua accusa, preceduta da un profluvio di lacrime (una captatio benevolentiae muta, in cui alla retorica delle parole
8
Proprio questa umanissima influenzabilità del duca, la sua sensibilità tanto allʼamore per Casandra come a quello, paterno e protettivo, per Carlos, mi sembrano
tratti non assimilabili al panorama sentimentale della tragedia, dove non è abituale
vedere personaggi così incerti e tentennanti (si pensi soltanto, per fare qualche esempio nellʼambito del corpus lopiano, a El marqués de Mantua e Los comendadores de
Córdoba, di cui parleremo più avanti). Né mi sembra proprio del modello tragico il
comportamento debole del duca che, per amore della moglie, rompe il solenne giuramento fatto a Carlos di non dire a nessuno il segreto dei suoi amori con Leonora.
Anche lʼinfanticidio progettato da Casandra e fallito per motivi quantomai futili (il
giardiniere che arriva ad interrompere una scarica di scapaccioni inflitta dalla duchessa al figlio di Carlos) si presenta con caratteri più comici che veramente tragici. Mi
chiedo quindi fino a che punto sia accettabile la classificazione proposta da Oleza di
questʼopera come di una tragedia (per quanto “di lieto fine”); riconoscendo tuttavia,
dʼaccordo con lo studioso valenzano, lʼuso che Lope fa, nel sottogenere palatino cui
sicuramente questʼopera è ascrivibile, di motivi e situazioni tipiche della tragedia (la
falsa accusa, il potente prevaricatore, lʼamore ostacolato, lʼinfanticidio per vendetta…).
Paradigma processuale e retorica giudiziaria (Lope de Vega)
139
si sostituisce quella del corpo…). Pur molto scosso, il duca, che conosce bene Carlos e lo stima, è incredulo; come si conviene a un giudice giusto, non vuole pronunciare una condanna senza prima aver
avuto una prova (v. 961), e si dispone a ottenerla con una «industria»
(vv. 971-72), motivo questo che, in varie declinazioni, trova spesso
posto come vedremo nelle piezas di Lope che inglobano nellʼintreccio un procedimento giudiziario. Nel nostro caso, lʼespediente consiste nellʼordinare a Carlos di non muoversi da palazzo, facendolo
sorvegliare ma senza impedirgli i movimenti: se Carlos fugge, ragiona
il duca, vuol dire che sa di essere colpevole, se invece rimane in attesa della convocazione del suo signore vuol dire che è innocente. Di
fatto, Carlos aspetta remissivamente di essere convocato, e quando il
duca lo accusa di tradimento e adulterio con la moglie, si discolpa
negando ma, anche, chiedendo che la sua accusatrice adduca prove o
testimoni contro di lui e a sostegno delle sue affermazioni (vv.106768). Tranquillizzato dal risultato del suo stratagemma, convinto della
giustezza di questa richiesta (e anche, di nuovo, influenzato da un argomento muto, che potrebbe essere ricondotto, come le lacrime di
Casandra, alla retorica corporea: lʼonestà dellʼespressione di Carlos), il
duca accetta le rassicurazioni del suo protetto e sospende il castigo.
Nel II atto, questa alternanza fra accusa e difesa di fronte allʼarbitro
supremo si infittisce e si complica. Casandra rinfaccia al marito di
aver creduto a Carlos con troppa facilità, e lo accusa di non tenere al
suo onore; e quando il duca ribatte che non ci sono prove, lei risponde facendogli osservare che non si conoscono amori di Carlos a Corte. Se il giovane sarà in grado di rivelare il nome della dama da lui
amata, ciò proverà che non ama Casandra (con questo stratagemma,
la duchessa vuole in realtà scoprire il nome della rivale). Di nuovo il
duca si fa convincere dagli argomenti della moglie, convoca Carlos e
lo interroga al riguardo: e Carlos ammette che sì, ama riamato una
dama, ma non può assolutamente rivelarne il nome. Il buon duca accetta la risposta di Carlos, ma Casandra non è affatto disposta a cedere, e nuovamente insiste con il marito: solo il nome della dama sarà la
prova definitiva a discolpa di Carlos. Intanto, cerca di procurarsi falsi
testimoni contro il suo amato, ora nemico: persuade Feliciano ad accusare Carlos di tradimento e racconta personalmente al segretario
Prudencio che Carlos avrebbe brigato per sostituirlo con un suo cugino. Nel frattempo, il duca obbliga Carlos a dirgli il nome della sua
amata, e Carlos, messo alle strette, rivela la sua lunga relazione con
Leonora, non senza prima aver vincolato il duca al segreto, e al per-
140
Fausta Antonucci
dono, con un solenne giuramento. Sollevato, e tutto sommato felice
della parentela appena scoperta, il duca vuole però accertarsi di persona, «con i suoi stessi occhi» (v. 2075) della verità del racconto: e
ottiene questa prova de visu in modo abbastanza singolare, presenziando a uno degli incontri notturni fra Carlos e Leonora. Nel frattempo, Carlos è riuscito anche a discolparsi con Prudencio, negando
gli addebiti e adducendo a prova definitiva lʼaver ottenuto dal duca,
a favore di Prudencio, i tributi di una intera regione.
Anche il II atto si chiude dunque con il successo della strategia
difensiva di Carlos, cui fa da contraltare, allʼinizio del III atto, lʼennesima recriminazione di Casandra che esige dal marito, a costo di fargli
violare il giuramento, il nome dellʼamata di Carlos. La rivelazione
comʼè ovvio inasprisce ulteriormente Casandra: alla gelosia per la rivale più fortunata si unisce anche la rabbia di saperla madre di due figli
che, vista la sterilità del suo matrimonio con il duca, potranno un giorno ereditare il titolo. Ma, non potendo più insistere nella sua falsa
accusa davanti al duca, cambia strategia, e convince Ludovico a uccidere Carlos per poi poter ottenere la mano di Leonora; nel frattempo,
lega e picchia Grimaldico, il figlio maggiore dellʼodiata coppia, e lo
ucciderebbe se un banale contrattempo non la distogliesse dal suo
proposito. Trovato il figlio in lacrime, e saputo dei truci propositi della
duchessa, anche Carlos decide di cambiare strategia, e si trasforma, da
difensore di se stesso quale è sempre stato nel corso dellʼopera, in
accusatore della sua nemica. Nel pieno rispetto delle regole protocollarie, chiede udienza formale al duca e denuncia il tentato omicidio di
Grimaldico, rivelando anche la ragione per cui Casandra lo ha così a
lungo perseguitato. Sdegnato, il duca emette seduta stante la sua sentenza («Hoy morirá la adúltera duquesa», v. 3303), ma vuole anche
ottenere la confessione della colpevole, e ricorre per questo ancora
una volta a uno stratagemma. Si presenterà a Casandra indossando il
mantello di Carlos e la sorprenderà «de tal manera / que confiese el
delito y luego muera» (vv. 3317-18). Nel percorso viene però assalito
da un gruppo di bravacci; sventato lʼassalto, questi rivelano di essere
stati assoldati da Ludovico, che a sua volta confessa chiamando in
causa Casandra. È il momento, per il duca, di condannare entrambi i
colpevoli: facendo grazia a Casandra della vita, la esilia dalla Borgogna insieme a Ludovico. Carlos intercede per entrambi, ma il duca accetta di graziare soltanto Ludovico. Casandra ascolta con contrizione
la sua pena, riconoscendosi colpevole e fornendo una lettura esemplare dellʼintera trama: «pido perdón, perdón pido,/ que su humildad [de
Paradigma processuale e retorica giudiziaria (Lope de Vega)
141
Carlos] me ha vencido,/ virtud que a Dios enamora» (vv. 3473-75).
3. Se in Carlos el perseguido la situazione giudiziaria ruota intorno
a una colpa inesistente (quella del protagonista) e a una colpa reale (il
desiderio adultero di Casandra che la porta alla calunnia e al tentato
omicidio), in Fuente Ovejuna (probabilmente del 1612-1613)9 il re, arbitro e giudice supremo, è chiamato alla fine dellʼopera a giudicare di
due diversi tipi di colpevolezza, il secondo dei quali è conseguenza del
primo: lʼuccisione di Fernán Gómez è infatti una forma di giustizia
sommaria realizzata dal villaggio che punisce così le colpe di cui si è
macchiato il Commendatore. A sua volta, il giudice inviato dal re dovrebbe avviare un procedimento giudiziario per individuare e punire i
colpevoli del misfatto, ma, come è noto, deve rinunciare perché tutto il
villaggio è compatto nellʼaffermare che il responsabile dellʼuccisione
non è un individuo, bensì tutta la collettività (Fuente Ovejuna lo hizo).
Lʼopera si struttura dunque come una serie di due procedimenti giudiziari ad incastro.
Lope ha cura di mostrarci le colpe del Commendatore in sequenza crescente, in modo da giustificare il più possibile la vendetta giustiziera delle vittime: dapprima, vediamo Fernán Gómez che, per nulla
riconoscente dei ricchi doni ricevuti dai villani, insiste per far entrare
in casa sua Laurencia e Pascuala; poi, tenta di violentare Laurencia,
che si salva solo grazie al coraggioso intervento di Frondoso; nel II
atto, ha la sfacciataggine di lamentarsi con Esteban, padre di Laurencia ed alcalde del villaggio, della ritrosia della figlia; poi assale e
rapisce Jacinta e fa frustare Mengo che cercava di difenderla; infine,
interrompe le nozze di Laurencia e Frondoso portandoseli via entrambi e picchiando il padre della sposa che cercava di opporsi. Le
lamentele dei contadini vengono messe in scena due volte, verso la
fine del II atto (vv. 1643-53), e allʼinizio del III; tuttavia, essi ben sanno
di essere impotenti di fronte al Commendatore: «Yo ¿para qué traigo
aquí / este palo sin provecho?» (vv. 1343-44), si chiede Esteban, alludendo al bastone simbolo e insegna del suo ruolo di amministratore di
giustizia, che, non a caso, il Commendatore gli strapperà di mano alla
fine del II atto, dopo avergli rapito la figlia. A Esteban non resta che
9
Stando alla precisazione, argomentata da D. McGrady nella sua edizione dellʼopera, rispetto alla datazione proposta da Morley e Bruerton (LOPE DE VEGA,
Fuente Ovejuna, ed. D. McGrady, Barcelona, Crítica, 1993, p. 5). Le citazioni saranno
tratte da questa edizione.
142
Fausta Antonucci
auspicare che «Justicia del cielo baje» (v. 1643). Ma allʼinizio del III
atto il suo atteggiamento cambia: in una riunione del consiglio, è il
primo a sostenere quanto affermato da uno dei regidores, che lʼunica
soluzione per loro è «morir, o dar la muerte a los tiranos» (v. 1699)10;
e le sue ultime esitazioni sono spazzate via dallʼinfuocato discorso di
Laurencia, che, sfuggita alle grinfie del Commendatore, irrompe a
chiedere armi per muovere contro il tiranno e salvare Frondoso che
sta per essere impiccato.
E infatti, la giustizia sommaria e indubbiamente irregolare che i contadini si apprestano a eseguire su Fernán Gómez, si incrocia, sventandola, con quella, altrettanto sommaria e irregolare, ma in più palesemente immotivata, che Fernán Gómez sta per fare eseguire su Frondoso.
Infuriato per essere stato ostacolato da un contadino, che per giunta
lo ha minacciato con la sua stessa balestra, il Commendatore lo fa
arrestare interrompendo il matrimonio con Laurencia, perché sostiene che lʼaudacia di Frondoso potrebbe spingere qualcun altro ad attentare allʼonore dellʼordine di Calatrava11. A nulla valgono i discorsi di
Esteban, che, assumendosi il ruolo di avvocato difensore del genero,
sostiene che si è trattato di legittima difesa in quanto il Commendatore stava cercando di togliergli la sposa. Ha buon gioco Fernán Gómez (come poi farà Tello de Neira in El mejor alcalde el rey) a ribattere che «Nunca yo quise quitarle / su mujer, pues no lo era» (vv. 161920). E così, «sin sentencia, sin pregones» (v. 1787) il Commendatore
ordina ai suoi servi di impiccare Frondoso a uno dei merli del suo
palazzo; ma sopraggiungono i contadini in rivolta e, come dice Flores,
«interrumpen / tu justicia, señor» (vv. 1856-57), sostituendo alla giustizia del signore oltraggiato la loro giustizia. E che di una forma di giustizia si tratti, sembra intuirlo lo stesso Commendatore che, di fronte
al tumulto, slega Frondoso esortandolo a placare «ese villano alcalde»
(v.1865), lʼautorità giudiziaria popolare da lui più volte schernita; e non
sarà un caso che, quando finalmente i ribelli riescono a entrare nella
sala dove Fernán Gómez si era asserragliato con i suoi, il primo a parlare sia Esteban, con una battuta che è al tempo stesso riconoscimento
10
Allʼobiezione scandalizzata di Barrildo, «¡Contra el señor las armas en las manos!», Esteban infatti ribatte: «El rey solo es señor después del Cielo» (v. 1702).
11
«Es esto contra el maestre / Téllez Girón, que Dios guarde;/ es contra toda su
orden / y su honor, y es importante / para el ejemplo el castigo;/ que habrá otro día
quien trate / de alzar pendón contra él,/ pues ya sabéis que una tarde / al Comendador
mayor / (¡qué vasallos tan leales!) / puso una ballesta al pecho» (vv. 1598-1608).
Paradigma processuale e retorica giudiziaria (Lope de Vega)
143
del reo e dei suoi complici, e sentenza («Ya el tirano y los cómplices
miramos./ ¡Fuente Ovejuna, y los tiranos mueran!», vv. 1879-80).
Alla morte del Commendatore segue il procedimento giudiziario
formale che viene aperto dal giudice inviato dai Re Cattolici, dopo che
Flores, servo del Commendatore scampato al macello, si è appellato
alla loro giustizia con una lunga requisitoria (vv. 1950-2015) nella quale ha raccontato in dettaglio gli aspetti più crudeli e macabri del delitto. In previsione dellʼinizio dellʼistruttoria, è lʼalcalde Esteban colui
che consiglia ai suoi concittadini come fare per uscire indenni dal
processo: anche nella tortura, «Morir / diciendo “Fuente Ovejuna”,/ y a
nadie saquen de aquí» (vv. 2093-95). Il consiglio di Esteban si rivela
vincente, come potrebbe esserlo quello di un esperto avvocato difensore; ed è un discorso in difesa del villaggio quello che lo stesso Esteban pronuncia in chiusura dellʼopera, chiedendo al re clemenza e
facendo mostra di discreta sapienza giuridica e retorica. Alla domanda
di Isabel «¿Los agresores son éstos?», risponde infatti con una precisazione che rifiuta implicitamente la definizione della regina, e alla
quale segue una breve quanto efficace captatio benevolentiae («Fuente Ovejuna, señora,/ que humildes llegan agora / para serviros dispuestos», vv. 2394-96). E prosegue introducendo un concetto giuridico che
Lope formula altre volte nelle sue opere, in virtù del quale la colpa di
un delitto non ricade tanto sul suo esecutore materiale quanto piuttosto
su colui che lo ha provocato: «La sobrada tiranía / y el insufrible rigor
/ del muerto Comendador,/ que mil insultos hacía, / fue el autor de
tanto daño./ Las haciendas nos robaba / y las doncellas forzaba,/ siendo de piedad estraño.» (vv. 2397-2404). A questo punto prendono la
parola, come farebbero in un processo le parti lese, prima Frondoso e
poi Mengo, raccontando con maggiori dettagli gli affronti subiti da
Fernán Gómez: infine, riprende la parola Esteban per le conclusioni,
in cui ancora una volta fa ricorso alla captatio benevolentiae («Señor, tuyos ser queremos./ Rey nuestro eres natural,/ y con título de tal /
ya tus armas puesto habemos»), chiede il perdono reale («Esperamos
tu clemencia»), non senza rinunciare a ribadire lʼinnocenza di tutto il
villaggio, in virtù del principio giuridico citato in precedenza e che
potrebbe forse enunciarsi in questo caso nei termini moderni della
legittima difesa («y que veas esperamos / que en este caso te damos / por
abono la inocencia»). Al re, che pure non può negare che «fue grave el
delito», non resta che riconoscere che «por fuerza ha de perdonarse».
Il supremo giudice è stato giusto nella sua clemenza («Su Majestad
habla, en fin,/ como quien tanto ha acertado», afferma in chiusura del-
144
Fausta Antonucci
lʼopera Frondoso), ma non meno di lui ha «acertado» lʼalcalde villano
che ha saputo ben perorare la sua causa, e condurre il suo villaggio
lungo lʼarduo percorso della liberazione dal tiranno e della sottomissione a una autorità più giusta.
Benché figura “filiale” in rapporto al re, per la sua collocazione ai
livelli più bassi della gerarchia estamental dellʼepoca12, il personaggio di Esteban in Fuente Ovejuna è anche, in quanto padre e in quanto
alcalde (ruolo che deriva le sue prerogative direttamente dal re), una
sorta di “doppio” periferico e subalterno del monarca; per questo lʼoltraggio infertogli ripetutamente dal Commendatore appare tanto più
grave, in quanto disconosce lʼautorità del suo ruolo e si arroga un
diritto che dovrebbe appartenere solo al re. Come afferma Esteban,
reagendo allʼultimo affronto del Commendatore,
que reyes hay en Castilla
que nuevas órdenes hacen,
con que desórdenes quitan.
Y harán mal, cuando descansen
de las guerras, en sufrir
en sus villas y lugares
a hombres tan poderosos
por traer cruces tan grandes;
póngasela el rey al pecho;
que para pechos reales
es esa insignia y no más.
(vv. 1625-32)
Lʼimportanza strategica di Esteban in Fuente Ovejuna, che significa
centralità del ruolo giuridico (e sociale) dellʼalcalde contadino, è una
delle grandi innovazioni di questa pieza di Lope, che fa da contraltare
alla vecchia tradizione — pur molto presente nel suo teatro — degli alcaldes villani come figure comiche13. La presenza dellʼalcalde contadino come garante della giustizia e sostituto del re non si ritrova peraltro in nessuna delle due altre opere sicuramente di Lope nelle quali si
elabora il tema del diritto dei contadini allʼonore e al rispetto di questo
12
Utilizzo consapevolmente la terminologia “familiare” centrale nel già citato
studio di M. Vitse (Éléments pour une théorie), che vede nel rapporto padre-figlio
una metafora di cui il teatro aureo si serve per riflettere sui problemi della società e
dellʼuomo contemporanei.
13
Su questa tradizione comica, è ancora fondamentale N. Salomon, Recherches
sur le thème paysan dans la comedia au temps de Lope de Vega, Bordeaux, Féret et
fils, 1965 (trad. spagnola Lo villano en el teatro del Siglo de Oro, Madrid, Castalia,
1985, pp. 91-121).
Paradigma processuale e retorica giudiziaria (Lope de Vega)
145
sentimento da parte del signore feudale. Si ritrova invece, in Peribáñez y el Comendador de Ocaña, lʼarticolazione dellʼintreccio secondo
lo schema (che ricalca quello di un doppio procedimento giudiziario)
«colpa del signore - reazione del contadino - denuncia del caso al re giustizia disposta da questʼultimo contro il tirannicida - perdono finale».
La colpa del signore viene drammatizzata in questa tragicommedia
(databile secondo McGrady al 1604-1605)14 in modo diverso rispetto a
Fuente Ovejuna; mentre in quella Fernán Gómez non faceva nulla per
nascondere ai villani la sua arroganza, considerandola un diritto del
signore, in Peribáñez il Commendatore di Ocaña, consapevole dellʼilliceità delle sue pretese su Casilda, nasconde il suo desiderio e le sue
trame, confidandole solo ai suoi aiutanti. Da qui deriva lʼandamento
quasi poliziesco di una parte consistente dellʼopera, a partire dalla
scoperta casuale, da parte di Peribáñez, dellʼindizio principe a carico
del Commendatore (il ritratto di Casilda nella bottega del pittore a
Toledo), e dal prodursi della prima testimonianza a discarico di Casilda, pronunciata dallo stesso pittore, cui seguirà presto la “vox populi”
del romance cantato dai mietitori e ascoltato da Peribáñez al suo
ritorno a Ocaña: situazioni queste che si danno tutte nel II atto. Nel III
atto, Peribáñez mette a frutto la proverbiale astuzia contadina per sventare il delitto progettato dal suo signore: si fa armare cavaliere (si prepara così una giustificazione per lʼuso delle armi offensive in difesa del
proprio onore); avverte il Commendatore di aver cura del suo onore
altrimenti potrà legittimamente ricorrere contro di lui (senso giuridico
ultimo del «mirad cómo le guardáis / o quejaréme de vos» che chiude
il lungo discorso di Peribáñez al Commendatore); infine, fa in modo di
cogliere in flagrante delitto di adulterio il suo potente rivale, flagranza
che è la migliore giustificazione allʼuccisione che ne segue.
Ma, come succede in Fuente Ovejuna, alla giustizia contadina deve
seguire, per non mettere in discussione le basi stesse dellʼedificio gerarchico che struttura la società del tempo, la giustizia del re, arbitro
supremo dei conflitti. Lʼuccisione di un signore da parte di un subalterno è un fatto troppo straordinario per non suscitare lʼavvio di un
procedimento giudiziario che tende inizialmente al castigo severo del
reo. Come Fernando in Fuente Ovejuna («que tan grande atrevimiento
/ castigo ejemplar requiere», vv. 2026-27) anche Enrique in Peribáñez
promette una sentenza esemplare («Voto y juramento hago / de hacer
14
LOPE DE VEGA, Peribáñez y el Comendador de Ocaña, ed. D. McGrady, Barcelona, Crítica, 1997, pp. LIX-LXI. Da questa edizione trarrò tutte le citazioni dellʼopera.
146
Fausta Antonucci
en él un castigo / que ponga al mundo temor», vv. 3003-5). E non sarà
un caso se Lope, dopo la scena in cui il re pronuncia questo giuramento ed emana un bando per la cattura del reo, introduce una scena centrata sulla illustrazione delle empresas ricamate sullo stendardo reale, che insistono tutte sul concetto di giustizia: «Juzga tu causa, Señor»
e dallʼaltra parte «Enrique Justiciero». E proprio a questo appellativo
che Enrique III pretende per sé si richiama Peribáñez quando viene a
costituirsi. Far giustiziare il reo, senza neanche ascoltarne le ragioni,
non è unʼazione che si confaccia a chi si fa chiamare il Giustiziere
(«¿no me oirás siquiera, Enrique,/ pues Justiciero te llaman?» chiede
Peribáñez; e il re: «Bien decís; no me acordaba / que las partes se han
de oír,/ y más cuando son tan flacas», vv. 3026-31). Ecco dunque che
Peribáñez può pronunciare il suo discorso di autodifesa, cruciale in
questo procedimento sommario apertosi con la denuncia dellʼuccisione di don Fadrique, e preludio allo scioglimento felice della tragica vicenda. Peribáñez trascura di esordire con una captatio benevolentiae (ne aveva già utilizzato alcuni topici nellʼindirizzo di saluto
al suo entrare in scena), e si concentra subito sulle proprie qualità:
sangre limpia, cariche elettive ricoperte nel villaggio (tra le quali figura quella di alcalde, ruolo svolto per ben sei anni), e su quelle di
Casilda: sangre limpia, virtù e bellezza. Poi inizia la narratio dei fatti,
in cui riassume in modo breve ed efficace il progredire dellʼinsana
passione del Commendatore; lʼuccisione di don Fadrique viene presentata, con encomiabile economia di mezzi espressivi ma con grande
forza retorica, come la necessaria difesa dellʼinnocenza della moglie
(«corderilla simple») che Peribáñez, autodefinitosi con metafora evangelica «pastor», riesce a strappare alle grinfie del lupo. La chiusa del
discorso, breve e concisa, punta però decisamente alla mozione degli
affetti, alludendo alla prossima vedovanza della «sua» Casilda, e pregando che le vengano dati i mille scudi di taglia perché abbia di che
vivere. Lʼeffetto è assicurato: la regina piange di commozione. Il «delito» diventa «valor», la «gracia de la vida» concessagli dal re «justicia
se llama»; e Peribáñez può affermare «con razón todos te llaman / don
Enrique el Justiciero».
Un paradigma analogo a quello di Fuente Ovejuna e Peribáñez (il
susseguirsi di colpa - scoperta della colpa e reazione della parte lesa sentenza finale del re sul caso), struttura unʼopera precedente, Los Comendadores de Córdoba15, anchʼessa tragedia dʼonore ma priva della
15
Per un riesame esaustivo delle diverse ipotesi sulla datazione di questʼopera,
Paradigma processuale e retorica giudiziaria (Lope de Vega)
147
tensione sociale ed umana che nasce, nelle due tragicommedie di ambiente contadino, dalla rivendicazione dellʼonore da parte di una categoria che tradizionalmente non si considerava ne avesse diritto. Come
in Peribáñez, anche qui la colpa è lʼadulterio, progettato e messo in
atto da Beatriz, moglie del Veinticuatro di Córdoba, e da sua nipote
Ana, dʼaccordo con due giovani cugini di Beatriz, Commendatori di
un non meglio specificato ordine militare16. Nellʼambito del paradigma
«delitto - reazione – giudizio» alcuni motivi di intreccio utilizzati raccordano specificamente Los Comendadores de Córdoba alla prima delle
due tragicommedie dellʼonore contadino, Peribáñez. Un ruolo chiave
ha lʼindizio che fa scoprire al protagonista la colpa: in Peribáñez è il
ritratto di Casilda, in Comendadores è lʼanello di diamanti che il re ha
donato al Veinticuatro, e che questi, dopo averlo donato a sua volta
alla moglie, vede al dito di don Jorge, uno dei due Commendatori adulteri. A partire da questa scoperta, la principale preoccupazione del
Veinticuatro, come già di Peribáñez, è quella di accertare la colpevolezza della moglie; ma, mentre in Peribáñez tutti i testimoni concordano nello scagionare Casilda, in Comendadores il Veinticuatro trova
invece un servo che gli conferma la colpevolezza di Beatriz e Ana, e
che il padrone sottopone, alla fine del suo resoconto, a un breve interrogatorio, sorta di compendio delle accuse che lo porteranno alla vendetta finale («Di, Rodrigo,/ ¿quiere doña Beatriz su primo? –Quiérele./
–¿Goza a doña Beatriz su primo? –Gózala./ –¿Y don Fernando? –A tu
sobrina. –¡Basta!», vv. 2407-10). Il Veinticuatro vuole però anche una
si veda lʼintroduzione di J.E. Laplana Gil alla sua edizione contenuta in Comedias
de Lope de Vega. Parte II, coord. S. Iriso, Lleida, Milenio, 1998, tomo 2 (edizione da
cui traggo tutte le citazioni).
16
Per la trama de Los Comendadores de Córdoba, Lope si ispirò al “Romance
de los Comendadores” aggiunto da Juan Rufo alla fine del suo Las seiscientas apotegmas (1596). Molti momenti di quello che chiamo il paradigma processuale di
questʼopera (lʼindizio dellʼanello, il banchetto come prova del delitto) sono già presenti nella fonte; manca in essa, invece, il lungo discorso di autodenuncia e al tempo stesso discolpa del Veinticuatro davanti al re. Considerando che Comendadores è
sicuramente anteriore a Peribáñez, i tratti che segnalo come analoghi fra i due drammi
(la scoperta dellʼindizio, il ritorno a casa di notte per sorprendere in flagrante i colpevoli), inaugurati da Lope in Comendadores, potrebbero essergli stati suggeriti dal
romance di Rufo; sempre che, beninteso, non ci si inclini allʼipotesi, sostenuta da
María Goyri, che Los Comendadores de Córdoba sia la commedia intitolata Los Comendadores e rappresentata nel 1593 dalla compagnia di Gabriel Núñez; in questo
caso, il rapporto fra i testi andrebbe invertito (è unʼipotesi mia, che non coincide con
quella di M. Goyri che ipotizzava una pubblicazione del romance di Rufo in pliego
suelto anteriore al 1596) e potrebbe essere stato il romance di Rufo ad essere modellato sulla commedia di Lope.
148
Fausta Antonucci
prova de visu, e invita a pranzo a casa sua i due cugini adulteri (si pensi che lʼinvito a pranzo, di fatto una trappola tesa allʼinvitato ignaro, è
un motivo estremamente ricorrente nella tragedia)17: e Beatriz e don
Jorge con il loro comportamento di fatto si autodenunciano («¡Miren
con la desvergüenza / que se hablan, que se miran,/ que hasta los cielos
se admiran / que su temor no les venza!», vv. 2566-69). È il momento
della vendetta, che il Veinticuatro realizza con modalità analoghe a
quelle di Peribáñez: finge di allontanarsi, poi rientra in casa passando
dal muro di un orto vicino, coglie in flagrante adulterio le due coppie, e
uccide dapprima lʼamante di sua moglie e poi via via tutti gli abitanti
della casa, tranne il servo fedele che gli ha denunciato il misfatto.18
17
Soprattutto nella fattispecie del banchetto cruento, nel quale allʼinvitato vengono offerte come cibo le carni di un essere amato, rivelando lʼatroce verità solo
alla fine del pasto (un motivo che deriva dalla storia mitica di Progne e Filomena, che
per vendicarsi della violenza del marito e cognato gli imbandiscono le carni di suo
figlio Itis). Ma si potrebbe anche ricordare lʼindigesto invito a pranzo del re al conte
Alarcos, nel famoso romance omonimo, al termine del quale il monarca ingiunge al
conte di sbarazzarsi di sua moglie per sposare lʼInfanta… Quanto alla funzione di
prova che avrà per il Veinticuatro il pranzo cui invita i Commendatori, sono estremamente significativi i vv. nei quali offre a don Jorge acqua da bere che questi rifiuta; e il Veinticuatro insiste «Bebedla» e poi aparte «(Que como éste es delito que se
prueba,/ también es menester cordeles y agua)» (vv. 2443-45), con allusione a due tra
le più frequenti procedure di tortura.
18
Vorrei qui avanzare lʼipotesi che Valle-Inclán, nel suo esperpento Los cuernos de don Friolera, in cui notoriamente parodia la retorica tradizionale dellʼonore
coniugale, pensasse a Lope (il Lope de Los Comendadores de Córdoba, soprattutto)
tanto come a Calderón, che viene esplicitamente citato nel Prólogo (si veda al riguardo M. TRAMBAIOLI, «Calderón y Valle-Inclán: reinterpretación de un diálogo intertextual tergiversado (El pintor de su deshonra y Los cuernos de don Friolera)», in
Actas del Congreso Internacional El Siglo de Oro en el nuevo milenio. Historia,
Crítica y Teoría literaria (Pamplona, 15-17 septiembre 2003), eds. C. Mata y M. Zugasti, Pamplona, Eunsa, 2005, II, pp. 1655-1665). Quando Valle-Inclán fa dire a Friolera che il Teniente Capriles «cuando lo supo [que su mujer lo traicionaba] mató como
un héroe a la mujer, al asistente y al gato» (Escena primera), non riecheggia forse la
furia omicida del Veinticuatro che uccide anche il pappagallo e la scimmia di casa? E
la conclusione del romance de ciego che apre lʼEpílogo, con il conferimento degli
onori militari a un Friolera che ha lavato eroicamente nel sangue lʼadulterio della
moglie, non ricorda lʼelogio che il re rivolge al Veinticuatro alla fine de Los Comendadores de Córdoba, affermando «Sois, don Fernando, tan dino / de premio por
tal venganza,/ que hasta a un rey parte le alcanza / del honor que a vos os vino»? J.E.
Laplana Gil, nellʼIntroduzione alla sua ed. già cit. (p. 1030, nota 10), ricorda che echi
della storia dei Commendatori, e in particolare del dettaglio tra macabro e comico
dellʼuccisione di tutti gli esseri viventi della casa compresi gli animali, si ritrovano
anche in un sainete della fine del XVIII sec. intitolato El lugareño de Cádiz, dove un
cieco canta «el curioso / romance de un caballero / natural de la Alpujarra,/ que mató
por unos celos / a su mujer, a su padre,/ a sus dos hijos, al perro,/ al gato, al mico y al
Paradigma processuale e retorica giudiziaria (Lope de Vega)
149
Come in Peribáñez, alla sequenza della vendetta segue un cambio
di spazio e di personaggi, e sul palcoscenico appaiono il re e i suoi cortigiani, che commentano le sorti future del regno: in questo contesto
compare, a costituirsi per il suo delitto, il Veinticuatro, che, chiesta udienza al re, gli racconta brevemente la sua vicenda e si autodenuncia
per le uccisioni di cui si è reso responsabile, offrendo la sua testa al
monarca. Dal punto di vista retorico, il suo discorso manifesta molti
punti di contatto con quello di Peribáñez: certo, il Veinticuatro non deve
presentarsi al re, perché questi già lo conosce, né deve appellarsi alla
sua giustizia, perché nessun bando è stato emanato contro di lui (notevole differenza che dipende, con ogni probabilità, dal diverso status
sociale del protagonista e dal fatto che le sue uccisioni non violano un
tabù gerarchico come quelle di Peribáñez e di Fuente Ovejuna). Tuttavia, la narratio dei fatti viene condotta con analoga concisione; e analoga è la strategia della chiusa, che punta a commuovere lʼascoltatore
con la stoica accettazione di una condanna che viene data per scontata.
Non ci sono però lacrime a rispondere al discorso di autodenuncia, e
nel contempo autodifesa, del Veinticuatro; allʼeliminazione delle protagoniste femminili, indegne dellʼonore che dovevano preservare, corrisponde infatti lʼassenza della regina nella scena conclusiva, che è
tutta maschile e rifugge dalla commozione, preferendo esaltare il valore maschile dellʼonore lavato col sangue, «Hecho famoso y notable», atto di legittima difesa e come tale non punibile. Come ordina il re
in chiusura, «decí a mi alcalde mayor / que no hable en esta justicia,/
que yo lo tomo a mi cargo;/ que no quiero más descargo,/ ni más probada malicia» (vv.3009-14): il che vuol dire che il monarca assume le
funzioni di giudice supremo, e che considera sufficienti tanto le prove
a discarico del Veinticuatro quanto quelle a carico degli uccisi.
4. Un terzo gruppo di opere è quello in cui il paradigma processuale è più lineare, in quanto la parte lesa non intraprende una vendetta per suo conto, bensì ricorre subito al re; questi deve quindi giudicare di un unico delitto, che, non avendo giustificazioni di alcun tipo,
viene punito con la morte. La prima opera che ci presenta questo schema di intreccio è El marqués de Mantua.
loro...» Non è quindi del tutto improbabile che una qualche forma di tradizione orale
di questa tragica storia possa essere arrivata fino ai tempi di Valle-Inclán, e che da
essa possa aver preso spunto almeno in parte per la sua parodia delle tragedie
dʼonore.
150
Fausta Antonucci
Di ambiente palatino, lʼintreccio di questo dramma prende lʼavvio
dal desiderio adultero di Carloto, figlio dellʼimperatore Carlomagno,
per Sevilla, principessa mora sposa del paladino Valdovinos; accecato dallʼamore, Carloto organizza unʼimboscata in cui ferisce a morte
Valdovinos, ma questi fa in tempo a denunciare lʼaggressione allo
zio marchese di Mantova, che si reca con altri parenti a chiedere giustizia allʼimperatore. Carlomagno, nonostante lʼamore paterno, consegna il figlio a un tribunale composto su indicazione delle parti lese,
che condanna a morte Carloto; condanna controfirmata da Carlomagno, che riceve per questo gesto eroico le lodi di tutta la Corte. Poiché
in questa sede mi interessa sottolineare come si articola il paradigma
processuale in questʼopera, tralascerò tutte le componenti liriche e
festive di cui pure essa è ricca, per concentrarmi sui motivi dʼintreccio
che sono più strettamente connessi con lo schema “delitto - punizione
del delitto”. In questʼottica, diremo che il I atto mette in scena il formarsi del movente (lʼinnamoramento di Carloto per Sevilla), lʼistigazione
a delinquere (fornita a Carloto dal traditore Galalón e basata sullʼasserto che il re può tutto), la preparazione del delitto. Il II atto mostra
la realizzazione del delitto, la sua rapida scoperta grazie allʼarrivo
del servitore di Valdovinos e poi di suo zio il marchese, al quale il paladino denuncia lʼaggressore; mentre Valdovinos morente si confessa con un eremita, il suo servitore Marcelo racconta al marchese la sua
testimonianza su come si sono svolti i fatti. In chiusura di atto, il
marchese giura di vendicare la morte del nipote «o por justicia, o por
armas / si falta justicia en Carlos»: come si può vedere, lʼopzione della
richiesta di giustizia viene prima di quella della vendetta, il che rende
questa tragedia profondamente diversa da Fuente Ovejuna, Peribáñez
e Comendadores de Córdoba. Il marchese non dovrà ricorrere alla
vendetta, come si vedrà nel III atto, che drammatizza proprio la richiesta di giustizia e il suo accoglimento da parte di Carlos, a dispetto dei propri sentimenti individuali.
Fra tutte le piezas fin qui esaminate, questa è senzʼaltro quella in
cui è più evidente un dispiegamento diffuso di abilità dialettiche e
retoriche, e più costante lʼappello alla commozione dellʼuditorio, tanto
quello interno (altri personaggi presenti in scena) quanto quello esterno (gli spettatori). Il I atto presenta ben tre scene di vivace contrasto
dialettico e argomentativo: la prima, tra Carloto e il fratello Rodulfo,
ha come tema la possibilità per il re di elevare il proprio capriccio a
legge; la seconda, tra Carloto e Sevilla, vede questʼultima difendere il
proprio diritto a negarsi alle pretese del principe; la terza, tra Carloto
Paradigma processuale e retorica giudiziaria (Lope de Vega)
151
e Galalón, è speculare alla prima, in quanto il maganzese traditore
sostiene in questa scena il contrario di quanto era stato affermato da
Rodulfo, e cioè che Carloto, in quanto futuro re, ha diritto di pretendere per sé Sevilla, anche a costo di assassinarne il marito19. Benché il
delitto non sia ancora avvenuto, i dibattiti che hanno luogo in queste
scene configurano senza ombra di dubbio una situazione giudiziaria,
in quanto ruotano intorno alla possibilità o meno di giustificare come
legittimo il comportamento di Carloto: Rodulfo e Sevilla, con argomentazioni diverse, negano tale possibilità, mentre Galalón la afferma;
Carloto dal canto suo oscilla fra le due posizioni, affermando il suo
buon diritto con chi glielo nega, e obiettando a chi cerca di convincerlo che può fare ciò che crede. Lope ci presenta infatti questo personaggio come un debole, facile preda dei cattivi consigli e delle passioni, e un incerto; il che spiega come possa continuare ad argomentare
perfino con la sua vittima, quando nel II atto gli svela obliquamente
la trappola in cui è caduto avendo la sfacciataggine di chiedergli
consiglio sul da farsi («Salimos, pues, los dos juntos,/ y vengo a dalle la
muerte,/ aunque primero pretendo / que lo mejor me aconsejes», p.
168a). E Valdovinos non si fa pregare, argomentando in sua difesa con
lʼaiuto di una serie di esempi classici e biblici che dovrebbero dissuadere Carloto dal misfatto, argomenti ai quali Carloto risponde colpo su
colpo, come se si trattasse di una disputa accademica e non di unʼimboscata mortale…
Una volta compiuto il delitto, la dialettica lascia il posto alla mozione degli affetti, che peraltro aveva già aperto lʼatto nella sequenza
del congedo di Valdovinos da Sevilla, carico di presagi infausti. Dalla
fuga degli aggressori fino alla fine del II atto, è tutto un succedersi di
pianti, lamenti, invettive, preghiere e invocazioni devote, tanto da parte del morente, quanto da parte del marchese di Mantova che in lui si è
imbattuto: i momenti salienti sono la rielaborazione da parte di Valdovinos, in quintillas, dei famosi versi del romance «¿Dónde estás, señora mía,/ que no te duele mi mal?» (p.170b); il dialogo straziante, in octavas, tra il morente e lo zio (p.172b); il giuramento finale del marchese, in romance (p.176b).20
19
Si vedano rispettivamente le pp. 142a-144b, 149b-152a, 155a-157a dellʼedizione di M. Menéndez y Pelayo, ripubblicata nel vol. 234 della BAE (Obras de
Lope de Vega, XXIX (Comedias novelescas), Madrid, Atlas, 1970).
20
Sulla funzionalità dei cambi di metro in questa commedia di Lope, si può vedere F. ANTONUCCI, «Polimetría, tiempo y espacio teatral en algunas obras de tema
152
Fausta Antonucci
Il III atto è quello che più propriamente si costruisce secondo il
paradigma processuale, in quanto vi si drammatizza la richiesta di
giustizia e la sua soddisfazione. In primo luogo, assistiamo alla richiesta dʼudienza a Corte e alla querela che tre personaggi, a vario titolo
danneggiati dalla morte di Valdovinos, sporgono alla presenza dellʼImperatore. Il primo è il conte dʼIrlos, che, dopo aver elencato tutti i
parenti del morto che sottoscrivono la querela, esorta Carlos a dimenticare lʼamor paterno preferendo la giustizia: esortazione a sostegno
della quale, secondo un uso tipico di questʼopera e in genere caratteristico del discorso deliberativo, si apportano esempi illustri, in questo
caso quello di Traiano e perfino di Dio padre che non ha esitato a sacrificare il proprio figlio per la salvezza del genere umano. Segue il
duca di Alençon, che esorta Carlos a non farsi giudice in un caso che
lo vede comunque coinvolto come padre, bensì a nominare un tribunale neutrale. Infine, e qui naturalmente la mozione degli affetti ha la
meglio, la vedova Sevilla, che chiede giustizia utilizzando lʼargomento religioso: se la fede cristiana è davvero superiore a quella mora, che
lei ha abbandonato per sposare Valdovinos, occorre che lo si dimostri
punendo chi quella legge ha violato. Dopo queste tre requisitorie,
Carlos non può far altro che concludere: «Basta, no más; ya estoy dispuesto / a hacer justicia» (p. 182a); nega ascolto allʼoffensore, al quale
volta platealmente le spalle, e ne ordina la cattura, che viene eseguita,
con un geniale contrappasso, a tradimento, col pretesto di una partita
di pelota. Dopo una sequenza ambientata fuori dalla Corte, e totalmente occupata dalla drammatizzazione del lutto sul corpo del morto,
si ritorna al paradigma processuale e allʼambiente cortigiano. È il
momento di leggere al condannato la sentenza emanata dal tribunale
che ha esaminato il caso, accolta da Carloto con quella ambivalenza
dʼanimo che è propria del suo personaggio: ora riconoscendone la
giustizia, ora protestando contro un padre tiranno che si è rifiutato di
salvarlo. Segue unʼaccesa discussione tra Carlos e Roldán intorno
alla opportunità di condannare Carloto, discussione nella quale Roldán
difende gli stessi argomenti che erano stati di Galalón, e per la sua
ribellione viene esiliato; infine, entra un nunzio a riferire la morte
esemplare del colpevole che, pentito dei suoi peccati, si è riconciliato
con Dio e con il padre. Il procedimento giudiziario non si chiude tuttavia con la morte del reo ma, e solo allora definitivamente, con un
caballeresco del primer Lope», in Métrica y estructura dramática en el teatro de
Lope de Vega, ed. F. Antonucci, Kassel, Reichenberger, 2007.
Paradigma processuale e retorica giudiziaria (Lope de Vega)
153
ulteriore gesto di Carlomagno: lʼofferta del corpo morto del figlio alle
parti lese, il sangue proprio in risarcimento del sangue altrui. Si tratta,
a ben vedere, di una ripresa del motivo della catastrofe sanguinosa
mostrata sul palcoscenico, tipico delle tragedie di vendetta, di cui qui
viene però disinnescato il potenziale di violenza incontrollata, in quanto la morte è avvenuta in una cornice istituzionale che la giustifica. È
in questo senso estremamente significativo che Carlos sottolinei come
questa, che per le parti lese è una vendetta, sia avvenuta in una cornice
di giustizia, in conformità alle leggi e a un preciso iter processuale:
Ya, conforme a las leyes y el proceso,
hice justicia y vos tenéis venganza;
[…] agora, (enséñenle el cuerpo)
volved los ojos a Carloto muerto,
que quiero presentárosle, señora,
(p. 194a)
de aquella sangre que le di cubierto.
Analogo a quello de El marqués de Mantua è lo schema «delitto richiesta di giustizia - esecuzione della giustizia da parte del re» su cui
si costruisce lʼultimo dei drammi lopiani di argomento contadino, El
mejor alcalde el rey21. Come ne El marqués de Mantua, le vittime dellʼarroganza signorile, motivata anche qui da un amore sconsigliato,
non scelgono la vendetta bensì il ricorso alla giustizia: in primo luogo
allo stesso signore, in appello al re. Il potenziale tragico è molto
ridotto in questa pieza rispetto a El marqués de Mantua: sia perché la
vittima della prepotenza non viene uccisa e, sebbene subisca la violenza sessuale del signore, viene risarcita sia economicamente sia
sentimentalmente, potendo alla fine sposare il suo innamorato contadino; sia perché tra il re giudice e il reo non esistono legami di sangue che rendano così drammatica la scelta di giustizia.
Tuttavia, e nonostante i più di ventʼanni che le separano, molti tratti de El mejor alcalde el rey ricordano tratti analoghi de El marqués de
Mantua, soprattutto per quanto riguarda lʼattenzione posta allʼassetto
retorico dei dialoghi connessi con la richiesta di giustizia. In realtà,
qui il delitto avviene alla fine del I atto: come il Commendatore in
Fuente Ovejuna, anche don Tello de Neira, incapricciatosi di Elvira,
21
Ulteriori dati a conferma della datazione proposta da Morley e Bruerton
(1620-23) si possono leggere nellʼIntroduzione allʼedizione curata da T. FERRER: L. de
Vega, Peribáñez y el Comendador de Ocaña–El mejor alcalde, el rey, Barcelona, Planeta, 1990, pp. XLVIII-LI.
154
Fausta Antonucci
promessa sposa di Sancho, la rapisce dopo averne differito le nozze.
Tuttavia, la situazione di apertura del II atto ricorda lo scontro dialettico che avevano sostenuto Sevilla e Carloto nel I atto de El marqués
de Mantua, con ciascuna delle due parti che esibisce argomenti in
difesa della propria posizione; uno di quelli usati da don Tello a difesa della possibilità di un amore a prima vista, quello del basilisco
che «mata / con sólo llegar a ver» (vv. 927-28), è poi lo stesso che Carloto aveva usato con Rodulfo per difendere lʼinevitabilità del mal
dʼamore che lo ha colto («¿No hace el basilisco efeto / con una vista?»,
p. 144a). Se Elvira si mostra a lungo ben capace di difendersi, sia con
le parole sia con i fatti, dagli assalti di don Tello22, anche Sancho si
dimostra abile nel perorare la sua causa davanti al signore, in un lungo
e ben articolato discorso nel quale ha lʼaccortezza di chiedere allo
stesso Tello di aiutarlo a ottenere giustizia dellʼaffronto subito, in quanto non può credere che sia stato lui, come si dice nel villaggio, lʼautore
del rapimento. I topici della captatio benevolentiae in esordio e in
chiusura, lʼuso di numerosi luoghi deputati alla mozione degli affetti,
perfino un velato avvertimento allʼaggressore («llegué al árbol más
alto, y a reveses / y tajos le igualé a las bajas mieses./ No porque el
árbol me robase a Elvira,/ mas porque fue tan alto y arrogante»,
vv.1061-64), non hanno però effetto su Tello, che nega qualsiasi coinvolgimento, smentito da Elvira che si mostra, denunciando così la
colpa del suo rapitore. Aggrediti da un infuriato Tello, Sancho e Nuño,
padre di Elvira, devono ritirarsi a mani vuote; ma Nuño non dispera,
esortando Sancho ad andare a chiedere giustizia al re.
Ecco quindi che, mentre Tello cerca in tutti i modi di piegare Elvira al suo volere, Sancho si reca a León dal re Alfonso. Si ripropone
qui la situazione di richiesta di giustizia che occupava lʼinizio del III
atto de El marqués de Mantua, e che comporta il dispiegamento di
una certa sapienza retorica da parte del/dei querelante/i. Sancho non
manca di dar prova della sua eloquenza: stavolta, ai topici della captatio benevolentiae unisce le lacrime, una spontanea “retorica del corpo” che muove efficacemente a pietà il monarca: «Discreto me parece:/
primero que se queja, me enternece» (vv.1359-60), commenta il re.
Quando ha finito di esporre il caso, il re scrive una lettera a don Tello ordinandogli di restituire Elvira a Sancho; tuttavia, il signore disprezza la lettera e scaccia Sancho che ne è latore, non senza prima
22
«Pues hallo en tu entendimiento,/ como en tus brazos, defensa», le dice don
Tello in apertura del II atto (vv. 919-20).
Paradigma processuale e retorica giudiziaria (Lope de Vega)
155
aver a lungo discusso con lui su quello che sarà lʼargomento principe
della sua difesa: Sancho non può querelarsi di nulla perché non è formalmente il marito di Elvira.
Il III atto inizia dunque con una nuova querela di Sancho al re:
anche questa esordisce con una lunga captatio benevolentiae, prosegue con la narratio del fatto (il rifiuto di Tello a restituirgli Elvira),
per argomentare infine la gravità del rifiuto equiparando la parola del
re alla parola di Dio, meritandosi ancora una volta gli elogi del monarca. Alfonso decide stavolta di andare di persona a fare giustizia;
arrivato al villaggio galiziano dove abitano Sancho e Nuño, inizia subito la «información», quella che oggi si chiamerebbe escussione dei
testimoni, per verificare i fatti raccontatigli da Sancho (vv. 2051-2121);
poi va a presentarsi a don Tello, accompagnato dai querelanti, e si fa
riconoscere; lo fa disarmare, ordina che venga alla sua presenza la
vittima, e ascolta la sua richiesta di giustizia (anchʼessa strutturata
secondo precise norme retoriche: esordio ed epilogo con captatio benevolentiae, narratio dei fatti tesa a commuovere gli ascoltatori); infine, sentenzia il caso condannando a morte il colpevole, e respingendo tutte le richieste di clemenza che gli vengono rivolte dai presenti,
perché «Cuando pierde de su punto / la justicia, no se acierta / en admitir la piedad» (vv.2387-89). Prima di morire, Tello dovrà sposare Elvira, che così vedrà restaurato il suo onore e avrà diritto alla metà delle
ricchezze del nobile; dopo lʼesecuzione di questi, potrà finalmente
sposare il suo Sancho.
5. Non tanto per il tipo di paradigma giudiziario che mettono in
scena, quanto per la ripresa di motivi di intreccio e soluzioni drammatiche, altri due importanti drammi lopiani più tardi ripropongono certi
aspetti del modello tragico attualizzato ne El marqués de Mantua. El
caballero de Olmedo rielabora nel III atto il motivo dellʼuccisione a tradimento del protagonista durante un viaggio, uccisione motivata da
una rivalità amorosa e preannunciata da una serie di presagi infausti
che sconsigliano la partenza. Il dibattito che a lungo ha appassionato
parte della critica a proposito della “giustizia poetica” che motiverebbe lʼuccisione del protagonista don Alonso, forse si sarebbe potuto
evitare se soltanto si fosse visto questo parallelo, che mette in luce
lʼinnocenza di Alonso, vittima come Valdovinos di un uomo che, come
Carloto23, pensa di conquistare la donna amata contro la sua volontà,
23
Anche la mancata attenzione che Alonso presta ai presagi infausti fa parte del
156
Fausta Antonucci
eliminando il rivale con lʼinganno e il tradimento. È la proporzione
fra le diverse componenti dellʼintreccio che cambia ne El caballero de
Olmedo rispetto a El marqués de Mantua: in questʼultima la nascita
e lo sviluppo dellʼamore fra Sevilla e Valdovinos non fanno parte
dellʼintreccio, ma ne sono solo il presupposto, mentre due interi atti
si dedicano al delitto e alla sua punizione; al contrario ne El caballero
de Olmedo la nascita e lo sviluppo dellʼamore tra Alonso e Inés occupano la quasi totalità dellʼopera, mentre lʼideazione del delitto, la
sua esecuzione e il castigo finale occupano solo la seconda parte del
terzo atto. Questa diversa proporzione si deve anche alla diversa tonalità sottogenerica cui fanno riferimento le due opere: palatina El
marqués de Mantua, e dunque interessata prevalentemente alle problematiche connesse con lʼesercizio del potere, urbana El caballero
de Olmedo, e dunque interessata prevalentemente alle dinamiche amorose. Il paradigma processuale, che tanto spazio aveva ne El marqués
de Mantua, ne El caballero de Olmedo è quindi molto compresso; lo
stesso percorso che porta al delitto, estremamente elaborato ne El
marqués de Mantua como ho tentato di mettere in evidenza più sopra,
si riduce qui a una dichiarazione dʼintenti di don Rodrigo, subito
messa in pratica senza che le tiepide obiezioni di don Fernando ottengano replica né tantomeno effetto. Al delitto, la cui messa in scena
rappresenta senza alcun dubbio il momento culminante del dramma,
segue la richiesta di giustizia, avanzata al re in persona, nella scena
conclusiva dellʼopera, dal servo dellʼucciso, Tello. Non è la prima volta che troviamo un subalterno che sporge querela davanti al monarca
per lʼuccisione del suo signore: in Fuente Ovejuna era uno dei servi di
Fernán Gómez, Flores, a denunciare al re il linciaggio di cui era stato
vittima il Commendatore. Ne El caballero de Olmedo, tuttavia, a differenza di quanto succedeva in Fuente Ovejuna, Tello adotta la retorica, verbale e corporea, propria di un congiunto della vittima: infatti
dichiara di venire in rappresentanza del vecchio padre di don Alonso, che è stato sopraffatto dal dolore alle porte del palazzo reale. La
modello tragico, tanto è vero che si ritrova ugualmente ne El marqués de Mantua.
Come sottolinea I. ARELLANO («Estructura dramática y responsabilidad. De nuevo
sobre la interpretación de El caballero de Olmedo, de Lope de Vega (Notas para una
síntesis)», in En torno al teatro del Siglo de Oro. XV Jornadas de teatro del Siglo de
Oro, eds. I. Pardo Molina, A. Serrano, Almería, Instituto de Estudios Almerienses,
2001, pp. 95-113), rispondeva alla più perfetta ortodossia il non tener conto dei presagi; e dʼaltronde lo stesso Tello lo sostiene alla fine del II atto della tragicommedia: «y
no hagas / caso de sueños ni agüeros,/ cosas a la fe contrarias”, vv. 1795-97).
Paradigma processuale e retorica giudiziaria (Lope de Vega)
157
mozione degli affetti è assicurata dal pianto di Tello, dalla sapiente
distribuzione dei fatti nella sua narratio, dalla chiusa in cui insiste
sul dolore dei vecchi genitori e sul lutto della città di Olmedo. La
richiesta di giustizia avanzata da Tello al re viene ripetuta da Inés,
promessa sposa di Alonso; i colpevoli vengono immediatamente riconosciuti da Tello, che svolge dunque la funzione di testimone chiave,
e immediatamente il re pronuncia la sua sentenza di morte, che dovrà
essere eseguita lʼindomani mattina e sulla quale si chiude la tragicommedia.
Pur diversissima nel suo intreccio, lʼultima tragedia di Lope, El
castigo sin venganza, presenta alcune significative coincidenze con
El caballero de Olmedo: in particolare, lo spazio concesso allʼelaborazione dellʼintreccio amoroso (che in questo caso è quello incestuosoadulterino fra Casandra e il suo figliastro Federico) e la conseguente
compressione del paradigma processuale alla seconda parte dellʼultimo atto. Il paradigma è analogo a quello su cui si strutturava El marqués de Mantua, con alcune significative varianti: una colpa motivata
dallʼamore; una denuncia, in questo caso anonima, che mette sullʼavviso lʼoffeso, che è al tempo stesso la massima autorità politica del suo
Stato; lʼindagine (segreta, a orientamento eminentemente “esterno”) e
la sentenza (anchʼessa segreta, “esterna”)24, con unʼesecuzione dei
colpevoli che, seppure pubblica, è un prodigio di dissimulazione ad
evitare che le vere ragioni di quelle morti siano di dominio pubblico e
dunque vadano a diminuire lʼonore del duca di Ferrara. La colpa —
cioè lʼadulterio fra Casandra e Federico, che non si mostra ovviamente
in scena — si colloca tra la fine del II atto (in cui la tensione erotica
fra i due innamorati raggiunge il suo massimo) e lʼinizio del III, quando viene raccontata da Aurora, che ne è stata testimone di nascosto; il
paradigma processuale vero e proprio inizia a metà del III atto con la
lettura da parte del duca di Ferrara del biglietto anonimo che gli denuncia lʼadulterio della moglie col figliastro. La reazione del duca è
immediata: se quanto ha letto è la verità, ucciderà il figlio colpevole
(torna quindi il motivo tragico, centrale ne El marqués de Mantua, del
padre che deve giudicare e condannare a morte il figlio). Certo, prima
di credere a un biglietto anonimo il duca, come già il suo saggio pari
grado di Carlos el perseguido (la cui moglie adultera si chiamava pro24
La definizione di orientamento “esterno” del discorso (cioè monologale, e
dunque rivolto solo agli spettatori) è mutuata da A. KIBÉDI-VARGA, Rhétorique et
littérature, Paris, Didier, 1970.
158
Fausta Antonucci
prio come la duchessa di Ferrara)25, vorrebbe prove: ma, «¿Cómo sabré con prudencia / verdad que no me disfame / con los testigos que
llame?» (vv.2536-38). Allora, come già abbiamo visto fare al duca di
Carlos el perseguido, ma anche al Veinticuatro de Los comendadores
de Córdoba, il duca di Ferrara escogita uno stratagemma per verificare la colpevolezza degli accusati: finge con Casandra che Federico gli
abbia chiesto in matrimonio Aurora, e, sospettando di aver scatenato
con questa notizia la gelosia della moglie, si nasconde («Buscando
testigos voy») ad ascoltare lʼinfuocato dialogo che ne segue tra Casandra e Federico. Nel mezzo delle accese recriminazioni di Casandra,
il duca di Ferrara commenta, aparte:
Sin tormento han confesado…
No es menester más testigo;
confesaron de una vez.
Prevenid, pues sois jüez,
honra, sentencia y castigo;
pero de tal suerte sea
que no se infame mi nombre;
que en público siempre a un hombre
queda alguna cosa fea.
(vv.2740 e ss.)
A denuncia anonima, vediamo dunque che corrisponde una ricerca
di prove segreta, e una condanna a morte la cui esecuzione sarà
anchʼessa, benché pubblica, segreta nelle sue vere motivazioni; perché «quien en público castiga / dos veces su honor infama,/ pues después que le ha perdido,/ por el mundo le dilata» (vv. 2854-57). Il ricorso a metafore tratte dal campo semantico della giustizia e dei procedimenti processuali è continuo nellʼultimo monologo del duca (vv.
2834-2912), quando, avendo già legato, imbavagliato e coperto con un
telo lʼinfelice Casandra, si appresta a ordinare a Federico di ucciderla, fingendo che si tratti di un nemico che, avendo attentato alla sua
vita, è stato fatto prigioniero. Il monologo si svolge come un dibattito processuale, ovviamente a orientamento “esterno”, in cui lʼamore
paterno funge da avvocato difensore di Federico, mentre il duca ne
25
Sulle possibili connotazioni implicite del nome Casandra, v. la nota 16 dellʼIntroduzione allʼed. cit. di Carlos el perseguido (p. 261), alle cui considerazioni
bisognerebbe aggiungere che già un dramma di Virués, La cruel Casandra, anteriore
al 1586, metteva in scena una Casandra falsa e lasciva, causa scatenante della morte
cruenta di tutti i protagonisti.
Paradigma processuale e retorica giudiziaria (Lope de Vega)
159
smonta le difese; lʼonore è il giudice supremo della causa, la verità il
pubblico ministero, la colpa è stata provata da occhi e orecchie (quelli
del duca stesso), la legge divina esorta alla sentenza26. Ma questa sentenza non verrà letta al colpevole, in nome della segretezza che deve
avvolgere tutto il processo: alla drammatica domanda di Federico morente, «¡Oh padre! ¿Por qué me matan?», il duca evita di rispondere,
demandando questa responsabilità a un altro tribunale, quello supremo di Dio: «En el tribunal de Dios,/ traidor, te dirán la causa». E
subito dopo, rivolto ad Aurora, la dama che, gelosa di Federico, ha determinato di fatto il tragico scioglimento, presenziando di nascosto
allʼadulterio e, si suppone, denunciandolo al duca dʼaccordo con quel
marchese Carlos che sta per diventare suo sposo: «Tú, Aurora, con este
ejemplo / parte con Carlos a Mantua» (vv. 3000-1).
Qual è lʼesempio che Aurora deve trarre dalla scena sanguinosa che
ha sotto gli occhi? Certamente, e questa è la prima lettura e la più immediata, la tragica fine cui vanno incontro le spose infedeli; infatti
Aurora è uno dei pochi personaggi della Corte a sapere bene (così
come ovviamente lo sanno gli spettatori) che la ragione della morte di
Casandra non è certo quella che il duca racconta agli altri cortigiani,
e cioè che Federico lʼha uccisa perché era geloso del figlio che lei
portava in grembo e che gli avrebbe tolto il diritto a ereditare lo Stato. Tuttavia, lʼinsistenza con cui Lope si richiama allʼesemplarità dellʼopera, tanto in chiusura («aquella tragedia / del castigo sin venganza,/ que siendo en Italia asombro,/ hoy es ejemplo en España»), quanto
nella famosa scena del I atto in cui si parla dellʼesemplarità del teatro,
ci spinge a interrogarci più a fondo sulla portata dellʼesempio rappresentato da questa tragedia. Ed esaminiamo allora, prima di tutto, la
succitata scena del I atto in cui il duca afferma che
es la comedia un espejo
en que el necio, el sabio, el viejo,
el mozo, el fuerte, el gallardo,
el rey, el gobernador,
la doncella, la casada,
siendo al ejemplo escuchada
de la vida y del honor,
26
«El fiscal verdad le ha puesto / la acusación, y está clara / la culpa; que ojos y
oídos / juraron en la probanza./ Amor y sangre, abogados,/ le defienden; mas no
basta,/ que la infamia y la vergüenza / son de la parte contraria./ La ley de Dios, cuando menos,/ es quien la culpa relata,/ su conciencia quien la escribe» (vv. 2902-12).
160
Fausta Antonucci
retrata nuestras costumbres,
o livianas o severas,
mezclando burlas y veras,
donaires y pesadumbres.
(vv. 214-25)
Spesso questi versi si citano fuori contesto, per lʼindubbio valore
che hanno in quanto rivendicazione della fondamentale polisemia del
teatro aureo; ma il loro contesto è quantomai interessante ai fini del
nostro discorso. Il duca infatti li pronuncia per giustificare il suo rifiuto di ascoltare oltre le prove di una commedia, che aveva intrasentito
da dietro la porta chiusa della casa di un autor de comedias; egli teme
infatti che, dalle parole dellʼattrice, gli arrivi una reprimenda simile a
quella che gli è stata appena fatta da Cintia, una cortigiana che si è
rifiutata di riceverlo, incredula che continuasse a folleggiare viziosamente alla vigilia del suo matrimonio. Dunque, in questo I atto, il duca
al tempo stesso riconosce la valenza pedagogica del teatro e la teme,
in quanto può applicarsi direttamente al suo caso. E ora saltiamo al III
atto: non appena ha appreso la notizia del tradimento di Casandra e
Federico, la sua prima, sincera constatazione è che «El vicioso proceder / de las mocedades mías / trujo el castigo y los días / de mi tormento» (vv. 2516-19). E infatti, benché Lope ci abbia presentato già nel I
atto lʼinclinazione reciproca che spinge lʼuno verso lʼaltra Casandra e
Federico, fin dal loro primo incontro, ha cura nel II atto di mostrarci
come lʼadulterio giunga ad effetto per colpa dellʼabbandono in cui il
duca lascia la giovane sposa, «porque con marido bueno,/ ¿cuándo se
vio mujer mala?» (vv. 1062-63). Se dunque Casandra e Federico sono
esempio di quello cui può portare la passione senza freni, anche il
duca è esempio della sorte che può toccare a quei mariti che, per la
loro sregolatezza, trascurano i doveri del matrimonio.
Ritroviamo dunque, ne El castigo sin venganza, la presenza di
due diversi tipi di colpevolezza, conseguenza lʼuno dellʼaltro, elemento questo che caratterizzava opere come Fuente Ovejuna, Peribáñez
e Los Comendadores de Córdoba; la prima colpa è quella del duca,
con la sua sfrenatezza e la sua trascuratezza nei confronti della moglie; a questa colpa consegue la passione adulterina che travolge Casandra e Federico; questa a sua volta viene punita da un giudice che,
per la prima volta nel corpus di opere fin qui analizzate, è anche però a
sua volta il responsabile della prima colpa. Questo fatto getta unʼombra sul «castigo sin venganza» che conclude lʼopera; rende meno
lineare, meno chiaramente individuabile, lo spartiacque tra “buoni” e
Paradigma processuale e retorica giudiziaria (Lope de Vega)
161
“cattivi” che al contrario funziona senza incertezze nelle altre opere fin
qui analizzate27; ed è forse una delle ragioni per cui a El castigo sin
venganza, nonostante il suo sanguinoso e oscuro finale, e la difficoltà per noi lettori di oggi di condividerne la logica, viene tuttavia
riconosciuta la qualità di un capolavoro, certamente più de Los Comendadores de Córdoba, che pure si costruisce intorno a una passione adulterina e alla sua punizione, ma i cui personaggi sono più
piatti, meno motivati nelle loro passioni.28
27
In questo senso, El castigo sin venganza è, fra tutti i drammi di Lope fin qui
analizzati, lʼunico che risponda in pieno allʼesigenza, espressa da Aristotele nella
Poetica e ribadita e commentata da López Pinciano nella Filosofía antigua poética,
che «no ha de ser buena ni mala la persona de la tragedia» (cit. in: F. SÁNCHEZ
ESCRIBANO y A. PORQUERAS MAYO, Preceptiva dramática española del Renacimiento
y el Barroco, Madrid, Gredos, 1972, p. 83). Molto interessante da sviluppare sarebbe
unʼanalisi di queste opere dal punto di vista della loro rispondenza ai modelli classici della tragedia morata (che ha come fine primario lʼesemplarità) o della tragedia
patetica (che ha come fine primario la commozione degli spettatori), il cui punto di
partenza potrebbero essere proprio le pagine dedicate a questo argomento da López
Pinciano, senza trascurare peraltro altri teorici del teatro dellʼepoca, primo fra tutti
Giraldi Cintio, la cui teoria della tragedia di lieto fine (in realtà già presente in Aristotele) è stata utilizzata per interpretare alcuni aspetti del teatro di Guillén de Castro
(cfr. A. GARCÍA VALDECASAS, «La tragedia de final feliz: Guillén de Castro», in Estado actual de los estudios sobre el Siglo de Oro. Actas del II Congreso Internacional
de Hispanistas del Siglo de Oro, ed. M. García Martín et als., Salamanca, Universidad, 1993, pp. 435-46).
28
Non entro volutamente nel nutrito dibattito critico sullʼinterpretazione de El castigo sin venganza, di cui si può trovare un buon riassunto, anche se oggi non più
aggiornatissimo, nellʼintroduzione allʼedizione curata da J.M. DÍEZ BORQUE per i
“Clásicos castellanos” (Madrid, Espasa-Calpe, 1987), completa di unʼessenziale bibliografia. Dirò soltanto che mi trovo sostanzialmente dʼaccordo con la lettura di F.
RUIZ RAMÓN (Historia del teatro español, desde sus orígenes hasta el 1900, Madrid,
Cátedra, 4a ed. 1981, pp. 169-70) quando differenzia fra il punto di vista dello storico e
critico, che spiega e giustifica il concetto di onore in base al quale il duca opera il suo
«castigo sin venganza», e quella dello spettatore, per il quale la morte di Federico e
Casandra è «la más terrible de las venganzas». Al contrario, non riesce a convincermi
la lettura di M. VITSE (Éléments pour une théorie du théâtre espagnol du XVIIe siècle,
cit., pp. 389-403), secondo il quale il duca sarebbe lʼennesimo esempio di figura paterna esemplare che impone giustamente la sua legge alle figure filiali. Il ravvedimento
del duca, pur avendo senzʼaltro come sostiene Vitse qualcosa di miracoloso, non è
così elaborato, né occupa una tale porzione di testo, da permettere allo spettatore di
formarsi un concetto totalmente diverso del personaggio; potrebbe anche essere, come
ipotizza Díez Borque, un semplice espediente per rendere verosimile e accettabile il
suo ergersi a giudice del figlio e della moglie. In ogni caso, resta il fatto che, fra tutti i
giudici che abbiamo incontrato nei drammi fin qui analizzati, il duca è lʼunico a non
essere esente da colpe. Utilizzando dunque lo stesso schema interpretativo proposto
da Vitse, si potrebbe ben dire che, per la sua collocazione cronologica (1631) e per il
desiderio di Lope di competere con Calderón (così ben evidenziato da J.M. ROZAS,
162
Fausta Antonucci
6. Considerando nel loro insieme i drammi fin qui analizzati, una
constatazione che salta subito agli occhi è lʼonnipresenza e la centralità del motivo del triangolo amoroso, che si potrebbe riassumere molto
schematicamente come «lʼarmonia di una coppia viene insidiata da un
terzo personaggio»; questʼinsidia può di per sé esercitarsi in modi violenti, e comunque comporta sempre una reazione tragica. Evidentemente il motivo del triangolo non è una prerogativa dei drammi, essendo centrale anche nella costruzione degli intrecci di commedia.
Anzi, una delle peculiarità dei drammi lopiani qui esaminati mi pare
proprio quella di far derivare il movente tragico sempre e comunque
dallʼamore; anche nel caso in cui (come in Peribáñez, Fuente Ovejuna, El marqués de Mantua) la brama amorosa si coniughi allʼesercizio
scorretto del potere, è comunque lʼamore a determinare lʼingiustizia
del potente, non lʼambizione o la brama di potere in sé. Rispetto ad
altre attualizzazioni del modello tragico in Europa (si pensi soltanto al
Macbeth o al Riccardo III di Shakespeare), o nella stessa Spagna del
Cinquecento29, ci troviamo dunque, con questi drammi lopiani, di fronte a unʼindubbia “privatizzazione”, se così si può dire, dei moventi
tragici. Questa caratteristica potrebbe essere una conseguenza di scelte
analoghe già effettuate in alcune opere di drammaturghi valenzani
quali Virués, Tárrega, Aguilar. Come scrive T. Ferrer, la maggior parte
dei drammi di questi autori «exploran una serie de conflictos que tienen que ver con la conducta moral de los poderosos, con su actuación
en el ámbito de las costumbres privadas y las posibles repercusiones
públicas de su comportamiento», con una marcata preferenza per quei
conflitti basati su un adulterio (reale o apparente) o su un desiderio
amoroso illecito.30
Alla caratteristica già segnalata se ne associa nella quasi totalità
dei casi unʼaltra, complementare: il fatto che il triangolo amoroso coinvolga un uomo e una donna uniti dal vincolo matrimoniale o comun«Texto y contexto en El castigo sin venganza», in Estudios sobre Lope de Vega, Madrid, Cátedra, 1990, pp. 355-383) questa tragedia si inserisce nel paradigma drammatico del secondo quarto del XVII secolo, per il quale, come ha ben mostrato Vitse, le
figure paterne si mostrano insolventi, incapaci di offrire ai figli valide direttive;
solo che neanche i figli, ne El castigo sin venganza, sono esenti da colpe, e sono
ben lontani dallʼadottare quellʼeroica adesione al codice dellʼonore in virtù del quale
tanti personaggi dei drammi calderoniani rinunciano allʼamore.
29
Per un confronto con i tragici spagnoli del Cinquecento si veda lʼormai classico
A. HERMENEGILDO, La tragedia en el Renacimiento español, Barcelona, Planeta, 1973.
30
T. FERRER, «Géneros y conflictos en los autores de la escuela dramática valenciana», Edad de Oro, 16 (1997), pp. 137-148 [p. 142].
Paradigma processuale e retorica giudiziaria (Lope de Vega)
163
que prossimi a contrarlo, che sarebbero anzi di fatto già uniti in matrimonio non fosse stato per la violenza del potente (comʼè il caso di
Fuente Ovejuna e di El mejor alcalde el rey)31. Che la tragedia sia caratterizzata, a differenza della commedia, da protagonisti sposati, è una
constatazione certo non nuova, che si può riscontrare anche nei drammi del gruppo di autori valenzani. La peculiarità di Lope, nellʼutilizzo di questo dato che partecipa delle convenzioni del macrogenere, sta, mi pare, nellʼaver prediletto un tipo dʼintreccio in cui si esaltano le virtù della fedeltà matrimoniale, capace di resistere a qualsiasi lusinga e violenza32: è il modello sui cui si costruiscono drammi
anche diversissimi tra loro come Carlos el perseguido, El marqués
de Mantua, Peribáñez, El mejor alcalde el rey, Fuente Ovejuna. E,
aggiungerei, è il modello sotteso a unʼaltra bellissima tragedia lopiana: El mayordomo de la duquesa de Amalfi. La duchessa Camila e
Antonio, infatti, vanno irrevocabilmente verso la morte perché non rinunciano al loro legame matrimoniale e, anzi, scelgono di esibirlo agli
occhi del mondo dopo anni e anni di segretezza, pur conoscendo in
anticipo quale sarà la reazione dei fratelli della duchessa33. Anche in
questa tragedia cʼè un terzo personaggio che determina il precipitare
degli eventi, in quanto, innamorato di Camila, finisce per scoprirne il
segreto e va a rivelarlo al fratello di lei. E lʼunica porzione di testo che
risponde in parte al paradigma processuale è un serrato scontro dialettico fra Camila, il fratello di lei Julio, e il geloso e vendicativo innamorato di Camila, Otavio de Médicis, in cui la donna difende la sua
scelta di sposare Antonio per non offendere la legge di Dio, mentre il
31
Si potrebbe forse dire che anche El caballero de Olmedo risponde a questa
seconda fattispecie, in quanto la violenza omicida di Rodrigo impedisce un matrimonio desiderato da entrambi i protagonisti e che viene accordato sia dal padre di
Inés che dal re nelle ultime scene dellʼopera. Tuttavia, considerando che il matrimonio non fa parte dei progetti iniziali dei protagonisti (come succede in Fuente
Ovejuna e El mejor alcalde el rey) ma è soltanto, come nella totalità delle commedie, il naturale obiettivo cui tende la storia dʼamore del galán e della dama, mi
sembra più prudente considerare El caballero de Olmedo come unʼeccezione rispetto al paradigma cui rispondono le altre opere qui analizzate.
32
Un modello che ritroviamo ne El amor constante (1596-99) di Guillén de Castro, che però è praticamente contemporanea alle prime prove lopiane di questo modello.
33
In questo senso, la storia tragica di Camila ed Antonio e dei loro figli ne El
mayordomo costituisce una sorta di contraltare di quella di Carlos, Leonora e dei
loro figli in Carlos el perseguido, secondo quel meccanismo di «tesis y antítesis de
un conflicto típico dentro de un teatro que, lejos de la uniformidad ideológica que
se le supone, se recrea en una dialéctica de múltiples posibilidades», di cui parla
OLEZA in «Los géneros en el teatro de Lope de Vega», cit., p. 250.
164
Fausta Antonucci
fratello dichiara che avrebbe preferito unʼunione illegittima e segreta
che non avrebbe “macchiato” la stirpe di lei. Con queste premesse, la
sanguinosa vendetta finale di Julio de Aragón, che stermina la coppia
disuguale e i suoi figli, a dispetto della preghiera dello stesso figlio di
primo letto della duchessa, appare come una crudeltà ingiusta e condannabile: non a caso lʼopera si chiude sullʼinvettiva del duca di Amalfi, figlio di Camila, che giura, con parole analoghe a quelle usate dal
marchese di Mantova, di non aver pace fino a quando non si sarà vendicato dello zio assassino. Uno degli aspetti più interessanti di questa
tragedia sta proprio nellʼaver fatto entrare in aperto conflitto la legge
dellʼonore e la legge cristiana, contrapponendo la fedeltà coniugale di
Camila e Antonio alla spietatezza di Julio de Aragón. Un conflitto,
questo, che al contrario non si apre in nessun altro dei drammi qui
analizzati, in quanto in essi i personaggi colpevoli di aver violato la
legge dellʼ onore hanno anche violato la legge cristiana, o perché
hanno ucciso o tentato di uccidere (come in Carlos el perseguido, El
marqués de Mantua, El caballero de Olmedo), o perché hanno disprezzato la santità del matrimonio (come in Peribáñez, Fuente Ovejuna, El mejor alcalde el rey, El castigo sin venganza, ma anche, di
nuovo, Carlos el perseguido e El marqués de Mantua).
In generale, potremmo dire che quasi tutti drammi di Lope che
sono stati oggetto di questa carrellata, ad eccezione de El caballero
de Olmedo, costruiscono anche una sorta di grande affresco di esempi
positivi e negativi sul matrimonio: mariti ingenuamente innamorati e
crudelmente disingannati da mogli false e dissimulatrici (Carlos el
perseguido, Los Comendadores de Córdoba), mogli innamorate e fedeli ricambiate dagli sposi (El marqués de Mantua, Peribáñez, Fuente Ovejuna, El mayordomo de la duquesa de Amalfi, El mejor alcalde el rey), mariti traditori ricambiati di pari moneta (El castigo sin
venganza). Una ricchezza di situazioni, di stati dʼanimo, di sfumature liriche e psicologiche, impossibile a trovarsi nel teatro precedente,
che travalica di molto lʼintento meramente moralistico, che pure sicuramente era fra gli obiettivi del drammaturgo, e attinge allʼesperienza vitale di Lope, che delle gioie e dei dolori del matrimonio, così come dellʼamore, della fedeltà e dellʼinfedeltà, aveva come ben si sa
una vastissima e turbolenta esperienza.
Quanto al paradigma processuale, che significato assume nel contesto di questi drammi? Se è vero che la colpa è una componente essenziale del modello tragico, non è peraltro così scontato che ad essa
faccia seguito una reazione strutturata come un procedimento proces-
Paradigma processuale e retorica giudiziaria (Lope de Vega)
165
suale. Lʼinsistenza di questa scelta nei drammi lopiani mi pare un dato
sommamente significativo. Vuol dire che, invece di immaginare una
reazione alla colpa che prenda le forme di un impulso cieco e irrazionale, si preferisce drammatizzare un percorso regolato da norme e
scandito da determinati passaggi; cosa che succede anche quando chi
si fa carico della reazione al delitto non è legittimato dalla sua funzione di suprema autorità giudiziaria (come nel caso di Los Comendadores de Córdoba, Peribáñez e Fuente Ovejuna) ma soltanto dal
suo ruolo di tutore dellʼonore, padre o marito a seconda dei casi (figura dunque equiparabile per molti versi a quella del monarca). E
questo paradigma serve tra lʼaltro per ribadire il carattere giusto ed
esemplare della reazione alla colpa. Tuttavia, sul carattere giusto ed
esemplare di questa reazione il drammaturgo fa pesare forti dubbi in
almeno un caso: ne El mayordomo de la duquesa de Amalfi Julio de
Aragón persegue la sua vendetta arrogandosi, contro la volontà del
nipote ormai maggiorenne, e del suo stesso fratello Cardinale, funzioni di giustiziere in uno spazio, il palazzo di Amalfi, che non è il
suo e non è soggetto alla sua giurisdizione. Conseguentemente, mai
si parla, nel testo, né di giustizia né di esemplarità del finale; ma solo
di vendetta, che a sua volta chiamerà la vendetta del giovane duca di
Amalfi. Se la giustizia, in tutti gli altri drammi esaminati, pone fine
alla catena di sangue, questʼopera la lascia invece drammaticamente
aperta, proprio perché non di giustizia si è trattato. E, parallelamente,
il paradigma giudiziario è quasi del tutto assente, almeno per quanto
riguarda il comportamento di Julio de Aragón: perché al contrario, la
duchessa pronuncia tutta una serie di discorsi che potremmo definire
difensivi, tesi a giustificare, davanti ai suoi cortigiani e poi davanti al
fratello, la scelta di sposare un uomo di rango inferiore. Questa scelta può essere discutibile (e Lope di fatto crea situazioni di discorso in
cui alcuni interlocutori ne argomentano la condanna) ma ancora più
discutibile è la crudeltà del fratello, che non solo non si fa scrupolo di
uccidere anche degli innocenti, ma fa uso di una forma atroce di dissimulazione per pervenire allʼassassinio: fa credere sia ad Antonio
sia a Camila di averli perdonati, mentre ha già ordito il quadruplice
omicidio, che ha il suo culmine nella barbara idea di mostrare a Camila morente le teste mozze di Antonio e dei figli.
Non è mia intenzione paragonare Julio de Aragón al duca di Ferrara: questi agisce, per quanto a noi oggi possa sembrare un fatto barbaro, secondo giustizia e secondo il suo diritto, come suprema autorità del suo Stato e dopo aver verificato quella che, per la morale
166
Fausta Antonucci
corrente, è senzʼaltro una colpa molto più grave di quella commessa
da Antonio e Camila. Tuttavia, non si può non pensare che la sua è,
fra i drammi di Lope qui esaminati, lʼunica forma di reazione al delitto che, come ne El mayordomo, fa uso della dissimulazione ed è
scatenata da una denuncia mossa dalla gelosia.
Quanto allʼestensione del paradigma processuale in rapporto allʼintreccio, essa ci appare più o meno ampia non tanto, credo, in conseguenza della data probabile di composizione, quanto piuttosto del
tipo di organizzazione che il drammaturgo sceglie di dare allʼintreccio,
come ho cercato di mostrare nel corso dellʼanalisi. Lo stesso si può
dire per quanto riguarda la quantità di discorsi a vario titolo definibili come giudiziari, che varia moltissimo da opera a opera. Tuttavia,
si può comunque affermare che le più antiche fra le opere qui esaminate, e cioè Carlos el perseguido e El marqués de Mantua, sono fra
le più ricche in questo senso. Quanto allʼorientamento dei discorsi giudiziari, possiamo notare che soltanto nellʼultimo in ordine cronologico
dei drammi analizzati, El castigo sin venganza, essi presentano un
orientamento esclusivamente esterno; ma trattandosi di un unico caso
fra le tante opere analizzate, non possiamo decidere se questo fatto
vada imputato a unʼevoluzione cronologica interna allʼopera di Lope,
o non piuttosto alla situazione di segretezza che, date le circostanze, il
duca di Ferrara è obbligato a mantenere.
Ancora domande sono quelle che si affollano sulla pagina al momento di concludere: si può dedurre dalla frequenza con la quale si
presenta il paradigma processuale nei drammi lopiani qui esaminati,
che questa sia una caratteristica costitutiva del macrogenere dramma,
o al contrario la si potrebbe riscontrare anche nelle commedie? E
ancora, può questa stessa caratteristica essere considerata una marca
tipica dello stile di Lope? Un lavoro come questo, già anche troppo
esteso, non può dare una risposta che richiederebbe un esame ben
più ampio e approfondito. Mi limito a concludere con una constatazione che è anche unʼapertura verso nuovi possibili studi: la grande
presenza del paradigma processuale e dei discorsi di tipo giudiziario
in due drammi la cui attribuzione a Lope è assai discussa: La estrella
de Sevilla e El alcalde de Zalamea (prima versione).34
34
Per El alcalde e gli argomenti pro o contro la sua attribuzione a Lope, nonché
per unʼedizione critica fededegna, cfr. J.M. ESCUDERO BAZTÁN, El alcalde de Zalamea. Edición crítica de las dos versiones (Calderón de la Barca y Lope de Vega,
atribuida), Madrid-Frankfürt, Iberoamericana-Vervuert, 1998.
167
C AM
Y LA REPRESENTACIÓN DEL O TRO :
C ALDERÓN EN EL MARCO DE LA TRADICIÓN
Valentina Nider
Università di Trento
1. Según relata Génesis, 9, 21 Noé, recién salido del arca después
del diluvio, cumplidos los sacrificios para celebrar el fin de la destrucción, planta una viña y tras exprimir su fruto queda rendido al
sueño completamente borracho. Además, el calor le hace desnudarse:
«bibensque vinus inebriatus est, et nudatus in tabernaculo suo». A pesar de encontrar a su padre desnudo, Cam no sólo no lo cubre, sino
que llama a sus hermanos para que se acerquen y se burlen de él; sin
embargo, Sem y Jafet —tras reprochar a Cam su falta de respeto— deciden cubrirle con sus mantos yéndose vueltos de espaldas, para no
verle.
Este episodio de la ebriedad de Noé procede de una tradición legendaria distinta de la relacionada con el arca y el diluvio, atribuyéndose sólo posteriormente al Noé bíblico1; además tuvo interpretaciones diferentes a lo largo de los siglos. Por lo que se refiere a su interpretación figural destaca como mayoritaria —la defienden, entre otros,
Beda el venerable y San Agustín2—, la que pone en relación a Noé con
Cristo en la Pasión, también ebrio y desnudo, y a Cam con las actitudes escarnecedoras de los hebreos en esa misma ocasión. Por eso, si
bien la literatura satírica y la paremiología ponen de relieve que el
patriarca «embriagado descubrió sus vergüenças»3, la representación
1
Cfr. N. COHN, Noah’s flood: the Genesis story in Western thought, New Haven, Yale University Press, 1996.
2
Cfr. Aurelius AGUSTINUS, De Civitate Dei, en Corpus christianorum. Series
latina, XLVIII, Turnholti, Brepols, 1955, XVI, 2, p. 499: «passionem quippe Christi,
quae illius hominis nuditate significata est, adnuntiant profitendo, et male agendo
exhonorant». Noé embriagado es Cristo que «inebriatus est» y «nudatus est» en la
pasión (Mateo, 26, 39) y concluye: «hanc passionem Christi foris in sono tantum vocis
reprobi adnuntiant; non enim quod adnuntiant intellegunt».
3
Cfr. HOROZCO, Libro de los proverbios glosados, ed. J. Weiner, Kassel, Reichenberger, 1994, p. 127, núm. 67: «El vino anda sin calças». El motivo tuvo un gran éxito
en la iconografía y en el teatro medieval europeo: sin embargo, mientras que en la
pintura, por lo menos hasta Miguel Ángel, se representa al patriarca completamente
168
Valentina Nider
de las mismas a partir del siglo VI hasta el XVI puede considerarse de
hecho una pauta para los pintores que en el Renacimiento subrayan
la desnudez de Cristo para afirmar su perfecta encarnación. Por otro
lado, en algunos dípticos, según ha estudiado B. Braude, se muestra la
ebriedad de Noé en un lado y la circuncisión de Cristo en el otro. El
intento de los pintores es subrayar la violencia de los hebreos, que no
dudan en desacatar con sus ritos el respeto a la integridad de los cuerpos. La circuncisión se pone en relación con este episodio, pues según
algunas leyendas, recogidas después por algunos Padres de la Iglesia,
Noé habría sido castrado por Cam mientras dormía4. Estas leyendas
sobre la castración de Noé se hacen remontar a las controversias acerca
del celibato que se produjeron entre los teólogos después de la destrucción del Templo, y tanto en la literatura rabínica como en la patrística, se relacionan con la comparación entre Génesis 9 y Levítico 18,
pasajes en que el nombre del hijo de Cam, Canaán, se vincula a la
trasgresión de tabúes sexuales, sobre todo al incesto. Esta vertiente de
la historia de Cam y sus descendientes se divulgó también entre los
cristianos, siendo un catalán, Ramón Martí, en su Pugio Fidei (1278),
el principal responsable de su auge en la Edad Media. En los siglos
XVI y XVII debió de contribuir de manera consistente a la difusión de
estas leyendas Giovanni Nanni da Viterbo con sus Commentaria super
opera diversorum auctorum de antiquitatibus loquentium (1492) que
los historiadores españoles, como sus contemporáneos europeos, utilizan para demostrar los orígenes bíblicos de las genealogías de los andesnudo, en el teatro, ya en la Edad Media, tanta desnudez podía constituir un problema, cfr. RÉAU, Iconographie de l’art Chrétien, Paris, Puf, 1956, p. 115: «dʼaprès
le Théâtre des Mystères, cʼest à la suite de cette aventure que Noé se serait confectionné des “braies”».
4
Cfr. B. BRAUDE, «Michelangelo and the Curse of Ham: From a Typology of JewHatred to a genealogy of Racism», en G. TAYLOR y P. BEIDLER, Writing Race across
the Atlantic World: 1492-1763, New York, Palgrave Academic Publishing, 2002, p. 9:
«The destruction demanded communal penance, including mass celibacy. The dominant rabbinic position argued this would violate Godʼs commandement to Noah and
his sons: «be fruitful and multiply». The ascetics responded, but Noah had no more
children after that commandment so it did not represent a procreative imperative. The
rabbis responded, true Noah had no more children, but that was simply because he
could not. He was an eunuch». Cfr. también, del mismo autor, «Cham et Noé. Race et
esclavage entre judaïsme, christianisme et Islam», Annales, Histoire, Sciences Sociales, 57, 2002, n. 1, pp. 93-125 y L. GINZBERG, Leggende ebraiche, ed. E. Lowental y
A. Allisio, Milano, Adelphi, 1995, I, pp. 160-61 y 361-62 refiere otras leyendas en que
la ʻtiendaʼ en la que se refugia Noé después de embriagarse sería una metáfora por su
ʻmujerʼ. Cam viendo a su padre contravenir a la regla de la castidad le habría castrado.
Cam y la representación del Otro: Calderón
169
tiguos reyes de España a pesar de haberse denunciado sus falsificaciones.5
La historia de Cam —según esta versión— enlaza con la de los gigantes que vivían antes del diluvio en la ciudad de Oenón en el Líbano
y que, valiéndose de su fuerza y de su estatura imponente, habían impuesto su dominio sobre todo el mundo. Estos gigantes tenían costumbres alimentarias y sexuales bestiales y no respetaban ni las más elementales reglas de la convivencia civil, como el rechazo del incesto y
del canibalismo, haciendo caso omiso de todas las admoniciones y profecías que anunciaban su inminente castigo. Noé, uno de los gigantes, sin embargo, tras censurar estas costumbres, se exilió en Siria con
sus tres hijos y sus mujeres. Desafortunadamente Cam, uno de los
hijos, no había salido a su padre y trataba de imponer en la nueva
patria la crueldad de los demás gigantes. Esta misma crueldad, gracias
a Cam, sobrevive también después del diluvio.
En la Biblia, Noé al despertarse se da cuenta de lo sucedido y,
viendo los mantos de Jafet y Sem y la ausencia del de Cam, reacciona
maldiciendo a este último y condenando a su hijo Canaán a ser esclavo de los descendientes de los otros hermanos. De hecho, como veremos, los que quieren justificar la esclavitud con argumentos etnoreligiosos o incluso raciales se fundan en este episodio bíblico sobre
todo porque en el reparto de la tierra que el patriarca hace entre sus
hijos a Cam le toca África y por ello se le identifica como el progenitor de los africanos. Aludiendo a la etimología hebrea del nombre
Cam, que tradicionalmente se traduce con calidus, se atribuye a Cam
una astucia especial y algunos hacen derivar la palabra de calor, justificando de esta manera la decisión de atribuirle África. Como corolario
de esta interpretación se llegó a considerar el color oscuro de la piel
de los africanos una señal visual de la maldición. Además en algunas
leyendas se introduce en el episodio de la maldición el detalle de un
cambio repentino del color de la piel de Cam de clara en oscura.6
5
R. BIZZOCCHI, Genealogie incredibili. Scritti di storia nell'Europa moderna,
Bologna, Il Mulino, 1995, J. CARO BAROJA, Las Mistificaciones de la Historia (en
relación con la de España), Madrid, Seix Barral -Col. Biblioteca Breve- 1991, pp. 49114 y J. JUARISTI, El bosque originario: genealogías míticas de los pueblos de Europa, Madrid, Taurus, 2000, pp. 111-55.
6
BRAUDE, Cham et Noé, pp. 109-111 explica que por una parte la palabra hebrea
mefuham tanto puede entenderse en sentido literal, ʻquemadoʼ, como en sentido metafórico ʻquemado por la vergüenzaʼ y por otra, la nota sobre el color de la piel se
refiere tan sólo a Cus mientras que no se encuentra la mínima alusión a la piel de
sus descendientes, entre los que encontramos a Nembrot.
170
Valentina Nider
No obstante, tanto en la Biblia como en los comentaristas antiguos,
por ejemplo Filón de Alejandría y Flavio Josefo, no hay la menor alusión al color de la piel de Cam. Un elemento importante para la atribución de un color de piel particular a los camitas fue sin duda la importancia que se ha concedido a la identidad de Cus, uno de los descendientes de Cam. Este nombre se encuentra en antiguos textos egipcios
y persas para identificar a los pueblos del bajo valle del Nilo (aproximadamente el Sur de Egipto y el Norte de Sudán). Sólo en la versión
griega de los Setenta y en Flavio Josefo se empieza a identificar Cus
(mencionado en Jeremías) con Etiopía, nombre con el que en aquella
época se designaba todo el espacio comprendido entre África, Arabia
e India, habitado por unos pueblos que por acercarse demasiado al
Ecuador están negros, quemados por el sol. Sin embargo, la literatura
rabínica no recoge estas conclusiones ya que atribuir a todos los camitas la piel oscura habría modificado algunos importantes asuntos de
la tradición mítica como el concepto de canaanita, arquetipo del enemigo de Israel. Con esta palabra se acabó por identificar todo esclavo
no hebreo de un hebreo, sin que entre sus características se mencione
en absoluto el color de su piel.
Después de lo expuesto llama la atención el hecho de que a Cam,
identificado según las ocasiones con un mago, un sodomita, un hereje, un Egipcio, un Etiope, un Musulmán, un Hebreo, un Mongol, un
Asiático, se le represente con la tez blanca, si acaso con unos atributos —barba, kypá— que remiten a la iconografía del hebreo en la escena
de la Pasión. Habrá que esperar hasta 1843 para que Cam aparezca en
la iconografía con la piel oscura, y, como era de esperar, el hecho se
produce en una obra dedicada a la justificación de la esclavitud.7
2. Tras esta reseña, en que destaca el impresionante número de
elementos muy conflictivos que se cruzan en el episodio bíblico, surge
la curiosidad de analizar de qué manera éste se ha interpretado entre
los escritores españoles de los siglos XVI y XVII. Como veremos, la mayoría de los que echan mano de este ejemplo son historiadores, comentaristas, predicadores y, en menor medida, poetas y autores teatrales.
La interpretación de Noé como figura de Cristo, que conlleva la
identificación de Cam como figura de los judíos, es frecuente en la
literatura religiosa del Siglo de Oro, sobre todo en la interpretación
del episodio de la Pasión. En la época de la Contrarreforma algunos
7
Cfr. BRAUDE, Cham et Noé, cit., pp. 117 y ss.
Cam y la representación del Otro: Calderón
171
escritores religiosos subrayan con actitud militante el parecido entre
la actitud de Cam y la de los que critican al clero faltando al respeto
debido a la dignidad eclesiástica:
Lo segundo diciendo en absencia mal dellos, ora lo que dellos dicen
sea falso, ora verdadero. Y mucho mayor pecado sería si delante de
todo el pueblo, y sin utilidad ninguna se dixese mal del Papa, o otros
prelados de la Iglesia. Digo sin utilidad ninguna, porque cuando hay
necesidad, y se espera haber enmienda: débelo hacer el predicador y
no temer a nadie. Aunque ciertamente se ha de mirar, que proceda
primero aviso secreto si puede muy bien hacer. Y después si el mal
va adelante con escándalo del pueblo, decirlo, para que a lo menos
no parezcan prescrebir los vicios y ser aprobados, por ser vistos en
personas tales, como dice san Gregorio. Lo que por este mandamiento se defiende, es que sin ninguna desas utilidades no se diga mal de
los ministros y lumbreras de la Iglesia. Como aquel mal hijo de Noé,
Cam, mostró a sus hermanos las vergüenzas de su padre que estaba
descubierto, solamente para que lo reyesen.8
En éste, como en otros casos, el blanco al que se apunta son los
protestantes, en los que acaba siendo identificado Cam, según una interpretación muy difundida entre los mismos teólogos tridentinos que,
como el famoso cardenal Paleotti, utilizan el mismo ejemplo bíblico.9
No obstante, sobre todo en la oratoria sagrada no faltan ejemplos de
la identificación figural de Cam con los judíos en la Pasión, sin alu8
F. de MENESES, Luz del alma cristiana, Alicante, Biblioteca Virtual Miguel de
Cervantes, Universidad de Alicante, 2003; cfr. también San JUAN BAUTISTA DE LA
CONCEPCIÓN (J. García Gómez), Pláticas a los religiosos, ed. J. Pujana, Madrid,
Editorial Católica, 2002, p. 142; Anónimo, Traducción del Soberano bien de San
Isidoro, ed. P.A. CAVALLERO, Buenos Aires, Secrit, 1991, fol. 238r: «El súbdito que
a su prelado no viste, ande desnudo Y el que hizo burla de su prelado, como si fuera
siervo, séalo él siempre sclavo de los siervos de sus hermanos».
9
Cfr. G. PALEOTTI, Discorso intorno alle immagini sacre et profane, ed. P. Prodi, Bologna, Forni, 1990, II, IV, «Delle pitture scandalose», fol. 110 v., tras declarar
que los herejes, como los buitres, sólo están interesados en las carroñas y no en las
primicias porque evitan hablar de las virtudes de los católicos y se limitan a subrayar
sus vicios, Paleotti califica de escandalosas las pinturas en que los eclesiásticos no salen bien parados. Por eso se han de evitar temas como religiosos hablando con mujeres, o jugando a las cartas, o bebiendo y comiendo. Según Paleotti «non conviene
anche quando bien fossero discoprire i difetti altrui […] la qual cosa quanto dispiaccia a
Dio esempio ce ne porge la scrittura parlando di Cham […] che figurava misticamente
secondo alcuni, che quegli che riveriscono il sacerdozio significato per Noè hanno da
Dio la benedizione, ma quelli che ardiscono di sprezzarlo, meritano la maledittione…».
172
Valentina Nider
siones a la realidad contemporánea. Fray Alonso de Cabrera, por ejemplo, no tiene dudas a la hora de establecer un paralelismo entre Cam
y los judíos:
Allí el santo Noé, habiendo bebido con exceso del vino de la viña
que plantó, quedó fuera de sí desnudo y muerto; adonde le escarneció
el malvado hijo Cham, los incrédulos y pérfidos judíos; y le honraron y cubrieron Sen y Jafet, que son los fieles que de ambos pueblos
gentil y judaico creyeron.10
Francisco de Osuna, en su Abecedario espiritual (1540), manifiesta su auténtico espíritu franciscano y pretridentino destacando el escándalo de la desnudez y de las mismas ʻvergüenzasʼ exhibidas como
signo de la elección de la pobreza por parte de Cristo, mientras que a
Cam se le identifica con otro personaje del Nuevo Testamento, el rico
avariento:
No sólo mientra bivió Christo en este mundo estuvo desnudo de las
cosas temporales y manifestó las vergüenças humanas que por nosotros padecía, que son: temor, hambre, sed, lágrimas y desonras, mas
aún agora lo vemos desnudo en sus pobres y manifestar en ellos las
mesmas flaquezas, en los quales de nuevo Christo es escarnecido. Y
escarnécelo Cam, su hijo menor, que es el ayuntamiento de los avarientos; porque Cam quiere dezir 'astuto', y todo avariento es astuto
en allegar ganancias temporales, que con cautelas se multiplican. Éste
anuncia a sus dos hermanos fuera las vergüenças y desnudez de Christo, porque ellos también la tengan por burla y guarden su hazienda.11
En la cita se hace hincapié en la etimología del nombre de Cam traduciendo como ʻastutoʼ el calidus legado por la tradición. En esta misma dirección se expresan los lexicógrafos, como, por ejemplo, Alfonso de Palencia («Cam se interpreta malicioso»)12 mientras que Sebastián de Covarrubias interpreta calidus recordando su derivación de
calor tanto en sentido moral, como en el literal, como sinónimo de
ʻquemadoʼ y ʻde color negroʼ.13
10
Fray A. DE CABRERA, De las consideraciones sobre todos los evangelios de la
Cuaresma, Madrid, M. Mir, Bailly-Baillière, 1906, p. 308.
11
F. DE OSUNA, Quinta parte del Abecedario espiritual, ed. M. Quirós García,
Madrid, FUE, 2002, p. 412.
12
A. DE PALENCIA, Universal vocabulario en latín y en romance, ed. G. Lozano
López, Madison, Hispanic Seminary of Medieval Studies, 1992 s.v. Cam.
13
S. de COVARRUBIAS, Suplemento al Tesoro de la lengua española castellana,
ed. G. Dopico y J. Lezra, Madrid, Polifemo, 2001: «Cam. Fue hijo de Noé y del nom-
Cam y la representación del Otro: Calderón
173
Los historiadores de Indias, siguiendo a Nanni de Viterbo y al
Pseudo-Beroso, forjaron distintas hipótesis acerca del origen bíblico
de las poblaciones americanas, siendo elemento común en todas ellas
la identificación de los antepasados de los indios con personajes y
linajes malditos: caananitas, cainitas, camitas, ofiritas. Como pone de
relieve en su clásico estudio Giuliano Gliozzi, a partir de la decisión
de la Corona de prohibir la esclavitud de los indios (1542), algunas
de estas interpretaciones pierden su vigencia entre los españoles y en
contrapartida van a ser utilizadas en clave antiespañola por los historiadores hugonotes y calvinistas14. Vázquez de Espinosa se hace cargo de divulgar, aunque manifestando alguna ambigüedad, la versión
legendaria sobre el origen de la piel morena en los camitas:
Los hijos de Noé se repartieron por diuersas partes del mundo, Iafet
hijo mayor se fue con sus siete hijos y decendientes a la Europa, y la
pobló, y a España, y la parte Setentrional del Asia. Cam hijo tercero
se fue con los suyos a la parte de Africa, pobló a Bactria, Iudea,
Arabia, Egipto, la Etiopia, y toda Guinea, y parece que la maldición
que le echó su padre Noé alcançó en particular a todos sus decendientes de aquellas partes de la Etiopia y Guinea, no solo en ser esclauos los mas, sino en el color moreno, efeto de la maldición executado; si ya no es que la constelación, y clima de la tierra aya ayudado.15
Beroso recuerda otras muchas leyendas que ponen en relación la
Biblia con la mitología clásica y a Cam con Saturno y Jano, un aspecto que no dejan de mencionar también el mitógrafo Pérez de Moya y
Pineda en su Agricultura cristiana, aunque esta interpretación ya la
divulga Las Casas en su Apologética Historia:
Añaden también los poetas sobre una verdad munchas cosas que no
hacen a la verdad de la historia, por adornar sus fábulas y cumplir
con su propósito, y a las veces no dejan de mentir mucho, como en
el primero de la Metafísica dice dellos el Philósopho. De aquí es que
lo que los poetas fingen de haber cortado Saturno los genitales a su
padre Celi o Cielo es fundado sobre la verdad de la historia que pone
bre de éste la sagrada escritura llama a Aegypto tierra de Cham. Es nombre Hebreo;
vale tanto como calidus aut niger seu calor».
14
G. GLIOZZI, Adamo e il nuovo mondo. La nascita dell’antropologia come ideologia coloniale: dalle genealogie bibliche alle teorie razziali (1500-1700), Firenze,
La Nuova Italia, 1977, pp. 111-46.
15
A. VÁZQUEZ DE ESPINOSA, Compendio y descripción de las Indias Occidentales (1629), ed. Ch. Upson Clark, Washington, Smithsonian Institution, 1948, p. 329.
174
Valentina Nider
Beroso en el 3 libro haber Cham, el segundo hijo, por arte de nigromancia, capado a Noé —que dejimos llamarse Cielo— y hecho inhábil
para engendrar, por la reprehensión que le hizo y maldición que echó
a su hijo Chanaan por haberle escarnecido cuando se embriagó […].
Cham tuvo munchos nombres, como Cham, Cameses, Zoroastes, Saturno y otros más, según Beroso y Diodoro y otros autores.16
Según Gliozzi circulaban oralmente hipótesis acerca del origen camítico de los indios americanos, como se desprende de la Primera decade de la Historia general de los Hechos de los castellanos en las islas
y Tierrafirme del mar Oceano (1601) de A. de Herrera y Tordesillas.
Sin embargo, una explícita afirmación de esta posibilidad —no compartida por el autor, aunque presentada como debida a «hombres muy
doctos»— se encuentra tan sólo una vez antes de 1650, en Los veynte y
un libros Rituales y Monarchia Yndiana de Juan de Torquemada (1615).
También Solórzano Pereira17, aunque afirmando preferir otra, menciona la hipótesis del origen camítico de los indios quienes, por esta
razón, compartirían determinadas características físicas con los africanos, entre ellas la estatura y el color oscuro, si bien éste último no
es negro sino de «membrillo cocho». Es de advertir que en este caso
—de manera diferente que en Torquemada— se menciona el color de
la piel como debido a una punición:
Estos de nuestras Indias, se tiene por más cierto, que se originaron
por la mayor parte de la Oriental o de alguna redundancia de Chinas
y Tartaros: y asi Arias Montano los llama Ophiritas, y quiere, que desciendan de los dos hijos de Iectan Ophir, y Hevila, que fueron los
pobladores de ella. Y de verdad es mucha la semejanza, que hay entre
los de ambas Indias, en talles, condiciones, ritos, y costumbres, y especialmente en el color de membrillo cocho, como lo consideran otros
dando las causas dél, y de los Negros, y su cabello crespo; pero haciéndolos á unos, y otros, descendientes de Cham, hijo de Noé, y que por
haver incurrido en la maldicion que él les echó, quando descubrió su
embriaguez, padecen éste, y otros trabajos, y servidumbres, y se han
quedado por la mayor parte de mediana estatura.18
Si dejamos de lado a los predicadores y a los historiadores, animados por un espíritu militante que los lleva a actualizar la historia
16
B. de las CASAS, Apologética historia sumaria, ed.Vidal Abril Castelló et alii,
Madrid, Alianza Editorial, 1992, II, p. 818.
17
Cfr. GLIOZZI, Adamo e il nuovo mondo, cit., pp. 116 y ss.
18
J. de SOLÓRZANO Y PEREIRA, Política indiana, Madrid, Atlas, 1972, I, p. 59.
Cam y la representación del Otro: Calderón
175
bíblica en pro de sus tesis, y pasamos a la literatura y al teatro, encontramos nuevos matices en las interpretaciones del personaje. Significativamente, en la literatura picaresca a Cam se le ve con más empatía, considerándole una víctima del vicio paterno:
Vivió Noé después del diluvio trescientos cincuenta años, en el cual
tiempo envió a que poblasen el mundo sus descendientes, exhortándolos a que reverenciasen el Omnipotente Dios, a que viviesen justamente, atendiendo a la agricultura, de la cual se sustentasen sin
hacer daño alguno, y enseñándoles.
Otra consideración hacía yo, que, aunque otros le hayan hecho, no perderá de su quilate porque haya tenido muchos autores: que el plantar
viñas no fue hasta que, por el castigo de la malicia humana, se anegó
la tierra por el diluvio, que debieron enfadarse tanto con el agua, que
buscaron otra bebida por no ver la que sirvió de verdugo; y probaron
el vino a costa de su autor Noé y del desdichado Cam, su hijo, que
fue el primer esclavo del mundo, que el vino fue ocasión para perder
tan preciosa joya como es la libertad. Muchos dicen que este patriarca no tuvo culpa en la invención del vino, por no saber la fuerza de
la planta; pero lloró el hijo la pena, y padecióla toda su vida.19
En el teatro aparece Cam como personaje en dos obras: La torre
de Babilonia, auto sacramental de Calderón, escrito antes de 163720,
y El arca de Noé, comedia bíblica de Martínez, Rosete Niño y Cáncer,
publicada en 1665.
En el auto calderoniano Cam cobra mucho relieve y desde su descenso del arca se advierte su alteridad con respecto a sus hermanos. En
las invocaciones de apertura los demás personajes empiezan con el
mismo incipit, «salve» y retoman los mismos elementos ya citados anteriormente por Noé: su mujer, por ejemplo, se dirige al cielo, mientras
que Jafet apunta al sol y su mujer al monte; Sem al arco iris y su mujer a la montaña. Cam se aparta de la estructura de dichos apóstrofes
señalando primero el objeto de su reverencia, la «talada, inculta tierra» (v.63), en una descripción que sigue el topos del locus horridus,
y pronuncia sólo después el «salve» ritual (v.69)21. Sigue Cam afir19
M. LUJÁN DE SAAVEDRA (Juan Martí), Segunda parte de la vida del pícaro
Guzmán de Alfarache, ed. F. Sevilla, Madrid, Castalia, 2001, p. 552.
20
Cito por mi edición del auto de Calderón, en prensa, en la colección ʻAutos
sacramentales completosʼ, núm. 61, Kassel, Reichenberger.
21
Son acusadas las concordancias léxicas con la descripción del mundo infernal, presente en muchos autos de Calderón, cfr. la nota a estos versos de la citada
ed. de La torre de Babilonia.
176
Valentina Nider
mando preferir el espectáculo de la tierra arrasada por el diluvio al
de la naturaleza pacificada —a la que remiten los elementos citados
precedentemente y que él vuelve a mencionar utilizando el esquema
correlativo tan frecuente en Calderón—, en un pasaje en que se presenta a sí mismo, con su «rigor adusto», como muy diferente del resto de
su familia:
Cam: […] salve también, que tu estación vacía,
yerta, caduca y fría,
más bella me parece
que el sol, que en su esplendor se desvanece;
más que el arco sagrado
de diversos colores rubricado;
más que el monte vistoso,
albergue nuestro; más que el cielo hermoso,
porque el monte y el cielo,
el arco, el sol, a mi fatal desvelo,
a mi rigor adusto,
no son objetos de tan grande gusto
como tu estancia pálida y desierta,
de ruinas y cadáveres cubierta,
cuyos horribles trágicos sucesos
(vv. 69-84)
te acuerdan tumba de infelices huesos.
Terminado el sacrificio, Cam, escondido, describe a Noé quien, tras
exprimir la uva, bebe el zumo. Después Noé sale al encuentro de Cam
y contesta a su pregunta acerca de la misteriosa transformación que
sufre el «manjar» convirtiéndose en «bebida», intentando comunicar
las sensaciones que le proporciona la ebriedad y, aun confusamente,
destacando la importancia que el vino va a tener en el Nuevo Testamento y en el sacramento de la Eucaristía. Podemos imaginar que el
actor que hace de «viejo venerable», habría abandonado su gravedad
habitual para pronunciar estos versos entrecortados al mismo tiempo
que se iría desabrochando y quitando la ropa y avanzando con pasos
inseguros hasta caerse en el suelo.
Cam se burla de su padre y llama a sus hermanos para enseñarles
su estado:
Torpe, ciego y embriagado
cayó en tierra y sus vestidos,
descompuestos y esparcidos,
sin abrigo le han dejado:
Cam y la representación del Otro: Calderón
¿quién jamás sujeto vio
de más risa? ¿Sem? ¿Jafet?
177
(vv. 241-46)
Escenas de enajenación, locura, posesión, rapto estático que culminan con el desmayo en la escena y con la ropa y el cabello descompuesto, son relativamente frecuentes en los autos22, pero generalmente producen asombro y desconcierto en los asistentes y, en todo
caso, normalmente son los bobos o graciosos que en sus comentarios
subrayan su apariencia ridícula. Desnudarse en la escena es acción
propia de locos en el teatro del Siglo de Oro y en los autos calderonianos su significado es altamente simbólico.23
Al despertarse Noé lanza su maldición a Cam anunciando que sus
descendientes llevarán en su aspecto el recuerdo de su pecado. No se
refiere al color de la piel sino a su monstruosidad, aludiendo al gigantismo de Nembrot, protagonista de la segunda parte del auto.24
22
Cfr. ARELLANO, «Paradigmas compositivos en los autos de Calderón», en Estructuras dramáticas y alegóricas en los autos de Calderón, Pamplona-Kassel,
Universidad de Navarra-Reichenberger, 2001, pp. 19-57.
23
Me permito remitir para otros ejemplos de comicidad en los autos a otro trabajo
mío, NIDER, «La comicità negli Autos di Calderón e lʼesegesi biblica», en Teatri del
Mediterraneo. Riscritture e ricodificazioni tra ’500 e ’600, ed. V. Nider, Trento, Università degli studi di Trento, 2004, pp. 289-309. Cfr. B. ATIENZA,¡Cata el loco! Locura, melancolía y teatro en la España de Lope de Vega, tesis de doctorado, 2000, Princeton University; Ann Arbor, Michigan, UMI, 2000, pp. 36-37; M. BIGEARD, La
folie et les fous litteraires en Espagne, 1500-1650, Paris, Centre de Recherches
Hispaniques, 1972. Cfr., para el significado del cambio de vestido, ARELLANO, «El
vestuario en los autos sacramentales (el ejemplo de Calderón)», Cuadernos de
teatro clásico, 13-14 (2000), pp. 85-107.
24
Merece la pena señalar también otra interpretación del reparto de la tierra (que
subraya la monstruosidad de los descendientes de Cam, al que le habría tocado Asia)
divulgada en la Edad Media por un autor que tuvo un enorme éxito y entre sus lectores a Cristóbal Colón: Mandeville. Cito por Anónimo, Viaje de Juan de Mandevilla.
Escorial M.III.7, J.L. Rodríguez Bravo y M.M. Martínez Rodríguez, Madison, Hispanic Seminary of Medieval Studies, 1995, fol. 62 r.: «E[ste] cam por su crueldat priso
la mas grant partida & la mellor / la partida oriental qui es clamada assya / Et sem
priso affrika / et Jaffet priso europa / Et por esto es la tierra deuisada en .iij. partidas
destos .iij. hermanos. Cam fue el mas grant & el mas poderoso / Et deill descendieron
plus de generationes que delos otros […]Et de su fijo nascio nembrot el gigant qui fue
el primer Rey qui nunca fue enel mundo […]/ Et con este lenemigo dinfierno venia a
jazer amenudo con mugeres de su generation / et engendrauan diuerssas gentes como
mostre & gentes desfiguradas algunos sin cabe[ç]a / algunos con grandes oreillas /
algunos con vn oio / algunos gigantes con piedes de cauallo / Et otros con otros miembros desfai[ç]onados / Et daquella generation de Can son venidas las gentes paganas &
las diuerssas gentes que son enlas yslas de mar por toda asya / […]Et por aquel Cam /
todos los emperadores de pues se son clamados el grant Can & fijo de dios de natura
178
Valentina Nider
Y tú, que has desmerecido
la bendición de los dos,
maldito seas de Dios
y del mundo aborrecido;
pobre vivas y abatido,
con trabajo y con afán;
y porque los que serán
lo que tú hayas sido crean,
monstruos de los hombres sean
los descendientes de Cam.
(vv. 415-24)
Cam reacciona a la maldición afirmando que va a vengarse como
un Caín redoblado, ya que tiene a «dos Abeles», y para evitar una «injusta guerra» Noé no puede sino dividir la tierra entre sus hijos. En
conclusión, Calderón aprovecha los rasgos presentes en la tradición
legendaria sobre la figura de Cam que se ajustan a su función en el
auto, en el que representa el papel del antagonista demoniaco. Por
ejemplo, se subraya su apego a la Naturaleza, una constante de los
personajes demoniacos en los autos (así, acabado el diluvio Cam en
lugar de ofrecer sacrificios celebra la belleza del campo y de las flores
que empiezan a renacer). Cam además, con sus profesiones de «soberbias» (v. 432) y la decisión de vengarse con hechos «crueles» prefigura algunas características de su descendiente Nembrot. Sin embargo,
no tiene la estatura épica de este personaje y, sobre todo en la escena
de la ebriedad de Noé, su actuación remite también a la del loco
teatral o del demonio burlador.25
En la comedia El arca de Noé estas últimas características se acentúan. Cam, quien aparece «vestido de pieles ridículo», llevado en triunfo por sus ciudadanos, representa el papel de rey carnavalesco cele& soberano de todo el Mundo / et assi se clamaua eill en sus letras». B. BRAUDE, The
sons of Noah an the Construction of Ethnic and Geographical Identities in the Medieval and Early Modern Periods, «William and Mary Quarterly», 1997, LIV, pp. 103142 ha estudiado algunos manuscritos de la versión francesa e inglesa de la obra de
Mandevilla (cfr. sobre todo pp. 115-20), en que se detectan unas correcciones tardías que modifican la atribución de los continentes a los distintos hijos de Noé, por
ejemplo, por lo que se refiere a Cam, se tacha «Asia» y se sustituye con «África», de
acuerdo con la tradición que había ido afirmándose.
25
Cfr., por ejemplo, J. CARO BAROJA, «Infierno y humorismo», Revista de Dialectología y tradiciones populares, 22 (1966), pp. 26-40; y M. CHEVALIER, «¿Diablo
o pobre diablo? Sobre una representación tradicional del demonio en el Siglo de
Oro», Filología, 21 (1986), pp. 125-36; A. CILVETI, El demonio en los autos sacramentales de Calderón, Valencia, Albatros, 1977, no menciona este tipo de demonio.
Cam y la representación del Otro: Calderón
179
brando el banquete de la boda de su hermana. En aquellos tiempos
antediluvianos el banquete no podía sino ser totalmente vegetariano,
detalle que da pie a una alabanza paródica de las verduras. Cam menciona, de esta manera, nabos, coles y berenjenas, vegetales todos ellos
muy característicos de las batallas de carnestolendas. En contraste con
la actitud de penitente de su padre, él guía a sus hermanos invitándoles a entretenerse en fiestas y pasatiempos cortesanos con los cainitas.
Desde el principio se manifiesta como un hijo pendenciero y rebelde,
que le pierde el respeto a su padre. Por esta razón Noé, antes de que
salga a la escena, lo presenta con estas palabras:
¡Qué natural tan profano,
mal joven, hijo imprudente,
con obediencia remisa,
siempre me pierde el respeto
de todo hace escarnio y risa!26
De acuerdo con los cainitas Cam planea la destrucción del Arca
demostrando con argumentos racionales que a nada ha de servir ya
que Dios no puede haber creado el mundo para luego querer destruirlo con el diluvio. Sin embargo, rara vez Cam habla en serio, por
esta razón los verdaderos antagonistas de Noé en la comedia son
otros, como el mismo Demonio y Nacor, de estirpe cainita. A Cam,
quien gasta bromas misóginas (por ejemplo a la hora de quemar el
arca querría esperar a que su mujer se subiera para eliminar de una
vez su problema), es cobarde y le pegan buenas palizas, queda relegado al papel del gracioso27. Entre otras cosas se distingue por una
actuación caracterizada por gestos descompuestos. Véase el momento del desembarque, acabado el diluvio:
Desde adentro, Cam: ¿Voy yo?
Noé: No, Cam, porque Sem
26
A. MARTÍNEZ, P. ROSETE NIÑO y G. CÁNCER, El arca de Noé, en Parte veinte y
Dos de Comedias nvevas, escogidas de los mejores ingenios de España, Madrid,
Andrés García de la Iglesia, 1665, fol. 45v. Cito modernizando grafía y puntuación,
y ajustando mayúsculas y minúsculas al uso moderno.
27
Para su cobardía véase sus reacciones delante del león, MARTÍNEZ, ROSETE
NIÑO y CÁNCER, El arca de Noé, fols. 58 v. y 60v.; para las palizas, fol. 60 r.: «Caen
rodando Cam y Ada / Cam: ¡Válgame mi abuelo Adán! / Ada: ¡Que me mata! Cam
¡que chichón! Jafet: que es esto, Cam, quien te ha dado? / Cam: Un hombre que se ha
quedado / en el mundo por raigón / de enojo y de rabia lleno / a Ada y a mí con un palo
/ nos pegó lo que fue malo,/ nos quebró lo que era bueno».
180
Valentina Nider
por mayor es preferido.
Cam: Padre, de estar en el Arca
sospecho que me apolillo.
Sem: Señor, santo, grande Dios
vuestra grandeza bendigo,
pues tanta lluvia enojosa
convertistis en rocío.
Cam: ¿Llegó mi vez?
Noé:
No, Jafet
te prefiere.
Cam:
¡Sea bendito
mil veces el padre que
tan a deshora me hizo
cae fuera del lugar
mi nacimiento!
Jafet:
Bendito
sea tu sagrado nombre.
Sale Sem: Piadoso padre, benigno,
pues guardaste entre tus iras
el gusano más indigno. Sale Cam.
Cam: Saldré?
Noé: Sí, y a Dios da las gracias.
Cam: Y luego daré mil brincos.
y le daré treinta besos
a la tierra, que ha mil siglos
que no la beso las manos.
Noé: Hijo, ¡sosiegate!28
Tras semejantes demostraciones no sorprende su reacción cuando
el Demonio le lleva a ver a Noé borracho. Estos versos constituyen
también una acotación implícita por la que se infiere que la actuación del actor que hace de Noé, como en el auto calderoniano, debía
de sacar a relucir toda la comicidad de la escena:
Demonio: […] Rendido yaze y postrado,
tan desnudo y descompuesto
que sé que aunque sea su padre,
has de hazer burla de verlo,
cerca está, llega, y verasle
en su embriaguez tan embuelto,
28
Ivi, fol. 52v.
Cam y la representación del Otro: Calderón
181
que te ha de dar mucha risa.
Imagina si un sujeto
que caduca de este modo
merece crédito cierto.
Cam: Brava figura, por Dios,
tener la risa no puedo,
¿hay más estraña vejez? Descubren a Noé.
¡parece que me haze gestos!
Quiero llamar mis hermanos,
¡graciosísimo está el viejo!
Hermanos, vení los tres
grandísima burla haremos
de mi padre: Sem, Jafet,
¡vení y os reiréis!29
Sin embargo, de manera diferente que en Calderón, en la escena
de la maldición de Noé, hacia el final de la comedia, se identifica
puntualmente a Cam con los judíos en la Pasión:
Noé: Tu generación maldita
sea de Dios, de donde nace
todo el bien y de su luz
jamás los rayos alcancen
a tu hijo Canaán.
Y cuando a enmendar bajare
la culpa del primer hombre,
vestido de humana carne,
sea su generación
la que el vestido le rasgue,
condénele su venida,
no le aproveche su sangre,
pierda la vida rabiando
y las fieras…30
Las interpretaciones del personaje de Cam en el auto y en la comedia son, pues, radicalmente distintas, coincidiendo tal vez sólo en
la escena de la ebriedad. Podemos formular la hipótesis de que, a la
hora de poner en escena el episodio, en ambas obras, se respete un
29
Ivi, fol. 61r. Cfr. También más adelante p. 61v.: «Cam: […] no he visto tan grande / y ridícula figura / sólo agora de acordarme / no puedo tener la risa / haziendo
estaba visajes».
30
Ivi, fol. 61v.-62r.
182
Valentina Nider
modelo ya cristalizado en la tradición teatral anterior, en que ambos
personajes aparecen ridiculizados, una manera quizás de exorcizar
las tensiones derivadas por la trasgresión de los tabúes evocados.
Puede ser útil a este propósito tomar en cuenta la iconografía, ya
que en algunos pintores, entre los que se cuenta a Juan de Rojas Montero, el único español que parece haber pintado la escena31, Cam no
tiene un aspecto agresivo ni violento, su cara sonrojada parece señalar que él también está borracho y su sonrisa parece la de un tonto.
En el auto, toda la escena, a partir de la contemplación de la naturaleza primaveral (otra escena de repertorio en los autos) se puede
entender como un intermedio lúdico en que el personaje queda reba31
Cfr. la lámina, Juan de Rojas Montero (1613-1683), «Lʼivresse de Noé», Tarbes, Musèe Massey; y, entre los pintores señalados por A. PIGLER, Barockthemen,
Budapest, Akademiai Kiadó, 1974, vol. I, pp. 29-30, A. Sacchi, N. Poussin, G. Andrea
de Ferrari, Lucas Jordán en el Escorial.
Cam y la representación del Otro: Calderón
183
jado con respecto a la estatura luciferina que le atribuían las precedentes en que Cam aparece caracterizado por consideraciones filosóficas de punzante racionalismo y fascinado con el paisaje lóbrego e
infernal, digno antepasado al fin del protagonista de la segunda parte
del auto, Nembrot.
En la comedia, en cambio, los elementos ridículos del personaje y
su falta de luces se amplifican hasta convertirse en los rasgos más
característicos del personaje, encajando perfectamente con la función
de gracioso que desempeña en la obra y de acuerdo con una parte de
la tradición.
185
G OZZI " RIEDIFICA " C ALDERÓN :
L E DUE NOTTI AFFANNOSE
Maria Grazia Profeti
Università di Firenze
1. Ormai è dato acquisito che il teatro spagnolo dei Secoli d'Oro,
un grande teatro di parola, veicolato per di più dal fascino di una nazione egemone, ha influenzato e modificato le drammaturgie nazionali europee1; anche se in tempi più recenti il suo ricordo è stato
espunto per una serie di motivi in gran parte extra-letterari2. Un dato
di ulteriore interesse è l'atteggiamento che gli intellettuali spagnoli
assunsero nel sec. XVIII, in concomitanza con la revisione del proprio
teatro, che porta ad una serie di antinomie che li imprigionano, scissi
come sono tra la percezione di una grandezza innegabile e la inconciliabile riconduzione ad una “regolarità” di marca francese.3
In questo quadro è di grande interesse esaminare le “riedificazioni”,
come lui stesso le chiama, che Gozzi effettuò da commedie spagnole
auree dal 1767 al 18034; producendo «più di venti» testi italiani5. Le
1
M.G. PROFETI, Commedia aurea spagnola e pubblico italiano. vol. I. Materiali, variazioni, invenzioni, Firenze, Alinea, 1996; AV, Commedia aurea spagnola e
pubblico italiano. vol. II. Tradurre, riscrivere, mettere in scena, Firenze, Alinea,
1996; AV, Commedia aurea spagnola e pubblico italiano. vol. III. Percorsi Europei, Firenze, Alinea, 1997; AV, Commedia aurea spagnola e pubblico italiano. vol.
IV. Spagna e dintorni, Firenze, Alinea, 2000; M. LOMBARDI-C. GARCÍA, Il gran Cid
delle Spagne, Firenze, Alinea, 1999.
2
M.G. PROFETI, «La recepción del teatro áureo en Italia», in Calderón en Italia.
La Biblioteca Marucelliana, ed. M.G. Profeti, Firenze, Alinea, 2002, pp. 11-42 (pubblicato anche in El teatro del Siglo de Oro y los espacios de la crítica. Encuentros y
revisiones, ed. E. García Santo Tomás, Madrid-Frankfürt, Vervuert-Iberoamericana,
2002, pp. 427-457).
3
Cfr. M.G. PROFETI, «Para la fortuna de Lope en el siglo XVIII», in “Una de las
dos Españas”. Representaciones de un conflicto identitario en la historia y en las
literaturas hispánicas. Estudios reunidos en homenaje a M. Tietz, ed. G. Arnscheidt
– P.J. Tous, Madrid, Iberoamericana-Vervuert, 2007, pp. 728-741.
4
I problemi di carattere generale con la relativa bibliografia circa il teatro spagnolo “riscritto” in Italia si troverano in M.G. PROFETI, «Gozzi e l'informe e stravagante teatro spagnolo», in Theater Text Transformationen. Le tragicommedie spagnolesche di Carlo Gozzi, 27-28 ottobre 2006, Salisburgo, in corso di stampa. In
questo colloquio sono stati letti vari interventi fondamentali sull'ambiente venezia-
186
Maria Grazia Profeti
analisi che si sono anche recentemente effettuate su queste “riscritture”6 sembrano più propense alla equazione «interesse di Gozzi per il
teatro spagnolo» uguale a «sua ideologia nobiliare e conservatrice»7;
quindi ecco letture che si concentrano sui “risultati” gozziani più che
sulla dinamica testo fonte > testo derivato. Che è invece quello che mi
propongo di fare, utilizzando una delle prime prove dello scrittore
veneziano: la riscrittura della calderoniana Gustos y disgustos no son
más que imaginación in Le due notti affannose.8
2. Gustos y disgustos appare pubblicata nella Octava parte de
Comedias nuevas escogidas, Madrid 16579, e poi postuma nel 1682
nella Verdadera quinta parte di Calderón.10
no e le caratteristiche del teatro di derivazione spagnola di Gozzi.
5
Già censiti con le commedie “fonte” da F. FIDO, «I drammi spagnoleschi di Carlo Gozzi», in Italia e Spagna nella cultura del '700 (Roma, 3-5 dicembre 1990), ed.
Roma, Accademia dei Lincei, 1992, pp. 63-85. Si possono vedere, con relative e presunte fonti (non sempre ben individuate), in R. RICORDA, «Informi mostri scenici: il
teatro spagnolesco», in Carlo Gozzi. Stravaganze sceniche e letterarie battaglie, a
cura di F. Soldini, Venezia, Marsilio, 2006, pp. 52-57. Per le date di pubblicazione e
di ristampa dei testi vedi l'utilissimo quadro in C. Gozzi, Lettere, a cura di F. Soldini,
Venezia, Marsilio, 1984, pp. 39-72.
6
Oltre a G. LUCIANI, Carlo Gozzi (1720-1806), L'homme et l'oeuvre, 2 voll., LilleParis, Champion, 1977 (II, pp. 649-817), e l'articolo di F. Fido, prima citato, vedi C.
ALBERTI, «Il declino delle maschere. Drammi flebili e commedie serio-facete, oltre
le favole teatrali», in Carlo Gozzi scrittore di teatro, ed. C. Alberti, Roma, Bulzoni,
1996, pp. 244-271; B. GUTHMÜLLER, «Xele romanzi o no xele romanzi ste vicende?. I
due fratelli nemici di Carlo Gozzi», in Carlo Gozzi. Letteratura e musica, Atti del
convegno Internazionale Centro tedesco di studi veneziani, Venezia, 11-12 ottobre
1995, ed. B. Guthmüller e W. Osthoff, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 35-51.
7
Ben più condivisibile la lettura di A. CROCE, «Le droghe d'amore», in Carlo
Gozzi scrittore di teatro, (pp. 273-287), p. 280: Gozzi “inserisce” «entro l'intreccio
imitato da Tirso la sua polemica antilluministica».
8
Per Calderón in Italia cfr. I. PEPE, «Motivi calderoniani nella letteratura Settecentesca», in Calderón in Italia, Studi e Ricerche, Pisa, Goliardica, 1955, pp. 47-61;
V. GONZÁLEZ MARTÍN, «Presencia de Calderón de la Barca en el siglo XVIII italiano», in Estudios sobre Calderón, Salamanca, Universidad, 1988, pp. 41-50; F. MEREGALLI, «Rapporti culturali tra la Spagna e il Veneto nel Settecento», in Spagna e
Italia a confronto nell'opera letteraria di Giambattista Conti, ed. M. Fabbri, Lendinara, Comune di Lendinara, 1994, pp. 153-166.
9
Comedias Nuevas Escogidas de los mejores ingenios de España. Octava parte, Madrid, por A. García de la Iglesia - a costa de J. de San Vicente, 1657, ff. 66-89;
si veda la descrizione e gli esemplari in M.G. PROFETI-U.M. ZANCANARI, Per una
bibliografia di A. Cubillo de Aragón, Verona, l983, pp. 25-27.
10
Verdadera quinta parte de Comedias de Don Pedro Calderón de la Barca,
Madrid, F. Sanz, 1682, pp. 403-450. Da qui citerò infra nel testo, con la sigla GD, in
una trascrizione modernizzata ed interpretativa.
Gozzi "riedifica" Calderón
187
La Quinta parte la definisce “Fiesta que se representó a sus Magestades en el Salón de su Real Palacio”; ma la sua facies è quella di
una brillante commedia d'intreccio, che ripropone alcuni meccanismi
fondamentali dell'autore, fin dalla prima scena, dove la Regina doña
Elvira, sprezzata da don Pedro rey de Aragón e ritirata nel palazzo
compestre di Miravalle, appare addormentata. Risvegliata dall'arrivo
del conte di Monforte, accompagnato dalla figlia Violante, essa si
lamenta del ritorno alla realtà:
Soñaba, amigas... ¿Quién duda
que soñaba, puesto que era
tan gran dicha, como hallarmne
del Rey adorada? [...]
Dichosa, alegre y contenta
estaba, cuando del sueño
desperté: mirad si es fuerza
que llore haber despertado,
pues veo por experiencia
que me hallé alegre, dormida,
y me hallo triste, despierta.
(GD, pp. 404b-405a)
Quindi fin dall'inizio ci troviamo davanti a due elementi molto
presenti nella commedia aurea e in Calderón: quello della “bella dormida”11 e quello della illusorietà del sogno.
Ma ecco un gruppo di cavalieri che trasportano in scena il Re
svenuto, caduto da cavallo: altro tema simbolico molto calderoniano, e
si ricordino la Rosaura della Vida es sueño, o l'infante del Médico de
su honra. La caduta dell'eroe indica la sua situazione di rottura della
norma: qui il riprovevole amore del monarca per Violante e il disprezzo per la propria consorte.
Riuniti i tre protagonisti in scena, lo spettatore assisterà di persona alla freddezza del Re nei riguardi della Regina ed al suo colpevole corteggiamento di Violante. Ma l'intreccio si complica ulterioremente in questo secondo nucleo scenico: uno dei cavalieri che accompagnano il re, don Vicente, rivela di essere sposo segreto di Violante, inutilmente consolato dalla brillante parlantina del suo servo
Chocolate, che enumera le pene del matrimonio, e rompe per la prima volta l'illusione scenica:
11
M.G. PROFETI, «La bella dormida: repertorio e codice», Quaderni di lingue e
letterature, 7 (1982), pp. 197-201.
188
Maria Grazia Profeti
En efeto, ¿no ha de haber
amor, que como en comedia
lances de celos y honor
a cada paso no tenga?
(GD, p. 408b)
Ma l'erosione della “verità” del teatro viene perpetrata in maniera
ancor più decisa dalla “dueña” Leonor, che inaugura la terza sequenza12; siamo nelle stanze di doña Violante, e la serva riflette:
Yo estoy en notable aprieto,
pues sola me vengo a ver,
y un soliloquio he de hacer,
o he de decir un soneto.
¿Qué escogeré entre los dos?
Al soliloquio me fío:
ahora bien, discurso mío,
solos estamos yo y vos:
hablemos claro...
(GD, p. 409b)
E alla fine di questo tanto metateatrale riassunto dei fatti, allestita
la scala attraverso la quale il Re potrà salire nelle stanze di Violante,
la serva si compiace di aver tenuto fede al suo “ruolo” teatrale:
En falso cierro el balcón;
nadie lo puede advertir.
¡Oh, que gran gusto es cumplir
una con su obligación!
(GD, p. 410a)
Quindi nelle stanze della dama, cioè nel più intimo “dentro”, che
il tradimento della serva ha esposto alla violazione, si svolge la rinnovata dichiarazione d'amore di Violante e don Vicente, separati
dall'inimicizia delle proprie famiglie; ed assistiamo ad una serie abilissima di entrate: prima del cavaliere, che viene a domandare ragione del corteggiamento del Re; Violante esce chiamata dal padre, e
dalla finestra sopraggiunge il Re stesso; don Vicente si nasconde, Violante rientrata si difende dal Re, e don Vicente si disvela per aiutarla,
12
Vedi M.G. PROFETI, «Comedia al cuadrado: espejo deformante y triunfo del deseo», Cuadernos de teatro clásico, 1 (1988), pp. 51-60 (poi in versione italiana, sotto
il titolo «Esconderse el galán, taparse la dama: strategie dell'occultamento, strategie della scrittura nella commedia de capa y espada», in Il valore del falso, Atti del
convegno di studi, 27-28 novembre 1992, ed. S. Carandini, Roma, Bulzoni, 1994, pp.
121-142).
Gozzi "riedifica" Calderón
189
mentre sopraggiunge il padre. La scena è un vertiginoso agglomerarsi
di coups-de-théâtre; ed alle entrate fanno seguito una serie di uscite:
prima esce Violante, che si giustifica di fronte al padre con una lapidaria affermazione:
-¿Qué es esto, Violante?
-Su Magestad lo dirá. Vase
(GD, p. 414b)
Alle domande incalzanti del padre, il Re darà una risposta analoga:
-¿Qué es esto, Señor, qué es esto?
-Don Vicente os lo dirá. Vase
(GD, p. 415a)
Né manca una presa a gabbo ironica della sequenza, come al solito appannaggio del gracioso, che si allontana precipitosamente, nel
timore che sia lui a dover giustificare la situazione.
¿Cuánto va,
según lo que estoy viendo,
que se va mi amo, diciendo:
"Chocolate lo dirá"? Vase
(GD, p. 415a)
Il padre, che si vedeva già disonorato dalla presenza del re, alla
rivelazione che la figlia è segretamente sposata con don Vicente di
buon grado accetta la nuova situazione e si accorda con il cavaliere
per domandare al Re licenza ufficiale per le nozze; la jornada si
conclude dunque con questa provvisoria “ricomposizione”:
Soy padre,
y ya el daño sucedido,
solicito deshacerle,
no aumentarle solicito. Aparte
Pues, aunque sienta casarla
con el que fue mi enemigo,
sintiera más ver mi honor
amancillado y perdido:
y en dos peligros forzosos,
cordura y prudencia ha sido
con el peligro menor,
vencer el mayor peligro.
(GD, p. 417b)
«Deshacer [el daño] / aumentarle», «peligro menor / peligro mayor»: l'atto si chiude, anche a livello di forma dell'espressione, con la
strutturazione parallela delle possibilità.
190
Maria Grazia Profeti
Il secondo atto inizia nel palazzo reale, dove il Re commenta con
il suo confidente, don Guillén, gli avvenimenti della notte precedente. Sopraggiungono il Conte e don Vicente; il primo dichiara di aver
risolto le controversie con il cavaliere, e come pegno della raggiunta
concordia domanda di poter concedergli la figlia, cosa che evidentemente il Re non può rifiutare: si verifica così la seconda soluzione
del conflitto, tuttavia immediatamente dopo il monarca dichiara a
don Guillén l'impossibilità di vincere il proprio desiderio amoroso.
L'azione si sposta nella casa dei Monforte, dove Violante, in grande apprensione per lo svolgimento degli avvenimenti della notte anteriore, viene raggiunta da Chocolate, che intrattiene l'uditorio con i
consueti giochi d'ingegno, e successivamente dal padre. Le rinnovate
giustificazioni della dama hanno una chiara funzione di ritardo: siamo di fronte alla terza soluzione, le nozze felici tra i due giovani, non
solo approvate dal padre e dal Re, ma comunicate ora anche alla dama.
Ma ecco don Guillén, latore di due lettere del monarca: con la prima egli dona a doña Violante, in occasione delle nozze, la città di
Castellón e il titolo di Marchesa; con la seconda don Vicente è inviato
a Mallorca con un contingente militare: sotto specie di onorarlo, il Re
dunque lo allontana dalla sposa. Così Calderón tiene fede alla prima
parte del titolo della commedia, a quei Gustos y disgustos, che così
repentinamente si succedono.
Per tentare di controllare l'insana passione del Re, don Vicente
suggerisce alla sposa di prendere dimora presso la Regina per la durata della sua assenza: l'azione si trasferisce dunque a Miravalle, dove
la Regina riceve Violante; ma anche il Re vi si reca, avendo saputo
che la dama si trova nella villa. E la seconda jornada si chiude con
un'altra scena organizzata su una sequenza di qui-pro-quo: Violante
«a una reja baja» aspetta il marito, il cui arrivo le era stato annunciato da Chocolate, ma sopraggiunge il Re, essa capisce che il cavaliere
con cui sta parlando non è don Vicente e si allontana; alla stessa
finestra si affaccia la Regina e indirizza complimenti anfibologici
allo sposo, che crede di parlare con la dama; don Vicente e Chocolate si scontrano con il Re, ed egli si fa riconoscere; al fedele vassallo
non resta che allontanarsi:
Si el más acerado estoque
es de cera contra un Rey,
y la mayor valentía
volverle la espalda es,
retirarme quiero ahora.
(GD, p. 433a)
Gozzi "riedifica" Calderón
191
L'inizio della terza jornada vede il re riflettere sulla eleganza delle argomentazioni che la dama (egli crede sia Violante) ha profferito
«a la reja» la notte precedente:
[...] Del sujeto que sigo
el mérito menos grave
en lo que digo no cabe,
ni aún cabe en lo que no digo;
porque cuanta perfección
puso el cielo en su hermosura
es pequeña cifra obscura
de su mucha discreción;
todo causa admiración:
los ojos allí rendidos
al verla yo, y repetidos
al oírla mis enojos;
se están muriendo mis ojos
de envidia de mis oídos.
(GD. p. 433b)
E quando la Regina sotto mentite spoglie si presenta di nuovo, di
nuovo il Re rimarrà estasiato dalla sua conversazione (GD, pp. 434435). Da ora in avanti la jornada sarà tutta costruita sullo scambio di
identità: non solo il Re crede di parlare «a la reja» con doña Violante
e amoreggia invece con la sua detestata sposa, ma sopraggiunge
Chocolate, che rivelerà che il suo padrone è rientrato dalle manovre
militari di Mallorca e si è scontrato con un cavaliere; il Re comprende allora con chi ha duellato la notte precedente e decide di avvisare
del fatto Violante, entrando nel palazzo; tra l'altro spera che questo
“penetrare all'interno” possa propiziare la “resa” della dama:
teniéndole tú avisado
y como yo allá me quede,
haciendo tú aquesta noche
las señas, como otras veces,
al salir Violante a hablarme,
con el seguro que suele
de que en la calle estoy, tengo
de lograr mi amor.
(GD, p. 437b)
Insomma non ci saranno cambiamenti nelle dinamiche sentimentali, ma solo il meccanismo a orologeria delle presenze/assenze nella
192
Maria Grazia Profeti
notte o nell'interno del palazzo «al paño» (GD, p. 443a): un vertiginoso gioco degli equivoci, in cui Calderón è maestro. Doña Violante e
don Vicente si riconfermano il reciproco amore, fugati i sospetti;
Violante parla poi con il Re, mentre don Vicente ascolta nascosto, e
gli dichiara che mai anteriormente ha avuto un'intervista con lui; il
Re insiste e don Vicente si dispera, come la stessa Violante, perchè
non riesce a giustificarsi di fronte al marito. Sopraggiunge la Regina
che finge di essere stata informata solo allora dell'arrivo del Re, questi finge di essere andato a caccia, di essere appena giunto a Miravalle e di essere entrato per sbaglio nelle stanze di Violante (GD, p. 444b).
Don Vicente sta per uccidere la moglie che crede fedifraga, ma l'arrivo della Regina lo impedisce; la dama si lamenta della impossibilità di discolparsi mentre sopraggiumnge il padre. Per la terza volta la
Regina parla con il Re che ancora la crede Violante, in una successione di false verità, di cui le didascalie danno fede:
Vanse entrando, y desde la puerta la Reina vuelve a llamar a Violante, estando don Vicente la daga empuñada.
(GD, p. 445a)
Vanse, y salen por distintos lados, sin verse el uno al otro, el Rey y don
Vicente, uno muy triste y otro muy alegre.
(GD, p. 447b)
Lleguen los dos, y viéndose el uno al otro se aparten y sacan las espadas, y el Rey se pone delante de la Reina.
(GD, p. 448b)
Dentro don Guillén, el Conde, y Violante dentro por otra parte, y Elvira saca luces por enmedio dellos, y salen todos los demás. (GD, p. 448b)
Fino alla soluzione finale, con il Re rinsavito di fronte all'amore
costante della moglie; alla sua domanda «¿Cómo? ¿Vuestra Alteza es
quién / aquí estaba?», essa risponde:
Sí, yo soy,
la que partiendo su suerte
entre la luna y el sol,
de vos adorada vive,
y aborrecida de vos.
Con el nombre de Violante
os hablé por el balcón;
de mí estáis enamorado
de noche, si de día no.
Pues una mentira, Rey,
tanta pasión os debió,
¿por qué una verdad no puede
deber la misma pasión?
(GD, p. 449a)
Gozzi "riedifica" Calderón
193
Così si apre di fronte al Re, come di fronte allo spettatore, la doppia faccia dell'apparenza: luna e sole, notte e giorno, “adorada” e
“aborrecida”; insomma menzogna e verità. E se la soluzione pare ristabilire la verità, essa non è altro che la imaginación del titolo, come sottolinea il congedo di Chocolate:
Esta es verdadera historia
[...] pues lo enseñó
la comedia, imaginad,
si os dio gusto, que os dio
gusto, y con esto dirá
agradecido el autor
que el gusto y disgusto
desta vida son
no más que una leve
imaginación.
(GD, p. 450b)
3. Nel secolo XVII la commedia di Calderón aveva conosciuto un
primo adattamento al teatro italiano per mano di Giacinto Andrea Cicognini, come risulta dal catalogo di Carmen Marchante13 e come ha
ben illustrato Fausta Antonucci14. Si ripete dunque il caso di un Gozzi
che sceglie per le sue riscritture testi che avevano interessato anche i
drammaturghi italiani del secolo XVII, e in particolare il Cicognini.
Una delle prime opere da lui riscritte è infatti El secreto a voces di
Calderón (rappresentata nel 1769), che aveva conosciuto nel secolo anteriore sia l'adattamento attribuito a Cicognini (Il segreto in pubblico), sia uno anonimo e manoscritto (Il segreto palese), sia quello di
Susini (L'amoroso segretario, stampato a Firenze nel 1690), sia quello
di Arcangelo Spagna, stampato nel 1711 (Il segreto in voce)15. Ed è si13
C. MARCHANTE, «Calderón en Italia: traducciones, adaptaciones, falsas atribuciones y scenari», in Tradurre, riscrivere, mettere in scena, pp. 40-42 (poi in Calderón en Italia. La Biblioteca Marucelliana, pp. 68-70).
14
F. ANTONUCCI, «Spunti tematici e rielaborazione di modelli spagnoli nel Don
Gastone di Moncada di Giacinto Andrea Cicognini», in Tradurre, riscrivere, mettere in scena, pp. 65-84.
15
S. MAZZARDO, «La fortuna italiana de El secreto a voces: collage, gemmazione, riscrittura», in Percorsi Europei, pp. 63-127; R. CIANCARELLI, «Rielaborazioni
italiane di El secreto a voces di Calderón de la Barca: l'efficacia dei processi compositivi degli attori», in AV, Chiarezza e verosimiglianza. La fine del dramma barocco, ed. S. Carandini, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 75-95; che annuncia la sua prossima
edizione dei testi, Roma, B. Vignola; S. VUELTA GARCÍA, «Una reelaboración florentina de El secreto a voces de Calderón: L'amoroso segretario de Pietro Susini», in
Calderón en Italia. La Biblioteca Marucelliana, pp. 95-107.
194
Maria Grazia Profeti
gnificativo che Gozzi giochi a difendersi dall'accusa di aver plagiato
il Pubblico secreto:
Il nostro foglio del Corriere Letterario mi rinfacciò ch'io l'aveva rubata al Cicognini. Giuro ora che non è vero, e giuro ch'io non ebbi
mai la flemma di leggere i tomi del Cicognini, siccome il Corriere
Letterario non l'avrà di leggere i miei. D. Pietro Calderone, Spagnuolo, colla sua commedia El secreto a voces m'ha dato l'argomento, e
forse l'ha dato anche al Cicognini. Scommetto che l'opera mia è differente molto da quella di Calderone, da quella del Cicognini, e riverisco il Signor Corriere Letterario.16
Anche Bianca contessa di Melfi, che Gozzi compone per il Carnevale del 1779, tratta da Casarse por vengarse di Francisco de Rojas,
era stata precedentemente “riscritta” dal Cicognini in Maritarsi per
vendetta e ne La forza del fato.17
Gozzi potè leggere Gustos y disgustos nella raccolta delle Nuevas
escogidas, o nelle edizioni calderoniane che continuano fino al secolo XVIII, o, meglio ancora, in una delle tante tarde sueltas settecentesche stampate a Madrid e a Sevilla.18
Stampa poi la sua “riedificazione” nel 1772, con rinnovate rivendicazioni circa il suo nuovo “genere”, le commedie di derivazione spagnola:
Io non ho sentito disprezzare il mio primo genere fiabesco, e 'l mio secondo genere piantato sugli argomenti spagnuoli, sennonchè con questa convincente ragione: “Le prime sono fiabe, le seconde sono spagnuole”. Se tutte le fiabe piacquero, se la Donna vendicativa, Donna Elvira,
il Pubblico secreto fecero nascer irruzione, piacquero e piacciono, ed
ebbero quell'intento che si ricerca nel teatro, converrà dire che i soli
generi che non piacciono sono quelli che non vagliono nulla.19
16
C. GOZZI, “Prefazione” al Pubblico secreto, in Opere, vol. IV, in Venezia, per
il Colombani, MDCCLXXII, pp. 306-307.
17
Vedi D. SIMINI, «Casarse por vengarse di Rojas Zorrilla nella traduzione di
Giacinto Andrea Cicognini: Maritarsi per vendetta», in Tradurre, riscrivere, mettere in scena, pp. 95-116.
18
K.-R. REICHENBERGER, Manual bibliográfico calderoniano, Kassel, Verlag Thiele & Schwartz, 1979, vol. I, pp. 288-291, censiscono ad esempio una serie di sueltas
s.a., ma del sec. XVIII: Barcelona, Francisco Suriá y Burgada; Sevilla, Diego López de
Haro; Sevilla, J. Padrino; ed inoltre: Madrid, Antonio Sanz, 1748; Barcelona, C.
Sapera-F. Suriá, 1765; appare infine nel vol. X della ristampa di Apontes, Madrid,
Fernández, 1763, pp. 1-48: ivi, p. 32.
19
C. GOZZI, Opere, tomo V, in Venezia, per il Colombani, MDCCLXXII, p. 10.
Citerò dalla commedia nel testo con la sigla DNA. Ricordo che il fondo Gozzi presenta il manoscritto-base della stampa, numero d'ingresso della Marciana 378730: S.
Gozzi "riedifica" Calderón
195
E con alcune informazioni sull'opera fonte, la messa in scena, il
successo riportato:
Gustos y desgustos [sic] son no más que imaginación, opera di D.
Pietro Calderone, m'ha dato il tema per farne un'altra intitolata Le
due notti affannose.
Fu rappresentata nel teatro di S. Salvatore a Venezia dalla truppa Sacchi a' 5. di Gennajo l'anno 1771. Si volle replicata per nove sere seguenti
con buona ventura de' comici, e si seguita a replicarla ogni anno. L' atto
secondo e il terzo hanno scene teatrali di somma forza e grandezza.20
Come al solito Gozzi riorganizza le tre jornadas di Calderón in cinque atti, aiutato dalle cesure evidenti a metà della prima e della seconda jornada, che corrispondono ne Le due notti affannose al passaggio dal primo al secondo e dal terzo al quarto atto; cosicchè il primo
coincide con la sequenza scenica iniziale che si svolge presso Miravalle, il secondo inizia con l'arrivo in scena di Smeraldina-Leonor21,
intenta a preparare la scala per il re e si chiude sulla confusione dei
tre disvelamenti, interrompendosi sul confronto tra Alvaro-don Vicente
e il Conte; il terzo vede il re concedere in sposa Violante al suo innamorato: essi si abbracciano in scena prima dell'arrivo delle lettere
del re; la partenza di Alvaro lo chiude.
Come si sa uno dei cambiamenti più macroscopici delle riscritture
di Gozzi — in questa prima fase dei suoi drammi “spagnoleschi” — è
la presenza delle maschere: il sonno della regina non è sorvegliato da
una sollecita dama, ma da Pantalone; il confidente del Re non è don
Guillén, ma Tartaglia, Truffaldino fa la parte di Chocolate come
servo del protagonista; e Violante ha al suo servizio Smeraldina. Naturalmente Gozzi è pienamente consapevole di questa “rottura”, e chiama a sua giustificazione il diverso “gusto”:
Chi non sa che un Truffaldino non sarà mai decente servo d'un Grande
di Spagna, e chi non conosce il mio capriccio? Ho detto che il gusto
delle nazioni si dee rispettare [...].22
MARCON, E. LUGATO, S. TROVATO, «Catalogo del fondo Gozzi presso la Biblioteca Nazionale Marciana», in Carlo Gozzi. Stravaganze sceniche, letterarie battaglie, p. 126.
20
GOZZI, Opere, tomo V, p. 12.
21
Consueto cambiamento è quello dell'onomastica: ora la regina si chiama Metilde, e il protagonista è un molto spagnolo Don Alvaro; il padre Conte di Monforte
diventa il Conte Guglielmo di Monforte.
22
GOZZI, Opere, tomo V, p. 12.
196
Maria Grazia Profeti
Ma il Gozzi scrive per la compagnia Sacchi, dove il napoletano
Antonio Fiorilli incarnava la maschera di Tartaglia, ora ministro confidente del Re; Cesare D'Arbes era un noto Pantalone e Adriana Sacchi Zannoni interpretava la servetta Smeraldina. E soprattutto egli
deve ben preparare un ruolo per il capocomico, da sempre interprete
di un acclamatissimo Truffaldino; ruolo che Antonio Sacchi stesso
riempirà con i lazzi del suo consueto repertorio, tanto che il Gozzi
non ne scrive interamente la parte, ma solo la “prepara”, lasciandola
poi alla libera interpretazione dell'attore:
Truffaldino da viaggio
Esce timoroso con un viglietto in mano. Che si vede imbrogliato in
certi uffizii, che l'incomodano infinitamente. [...] Che a lui vien da ridere, e ride. Che 'l Re ci anderà benissimo; che, quando si tratta di
poter fare colle amorose, i mariti fingono anche di voler bene alle
mogli, se l'odiarle è un ostacolo. Che ha veduti moltissimi casi, ec. [...]
Fa esame sul luogo, sul verone, sulla tramontana. Essere certamente
quello il luogo. Ch'entrerà, proccurerà di servire il padrone, e uscirà
per qualche altra parte del palagio con la risposta. Suoi timori, suoi
dubbj, ed entra.
(DNA, pp. 97-98)
Lo stesso si dica per Pantalone, anche se la sua parte è quasi completamente redatta da Gozzi, che gli fa anche grazia di una citazione
di padre Dante («Amore a nullo amato amar perdona» DNA, p. 33),
ma che di tanto in tanto gli affida delle scenette da impovvisare:
Pant. e Tart. parlano basso con lazzi muti sulla sciagura.
Pant. suo lazzo come sopra.
(DNA, p. 24)
(DNA, p. 111)
Così i personaggi comici sono incrementati nel testo italiano,
giacchè il ruolo di confidente del re non è affidato a persona di rango, ma a Tartaglia; e servente della regina non è la nobile doña Elvira, ma Pantalone. Con una schematizzazione “linguistica” dei ruoli,
poichè mentre i nobili parlano in endecasillabi sciolti, i personaggi
bassi usano la prosa e Pantalone il veneziano.
Altri meccanismi diversi sono il sistema di didascalie del testo,
molto asciutto in quello spagnolo, che conta sull'intelligenza degli attori e che per convenzione limita al massimo l'annotazione, affidandosi
a indicazioni implicite; mentre Gozzi indulge all'ambientazione ed ai
chiarimenti, con quelle che vengono definite «didascalie registiche», e
Gozzi "riedifica" Calderón
197
che spesso incrementano la connotazione burlesca23. Si confronti l'esordio:
Sale por una puerta el Conde y su hija Violante, y acompañamiento;
y por otra doña Elvira.
Tened, no paséis de aquí,
señor Conde, porque en esta
florida estancia, que el mayo
fabricó a la primavera,
andando ahora con las damas
la magestad de la Reina
mi señora, divirtiendo
la pasión de su tristeza,
se rindió al sueño en aquel
(GD, p. 403a)
cenador [...]
Luogo di delizia con varii sedili di verdura e pergolati. [...] Doña
Metilde, sedendo sotto un pergolato appoggiata con un gombito ad
una tavoletta, su cui si vedranno alcune frutta sopra un bacile, starà
dormendo. Pantalone con lazzi di silenzio starà osservandola, camminando adagio, poi leverà le mani al cielo con trasporto, parlando
sempre con voce bassa. [...] Va loro incontro con cenni muti d'umiliazione, aggiunge le palme, mette un dito alla bocca perchè non
parlino, sempre in atto supplichevole.
(DNA, p. 15)
O si veda l'entrata di Chocolate nelle stanze di Violante a Miravalle:
Sale Chocolate
Con más miedo que vergüenza,
si bien no son novedades
no tener vergüenza yo
y tener miedo, entro a hablarte.
(GD, p. 422a)
Parte interna del giardino della Regina, con angolo de' di lei appartamenti, che riferisce a questa parte. Vi sia un verone esterno praticabile, posto sopra colonnati, sotto de' quali una loggia con portone
atto ad aprirsi. Vi saranno alle parti del giardino posti con simmetria alcuni nascondigli di verdura. La notte incomincia, e s'oscura
alquanto la scena.
Truffaldino da viaggio.
Esce timoroso con un viglietto in mano.
23
(DNA, p. 97)
Vedi A. FABIANO, «Mistificazione e persiflage: una possibile metafora del teatro nei drammi spagnoleschi di Gozzi», in Theater Text Transformationen, in stampa.
198
Maria Grazia Profeti
Fin qui siamo forse solo nell'ambito di diverse convenzioni. Ma
che indicano un diverso rapporto tra emittente > compagnia > spettatorelettore. Confermato dal fatto che i momenti più “rischiosi” del testo di
Calderón vengono espunti, come il soliloquio di Leonor nella prima
jornada: Smeraldina non gioca più sul registro metateatrale, ma riflette sul fatto che le “doppie” del Re sono irrestibili (DNA, pp. 37-38);
e come al solito qui affiora lo sguardo negativo di Gozzi sui servi.
Restano invece i mirabili colpi di teatro della fine della prima jornada (ora secondo atto), che sono le «scene teatrali di somma forza»,
di cui si vantava il Gozzi nella sua presentazione. Magari diluiti tra i
«tra sé» e i chiarimenti:
Violante (da sé) Non reggo...
Irreparabil strage è già vicina...
Pietoso Ciel, lo sposo mio tu serba...
Forza è scoprire il Re, fuggir, salvarsi.
(al Conte) Padre, il Re potrà dirlo; a lui chiedete.
(addita il Re, poi impetuosa col fazzoletto agli occhi entra).
Conte (sorpreso e fiero al Re)
Sire, voi qui? di notte? nel mio tetto?
Con la faccia coperta? E' questo il premio,
la corona di lauro è questa forse
che compartite a' meriti, a' sudori,
al sangue per voi sparso, a' vostri servi?
A che qui? che cercate?
Re (stabarrandosi) Conte... (a parte affannoso) Io scoppio...
(al Conte) Lo chiedete a don Alvaro; ei favelli.
(addita Don Alvaro, ed entra. Il conte, osservando Don
Alvaro, retrocede qualche passo, e resta attonito; in
questo Truffaldino, uscendo in punta di piedi per di
dietro)
[Truffaldino] Che non vorrebbe che il padrone dicesse al
Conte "Chiedete a Truffaldino, egli favelli" e se ne
andasse. Ch'egli anticipa l'andata per non rimanere
l'ultimo obbligato a rendere un tal conto!
(DNA, pp. 58-59)
(Fugge).
Il testo italiano è infatti indubbiamente declamatorio, laddove le
redondillas di Calderón procedono fluide ed inarrestabili.24
24
Riporto per comodità del lettore l'intero passo spagnolo: «Vase, y descúbrese
el Rey./Cond. Vuestra Magestad, señor,/ ¿en mi casa, y a esta hora / rebozado? Quien
Gozzi "riedifica" Calderón
199
La suspence delle lettere regali viene mantenuta (DNA, pp. 82-84),
nonchè quella sull'“asilo” scelto da Violante, che chiude l'atto quarto
(DNA, pp. 87-88)25; ma con “tocchi” nuovi, che rendono la situazione
più esplicita: il Re addirittura progetta di rapire doña Violante (DNA,
p. 99), mentre il soggiorno della dama presso la Regina si trasforma
in una specie di carnevale:
Tartaglia (esce frettoloso) Oh Maestà, Maestà, sono stolido. I giardini della Regina da quella parte sono tutti illuminati di fiaccole. Gli
appartamenti di Sua Maestà ardono di chiocche e lumiere. Carrozze
vanno, carrozze vengono. Smontano al portone della Regina dame, cavalieri spagnuoli, italiani, inglesi, francesi, maschere in dominò, maschere alla veneziana.
(DNA, pp. 100-101)
E in questi festeggiamenti non manca nemmeno una sinfonia, in
lode dell'amore (DNA, p. 102), che il re interpreta come dileggio della
Regina nei suoi riguardi (DNA, p. 103).
Naturalmente viene colta l'importanza scenica dell'intervista tra il
Re e Violante, che crede di parlare con il suo sposo (pp. 104-107), il
sostituirsi della Regina a Violante e l'appuntamento che dà al Re per
la notte successiva (pp. 109-113), il sopraggiungere di don Alvaro. Ma
con note larmoyantes, molto insistite:
[...] la più crudel barbara stella
della sua passion forte impedisce
i dolci sfoghi, e d'una salda fede
il compenso d'amor. (piange)
[...] per mia angoscia
ci disgiungne per sempre. (piange)
[...] ma per lasciarsi soggiogar non mai.
(piange dirottamente, e resta col fazzoletto agli occhi).
(DNA, pp. 111-112)
Tanto da contagiare anche il Re:
[...] nella disperazion non iscagliarmi.
(piange, e resta alquanto con una mano agli occhi
(DNA, p. 112)
taciturno).
ignora / que corra riesgo mi honor? / Es éste de mi valor / el premio (¡ay Dios!) que me
da? / ¿Es éste el lauro que está / para mis sienes dispuesto? / ¿Qué es esto, señor, qué es
esto? / Rey. Don Vicente os lo dirá. Vase.» (GD, p. 415a).
25
In Calderón è don Vicente a suggerire a Violante di recarsi presso la Regina, e
di sottolineare che ciò le era stato suggerito dal padre (il che darà luogo ad altri raffinati qui pro quo); per Gozzi si tratta di una iniziativa della stessa dama, DNA, pp. 97-98.
200
Maria Grazia Profeti
Siamo ben lungi dai felici giochi di ingegno della Regina di Calderón, che son quelli che seducono il Re; ora Metilde pare incapace
di intendere e volere, tanto che tutta la strategia di riconoquista del
cuore del monarca sarà organizzata da Pantalone, che suggerisce alla
Regina come comportarsi e cosa dire (DNA, pp. 114-115).
Il tutto condito poi dai lazzi non solo di Pantalone, ma anche di
Tartaglia e Truffaldino; e sono proprio questi ultimi che chiudono l'atto quarto:
Tartaglia (uscendo) Ho sentito romore.
(tosse e si spurga con caricatura)
Qui non v'è più sua Maestà. Corpo di Bacco, sento
gente che corre da quella parte. Oh, che notte! Mi farò
sbudellare da buon ministro, e allora dormirò.
(sguaina e segue il Re)
Truffaldino (uscendo timoroso)
-Uomo, chi sei, del mio secreto a parte?
-Son chi sa custodir gli arcani vostri.
-Come, audace, da me potrai difenderti?
-Sire, ecco l'arma che s'oppone: è questa.
(DNA, p. 117)26
(mostra una gamba e fugge veloce).
L'atto quinto conferma questa tendenza da un lato alla “semplificazione” del testo calderoniano, e dall'altro a una “ridondanza” delle
spiegazioni e delle effusioni degli affetti. Per di più Smeraldina sembra operare come mezzana tra donna Violante (che niente sa) e il re:
il Conte padre assiste al colloquio, pensa che Violante possa concedersi al Re e si dispone ad uccidere la figlia (DNA, p. 125); come lo
stesso don Alvaro, che crede la moglie infedele:
Il Conte Guglielmo con pugnale ignudo in mano.
Del mio rossor, dell'ultime sciagure
d'un infelice padre, già non erro,
è vicino il momento. Qui celiamci.
Vieni, indegna mia figlia. Testimonio
di tue scelleratezze abbi tuo padre;
ma questo ferro al tuo fallire attendi,
pria di compiere il fallo, nel tuo seno.
(si nasconde vicino alla sala terrena)
26
Si veda anche l'ampolloso scontro precedente tra il Re e don Alvaro, DNA, pp.
116-117 e si confronti con la chiusa del secondo atto di Calderón, GD, p. 433a.
Gozzi "riedifica" Calderón
201
Don Alvaro con pugnale ignudo in mano.
L'ora per me più atroce è già vicina.
Chi mi dà intrepidezza, e chi mi guida,
spettator de' miei danni, al sacrifizio
di me medesmo?... Il mio furor m'è guida...
La brama di morir. Celiamci. Giunga
questo aborribil mostro... disonori
chi men lo merta, ma trafitta il core
da questo ferro, in braccio al mio rivale
sgorghi il suo sangue, e l'alma iniqua esali.
(DNA, p. 136)
(si nasconde vicino alla sala terrena)
Soprattutto Gozzi “rinforza” l'intreccio calderoniano, come se non
si fidasse delle capacità del suo pubblico di decifrare la raffinata opera
di seduzione effettuata dalla Regina, che con l'eleganza della sua "parola" conquista il Re. Qui invece assistiamo ad una strategia di Pantalone, che già nella terza scena del primo atto ricorda una promessa
del Re, che si è sposato “contraggenio” e ha dichiarato alla moglie:
Quando averete quest'anello in dito,
che conservo nel mio gelosamente;
quando mi recherete un bambinello
che sia mio, e di voi figlio, allor consorte
(DNA, p. 18)
conoscerovvi...
Quindi vedremo Smeraldina che su istigazione di Pantalone si fa
consegnare l'anello dal Re, dichiarando che è donna Violante a volerlo (DNA, pp. 122-125), e sarà giusto quello che alla fine Metilde esibirà al dito (DNA, p. 135). E da qui la necessità che la Regina nella scena
finale si sostituisca a Violante, non nel colloquio, ma tra le braccia
stesse del Re:
[...] Questa notte
rilevai che Violante... (la pudica,
l'onorata Violante) è a voi diletta.
Stanotte lei mi finsi, e la vorace
fiamma che m'arde il sen per voi, m'indusse...
Gl'impegni vostri m'acciecar. Sedotta
di Violante ho la serva; ella carpita
v'ha la gemma fatale... Io posi a rischio...
forsennata d'amor... me stessa, e volli
darvi un erede, che la pace e i vostri
(DNA, p. 141)
amplessi maritali m'acquistasse...
202
Maria Grazia Profeti
Insomma i cambiamenti ci parlano di un Gozzi attento ai desiderata del suo pubblico, come più volte asserisce:
Salvo l'esempio e salvo la sana morale, non credo che sia un delitto
appagare il gusto delle nazioni ne' spettacoli teatrali.27
E ai bisogni della “truppa comica” a cui i testi si destinano:
Se avessi voluto adoperare gli argomenti spagnuoli per qualche truppa
comica italiana differente nell'indole da quella del Sacchi, gli avrei
adoperati con modo diverso da quello.28
Ciò che ricerca nella fonte è il gioco vertiginoso dell'intreccio, dei
coups-de-théâtre, che tuttavia deve "chiarire" per un destinatario non
abituato alla loro decifrazione. Le maschere costituiscono invece un
elemento abituale per il suo pubblico, e come tale sono introdotte ed
enfatizzate: soprattutto con la loro presenza la compagnia Sacchi poteva mettere in luce le proprie abilità. Analogamente gli slittamenti
del costume si rivelano nel “carnevale veneziano” che stride se confrontato al mistero notturno di Miravalle.
Ma nessun messaggio ideologico forte passa da Calderón a Gozzi; non la fedeltà a tutta prova del vassallo verso il re, che fa abbassare lo stocco di don Vicente alla fine della seconda jornada; né la
dignità del vecchio Conte, che pesa l'inimicizia del proprio casato
con la salvezza del proprio onore, affidata ad una composizione con
don Vicente. In maniera analoga vengono cassate le marche simboliche; e soprattutto appare estranea al Gozzi la pensosa riflessione calderoniana sulla forza dell'apparenza, incluso quella del teatro, erosa
qui — nel suo altalenare tra “gustos” e “disgustos”— dalla “imaginación”, altrove dalla parvenza del “sueño”: non è certo un caso che al
titolo originale Gozzi anteponga il dato temporale delle «due notti affannose».
27
GOZZI, Lettera a Giuseppe Baretti, in Lettere, p. 116.
C. GOZZI, Appendice al ragionamento ingenuo del tomo primo, in Opere, tomo
IV, p. 9.
28
203
Q UEVEDO
E LE FONTI SICILIANE
Alessandro Martinengo
Università di Pisa
Culpa lo cruel de su dama
SONETO
Ay en Sicilia una famosa fuente,
que en piedra torna lo que moja y baña,
de donde huye la ligera caña
el vil rigor del natural corriente.
5 Y desde el pie gallardo hasta la frente
Anaxar[e]te de dureza estraña
conuertida fue en piedra; y en España
pudiera dar exemplo mas patente.
10 Mas donde vos estais es escusado
buscar exemplo en todas las criaturas,
pues mis quexas jamàs os ablandaron.
Y al fin estoy à creer determinado
que algun monte os pariò de entrañas duras,
ò que en aquesta fuente os bautizaron1.
1
F. de QUEVEDO Y VILLEGAS, Las tres Musas últimas castellanas, segunda cumbre del Parnaso español, facsímil de la edición príncipe, Madrid, 1970, reproducción cuidada por F.B. Pedraza Jiménez y M. Prieto Santiago, Universidad de Castilla-La Mancha-EDAF, Madrid, 1999, p. 27 (nel citare da questa edizione farò seguire alla sigla usuale, T, il numero della pagina e la lettera dʼordine secondo cui la poesia appare nella singola pagina: in questo caso, T 27a). Il sonetto corrisponde al numero 354 di BL [= F. de QUEVEDO, Obra poética, edición de J.M. Blecua, Castalia, Madrid, 4 vol., I, 1969, p. 523]. La [e] del v. 6 è stata supplita da L. Astrana Marín: cfr. F.
de QUEVEDO VILLEGAS, Obras completas, textos genuinos del autor, descubiertos… por
L.A.M., edición crítica. Obras en verso, Aguilar, Madrid, 1952, p. 840 (Astrana annota che in questo sonetto «vaga tenuamente la sombra de Camoens»; e aggiunge che,
pur non essendoci ragioni sufficienti per escludere questa e altre composizioni limitrofe di T dal novero delle autentiche, «empero una reserva prudente convendrá que
cautele al lector»).
204
Alessandro Martinengo
Premessa
La poesia che ci proponiamo di commentare appartiene alla Musa
del Parnaso quevediano e sʼincastona in un gruppo compatto di 38 sonetti dʼamore, riuniti sotto il titolo generale di “Poesías
amorosas”: i primi quattro provvisti del sottotitolo “Soneto” o “Soneto
amoroso”, i successivi del sottotitolo “Soneto amoroso”, costantemente ripetuto. Trattano la tematica in una prospettiva petrarchista, lʼamore cioè come dolente estenuazione o come summa paradossale di contrasti: fra le opposizioni più o meno acute vi è particolarmente sottolineata quella fra il fuoco che arde nel cuore dellʼamante e le lagrime
di dolore che sgorgano abbondanti dai suoi occhi. Il tono petrarchista
è più che altrove evidente nei sonetti T 29b (“Mas solitario paxaro en
qual techo” = BL n. 359) e T 41b (“Lloro mientras el sol alumbra, y
quando” = BL n. 372): lo ha notato Fucilla in Petrarquismo2, facendo
rispettivamente riferimento ai nn. CCXXVI e CCXVI dei RVF e definendo “libre” lʼimitazione, dal momento che Quevedo suole distanziarsi
alquanto dal modello, particolarmente nella terzina finale, di tono
più personale. E tuttavia il gruppo cui ci riferiamo riceve il suo suggello più caratteristico dal sonetto sottotitolato “Difiniendo el amor”
(“Es yelo abrasador, es fuego elado”, T 44b = BL n. 375), non a caso
collocato in posizione finale, e in cui Dámaso Alonso ha riconosciuto
una “imitación cercana” del camoniano “Amor é fogo que arde sem se
ver”3.
Il motivo delle lagrime di dolore suggerisce per analogia la visione di un paesaggio naturale in cui abbondano le acque, siano esse di
laghi o fonti presso cui lʼamata si è trattenuta in passato o la cui corrente, più frequentemente, è accresciuta dal pianto del poeta, appunto. E le numerose ricorrenze di corsi o specchi dʼacqua nel nostro
corpus sono a loro volta occasione di rinvio a favole e leggende mitologiche in funzione di exempla o di puntuali reminiscenze di passi
di autori classici, pure essi forniti di valore esemplare: diamo lʼesempio dellʼassidua opera di tessitura e stessitura cui si dedica Penelope
nella lunga attesa del ritorno del marito (“El amor conjugal de su
marido”, T 27b = BL 355); o della tematica marina collegata alla evoVII. Euterpe
2
J.G. FUCILLA, Estudios sobre el petrarquismo en España, Madrid, CSIC, Anejo LXXII della RFE, 1960, pp. 196-97.
3
D. ALONSO, «Sonetos atribuidos a Quevedo», in Obras completas, III. Estudios
y ensayos sobre literatura, 2ª parte, Madrid, Gredos, 1974, p. 986 (precedentemente
pubblicato in Correo erudito, I, 1940, pp. 204-08).
Quevedo e le fonti siciliane
205
cazione del virgiliano Palinuro (“Quando a mas sueño el alua me
combida”, T 28b = BL 356). Riferimenti e reminiscenze che sono del
resto presenti — a guisa di anticipazione — anche in composizioni che
immediatamente precedono il corpus che abbiamo individuato, come
per esempio in T 15a (“Ves gemir sus afrentas al vencido / toro” = BL
344), a proposito del quale Aldrete ha annotato: “Es imitacion de Virgilio en las Georgicas”4; o ancora lʼallusione al racconto mitico di
Atteone e Diana in T 17b (“Estauase la Ephesia caçadora” = BL 346);
o finalmente il richiamo a Plinio nel titolo di T 19a (“O ya descansas,
Guadiana, ociosas” = BL 347), che suona: «Con la propiedad de Guadiana, de quien dize Plinio, que saepius nasci gaudet, compara la dissimulacion de sus lagrimas»5.
Esempi, gli ultimi due, particolarmente opportuni ai fini del discorso che stiamo iniziando, giacché, da un lato, ritroveremo nella prima
quartina di T 27a la presenza in filigrana di Plinio, dallʼaltro dovremo
saggiare il livello, per dir così, ʻmetamorficoʼ del lessico quevediano:
il precedente cui alludo per questʼultimo caso, è contenuto in T 17b,
in cui il poeta fa riferimento appunto alla trasformazione del cacciatore voyeur per mezzo dellʼimmagine: «su frente endureciò con arco
feo», v. 12 (e ancora più caratteristico in tal senso è il verso corrispondente della versione indicata come “texto de B” e registrata
contestualmente in BL: «Trocó en áspera frente el rostro humano»).
La “famosa fuente”
Nel caso particolare del nostro sonetto, lʼintento di stigmatizzare
«lo cruel de su dama», come recita il titolo, ha suggerito a Quevedo
di ricorrere a due exempla probatorii, per entrambi i quali avevo
supposto a principio un punto di riferimento nella mitologia classica.
Ho dovuto tuttavia ricredermi, almeno per quanto riguarda il primo.
Poiché durante il recente Congresso internazionale di Palermo dedicato a Quevedo (2003), in particolare nellʼambito della discussione
4
Georg., III, vv. 224-36.
Le caratteristiche ʻcarsicheʼ dellʼAna, nome latino del Guadiana, sono cosi illustrate da Plinio in Nat. Hist., III, 1, 6: «Ortus… in Laminitano agro citerioris Hispaniae et modo in stagna se fundens, modo in angustias resorbens aut in totum cuniculis condens et saepius nasci gaudens in Atlanticum oceanum effunditur». Dámaso
Alonso ha commentato questo sonetto, mettendolo in relazione con altre composizioni ʻfluvialiʼ con maggiore o minore certezza attribuite a Quevedo, in «Sonetos
atribuidos…», cit., pp. 990-91.
5
206
Alessandro Martinengo
suscitata dal contributo dellʼamico Ettinghausen6, si era prospettato
il problema dellʼidentificazione della “famosa fuente” citata nella
prima quartina, ed era stata affacciata lʼipotesi che si trattasse della
siracusana fonte Aretusa, io avevo iniziato una puntigliosa indagine
sui testi poetici e mitografici intorno allʼepisodio del ratto di Proserpina da parte di Plutone, che aveva avuto come scenario, notoriamente, il paesaggio siciliano e come spettatrici, impotenti ma non
certo indifferenti, la fonte Aretusa, appunto, e la limitrofa consorella,
la fonte del Ciane, nella loro ipostasi mitica di ninfe fluviali. Il mio
impegno non era tuttavia approdato al benché minimo risultato,
giacché nessun elemento nella documentazione raccolta intorno alle
ninfe ricordate e alle fonti, di cui erano ritenute le divinità titolari e
tutelari, indicava che Quevedo avesse identificato in esse la sua “famosa fuente”.
Ho dovuto rivolgere dunque la mia attenzione ad altri ambiti, validamente orientato e sostenuto dalla cortesia di colleghi amici di eccezionale competenza quali Antonio Carlini e Valentina Nider, che
qui ringrazio. Ritengo ora che Quevedo abbia forgiato la prima quartina di T 27a pensando alla descrizione letteraria di aspetti della campagna siciliana, non limitrofi però alla città di Siracusa, bensì a quella di Agrigento: unʼipotesi probabile, anche se sprovvista di prove
perentorie, è che egli abbia tenuto presente lʼHistoria di Sicilia del
Padre Tomaso Fazello (1498-1570), pubblicata dapprima in versione
latina, quindi in successive traduzioni italiane7. Tuttavia, per quel che
6
H. ETTINGHAUSEN, «¿Turista conceptista? La irrealidad de la realidad en Quevedo», in La Perinola. Revista de investigación quevediana, Actas del Congreso Internacional “Quevedo, Lince de Italia y zahorí español”, 8, 2004, pp. 155-170, specialmente p. 160.
7
Le due deche dell’Historia di Sicilia, del R.P.M. Tomaso Fazello… tradotte dal
latino in lingua toscana da R. Fiorentino… e di nuovo in questa ultima editione riscontrate… dallʼAbbate D. Martino Lafarina, Palermo, Ciotti, 1618. Lʼedizione originale dellʼopera era intitolata De rebus siculis decades duo ed era stata pubblicata
nel 1558; la prima edizione della versione italiana di R. Fiorentino era uscita a Venezia nel 1574. Non ostante che lʼopera di Fazello non sia menzionata né nellʼÍndice… de
la Biblioteca del real i parroquial Monasterio de San Martín de Madrid, 1788 (punto
di riferimento per una plausibile ricostruzione del patrimonio librario posseduto o
frequentato da don Francisco), né nellʼarticolo di F.C.R. MALDONADO, «Algunos datos
sobre la composición y la dispersión de la biblioteca de Quevedo» (in Homenaje a
la memoria de D. Antonio Rodríguez Moñino. 1910-1970, Castalia, Madrid, 1975,
pp. 405-28), è assai probabile che Quevedo la conoscesse attraverso lʼabate siciliano Lafarina de Madrigal, del quale dice Tarsia che «tambien tuuo con Don Francisco tanta familiaridad en esta Corte, que muy frequentemente se visitauan los dos
Quevedo e le fonti siciliane
207
si riferisce in particolare alla fonte prescelta come primo exemplum,
egli ha fuso le proprietà di due fonti o corsi dʼacqua diversi, onde
ottenere una più icastica equivalenza metaforica fra il dato naturale e
la spietatezza della donna.
Fazello descrive in prima istanza una fonte bituminosa, la cui corrente e le cui rive sono perennemente “macchiate”, appunto, dal liquido oleoso; un fenomeno di cui per altro sottolinea lʼutilità per gli
abitanti delle terre confinanti:
Nel paese dʼAgrigento si troua un Lago, nel quale va a galla sempre
vn certo grasso, come olio di cui Plinio nel XXXV. Lib. al cap. XV parla a questa foggia: In vn Lago, chʼè nel paese dʼAgrigento si genera,
e va a galla vn grasso, ouero bitume liquido simile allʼolio, il qual
tien sempre macchiata lʼacqua. Gli habitatori ne raccolgono anco su
per le foglie delle canne prestissimamente, et se ne seruono per ardere nelle lucerne, come si fa dellʼolio, e anco lʼadoperano per medicar
la scabia degli animali8.
Lo storico nomina anche il luogo preciso dove si trova la fonte o
lago di cui si tratta («negli horti dʼAngelo Strazzante», che aveva
ricordato poco prima come “Medico eccellentissimo” di Agrigento),
anche se non dichiara di averla vista con i suoi occhi, preferendo
piuttosto appoggiarsi allʼautorità degli antichi.
para conferir sus estudios; como bien se conoce por la honorifica mencion, que del
hizo en la vida de Marco Bruto, cuya medalla de plata le auia dado entonces el Abad…»
(Vida de don Francisco de Quevedo y Villegas... escrita por el Abad Don Pablo Ant.
De Tarsia [1663], reproducción facsimilar cuidada por M. Prieto Santiago, prólogo
de F.B. Pedraza Jiménez, Cuenca, Universidad de Castilla-La Mancha, 1997, p. 78).
8
FAZELLO, Le due deche, cit., p. 122. Il passo corrispondente di Plinio recita così: «Gignitur et pingue [bitumen] et oleique liquoris in Sicilia Agragantino fonte,
inficiens rivum. Incolae id harundinum paniculis colligunt, citissime sic adhaerescens, utunturque eo ad lucernarum lumina olei vice, idem ad scabiam iumentorum». Cito dallʼedizione seguente: Gaio PLINIO SECONDO, Storia Naturale, V. Mineralogia e storia dell’arte. Libri 33-37, traduzione di A. Corso, R. Mugellesi, G. Rosati, “I
Millenni”, Torino, Einaudi, 1988, pp. 496-98. Nel commento al passo riportato e al
suo contesto viene spiegato come Plinio si riferisca a tre specie diverse di bitumen,
quello liquido (il petrolio), quello semisolido (il catrame) e quello solido (lʼasfalto).
Mi sembra evidente che nel nostro caso si tratti di catrame. Poco oltre il Padre
Fazello cita allo stesso proposito anche Solino, il quale ripete pressappoco quanto
detto da Plinio, nel passo che trascrivo: «in lacu Agrigentino oleum supernatat: hoc
pingue haeret harundinum comis de assiduo volutabro, e quarum capillamentis
legitur unguentum medicum contra armentarios morbos» (C. Iulii SOLINI, Collectanea rerum memorabilium. Iterum recensuit Th. Mommsen. Editio altera ex editione
anni MDCCCXCV. Berolini, apud Weidmannos, 1958, p. 52 (cap. 5, 22).
208
Alessandro Martinengo
Diverso è il caso dellʼaltra fonte limitrofa, di cui descrive la proprietà straordinaria (che doveva far colpo su Quevedo), appoggiandone lʼillustrazione con la sua testimonianza autoptica, corredata con
tanto di circostanze biografiche e di date:
Neʼ medesimi horti è vnʼaltro fonte, che getta sempre acqua, et è buona a bere, et esce dʼvna cauerna, la cui acqua in spatio di tempo
sʼindurisce, et diuenta marmo bianco. Io vidi lʼanno di nostra salute
1528, del mese dʼAprile vna pietra quiui generata dʼacqua, la quale
era appiccata a vn tegolo. Ma era talmente appiccata, che pareua vna
cosa medesima, tuttauia ei si conosceua lʼopera dellʼarte, et quella
della natura, la qual cosa parue marauigliosa a gli huomini di giudicio. Ma non minor marauiglia mi mise nellʼanimo vn vaso di pietra,
chʼera stato gran tempo nel fondo di detta fonte, il quale era coperto
intorno intorno da vna crosta di marmo, generatasi quiui dentro9.
La fusione delle proprietà delle due fonti operata da Quevedo e il
silenzio a proposito della valenza benefica, propria — secondo gli autori citati — di una di esse, ci pare rispondano, come accennato, ad una
evidente finalità espressiva. Al tono favoloso adottato da Fazello, che
non appare in contraddizione con la sottolineatura dellʼutilità economico-sociale di una delle acque, si contrappone, da parte del nostro
poeta, lʼattribuzione alla sua “famosa fuente” di caratteri di spietatezza
e crudeltà, consoni alla funzione di exemplum che essa assume. La
spietatezza e la crudeltá sono sottolineate in primo luogo dalla iterazione sinonimica del v.2 («moja y baña»), cifra simbolica di marmorea (è il caso di dirlo!) indifferenza; in secondo luogo, e soprattutto,
dallʼ efficacissima trovata di personificare lo sgomento dellʼamante
disprezzato nelle canne rivierasche: queste, non solo non assolvono
ad alcuna utilità sociale, ma vengono colte e fermate nel contrasto fra
una precedente, felice spensieratezza («ligera caña», v. 3) e lʼincubo di
una temuta punizione («vil rigor», v. 3; rigor è da intendersi, come suggerisce Autoridades, s.v., come “crueldad o exceso en el castigo”).
Anassarete
Passiamo alla seconda quartina di T 27a. Ovidio racconta (Met.
vv. 698-761) la storia di questa fanciulla, tanto rigida e crudele
verso il suo innamorato da indurlo ad impiccarsi — per la disperazio-
XIV,
9
FAZELLO, Le due deche, cit., p. 122.
Quevedo e le fonti siciliane
209
ne — allo stipite della porta da cui era stato ripetutamente allontanato.
Al passaggio del funerale, la ragazza si affaccia alla finestra, quasi
per curiosità, senza sospettare che un “deus ultor” già le stava alle
spalle, predisponendole, a guisa di contrappasso, unʼesemplare metamorfosi, così descritta con icastica efficacia:
deriguere oculi, calidusque e corpore sanguis
inducto pallore fugit, conataque retro
ferre pedes haesit, conata avertere vultus
hoc quoque non potuit, paulatimque occupat artus,
(vv. 754-58).
quod fuit in duro iam pridem corpore, saxum
Una punizione, appunto, tanto esemplare che ancora oggi, assicura Ovidio, si può contemplare, in un tempio di Salamina, lʼeffigie petrificata della ragazza, oggetto di culto sotto la designazione di «Venus Prospiciens» (vv. 759-61).
Già Sebastián de Covarrubias, dopo aver riassunto nel suo Tesoro10
la pietosa vicenda, si era richiamato, con dotta citazione, ai versi 86100 dellʼOde ad florem Gnidi di Garcilaso, in cui questi, ispirandosi
ugualmente ad Ovidio, aveva adottato un ricco lessico ʻmetamorficoʼ, di cui almeno in parte si ricorderà Quevedo: «los huessos se tornaron / más duros… / y en sí toda la carne convertieron»; «las entrañas eladas / tornaron poco a poco en piedra dura»; «hasta que finalmente,/ en duro mármol buelta y transformada…», ecc.11 E Quevedo
gli farà eco precisamente al v. 7 («conuertida fue en piedra») e, nella
quartina precedente, di cui si è detto, al v. 2 («en piedra torna»).
In sede critica, un parallelo fra Garcilaso e Quevedo a proposito
della tematica mitologica lʼaveva tracciato Álvarez Barrientos12, mettendo in relazione il sonetto XIII del primo (“A Daphne ya los braços
le crecían”) con il sonetto BL 537 del secondo (“Tras vos un alquimista
va corriendo”). Il parallelismo, a carattere contrastivo, lo ravvisava
lo studioso nellʼopposizione fra la prospettiva visiva propria del primo testo, orientata dal verbo vi, e quella narrativa (o, piuttosto, sarebbe forse da precisare, satirico-narrativa) orientata dal verbo dije. In
10
S. de COVARRUBIAS HOROZCO, Tesoro de la lengua castellana o española, edición integral e ilustrada de I. Arellano y R. Zafra, Madrid, Universidad de NavarraIberoamericana-Vervuert-RAE, 2006, p. 161, s.v. Anaxárate.
11
GARCILASO DE LA VEGA, Obras completas, edición de E.L. Rivers, Madrid,
Editorial Castalia, 1964, p. 49.
12
J. ÁLVAREZ BARRIENTOS, «Dafne y Apolo en un comentario de Garcilaso y
Quevedo», Revista de Literatura, 92 (1984), pp. 57-72, spec. pp. 67-68.
210
Alessandro Martinengo
questʼordine di idee, non sarà inutile annotare, ai fini del discorso
attuale, come Garcilaso avesse insistito anche qui su un lessico tipicamente metamorfico («los braços…/ en luengos ramos bueltos se mostravan;/ en verdes hojas vi que se tornavan / los cabellos…», vv.1-4);
mentre in Quevedo esso era meno presente, pur potendosi notare:
«vos os volvéis murciégalo» (v.3) e, nella prima redazione della poesia trascritta da Blecua come “texto de B”, «al punto en lauro convirtió las tetas» (v.13): soluzioni, entrambe, coerenti con il tono satiriconarrativo scelto da don Francisco. In quanto allʼimmagine garcilasiana (aggiungo io): «los blandos pies en tierra se hincavan», v.7, è
evidente la sua discendenza dallʼovidiano «conata retro / ferre pedes
haesit». Uno spunto, ancora una volta non ripreso da Quevedo.
Conclusione
Lʼexemplum tratto dalla mitica vicenda di Anassarete non è forse
tanto convincente e perentorio come ci si potrebbe aspettare, dal momento che Quevedo non sembra aver esplorato, a differenza di Garcilaso, per non dire di Ovidio, tutte le possibilità metaforiche e lessicali insite nella rappresentazione di un processo di metamorfosi.
Tuttavia, appare abbastanza energica lʼaffermazione secondo cui unʼintera nazione, la Spagna, avrebbe di che meditare su una punizione
simile a quella della fanciulla di Salamina (vv.7-8). In ogni caso, la
crudeltà della donna amata dal poeta supera ogni possibile intento di
equiparazione con umane creature (v.11) e travolge — manco a dirlo —
i termini di paragone più lessicalizzati (v.13). Lʼunica comparazione
in grado di esprimere in qualche modo lʼadynaton retorico cui aspira
la tensione espressiva del poeta è quella cui allude la prima quartina;
per questo egli ritorna al primo exemplum (v. 14) riconoscendo, al
chiudere il circolo, maggior virtù dimostrativa in un miracolo della
natura che non in qualsivoglia artificio retorico o poetico.
211
A RIONE
E IL DELFINO
(S OLEDADES , I, 1-21)
Giulia Poggi
Università di Pisa
Era del año la estación florida
en que el mentido robador de Europa
(media luna las armas de su frente,
y el sol todo los rayos de su pelo),
luciente honor del cielo
en campos de zafiro pace estrellas,
cuando el que ministrar podía la copa
a Júpiter mejor que al garzón de Ida,
náufrago y desdeñado, sobre ausente
lagrimosas de amor dulces querellas
da al mar, que condolido,
fue a las ondas, fue al viento
el mísero gemido
segundo de Arïón, dulce instrumento. (Soledades, I, 1-14).1
Oggetto di numerose analisi che, a partire dai commenti seicenteschi, ne hanno indagato lo spessore stilistico e mitologico, la luminosa
immagine zodiacale che apre la prima delle Soledades non ha certo
bisogno di commenti. In essa il poeta concentra tutto l’antefatto dell’azione di cui è protagonista colui che, «náufrago y desdeñado, sobre ausente» aveva al mare consegnato tutte le sue «lagrimosas de
amor dulces querellas». Su questo naufragio e sul suo significato politico ed esistenziale, già molto si è detto2: meno si è scandagliato sul suo
1
Cito dall’edizione dei Clásicos Castalia curata da Robert Jammes: Luis de GÓNSoledades, Madrid, 1994.
2
Ricordo soltanto, fra i numerosi contributi sull’argomento (per cui rimando all’esaustiva bibliografia contenuta nella cit. edizione di Robert Jammes), tre fra gli
approcci più significativi: l’excursus tematico di A. VILANOVA, «El peregrino de amor
en las Soledades de Góngora» in Estudios dedicados a Menéndez Pidal, Madrid, CSIC,
1951, III, pp. 421-460; la proposta di una fonte narrativa formulata da M.R. LIDA DE
MALKIEL, «El hilo narrativo de las Soledades» nel suo La tradición clásica en España, Barcelona, Ariel, 1961, pp. 349-359 e l’interpretazione a sfondo ideologico di Heinrich MERKL, «Góngoras Soledades. Ein politisches Gedicht? Mit einem Bericht sur
Forschung 1961-1987», Romanistisches Jahrbuch, 40 (1989), pp. 308-325.
GORA,
212
Giulia Poggi
strumento di riscatto, ossia il «piadoso miembro roto» che, portando
a riva il peregrino, lo fa rinascere a nuova vita.
Uno dei motivi di tale dimenticanza può risiedere nella difficoltà
che, già in questi versi d’esordio, presenta il testo gongorino, trasparente, nonostante l’accumulo di figure retoriche, fino all’enjambement
che lega il v.11 al 12 («lagrimosas de amor dulces querellas / da al
mar...»), meno comprensibile nei successivi. Gli esegeti seicenteschi,
leggendo condolido riferito al mare, danno del passo un’implicita
valutazione consecutiva. Così Pellicer:
Era el mes de Abril, quando vn joven gallardo [...] se quexava al mar
[...]. A cuyas dulces quexas enternecido el mar, y piadoso con sus gemidos, vsò con el forastero la fineza misma, que con Arion, pues le siruio vna tabla del nauio de Delfin, que sacò a la orilla al inauertido
mancebo, que se fio en el mar a mas ondas que ay arenas en Lybia, y
su vida a vn leño, a vn nauio.3
E Salcedo Coronel, dopo avere confermato la capacità di condolerse del mare («que habiéndole [el mar] escuchado compadecido»),
introduce un suo ulteriore elemento di partecipazione emotiva, in
quanto proprio in virtù della pietà provata per il mísero gemido avrebbe placato le sue acque:
Fue Ǖu miǕerable gemido [del peregrino] Ǖegundo inǕtrumento dulce
de Ariòn que quietò las ondas, y el viento.4
Nella sua parafrasi del poema pubblicata nel 1927, Alonso sembra
fondere il suggerimento di Salcedo Coronel con l’implicita indicazione di un movimento consecutivo data da Pellicer:
Pues en este tiempo, un mancebo [...] náufrago en medio del mar [...]
da dulces y lagrimosas querellas al mar, de tal suerte, que, condolido
el Océano, sirvió el mísero gemido del joven para aplacar el viento y
las ondas, casi como si el doloroso canto del mancebo hubiera repetido el prodigio de la dulce lira de Arión.5
3
José PELLICER DE SALAS Y TOVAR, Lecciones solemnes a las obras de don Luis de
Góngora y Argote, Madrid, a costa de Pedro Coello Mercader de Libros, 1630, ed.
facsímil, New York, George Olms Verlag, 1971, p. 365.
4
Soledades de don Luis de Gongora comentadas por don Garzia Salcedo Coronel, Madrid, Imprenta Real, 1636, p. 16.
5
Parafrasi che cito dalla ristampa del 1982: L. de GÓNGORA, Soledades, ed. D.
Alonso, Madrid, Alianza, pp. 109-110 (sottolineatura mia).
Arione e il delfino (Soledades, I, 1-21)
213
Più recentemente Robert Jammes, pur continuando ad attribuire
condolido al mare (e dunque a dare al participio passato un valore di
ablativo assoluto: «y habiéndole compadecido el Océano, su mísero
gemido aplacó las ondas y el viento»), nega al periodo un valore consecutivo preferendo interpretarlo come un anacoluto.6
Se poi diamo uno sguardo alle traduzioni moderne delle Soledades
(come quelle italiane di Greppi e von Prellwitz e quella francese di Jaccottet, tutte risalenti, per un curioso sincronismo, al 1984)7 ci accorgiamo che non sempre condolido è riferito al mare quanto piuttosto,
come nel caso di von Prellwitz e Jaccottet, al mísero gemido. Da notare,
inoltre, come solo Jaccottet tenti di riproporre il movimento consecutivo e l’andamento non franto della frase il cui soggetto è il peregrino:
lamenti e lacrime d’amore
affida al mare che con lui si dolse,
e il gemito pietoso
sull’onda fu e nel vento
un nuovo dolce strumento d’Arione.
(Greppi)
lacrimosi d’amore
gemiti dolci dà
al mare; fu per le onde, per il vento,
il misero lamento, compatito,
dolce di Arione secondo strumento.
(von Prellwitz)
en larmes de l’amour les douces plaintes
donne à la mer; tant qu’en pitié
fut par les ondes pris, fut par le vent
le malheureux soupir
seconde lyre douce d’Arion.
(Jaccottet)
Il brano, insomma, si presenta tutt’altro che facile dal punto di vista sintattico, anche se mi sembra ragionevole attribuire quel condolido non al mísero gemido del peregrino, ma al mare in cui egli è naufragato, e che a tal punto si mostra pietoso nei suoi confronti da offrirgli, tramite le sue stesse onde, un’ancora di salvezza:
6
Cfr. la parafrasi e il commento alla cit. edizione delle Soledades, pp. 200-201;
tuttavia non mi sembra che si possa parlare di anacoluto, né che questo brano sia
assimilabile a quello, invocato da Jammes come termine di paragone, di Soledades,
I, 215 e segg.
7
Cfr. L de GÓNGORA, Solitudini, trad .di Cesare Greppi, Parma, Guanda, 1984;
Le solitudini e altre poesie, trad. di Norbert von Prellwitz, Milano, BUR, 1984; Les
solitudes, trad. de Philippe Jaccottet, Genève, La Dogana, 1984.
214
Giulia Poggi
Del siempre en la montaña opuesto pino
al enemigo Noto
piadoso miembro roto,
breve tabla, delfín no fue pequeño
al inconsiderado peregrino
que a una Libia de ondas su camino,
fio y su vida a un leño.
(I, 15-21).
La scena, dunque, si svolge in due momenti intimamente consequenziali: un primo momento, in cui un non meglio identificato naufrago
si lamenta in modo tale da muovere a compassione il mare; e un secondo momento in cui, grazie alla pietà dello stesso mare, le onde e il
vento recepiscono il suo mísero gemido gettandogli una zattera improvvisata (ossia un pezzo della nave infranta) con cui egli possa raggiungere la riva. Fra il primo e il secondo momento quel verso («segundo de Arïón dulce instrumento») che ha la funzione di prolessi
dal punto di vista narrativo e costituisce, da quello lirico, un cultismo.
L’allusione al personaggio mitico di Arione, salvato dall’ intervento di
un delfino che, incantato dalla sua musica e dalla sua dolce voce, lo
sottrasse, nel corso di una navigazione, alla furia dei suoi compagni di
viaggio, trascina infatti con sé una serie di significati che vanno al di
là del semplice fattore diegetico, obbligando il lettore, non solo a fare
uno sforzo di cultura ricostruendo il mito in tutte le sue fasi, ma anche a ritagliarne la struttura archetipica sul protagonista del poema.
2. Chi era, dunque, Arione? E’ lo stesso Pellicer a ricordarcelo, anche se in maniera alquanto succinta:
Oyò las quexas [del peregrino] el mar, y piadoǕo con Ǖus femidos, Ǖerenò
Ǖu borraǕca, calmò el viento a Ǖu voz. Como a Arion, Lesbio, que nauegando de Tarento a Corinto con muchas riquezas, viendose acoǕado de
los pilotos, para darle la muerte, Ǖe Ǖocorrio de su citara, a cuyo Ǖon salieron algunos Delfines, y arrojandoǕe Ǖobre vno, Ǖalio a la ribera libre.8
Più esaurienti le notizie che, circa un decennio dopo, fornirà Salcedo Coronel:
EǕte [Arión] fue natural de Metimnia, ciudad de Lesbos: fue inǕigne
muǕico, y por eǕta cauǕa riquiǕimo. Nauegando de Italia a Corinto, los
Pilotos de la naue en que iua, aunados con los miǕmos de Ǖu familia,
8
PELLICER, Lecciones solemnes, cit., p. 367.
Arione e il delfino (Soledades, I, 1-21)
215
trataron codicioǕos de Ǖu dinero, arrojarle al mar: entendido por el, les
rogò le dexaǕǕen primero celebrar Ǖu muerte cantando; y auiendolo
conǕeguido, tomò la Lyra, y cantò con tanta dulçura, que concurrieron
a Ǖu voz muchos Delfines, y viendo que no podia ablandar los animos
endurecidos de sus homicidas, se arrojò al mar, y entonces recibiéndole un Delfin le lleuò sin daño a Tenaro, yendo el siempre cantando.9
Fig. 1. Alciato, Emblemata (1531)
Interprete del binomio canto/mare, imprescindibile per comprendere la poesia delle Soledades, Arione è anche l’espressione di un’incompatibilità morale attorno a cui si organizza il poema: quella fra
musica e cupidigia. Fu probabilmente questa potenzialità moraleggiante a determinare la rivisitazione del mito e la lettura in chiave
esemplare che ne diede, già a partire dal primo cinquecento, la letteratura emblematica. E ciò non tanto per il denso fascio di simboli legati a questo intelligente abitante del mare (che, intrecciato all’ancora,
diverrà il logos dello stampatore veneziano Aldo Manuzio), quanto soprattutto per la sua funzione salvifica nei confronti del celebre cantore. In effetti, nella prima edizione degli emblemi (Augsburg, 1531),
Alciato raffigura un delfino mentre trasporta sulla sua schiena ricurva
Arione che suona la lira, estrapolando solo la conclusione del racconto mitico.
Delphini insidens uada cerula sulcat Arion,
9
Soledades de don Luis de Gongora comentadas por Salcedo Coronel, cit., p. 16.
216
Giulia Poggi
Hocque aures mulcet, frenat et ora sono.
Quam sit auari hominis, non tam mens dira ferarum est,
Quique uiris rapimur, piscibus eripimur.
recita il lemma dell’emblema, laddove si mette l’accento sulla funzione di veicolo svolta dal delfino, le cui orecchie vengono deliziate
dal canto e la cui bocca viene trattenuta, frenata come quella di un
cavallo, dal morso metaforico della melodia10. E tuttavia l’immagine
del delfino che trasporta il cantore tornato in possesso della sua lira,
se ricalca un motivo ricorrente nell’iconografia classica («languida
non tacitum per freta vexit onus» dice dell’animale Marziale, puntualmente citato da Salcedo Coronel)11, non riesce a spiegare esaurientemente il motto dell’emblema ritagliato sugli avari («In avaros») e
sull’importanza di un aiuto offerto dagli estranei piuttosto che dai propri simili («vel quibus melior conditio ab extraneis offertur»). Estranei che, nel caso di Arione, sono i suoi compagni di viaggio, sensibili
alla musica solo per ragioni venali, e a tal punto condizionati dalla
cupidigia da gettarlo in mare (o, stando a quanto riferisce Erodoto in I,
23-24, indurlo a gettarsi in mare) insieme con la sua lira. Fatto, questo
ultimo, ampiamente illustrato nelle numerose edizioni degli Emblemata successive alla princeps, come quella di Lione del 154712, in cui
l’emblema non consiste più in uno schizzo stilizzato che fonde in
una unica immagine i tre elementi costitutivi del mito (Arione, la lira,
il delfino), ma in una sua narrazione dettagliata che assume le proporzione di un vero e proprio quadro. Un quadro in cui spicca l’immagine
di un galeone che veleggia sospinto dai venti in un mare procelloso:
al suo interno un uomo regola le vele, mentre altri due stanno gettando alle acque il celebre cantore già privato del suo strumento. Accanto ad esso, seminascosta dalle onde, la larga bocca di un delfino.
Questo il primo piano dell’immagine, forgiata secondo un tratteggio
semiverista in cui ad elementi descrittivi si sovrappone una grafica
manierista ricca di volute (le onde, i venti) e forme curvilinee (la sinuo10
V. Illustrazione n. I, corrispondente all’emblema 159 dell’Alciato (edizione
del 1531) riprodotto nella raccolta curata da A. HENKEL e A. SCHÖNE, Emblemata,
Handbuch zur sinnbildkunst des XVI und XVII Iahrhunderts, Stuttgart, J.B. Metzleusche Verlag, 1978, p. 1608.
11
Epigrammata, VIII, 51: la citazione di Salcedo Coronel si trova a p.16.
12
Cfr. l’illustrazione n. II, tratta da Clarissimi viri D. Andreae Alciati Emblematum libri duo, Lugduni, apud Tornaesium et Gulielmum Gazeium, 1547 (libro I, emblema XI, p. 13): la stessa immagine compare nell’edizione di Parigi del 1542.
Arione e il delfino (Soledades, I, 1-21)
217
Fig. 2. Alciato, Emblemata (1547)
sità del delfino e quella del galeone). Questa alternanza di tratti espressivi forti e al tempo stesso minuziosi fa in modo che il lettore-spettatore
ne abbracci il significato per gradi, accorgendosi solo in un secondo
tempo della figura che occupa, in dimensioni ridotte, il suo sfondo:
Arione cioè che, riconquistata la lira, naviga cantando, in direzione inversa a quella della nave, in groppa al suo salvatore su un mare sempre più quieto, verso un lido sempre più vicino. A una di queste immagini dovette ispirarsi Bernardino Daza Pinciano il quale, nella sua
versione castigliana dell’opera di Alciato (1549), rappresenta la vicenda di Arione in due tempi, incorniciandola da un titolo che suona come una resa fedele del motto latino («Contra los avarientos, o de los
que son mejor tratados de los estraños que de los suyos») e da un’ottava che parafrasa in maniera abbastanza libera il commento dell’originale13. Ma non è forse, questa narrazione in due tempi già presente in Alciato e poi ripresa dal Daza, la stessa che occupa le prime
13
Cfr. la III illustrazione, tratta da Los emblemas de Alciato traducidos en rhimas eǕpañolas. Añadidos de figuras y de nuevos emblemas (prefación de Bernardino Daza Pinciano sobre los Emblemas de Alciato traducidos por el mesmo a sus
amigos), Lyon, por Guillelmo Rovillio, 1549 ), modernamente ristampati nel volume:
ALCIATO, Emblemas, ed. M. Montero y M. Soria, Madrid, Editora Nacional, 1975.
218
Giulia Poggi
Fig. 3. Alciato, Emblemata (trad. de B.Daza Pinciano, 1549)
battute delle Soledades? Non sono forse, questi flutti sempre meno
tempestosi, la Libia de ondas, ossia la piatta distesa del mare cui il
peregrino, grazie al suo mísero gemido, affida la sua salvezza? La
stretta correlazione tra il placarsi dei flutti (i «languida freta» di
Marziale) e il canto di Arione (il «non tacitum onus», ancora di Marziale) che gli emblemi successivi alla princeps sottolineano nella loro
ravvicinata rappresentazione delle varie fasi del mito è anche quella
che emerge dalla concentrata sintassi gongorina: impietosito dal pianto (anziché dal canto: ma il binomio, di origine petrarchista, ha una
L’emblema in questione a p. 62. Sul ruolo svolto dal Daza nella diffusione della
letteratura emblematica in Spagna non si può non rimandare alle pagine della studiosa cui è dedicato questo volume: G. LEDDA, Contributo alla storia della letteratura emblematica in Spagna (1549-1613), Pisa, Università di Pisa, 1970 (in particolare il I cap.).
Arione e il delfino (Soledades, I, 1-21)
219
funzione intercambiabile) il mare fornisce al peregrino una breve tabla simile al delfino («delfín no fue pequeño») che aveva salvato
Arione. In un caso e nell’altro la salvazione passa attraverso elementi di un paesaggio marino: in un caso e nell’altro è il canto (o, che è
lo stesso, il pianto) a commuoverli e ad animarli.
Fig. 4. Francisci Sancti Brocensi, Comentarium in Alciati Emblemata (1573)
3. Già accolti, anche se con qualche tendenza all’approssimazione
grafica, dal Daza, i tratti narrativi della vicenda di Arione sarebbero
stati ripresi, nel suo eruditissimo commento, dal Brocense. Fedele, da
bravo umanista, al testo latino degli Emblemata, il Brocense conferma, con qualche variante di poco conto, la raffigurazione in due tempi
del mito)14 e rappresenta Arione nell’atto di essere gettato in mare dai
suoi compagni di viaggio. Ma, a differenza del Daza che raffigurava
14
Cfr. la IV illustrazione tratta da Francisci Sanctii Brocensis Comentarium in
And. Alciati Emblemata, Lugduni, apud Gul. Rovillium, 1573 (emblema LXXXIX,
pp. 276-279).
220
Giulia Poggi
un Arione vestito, egli ne ripristina la nudità. Ne vien fuori un quadro
in cui, come già nella versione dell’Alciato del 1547 (anche se con una
diversa torsione), il corpo muscoloso del cantore, capovolto sulla
fiancata della nave, balza in primo piano. Particolare, quest’ultimo, che
contraddice in parte la ricostruzione letteraria che del racconto mitico fa, ripercorrendo diverse tipologie di fonti, l’umanista spagnolo.
Presente, oltre che in Erodoto, in Gellio e in Plutarco, la storia di
Arione salvato da un delfino ispira due epigrammi dell’Antologia Palatina: il primo, di Bianor il Grammatico, mette a confronto la ferocia
degli uomini con la filantropia dei pesci («Nos pisces servant, interimunt homines» recita nella traduzione latina del Brocense il suo ultimo verso, assai simile all’ultimo di Alciato: «Quique viris rapimur,
piscibus eripimur»); il secondo, di Filippo di Tessalonica, esalta, tramite la raffigurazione di un usignolo che un delfino salva da una
tempesta, la sensibilità musicale di quest’ultimo15. Fonti storiche ed
epigrammatiche dunque, che il Brocense integra con una serie di riferimenti naturalistici (come la descrizione del delfino compresa nella
Naturalis historia di Plinio16 e la sua trasformazione in segno celeste
presente in Arato e in Hygino) e, soprattutto, con un lungo brano tratto
dal secondo libro (vv.76-118) dei Fasti di Ovidio («Sed cur non apponamus Ovidii carmina ex 2 Fastorum ipsa venustate vrenustiora?»
egli si chiede).
Inscritto in una sorta di catasterismo circolare che vede esaltare le
costellazioni della Lira e del Delfino («Vbi est hodie quae Lyra fulsit
heri /…/ quem modo caelatum stellis Delphini uidebas / in liquida subito mersa notabis aquas» vv.76-81) per poi dare una spiegazione
15
Il primo, erroneamente indicato dal Brocense come “Il citaredo” (titolo, in realtà, dell’epigramma 277 di Paolo Silenziario) corrisponde al n. 276 dell’Antologia Planudea, volume che raccoglie epigrammi di tipo descrittivo (cfr. Anthologie grecque.
Deuxième partie. Anthologie de Planude, tome XIII, texte établi et traduit par R. Aubreton avec le concours de F. Buffiere, Paris, Les Belles Lettres, 1983, p. 184); il secondo al n. 88 del libro IX dell’Antologia Palatina (Anthologie grecque. Première partie, tome VII, Anthologie Palatine, tome VII, livre IX, texte établi par P. Waltz, traduit
par G. Soury, Paris, Les Belles Lettres, 1957, pp. 35-36; nello stesso volume, che
raccoglie epigrammi di tipo dimostrativo, è possibile leggere, a p. 123, il n. 308, in
cui ancora Bianor il Grammatico commenta la vicenda di Arione salvato dal delfino.
Sul rapporto fra letteratura epigrammatica ed emblemi cfr. S. LÓPEZ POZA, «El epigrama en la literatura emblemática española», in Analecta malacitana, 22:1 (1999),
pp. 27-55.
16
Cfr. IX, 7-9, in cui si pone l’accento, oltre che sulla velocità del cetaceo, sul
suono “umano” emesso dalla sua lingua («pro voce gemitus humano similis») e sulla
sua capacità di essere amico degli uomini e delle loro arti musicali e canore.
Arione e il delfino (Soledades, I, 1-21)
221
della loro origine («Di pia facta uident: astris delphimna recepit / Iuppiter et stellas iussit haber nouem», vv.117-118), il brano ripropone
in veste poetica le fasi del racconto mitico già narrate da Erodoto.
Dopo una prima allusione alla fama che, simile a quella di Orfeo,
Arione si era procurata con il suo canto («Quod mare non novit,
quae nescit Ariona tellus?», vv.83-94), Ovidio passa a narrare del periglioso viaggio che egli, tornando dalla Sicilia in patria, intraprese
con i suoi malfidati compagni. Passaggio che egli marca con un improvviso cambiamento di tonalità apostrofando, secondo una sua sperimentata tecnica di patetizzazione, lo stesso protagonista del mito:
Forsitan, infelix, uentos undasque timebas:
At tibi naue tua tutius aequor erat.
(vv. 97-98).
Segue, come terza e ultima fase (vv.99-116), la descrizione dell’assalto («Quid tibi cum gladio?» domanda il poeta volgendo, questa volta, la sua patetica domanda al timoniere), la richiesta da parte
del condannato di dare sfogo al suo ultimo desiderio («…Mortem non
de-precor, inquit / Sed liceat sumpta pauca referre lyra»), la descrizione della sua vestizione da poeta con tanto di corona d’alloro e
mantello rosso («…capit ille coronam / que possit crines, Phoebe, decere tuos./ Induerat Tyrio bis tinctam murice pallam»), il suo improvviso balzo fra le onde così vestito e, infine, l’incredibile («fide
maius») intervento del delfino salvatore:
Protinus in medias ornatus desilit undas;
Spargitur impulsa caerula puppis aqua.
Inde - fide maius - tergo delphina recuruo
Se memorant oneri supposuisse nouo.
Ille sedens citharamque tenens pretiumque vehendi
Cantat et aequoreas carmine mulcet aquas. (vv. 99-116).
Se negli ultimi due versi del lemma di Alciato risuonava la sentenza di Bianor («Nos pisces servant, interimunt homines»), nei primi
(«Delphini insidens uada cerula sulcat Arion / Hocque aures mulcet
frenat et ora sono») non può non cogliersi perlomeno un’eco della vivida descrizione ovidiana. Non solo ma, rispetto alla tradizione che
dagli epigrammi correva fino agli emblemi, in Ovidio c’è qualcosa di
più: c’è la dimensione di un mare che avvolge Arione (e infatti è egli
stesso a gettarvisi, e non ad esservi gettato) e che Arione placa («aequoreas mulcet aquas») con il suo canto. Una simile dimensione può
222
Giulia Poggi
cogliersi anche dietro le prime battute delle Soledades le quali, fra
l’altro, ripropongono la stessa coppia di elementi naturali («fue a las
ondas, fue al viento») invocati da Ovidio come controparte della crudeltà umana («Forsitan, infelix, uentos undasque timebas:/ At tibi naue
tua tutius aequor erat»). Insomma: se l’Arione epigrammatico ed emblematico può leggersi dietro l’antefatto delle Soledades, quello ovidiano è responsabile degli accenti più accorati con cui si presenta il
suo protagonista, confortato, contro la ferocia dei suoi simili, dagli
elementi solo apparentemente feroci del mare («de más cruel ingenio
está dotado / un avariento que una fiera fuerte» dice Daza, parafrasando l’Alciato). Un mare umanizzato, in ultima istanza, tanto che saremmo tentati, contro ogni evidenza ecdotica, di emendare in un duplice fio (o, forse, dio?) il duplice fue del v.12. Ciò che, se da un lato
servirebbe a semplificare una sintassi contorta e concentrata, dall’altro
renderebbe eccessivamente facile l’accesso a un poema, fondato, per
espressa volontà del suo autore, sull’estetica della difficoltà.
4. Se la fitta trama intertestuale che sta dietro all’episodio di Arione non serve a definire una volta per tutte la lettera di un passo controverso delle Soledades, serve però a far luce sulla trama culturale
in cui è immerso il suo protagonista. La figura di Arione, infatti, così
come viene trasmessa dalla tradizione emblematica e ricostruita dall’ampio commento del Brocense, convoglia una serie di tratti che, se
adattati all’inconsiderado peregrino, aiutano a ricavarne l’identità.
Tratti narrativi, in primo luogo, in cui la linea erodotea-ovidiana (Arione si tuffa, vestito, nelle onde, per scampare alla furia degli uomini)17, si intreccia con quella emblematica (quasi sempre privato dei
suoi vestiti, il cantore viene gettato in mare dai suoi assalitori)18; tratti
17
Erodoto (I, 24) descrive dettagliatamente la successione dei gesti con cui Arione, dopo avere ottenuto di potere esprimere il suo ultimo canto (un inno liturgico), indossa la veste di cantore secondo la consuetudine del tempo (testimoniata
anche da Platone e resa visibile dalla statua di Apollo Musagete) che voleva i cantori abbigliati vistosamente.
18
Pur sostanzialmente omogenea nel soggetto rappresentato in due tempi (i marinai che gettano Arioneai flutti in primo piano e, sullo sfondo, Arione che, riconquistata la sua lira, canta in groppa al delfino), la tradizione figurativa dell’emblema
“In avaros”, successiva all’edizione del 1531, contempla infatti due linee. Nella prima, che potremmo definire umanistica (linea accolta, prima ancora che dal Brocense, da Giovanni Marquale, che per primo tradusse, nel 1549, Alciato in italiano),
Arione è nudo; nella seconda, caratterizzata da un tratto meno ricercato, è vestito. A
questa seconda linea, che prosegue fino al secolo successivo (la si ritrova per esempio nell’edizione latina degli Emblemata stampata a Padova nel 1621), si ispira il
Arione e il delfino (Soledades, I, 1-21)
223
sentenziosi che investono, come dimostra la stretta connessione fra
epigramma ed emblema, la sfera del giudizio e della morale; tratti
elegiaci infine, insiti nella stessa attività svolta da Arione, il cui canto,
disprezzato dagli uomini, viene recepito, come sottolinea la patetica
rielaborazione ovidiana, dagli elementi della natura. Se sovrapponiamo questi tratti a quelli, ignoti, dell’inconsiderado peregrino ne verrà
fuori la figura di un poeta (forse il poeta stesso) che, non capito dai
propri simili (ovvero dai suoi contemporanei), ha scelto spontaneamente la via del naufragio. E che sulle orme dell’Arione vestito di
Erodoto e di Ovidio si modelli il naufrago delle Soledades lo dimostrano i versi che, immediatamente seguenti a quelli della sua salvazione («Desnudo el joven, cuanto ya el vestido / Oceano ha bebido /
restituir le hace a las arenas /...» I, 34-41), farebbero pensare non solo a
un protagonista in fuga dal mondo, ma anche a un mare simbolico,
strumento di perdizione e, al tempo stesso, di riscatto.
Quest’ambiguità che avvolge, complici le molteplici fila che si
intrecciano nel mito di Arione, il protagonista delle Soledades appare
con particolare evidenza se leggiamo il brano di esordio della prima
in relazione al métrico llanto che egli scioglie poco dopo l’inizio
della seconda (vv.116-171). Si tratta, come è già stato notato19, di un accorato lamento attraverso cui il peregrino ripercorre le tappe del suo
naufragio e della sua salvazione amplificando tutti quegli accenti (il
desengaño, il desiderio di morte, la separazione dal mondo) già insiti
nel suo mísero gemido. Un’espressione di intenso dolore, in cui la
voluptas dolendi petrarchista si confonde con l’immagine, ancora una
volta debitrice degli epigrammatisti greci, del mare confidente:20
Daza. Per un confronto dettagliato fra queste immagini rimando ai due volumi del
repertorio curato da P.M. Daly assisted by S. Cuttler (I) e P. M. Daly with V.W. Callahan assisted by S. Cuttle (II): Andreas Alciatus Index Emblematicus, University of
Toronto Press, Toronto, Buffalo, London, 1985.
19
Per un’attenta analisi del métrico llanto e una sua contestualizzazione rispetto
all’intero poema, cfr. J. ROSES, «Pasos, voces, oídos. El peregrino y el mar en las Soledades (II, vv.112-89)», in Da Góngora a Góngora, a cura di G. Poggi, Pisa, Ets, 1997,
pp. 181-195.
20
Frequente nell’Antologia Palatina è ad esempio l’immagine del mare “moderatore”, così come viene commentata da Andrea Pulega nel volume Da Argo alla nave
d’amore: contributo alla storia di una metafora, Firenze, La Nuova Italia, 1989 (p.
43). Portatore di medietas, il mare degli epigrammi è anche il luogo dove, come
sottolinea Andrea Pulega (pp. 123-129), si consuma un «rito perenne di morte e di
vita». A questo mare sepolcrale, presente, oltre che in tanti sonetti funebri gongorini,
in vari luoghi delle Soledades, si ispira la seconda parte del métrico llanto in cui il
peregrino rievoca il suo desiderio di morte passato («Esta pues culpa mía / el timón
224
Giulia Poggi
Si de aire articulado
no son dolientes lágrimas süaves
estas mis quejas graves,
voces del sangre y sangre son del alma.
Fíelas de tu calma,
¡oh mar! quien otra vez las ha fiado
de tu fortuna aun más que de su hado.
¡Oh mar, oh tú, supremo
moderador piadoso de mis daños!,
tuyos serán mis años,
en tabla redimidos poco fuerte
de la bebida muerte,
que ser quiso, en aquel peligro extremo,
ella el forzado y su guadaña el remo. (II, 116-129).
La riproposizione del binomio naufragio/salvazione non può non
rimandare al quadro in due tempi che assimilava, all’inizio del poema,
Arione al peregrino, e le cui sequenze vengono ora rivissute nell’ invocazione attraverso cui egli affida nuovamente le sue lacrime al mare
(«Fíelas de tu calma / ¡oh mar!, quien otra vez las ha fiado / de tu fortuna aun más que de tu hado»), contrapponendo un passato burrascoso (ed è nel senso di “burrasca”, “fortunale” che va intesa la fortuna
del v.122) a un futuro sereno. Una dialettica, questa fra perfetto e futuro, che regge tutto il métrico llanto, la cui progressione rispecchia
fedelmente le fasi alternanti di un cammino già narrato in terza persona nella prima Soledad e che ora, filtrato dalla soggettiva esperienza del peregrino, mostra tutta la sua esemplarità, tanto da sfociare
nell’invocazione di un nuovo naufragio («Naufragio ya segundo,/ o
filos pongan de homicida hierro / fin duro a mi destierro/...: vv.157159). Non dovrà dunque stupire che il peregrino si rivolga al mare
insistentemente («/ ¡oh mar!.../…/ oh mar, oh tú, supremo,/ moderador
piadoso de mis daños /…»), connotandolo dello stesso aggettivo (piadoso) già attribuito alla sua ancora di salvezza (il piadoso miembro
roto di I, 17), né che il mare sia in grado di corrispondere ai suoi
lamenti («No es sordo el mar / la erudición engaña», riprende a dire il
poeta al v.172), così come, ad apertura di poema, era stato in grado
alternar menos seguro / y el báculo más duro / un lustro ha hecho a mi dudosa mano
/ solicitando en vano / las alas sepultar de mi osadía / donde el Sol nace o donde
muere el día» (vv.144-150) in relazione a una fine che egli si augura imminente:
«.../ tan generosa fe,/ no fácil onda / no poca tierra esconda:/ urna suya el Océano
profundo / y obeliscos los montes sean del mundo» (vv.158-164).
Arione e il delfino (Soledades, I, 1-21)
225
di compatirli, di condolerse, appunto, con essi:
Espongïoso pues se bebió y mudo
el lacrimoso reconocimiento,
de cuyos dulces números no poca
concentüosa suma,
en los dos giros de invisible pluma
que fingen sus dos alas hurtó el viento. (II, 179-184).
Ancora presente ai vv.126-128 («tuyos serán mis años / en tablas
redimidos poco fuerte / de la bebida muerte»), il ricordo di Arione
sembra avere esaurito la sua funzione semantica in questi versi che
sanciscono la compenetrazione fra elementi naturali e voce umana,
come se ormai il peregrino e il paesaggio marino da cui egli era scaturito costituissero un tutto indivisibile.
5. Vittima di un naufragio voluto dagli uomini, il peregrino delle
Soledades è dunque, come Arione, il protagonista di un triangolo mitico che vede gli altri due vertici occupati da elementi marittimi (il
delfino, il piadoso miembro roto) e musicali (la lira, il mísero gemido).
Un triangolo che Góngora riscrive intrecciando elementi moraleggianti propri della tradizione figurativa con altri, elegiaci, della linea
erodotea-ovidiana. E tuttavia in questa ricostruzione composita del
mito, Góngora tace un elemento che, presente in tutte le sue versioni,
costituisce parte fondante di esso: la cupidigia. Il movente della cupidigia (l’avarizia degli emblemi) che spinge i compagni di viaggio
di Arione ad assalirlo per derubarlo dei guadagni ottenuti con la sua
lira non è da sottovalutare. Né è da sottovalutare il motivo del compenso simbolico (il pretium vehendi con cui, in Ovidio, viene definito il canto di Arione; il “salario canoro” con cui, nell’epigramma di
Filippo Tessalonicense, l’usignolo ripaga il cetaceo)21, implicitamente
contrapposto a quello del saccheggio e della rapina. A differenza della
sua controfigura mitica, il peregrino delle Soledades non è derubato
da nessuno, né deve compensare nessuno. Egli non ha ricchezze, essendo, la sua unica ricchezza, la poesia; non ha storia, essendo la sua
una storia, come emerge dai tre aggettivi che lo designano (náufrago,
21
«Tandis que le plus sûr des rameurs assurait mon passage, je charmais à mon
tour ce matelot sans aviron par le cithare de mon gosier. Les dauphins ont toujours
mené les Muses à bon port, sans attendre de salaire» recita, in traduzione francese,
l’usignolo dell’epigramma 88 di Filippo Tessalonicense (cfr. Anthologie Palatine, IX,
cit., p. 36).
226
Giulia Poggi
desdeñado, ausente), legata a un tema archetipico di rifiuto, emarginazione e privazione. I suoi stessi, dolenti accenti, pur imbevuti di
reminiscenze liriche, prescindono da una situazione lirica definita, né è
dato sapere su quale nave — politica, amorosa o semplicemente esistenziale — egli abbia consumato il suo naufragio.
Eppure, anche se nato da una preistoria di cui si sono perse le
tracce (ma non, però, le risonanze culturali) egli, non diversamente da
Arione, segna la differenza fra due diverse modalità di scambio: quella, inventata dagli uomini, veicolata dal denaro e quella, per così dire,
“naturale”, in cui non esiste una quantificazione del dare e dell’avere,
specie per prestazioni che, come la musica e il canto (le due componenti della poesia), non hanno prezzo. Per questo egli non può che
affidarsi al mare, quello stesso mare che, piadoso e comprensivo con
i suoi amorosi lamenti, sa essere feroce e distruttivo se solcato, come
dimostra la lunga invettiva contro le navigazioni pronunciata dal político serrano (I, 366-502), dalla codicia. Precisamente sulla contrapposizione fra una poesia portatrice di salvezza e una codicia foriera
di morte si costruisce, al di là del tenue filo narrativo che le percorre,
la trama archetipica delle Soledades. Una trama che già, nelle prime
battute del poema, Arione, e il suo delfino, avevano annunciato.
227
LE
AVVENTURE DI UN ʻ PICARO ʼ BOLOGNESE DEL
TARDO ʻ500, FRA IL L AZARILLO E LA S TORIA VERA .
I L B ARTOLINO DI P OMPEO V IZANI
Maurizio Masala
Università di Cagliari
La traduzione del Lazarillo de Tormes scritta e pubblicata da Barezzo Barezzi nel 1622 è di solito considerata la prima data alle stampe in Italia1; ma già da un quarto di secolo tale capolavoro della narrativa spagnola aveva subito un rimaneggiamento (ai limiti del plagio) in lingua italiana. Nel 1597 era stato infatti pubblicato a Bologna,
«presso gli heredi di Gio. Rossi», e a Verona, presso Bartolamio Merlo, un libretto di un centinaio di pagine, in piccolo formato, titolato
Le disgratie di Bartolino opera di sere Scioperone Bergolo, nella
quale, in persona di un solenne bevitore, si dimostra, che gli huomini codardi, e sciocchi, oltre che di tutte le negligenze loro incolpano
la fortuna vanno anco spesso fantasticando cose impossibili...
Credo che questa sorta di ʻplagioʼ del Lazarillo possa meritare, nellʼambito degli studi relativi alle relazioni letterarie italo-iberiche e
alla diffusione europea della narrativa picaresca, unʼattenzione maggiore di quella fin qui accordatagli.
Lʼopera non si presenta come una traduzione, ma un primo indizio
della dipendenza dal Lazarillo può essere rintracciato già nel proemio; il topos del valore di ogni libro, «perché oltra che un savio dice,
non trovasi libro veruno così cattivo, che in sé non contenga qualcosa di buono...», richiama — omissione della fonte a parte — il medesi1
Il Picariglio Castigliano. Cioè la vita di Lazariglio di Tormes Nell’accademia
Picaresca lo Ingegnoso Sfortunato, Composta et hora accresciuta dallo stesso Lazariglio, et trasportata dalla Spagnuola nell’Italiana favella da Barezzo Barezzi [...]
In Venetia, Presso il Barezzi. MDCXXII. Si vedano almeno E. ARAGONE, «Barezzo
Barezzi stampatore e ispanista del Seicento» in Rivista di Letterature moderne e
comparate, 14:4 (dic.1961), pp. 284-312; E. CROS, Protée et le Gueux. Recherches sur
les origines et la nature du récit picaresque dans Guzmán de Alfarache, Paris, Didier,
1967, in particolare il cap. III; B. BASILE, «Il “Lazarillo de Tormes” di Barezzi», in Il
tempo e le forme. Studi letterari da Dante a Gadda, Modena, Mucchi,1990; M.
MASALA, Il Picariglio castigliano di Barezzo Barezzi. Una versione seicentesca del
Lazarillo de Tormes, Roma, Bulzoni, 2004.
228
Maurizio Masala
mo riferimento nel Prólogo del testo spagnolo: «Y a este propósito dice
Plinio que no hay libro, por malo que sea, que no tenga alguna cosa
buena»2; la lettura dellʼincipit è in ogni caso sufficiente a fugare ogni
dubbio:
Parmi di non potere, come vorrei, chiaramente raccontare tutte le mie
sciagure, se prima dʼognʼaltra cosa non si fa palese onde venga la mia
progenie; e però voglio, che ad ogni persona di qualsivoglia conditione, o stato, sia noto, e manifesto chʼio mi chiamo Bartolino dalla
Zena, figliuolo di Ventura Mattarello, e della zia Luchina Badarella,
del commune di Granarolo, Contado di Bologna, e nacqui nel canale
della Zena, onde ne trassi il cognome , e fu il mio nascimento in tal
maniera.
Mio padre (buona memoria) haveva carico dʼaprire, e serrare, aʼ suoi
tempi, una certa chiusa, o riparo, che posto a traverso di quel canale,
manda per una gora lʼacqua ad un Molino, nel quale fu Mognaio più
di quindici anni; e avvenne che trovandosi una notte sopra quella
chiusa mia madre gravida, gli sopravvennero i dolori del parto, e in
quel luogo appunto mi partorì; di modo, che con buona ragione posso
dire dʼesser nato nel canale (p. 1).
Pues sepa V. M. ante todas cosas que a mí llaman Lázaro de Tormes, hijo de Thomé Gonçales y de Antona Pérez, naturales de Tejares,
aldea de Salamanca. Mi nacimiento fue dentro del río Tormes, por
la qual causa tomé el sobrenombre, y fue desta manera: mi padre,
que Dios perdone, tenía cargo de proveer una molienda de una hazeña que está ribera de aquel río, en la qual fuse molinero más de
quinze años; y, estando mi madre una noche en la hazeña, preñada
de mí, tomóle el parto y parióme allí. De manera que con verdad me
puedo dezir nacido en el río. (Laz. pp.109-110)
Si può notare, certamente, la mancanza del riferimento a «vuestra
merced», il nobile protettore a cui Lázaro invia la sua carta; lʼautore
del rimaneggiamento rinuncia al legame fittizio con un destinatario
2
La Vida de Lazarillo de Tormes y de sus fortunas y adversidades a cura di A.
Ruffinatto, Madrid, Castalia, 2001, p. 105: dʼora in avanti indicato con Laz. e il numero di pagina. Le citazioni del Bartolino sono ricavate da unʼedizione bolognese, per il
Cocchi, s.d. ma presumibilmente tardo-cinquecentesca o seicentesca a cui dʼora in
avanti farò riferimento con il solo numero di pagina (lʼesemplare da me consultato è
conservato presso la Bibliothèque nationale de France di Parigi e consta di 116 pagine, in 12°). Ho adeguato gli accenti e le maiuscole allʼuso moderno e sono intervenuto sulla punteggiatura laddove lʼho ritenuto opportuno per esigenze di chiarezza e
di più facile lettura.
Le avventure di un ‘picaro’ bolognese del tardo ‘500
229
specifico. Tale rinuncia è legata, a mio parere, ad un mutato statuto
di genere del racconto. Lʼesigenza di giustificare lʼistanza narrativa, di
spiegare perché un protagonista umile ambisca a prendere la penna
in mano per raccontarsi in prima persona (tale la funzione del legame
epistolare fittizio nel Lazarillo), è nel Bartolino fortemente indebolita.
Il libro, dato in luce sotto pseudonimo e dimesso fin nella forma editoriale, è immediatamente identificabile in quanto oggetto di una fruizione in larga misura disimpegnata. Così si chiude il proemio:
potrete così leggendo passare alcuna hora del giorno senza molto rincrescimento, e noia, sì come anchʼio cerco di fare, scrivendo cose di
poco rilievo nellʼhore fastidiose di questi giorni canicolari.
Il narratore del Lazarillo, al contrario, mostra di attribuire alle sue
vicende valore esemplare e chiude il suo prólogo affermando di voler scrivere
...también porque consideren los que heredaron nobles estados quán
poco se les deve, pues fortuna fue con ellos parcial, y quánto más
hizieron los que, siendoles contraria, con fuerça y maña remando salieron a buen puerto. (Laz. p.108)
Prima ancora che si legga il proemio, il titolo: Le disgratie di Bartolino opera di sere Scioperone Bergolo... annuncia esplicitamente (al
contrario di quanto avviene nel Lazarillo) che le figure dellʼautore e
del protagonista non coincidono; quando poi iniziamo a leggere il racconto, e ci troviamo di fronte ad un narratore che scrive in prima persona, sappiamo già di trovarci di fronte ad una autobiografia fittizia:
non sappiamo chi sia lʼautore, chi si nasconda dietro lo pseudonimo,
ma sappiamo chi non è: non è Bartolino. Si può inoltre notare che il
titolo, nel presentare i contenuti dellʼopera, dichiara «che gli huomini codardi, e sciocchi [...] di tutte le negligenze loro incolpano la fortuna», con un abbastanza evidente rovesciamento parodico rispetto alla fonte non citata.
Inoltre lo pseudonimo scelto dallʼautore, Scioperone Bergolo, funziona — mi pare — come fortissimo ed immediato segnale della volontà
di collocare lʼopera allʼinterno del filone comico della letteratura ʻpopolareʼ e di facile consumo; segnale coerente con la veste tipografica
del volume e rafforzato dal fatto che il libro sia pubblicato «ad instanza di Giulio Ces. dalla Croce» noto ed indiscusso maestro del genere.
230
Maurizio Masala
Autore del Bartolino è in realtà Pompeo Vizzani (1540-1607), aristocratico bolognese, storico della città e volgarizzatore di Apuleio.
La scelta di far pubblicare lʼopera sotto pseudonimo e «ad instanza di
Giulio Ces. dalla Croce» ha favorito nel tempo una certa confusione
nellʼattribuzione della paternità del testo. Diverse stampe seicentesche
titolano infatti Le Disgratie [ma talvolta disgrazie] di Bartolino [...] di
Giulio Cesare Croce... Giovanni Fantuzzi nelle sue Notizie degli scrittori bolognesi 3 attribuiva correttamente lʼopera al Vizzani, ma solo la
ʻriscopertaʼ nei primi anni novanta, nellʼambito di una ricerca sulla
memorialistica bolognese, del manoscritto B 164 della Biblioteca dellʼArchiginnasio di Bologna, autografo del Vizzani e contenente anche
una redazione del Bartolino, ha consentito di fugare ogni dubbio.4
È difficile — almeno allo stato attuale delle mie ricerche — valutare
la diffusione dellʼopera; sicuramente il testo ha avuto lunga vita; nel
catalogo della British library figurano due edizioni seicentesche, presso Bortolamio Merlo, Verona (probabilmente 1620) e presso «glʼheredi
del Cochi», Bologna 1630; ancora nel 1710 Pissarri lo ristampava a Bologna. Si tenga presente inoltre — nel quadro della ricezione del testo
e quindi, indirettamente, del Lazarillo — lʼopera in dialetto bolognese
L’ disgrazi d’ Bartuldein della Zena, del librettista e musicista Giuseppe Maria Buini (Bologna 1680-Alessandria 1739), stampata a Bologna da Pissarri (senza data ma con imprimatur datato 1736) e riproposta dallʼeditore Chierici nel 1840.5
Fino ad ora ho potuto consultare solo unʼedizione che sembra presentare alcune discrepanze rispetto al testo a cui Camporesi ha fatto
riferimento nei suoi studi6; ritengo tuttavia utile proporre alcune riflessioni preliminari a una ricerca fondata su un più accurato spoglio bi3
In Bologna: nella Stamperia di San Tommaso d'Aquino, 1781-1794.
Si vedano Cinzia CALZONI, «Sui testi della memorialistica bolognese: la Vita
di Vizzani», e Luisa AVELLINI, «Giulio Cesare Croce fra Le belle contrade e lʼInghilterra», ambedue in Schede umanistiche, n.s. 1992, I.1, rispettivamente alle pp.
95-98 e 186-191. Brevi riferimenti alle Disgratie di Bartolino sono inoltre presenti
in diversi lavori di Piero CAMPORESI: Il paese della fame, Il Mulino, Bologna 1978,
pp. 19-21; La maschera di Bertoldo, Garzanti, Milano, 1993, p. 44; Giulio Cesare
CROCE, Le astuzie di Bertoldo e le semplicita di Bertoldino; seguite dai Dialoghi
salomonici, a cura di Piero Camporesi, Garzanti, Milano, 1993, pp. 184-186 in nota.
5
Lʼopera è stata ripubblicata recentemente da Santarini, Bologna, 1992.
6
Camporesi utilizza infatti la prima edizione, Bologna, «presso gli heredi di
Gio. Rossi», 1597. Le difformità che ho potuto riscontrare riguardano il proemio che
nellʼed. utilizzata da Camporesi è attribuibile a Croce (si veda CROCE, Le astuzie di
Bertoldo…, cit., nota a p. 185), nellʼedizione che io ho potuto vedere è verosimilmente
di mano dello stampatore.
4
Le avventure di un ‘picaro’ bolognese del tardo ‘500
231
bliografico e ad un puntuale lavoro di riscontro delle edizioni a stampa e del manoscritto.
La prima parte del Bartolino presenta le avventure di Lázaro ʻtrasposteʼ in terra italiana7: le vicende vissute dal protagonista in compagnia di un cieco (tratte dal tratado primero del Lazarillo) sono ambientate tra Emilia (Granarolo e Bologna), Toscana (Scaricalasino presso Firenze) e Liguria (Genova), i vagabondaggi successivi porteranno il ʻpicaroʼ bolognese di nuovo in Toscana (Pontremoli: dove sono
ambientate le vicende tratte dal tratado segundo) e successivamente
a Napoli. Inoltre — non dimentichiamo che il Lazarillo era stato messo
allʼindice nel 1559 — Vizzani si preoccupa di eliminare dallʼopera qualsiasi accenno di critica alle gerarchie ecclesiastiche e ogni traccia di
eterodossia religiosa; rinuncia quindi a riproporre lʼepisodio del ʻbulderoʼ (tratado quinto del Lazarillo, soppresso anche dal Lazarillo castigado, ʻcuratoʼ da Juan López de Velasco ed edito a Madrid nel 1573)
e spoglia le numerose figure di ecclesiastici delle loro vesti religiose.
Così il clérigo del tratado segundo diviene un sensale di Pontremoli,
senza perdere naturalmente la straordinaria spilorceria che continua a
caratterizzare il personaggio8; il fraile de la merced del tratado cuarto
diviene un medico incompetente che «non era mai chiamato a guardare nellʼorinale, o nel pitale, se non da pochissime e povere femminelle» (p.76; si noti che anche questo capitolo è espunto dal castigado, dobbiamo quindi pensare che Vizzani avesse a disposizione una
delle molte edizioni non espurgate del Lazarillo che continuavano a
circolare al di fuori dei territorii della corona spagnola); scompare il
capellán del tratado sexto; al posto del señor arcipreste de Sant Salvador che nel settimo e ultimo capitolo convince Lázaro a sposare
una sua criada troviamo nel Bartolino un «Ser Brunetto Notaio del
Maleficio».
Ulteriori censure si colgono ad uno sguardo più ravvicinato. Nel pas7
Il testo nellʼedizione da me consultata non è diviso in parti o capitoli. Tuttavia
si può parlare senzʼaltro, per comodità, di una prima parte che ripropone le vicende
del primo Lazarillo, e di una seconda parte che contamina, come vedremo meglio,
la Segunda parte del Lazarillo, pubblicata anonima nel 1555 ad Anversa, e la Storia
vera di Luciano.
8
«...finalmente doppo non molte parole, il sensale mi tolse al suo servigio: e in
quel punto cascai, come si suol dire, dalla padella nelle bragie , perché il Cieco era
stato un Alessandro Magno, al paragone del Sensale, chʼera lʼistessa avaritia» p. 29;
nel testo spagnolo si legge: «Escapé del trueno y di en el relámpago, porque era el
ciego para con éste un Alexandre Magno, con ser la misma avaricia, como he contado» (Laz. p. 139).
232
Maurizio Masala
so già citato dellʼesordio, ad esempio, si può notare come lʼespressione,
peraltro sufficientemente innocua, del testo spagnolo «mi padre, que
Dios perdone» venga resa con «mio padre (buona memoria)»; poco oltre, laddove il padre di Lázaro, a causa di alcuni furti di farina, «...fue
preso, y no negó, y padesció persecución por Justicia» con evidente e
dichiarata parodia del testo evangelico9, il padre di Bartolino «fu [...]
messo in prigione, e havendo senza tormenti ogni cosa di piano confessato, fu condannato dalla Giustizia» (p.7); lʼeco biblica implicita nel
termine ʻarcazʼ, che nel tratado segundo designa la cassa dove lʼavaro
clérigo tiene serrato il pane, si perde nel testo italiano ove viene
impiegato il meno connotato termine ʻforziereʼ.
Ma lʼautore del rifacimento non lavora esclusivamente per sottrazione e introduce talvolta elementi di una comicità decisamente meno
perturbante di quella che caratterizza il Lazarillo: così il padre di Bartolino — per limitarmi ad un solo esempio — messo al bando, «andò [alla
guerra nellʼAbruzzo] con un huomo dʼarme Francese, da cui fu fatto
governatore, perché gli diede carico di governare tre cavalli...» (p.7).
Ove il testo non ponga evidenti problemi sul piano dellʼortodossia
religiosa lʼaderenza alla fonte è molto spesso notevole. Credo che possa essere utile mettere a confronto alcuni brani del Bartolino con i
corrispondenti passi del Lazarillo.
Bartolino, affidato dalla madre a un cieco perché gli faccia da guida e garzone (autentico topos della letteratura furfantesca), subisce un
terribile scherzo dal suo padrone:
Ci partissimo da Bologna per la porta di Strada Maggiore, e arrivati
fuor dal ponte, dove stanno due animali di macigno, fatti in guisa di
leone, il cieco mi comandò chʼio lo menassi appresso a uno di quegli
animali, e dissemi: Bartolino, accostati con lʼorecchia a questo leone,
che udirai lo strepito, che vi è dentro; io puramente credendo chʼegli
dicesse da dovero, mʼaccostai, e egli quando intese chʼio teneva la testa presso al sasso, mi spinse senza discretione con la mano, facendomi sì stranamente dar di cozzo in quel diavolo di leone, che più di tre
giorni mi durò lʼambascia per quella percossa, e dissemi; impara balordo, e tienti a mente che ʻl ragazzo del cieco deve sapere un punto
più di quello che si sappia ciascunʼaltro; E ciò dicendo, si diede grandemente a ridere di quella burla (pp.10-11).
Salimos de Salamanca, y llegando a la puente, está a la entrada della un animal de piedra, que casi tiene forma de toro, y el ciego man9
Il testo continua difatti «Espero en Dios que está en la gloria, pues el Evangelio los llama bienaventurados» (Laz. pp. 110-111).
Le avventure di un ‘picaro’ bolognese del tardo ‘500
233
dóme que llegasse cerca del animal, y, allí puesto me dixo: “Lázaro,
llega el oýdo a este toro y oyrás gran ruydo dentro dél”. Yo, simplemente, llegué creyendo ser assí, y, como sintió que tenía la cabeça par
de la piedra, afirmó rezio la mano y diome una gran calabaçada en el
diablo del toro, que más de tres días me turó el dolor de la cornada, y
díxome: “¡Necio, aprende, que el moço del ciego un punto ha de saber más que el diablo!”; y rió mucho la burla (Laz. p. 118).10
Dopo aver raccontato i primi passi del suo apprendistato, Bartolino ci offre una descrizione delle capacità ʻprofessionaliʼ del cieco:
...tornando al buon cieco, per manifestar le sue prodezze, bisogna
sapere, che non fu mai al mondo il più astuto, né il più sagace di lui;
egli nel suo mestiero era eccellentissimo, sapeva mille canzoni, e mille historie, con cento mila favole, le quali raccontava con voce bassa,
soave, riposata, e risonante, di maniera, che chi lo udiva non si stancava in ascoltarlo.
Havea piacevol viso, habito honesto, e tutto si mostrava humile, e
divoto; e quando raccontava le sue historie, non faceva gesti, né torceva il viso e la bocca, come glʼaltri ciechi sogliono fare.
Montava qualche volta su i banchi per le piazze, trovando con i suoi
chiarlamenti frappe e bugie, mille modi e mille maniere da cavar danari dalle borse; e dicendo di saper molte medicine, compensi e rimedij per diversi effetti, per donne che non potessero partorire; e diceva
che Galeno non sapeva la metà di quello, che sapeva egli pel mal di
madre, e per dolor deʼ denti; quando si trovava dove fossero donne,
sapeva segreti importantissimi per le mal maritate, per farsi voler
bene daʼ mariti, e da glʼaltri ancora: faceva pronostici, se le donne
gravide dovessero partorir maschio o femina, e centʼaltre trufferie:
insomma non si trovava veruno mai che gli dicesse, io mi trovo
dʼhaver tale, o tale infermità, a cui tosto non rispondesse: fate questo
rimedio, farete questʼaltro, togliete tal herba, adoprate tal radice; per
questo tutto il mondo gli correva dietro, ma principalmente le femine, che gli credevano ciò che diceva.
Da queste traheva egli con sue maniere gran profitto, e faceva più
guadagno in un sol mese costui, che non facevano centi altri ciechi
in un anno intiero (pp.12-13).
Pues tornando al bueno de mi ciego y contando sus cosas, V. M. sepa
que desde que dios crió el mundo, ninguno formó mas astuto ní sagaz:
10
È interessante notare come Vizzani, che pur mantiene il riferimento al demonio nel sintagma «diavolo di leone», scelga di rinunciare al parallelismo che si
istituisce nel testo spagnolo e traduca lʼespressione proverbiale «saber más que el
diablo» con «sapere un punto più di quello, che si sappia ciascunʼaltro».
234
Maurizio Masala
en su oficio era un águila; ciento y tantas oraciones sabía de coro; un
tono baxo reposadoy muy sonable que hazía resonar la yglesia donde
rezava; un rostro humilde y devoto que con muy buen continente ponía quando rezava, sin hazer gestos ni visajes con boca ni ojos, como
otros suelen hazer.
Allende desto, tenía otras mil formas y maneras para sacar el dinero. Dezía saber oraciones para muchos y diversos efectos: para mugeres que no parién, para las que estavan de parto, para las que eran
mal casadas que sus maridos las quisiessen bien. Echava pronósticos
a las casadas, si traýan hijo o hija. Pues en caso de medicina, dezía,
Galeno no supo la mitad que él para muelas, desmayos, males de madre. finalmente, nadie le dezía padecer alguna passión, que luego no
le dezía: “Hazed esto, haréys estotro, coged tal yerva, tomad tal raýz”.
Con esto andávase todo el mundo tras él, especialmente mugeres,
que que quanto les dezía, creýan. Destas sacava él grandes provechos
con las artes que digo, y ganava más en un mes que cien ciegos en un
año. (Laz. pp.120-121)
Possiamo notare innanzitutto, ancora una volta, la scomparsa dellʼallusione al destinatario vuestra merced e la volontà di cancellare
qualsiasi riferimento allʼambito religioso: «...desde que dios crió el mundo, ninguno formó mas astuto ní sagaz» diviene nella versione italiana
«non fu mai al mondo il più astuto, né il più sagace di lui»; le «ciento
y tantas oraciones» diventano «mille canzoni, e mille historie, con cento mila favole»; la chiesa, dove il cieco del Lazarillo prega, scompare;
il personaggio del Bartolino non prega, racconta «historie» e si esibisce «qualche volta su i banchi per le piazze, [...] con i suoi chiarlamenti frappe e bugie», non è la caricatura di un mendicante fintamente devoto ma si avvicina maggiormente alla figura del ciarlatano. Si
può notare inoltre, per inciso, che nel testo spagnolo le orazioni «para las que eran mal casadas» servono affinché «sus maridos las quisiessen bien», laddove i «segreti» del cieco sono utili «per farsi voler
bene daʼ mariti, e da glʼaltri ancora», possibile ammiccamento alla topica adulterina della tradizione novellistica.
Ma mi preme di più sottolineare — e gli ampi stralci del testo che
ho riportato mi pare lo mostrino già con sufficiente evidenza — che
lʼopera di capillare censura dei riferimenti alla dimensione del sacro
va vista anche nelle sue implicazioni di carattere stilistico. La pluridiscorsività e il plurilinguismo — per usare la terminologia di Michail
Bachtin — che nel Lazarillo sono prodotti dallʼaccostamento fra registro linguistico basso (fino allʼutilizzo di termini gergali) e presenza,
Le avventure di un ‘picaro’ bolognese del tardo ‘500
235
straniata e parodica, del registro linguistico alto dei linguaggi evangelico e liturgico, nel Bartolino evidentemente scompaiono. La narrazione delle avventure è condotta su un unico registro comico, costante e innocuo.
Anche al di là degli interventi di ʻmoralizzazioneʼ del testo il passaggio dal Lazarillo al Bartolino comporta una accentuata tendenza
alla brevitas, ottenuta attravero la sintesi o lʼomissione di particolari
o di interi passaggi ritenuti, evidentemente, inessenziali, come nellʼesempio seguente:
...pensai che fosse meglio tenerla [la chiave del forziere] nella bocca,
la quale fin quando io serviva il cieco, era così bene avvezza a servirmi per borsa, che tal volta, acciò chʼegli chʼera diligentissimo
cercatore, non me glʼhavesse trovati, vi nascosi dentro cinquanta e
sessanta quattrini, senza che mʼimpedissero il mangiare.
Così dunque, comʼio dico mi mettevo la chiave in bocca... (p.44).
Dove il breve inciso «acciò che chʼegli chʼera diligentissimo cercatore, non me glʼhavesse trovati» ʻtraduceʼ un sintagma ben altrimenti complesso del testo spagnolo.
...parecióme lo más seguro metella de noche en la boca, porque ya,
desde que biví con el ciego, la tenia tan echa bolsa que me acaesció
tener en ella doze o quinze maravedís, todos en medias blancas, sin
que me estorvasse el comer; porque de otra manera no era señor de
una blanca quel maldito ciego no cayesse con ella, no dexando costura ni remiendo que no me buscava muy a menudo.
Pues, assí como digo, metía cada noche la llave en la boca... (Laz.
pp.160-161; sottolineatura mia).
Per contro in almeno un caso Vizzani sente il bisogno di dilungarsi maggiormente della sua volutamente ellittica fonte spagnola.
Nel riproporre la nota conclusione del tratado quarto del Lazarillo
lʼautore del Bartolino scrive:
Egli mi diede le prime scarpe che mai portassi in vita mia, ma non
durarono otto giorni; perché volendo egli far credere alle genti dʼhaver
gran facende, e di visitare molti amalati, caminava di sì gagliardo
trotto chʼesse non puotero durar di più... (pp.76-77).
Éste me dio los primeros çapatos que rompí en mi vida; mas no me
duraron ocho días, ní yo pude con su trote durar más (Laz. pp.214).
236
Maurizio Masala
Qui la traduzione letterale dellʼespressione idiomatica “romper
zapatos” (che nellʼoriginale può celare un doppio senso riferito allʼatto
sessuale) e la ʻgiustificazioneʼ del «gagliardo trotto» del medico (che,
lo ricordo, sostituisce il fraile del Lazarillo) — altra possibile anfibologia disambiguata nel testo italiano — contribuiscono a eliminare i possibili sottintesi della fonte. La scelta di spiegare esplicitamente il perché del frenetico ʻtrottareʼ del medico induce peraltro a dubitare si
tratti di un semplice fraintendimento.
In ogni caso le vicende di Bartolino ricalcano, con le già segnalate
eccezioni, quelle del suo predecessore Lázaro fino allʼottenimento di
un posto da banditore a Napoli e al matrimonio. Successivamente,
come nei primi capitoli della continuazione anonima del Lazarillo,
Bartolino fa amicizia con dei tedeschi al seguito della corte; quando
questi lasciano la città rifiuta però di seguirli e decide di partire per
«la guerra dʼAlgeri». Lʼimbarco e la partenza avvengono, naturalmente, dal porto partenopeo e non da Cartagena. Il racconto della terribile tempesta che investe la flotta segue da vicino la fonte fino al momento in cui il protagonista, oppresso dal pensiero della morte imminente, decide «che sarebbe stato manco male il morir affogato nel vino,
che in quellʼonde tanto salse e amare» (p.91). Così Bartolino — come
Lázaro — scoperchiata una botte, inizia a bere finché
dalla cima del capo, fino allʼestreme dita deʼ piedi, non restò buco,
né parte veruna del corpo mio, che tutta vino non fosse (p.91).
Ma, contrariamente a quanto capitato a Lázaro, Bartolino non va
a fondo con la sua nave. Rinfrancato dalla gran bevuta, sguaina la spada e affronta spavaldamente le onde del mare che, intimorito da tanta
irruenza, si placa. Poiché gli ufficiali erano scappati con una scialuppa, lʼequipaggio decide di porsi agli ordini di Bartolino per proseguire la navigazione.
Le vicende successive sono in parte tratte, come ho già accennato, dalla Storia vera di Luciano di Samosata. Bartolino approda dopo
ottanta giorni di navigazione ad unʼisola solcata da fiumi di vino, la
cui esplorazione conduce alla scoperta di una vigna straordinaria:
...scorgessimo una gran meraviglia in quelle viti, perché i tronchi loro molto grossi erano nella parte di sopra, in forma di femine, che dal
mezo in su mostravano di femina ogni parte compitamente: in quel
modo appunto, che i narratori di favole dicono che fosse Dafne, quando per fuggirsi dalle mani dellʼinnamorato Febo, si cangiò in Alloro.
Havevano in cambio delle dita nelle mani tralci carichi dʼuva dol-
Le avventure di un ‘picaro’ bolognese del tardo ‘500
237
cissima, e invece delle chiome frondi, con pampini, rampolli e grappoli... (pp.97-98)
HX^URPHQDMPSHYOZQFUK
PDWHUDYVWLRQWRPHQJDUDMSRWK
JK
R-
VWHYOHFRDXMWRHXMHUQKNDLSDFXYWRGHD>QZJXQDL
NHK?VDQR^
VRQHMNWZ
QODJRYQZQD^SDQWDH>FRXVDLWHYOHLDWRLDXYWKQSDUKP
L
QWKQ'DYIQKQJUDYIRXVLQD>UWLWRX
M$SRYOOZQRNDWDODPEDYQRQW
RDMSRGHQGURXPHYQKQDMSRGHWZ
QGDNWXYOZQD>NUZQHM[HXIXYRQWRDXM
WDL
RL-NODYGRLNDLPHVWRLK?VDQERWUXYZQNDLPKQNDLWDNHIDO
DHMNRYPZQH^OL[LYWHNDLIXYOORLNDLERYWURXVL.11
Lo stupore si muta in paura allorché alcuni marinai, invitati allʼamplesso dalle donne vite, rimangono imprigionati e mettono essi
stessi radici; Bartolino fugge con i suoi compagni dallʼisola — non
prima di aver adeguatamente rifornito la nave — ma deve affrontare
una nuova tempesta, tanto violenta da strappare lʼimbarcazione al mare e sospingerla in volo per sette giorni e sette notti, fino allʼapprodo
su «una di quelle stelle, che noi diciamo essere la Cometta» (p.98).
Qui Bartolino incontra i Nabatei e il loro re Endimione in guerra
contro Fetonte e gli abitanti di una cometa vicina. Nella fonte greca
il conflitto coinvolgeva gli abitanti della Luna e del Sole ma i nomi
dei monarchi ((QGXPLYZQ e )DHYTZQ nel testo greco) rimangono invariati pur non conservando — evidentemente — la funzione di riferimenti mitologici (di Endimione, figlio di Zeus e della ninfa Calica, si
innamora la Luna, Fetonte è — notoriamente — figlio del Sole). Come
nella Storia vera, il racconto della battaglia offre lʼoccasione di descrivere creature straordinarie: i «soldati, a cavallo di grossissimi formiconi alati, quali habitarono sopra la Tessaglia, e sono chiamati Mirmidoni» (p.99) sono gli ,SSRPXUPKYYNRL del testo greco, mentre le «Manucodiate» o «uccelle di Paradiso», che «hanno il corpo più grande di
qualsivoglia grandissimo struzzo, sono senza piedi, e le penne loro
sono sottilisime e dilargate in forma di una mano aperta» (p.98) non
corrispondono esattamente ad alcuna creatura fra quelle descritte da
Luciano. La battaglia finale è decisa dallʼintervento dei nubecentauri (i
1HIHORNHYQWDXURL di Luciano) «grandi come il Mangia da Siena, e la
parte di sotto havevano di cavallo, di smisurata grandezza, e tutti con
lʼali grandissime alle spalle» (p.105)12, guidati dal «Sagittario dello
11
Cito da LUCIANO, Storia Vera, a cura di Q. Cataudella, Milano, Rizzoli, 2001 (il
testo greco riproduce lʼed. a c. di M.D. Macleod, Luciani Opera, I, Oxford, 1972), p. 60.
12
Idem, p. 72: «PHYJHTR GH WZ
Q PHQ DMQTUZYSZQ R^VRQ WRX -5RGLYZQ NRORVVRX
HM[
K-PLVHLMD H WR D@QZ WZ
Q GH L^SSZQ R^VRQ QHZ PHJDYOK IRUWLYGRWRPHYQWRL
SOK
TRDXMWZ
QRXMNDMQHYJUD\D».
238
Maurizio Masala
Zodiaco». Endimione è sconfitto e lo stesso Bartolino è fatto prigioniero con i suoi compagni, ma dopo il rilascio a seguito degli accordi
di pace può ripartire e cercare di tornare sulla terra.
Durante il viaggio di ritorno Bartolino ha modo di ammirare stranezze che non riferisce «perché non mi saranno credute», ma non può
trattenersi dal raccontare della «Città che chiamano delle Lucerne»
(la /XFQRYSROL lucianea), raggiunta dopo tre giorni di viaggio.
Ammarata sul nostro pianeta, la nave rimane bloccata dai ghiacci
e solo dopo un mese di vita in una caverna la navigazione può riprendere. In questo caso ci si discosta dal racconto di Luciano; nel
testo greco, infatti, la nave del narratore-protagonista viene ingoiata
da una balena. Difficile stabilire con certezza il perché si rinunci a
riproporre questo episodio; non so quanto le debolissime analogie con
la vicenda biblica di Giona potessero far temere una possibile lettura
in chiave parodica blasfema.
Il seguito dellʼavventura è di nuovo ripreso dalla fonte greca: è la
descrizione di unʼisola di formaggio, in mezzo ad un mare di latte.
Allontanatasi anche da questʼ ultima meraviglia, la nave viene colpita
da unʼennesima tempesta; ma Bartolino, scampato ancora una volta al
naufragio e raggiunto il porto di Napoli, può finalmente tornare a casa.
Spero di essere riuscito a far comprendere i motivi di grande interesse che il testo presenta. Innanzitutto per lʼimplicita ipotesi di lettura del Lazarillo e della Segunda parte di Anversa: la contaminazione del testo spagnolo con lʼopera lucianea (così come già — del resto —
la scelta del continuatore anonimo di proporre come seguito delle vicende del ʻpicaroʼ una vicenda di metamorfosi) avvalora le ipotesi
critiche che, con sempre maggior forza, pongono in discussione la
categoria del ʻrealismoʼ riferita alla novella picaresca.
Nel più volte citato proemio Le Disgratie di Bartolino vengono definite una «cantafavola», composta «camminando per lʼorme di Monna
Berta, e Monna Baia», «fantastici concetti, usciti da una materiale e
grossa mente»; peraltro nel 1597 il Bartolino viene pubblicato congiuntamente alla descrizione di una festa della porchetta tenutasi a
Bologna in quellʼanno, e anche in considerazione di questo fattore
mi pare possibile parlare di un processo di alleggerimento carnevalesco del testo spagnolo.
Il titolo ci parla di «huomini codardi, e sciocchi» che «vanno anco
spesso fantasticando cose impossibili» e cʼè un ulteriore elemento che
va tenuto presente per lʼinterpretazione del Bartolino: per comodità
espositiva ho fatto finora riferimento — dichiarando peraltro lʼarbitrio —
Le avventure di un ‘picaro’ bolognese del tardo ‘500
239
a due ʻpartiʼ dellʼopera, in considerazione delle differenti fonti plagiate, ma anche in considerazione del netto trapasso che — in quanto
lettore moderno — percepisco tra la dimensione realistica del racconto
picaresco e la dimensione favolosa del racconto lucianeo. Di fatto,
però, non esiste nel testo soluzione di continuità. È dunque difficile
non domandarsi se, in che termini, e in che misura, anche chi leggeva il Bartolino fra Cinque e Seicento percepisse uno scarto fra le
avventure del ʻservitore di molti padroniʼ e i viaggi nei paesi del
difforme e dellʼinverosimile. I paratesti sembrano invitarci piuttosto
a considerare tutte le avventure di Bartolino, comprese quelle derivate dal ʻrealisticoʼ Lazarillo, come un divertimento ad elevatissimo tasso di letterarietà, da leggersi in relazione ai topoi ed alle convenzioni
del genere comico.
Il Bartolino scritto nel 1597, prima dunque che, con la pubblicazione del Guzmán de Alfarache (1599), si potesse delineare un genere picaresco, si presenta perciò come un ulteriore indizio del pesante
condizionamento esercitato su una parte, almeno, dei primi lettori
del Lazarillo dal modello costituito dalle autobiografie fittizie dellʼantichità, Luciano e Apuleio innanzitutto, caratterizzate dalla presenza
forte di elementi magici e meravigliosi.
Piero Camporesi — che non mi pare rilevi la dipendenza di alcuni
episodi da Luciano — ha ravvisato una sostanziale armonia tra il racconto delle navigazioni di Bartolino, lʼarcipelago fantastico in cui viaggia, le strane creature che lo popolano, e la «geografia immaginaria» e
il «bestiario» di Giulio Cesare Croce; ma anche a voler prescindere
dal grado di coerenza che il Bartolino esibisce rispetto al corpus del
cantastorie bolognese, sappiamo bene che nel XVI e XVII secolo le
figure del mendicante e del vagabondo costituivano stereotipi già da
tempo fortemente diffusi e radicati nelle letterature europee13. Anche
il rapporto con questi stereotipi e la possibile consapevolezza, da
parte del pubblico, del carattere fittizio di talune rappresentazioni
sono elementi da valutare con attenzione se si vogliono indagare le
modalità di ricezione del testo.
Il Bartolino presenta inoltre un ulteriore elemento di fascino. Il già
citato manoscritto B 164 della Biblioteca dellʼArchiginnasio di Bolo13
La bibliografia sullʼargomento è molto ampia; cito qui solo i fondamentali P.
CAMPORESI, introduzione al Libro dei vagabondi, a cura di P. Camporesi, Torino, Einaudi, 19802 e B. GEREMEK, La stirpe di Caino. L’immagine dei vagabondi e dei poveri nelle letterature europee dal XV al XVII secolo, Milano, Il Saggiatore, 1988.
240
Maurizio Masala
gna contiene infatti, a conclusione del Bartolino, una Lettera al Lettore, pesante indizio — non lʼunico — di una destinazione non strettamente privata ma, per così dire, semipubblica dello scritto. Si configurano, quindi, almeno due modalità di diffusione, almeno due tipologie di lettori fortemente differenziate: il pubblico ʻpopolareʼ delle
stampe, tutte dotate delle caratteristiche tipiche del libro destinato ad
una vasta diffusione (piccolo formato, scarsa qualità della carta, ridotto numero di pagine etc.), comuni del resto a tutta la produzione del
Croce; ma anche il pubblico ristretto coinvolto nella circolazione manoscritta, il pubblico costituito dalla cerchia familiare e consortile di
Vizzani, quello che, magari conoscendo le fonti dellʼopera, può apprezzare la capacità del dotto amico di confrontarsi anche con il genere basso della narrativa burlesca nello stile di un maestro riconosciuto dellʼintrattenimento, qual era considerato — anche negli ambienti aristocratici — Giulio Cesare Croce.
Naturalmente è noto da tempo che il pubblico della letteratura ʻdi
consumoʼ nel XVII secolo è notevolmente articolato al suo interno sul
piano sociale e culturale; mi sembra però che la vicenda editoriale del
Bartolino, nata dal sodalizio fra lʼaristocratico erudito Vizzani e il
fabbro cantastorie Croce, sia un punto di partenza molto promettente
per unʼindagine sulle modalità di circolazione di una letteratura che,
forse a volte troppo sbrigativamente, si definisce ʻpopolareʼ.
241
L A “ INFORMACIÓN EN A RGEL ” DI M IGUEL DE
C ERVANTES : DOCUMENTO E / O ENUNCIAZIONE ?
Pina Rosa Piras
Università di Roma Tre
La “Información en Argel” è il documento cervantino che più di
altri ci permette di conoscere alcuni dettagli relativi agli anni algerini
dei quali avremmo saputo poco se non li avesse raccontati lo stesso
Cervantes proprio in questo testo. Solo parzialmente infatti le notizie
contenute nella “Información” sono riportate anche nel Diálogo de
los mártires de Argel 1 o in alcuni altri documenti biografici raccolti
di recente da Krzysztof Sliwa2. Si deve quindi alla marginalità con cui
la critica cervantina si è occupata della “Información en Argel”, a
spingermi ad andare oltre gli aspetti fattuali e a rivendicare la complessità letteraria della parte di testo dovuta a Cervantes.
1
Il Diálogo de los mártires de Argel è una delle parti della Topografía e historia general de Argel, (riprodotta in 3 voll., Madrid, Sociedad de Bibliófilos Españoles, 1927). Per tradizione è stata attribuita a Diego de Haedo che la pubblicò a Valladolid nel 1612. A partire dalle ipotesi formulate da George CAMAMIS (Estudios sobre
el cautiverio en el Siglo de Oro, Madrid, Gredos, 1977) tale attribuzione non è più
data per certa: Emilio Sola e José María Parreño pubblicano il Diálogo assegnandone
la autorialità a Antonio de Sosa (Antonio de SOSA, Diálogo de los mártires de Argel,
ed. Emilio Sola y José María Parreño, Madrid, Hiperión, 1990) e Daniel EISENBERG
(«Cervantes, autor de la Topografía e historia general de Argel publicada por Diego
de Haedo», in Cervantes: Bulletin of Cervantes Society of America, 16:1 (1996), pp.
32-53) propone lʼipotesi che sia attribuibile a Miguel de Cervantes.
2
La “Información en Argel”, che da qui in avanti citerò come “Información”, è
inclusa nella raccolta dei documenti cervantini curata da Krzysztof SLIWA, Documentos de Miguel de Cervantes Saavedra, Pamplona, EUNSA, 1999, pp. 68-111. A p.
85 è inserita la Partida de rescate de Juan Gutiérrez (testigo Miguel de cervantes).
Da questa edizione trarrò le citazioni. Sliwa segue la trascrizione del documento eseguita da Pedro Torres Lanzas per commemorare il III Centenario della Prima Parte del
Don Quijote, pubblicata nella Revista de Archivos, Bibliotecas y Museos, Madrid,
año IX, n.5 (mayo 1905), pp. 345-397. Tale trascrizione è stata riprodotta anche in
Miguel de CERVANTES, Información de Miguel de Cervantes de lo que ha servido á
S. M. y de lo que ha hecho estando captivo en Argel, y por la certificación que aquì
presenta del Duque de Sesa se verá como cuando le captivaron se le perdieron otras
muchas informaciones, fees y recados que tenía de lo que había servido á S.M., ed.
José Esteban, Madrid, El Árbol, 1981. Il documento si trova nel Archivo General de
Indias di Siviglia.
242
Pina Rosa Piras
Il documento, il cui titolo completo è Información en Argel ante
fray Juan Gil pedida por el propio Miguel de Cervantes, fu stilato
nellʼottobre del 1580 quando Cervantes, appena riscattato e prima di
abbandonare la città di Algeri, nel preparare il suo ritorno in Spagna,
dovette tra lʼaltro preoccuparsi della stesura di questo testo. Si tratta
di un articolato formato sostanzialmente da tre blocchi: il primo costituito da venticinque domande formulate per iscritto dallo stesso
Cervantes, un secondo dalla trascrizione delle relative risposte fornite oralmente dai dodici testimoni e un terzo che completa le parti
introduttive e finali — una sorta di paratesto — che ne sanciscono il carattere burocratico.3
Si tratta quindi di una presa dʼatto formale di una prova testimoniale avvenuta tra il 10 e il 22 ottobre, in un luogo non precisato di
Algeri.
Fu sancito dallʼautorevole partecipazione del padre redentorista
dellʼordine dei Trinitari, Juan Gil, e da quella del notaio apostolico Pedro de Rivera, i quali firmano il documento. Oltre allo stesso Miguel de
Cervantes, alla comparizione erano presenti due testimoni; altri nove
deposero successivamente, fino a quando, il 22 ottobre, il notaio si occupò di redigere la “cedula y rrelación” dellʼultimo testimone, Antonio de Sosa, realizzata da questi il giorno precedente. La comparizione si concluse con la consegna della “Providencia en la que Juan Gil
ordena que se de a Miguel de Cervantes” (Sliwa, p.111).
È bene ricordare che le venticinque domande dirette ai dodici testimoni si riferiscono a un ampio ventaglio di fatti. La prima dellʼinterrogatorio rientra nel rituale dei processi: i testimoni riconoscono il dichiarante; la seconda afferma il fatto incontrovertibile secondo cui questi si trovava prigioniero ad Algeri da cinque anni e come
nel viaggio da Napoli verso la Spagna sulla galera Sol «se perdió […]
3
C. JOHNSON, «La construcción del personaje en Cervantes», Cervantes, 15 (1995),
pp. 8-32, p. 25. Johnson attribuisce a Pedro de Rivera la trascrizione di «tanto lo
escrito por Cervantes como lo dicho por los testigos en discurso indirecto». A ciò
aggiungerei che sia opportuno distinguere tra i due diversi interventi effettuati sulla
trascrizione, quella del testo cervantino da quella delle dichiarazioni dei testimoni.
A proposito della prima il documento recita: «miguel de cerbantes […] presentó el
escripto de pedimiento siguiente, con un cierto ynterrogatorio de preguntas, lo qual
uno en pos de otra, es esto que se sigue» (Sliwa, 68). Cervantes avrebbe perciò fornito un testo già predisposto, per cui il trascrittore, Pedro de Rivera, sarebbe intervenuto in esso con la semplice funzione di editor. Nel caso del secondo tipo invece,
quella del discorso orale, bisogna ricordare che la sua realizzazione avveniva con un
margine di maggiore interferenza dovuta alle particolari tecniche di trascrizione.
La información en Argel di Miguel de Cervantes
243
con otras personas principales» (Sliwa, p.69). Con la IV ha inizio la
narrazione, sviluppata lungo ben quattordici domande, dei noti quattro
tentativi di fuga organizzati dallo stesso Cervantes. Le domande centrali si riferiscono allʼosservanza delle assidue pratiche cristiane del
richiedente e al rispetto che ad Algeri questi riscuoteva nella comunità
degli spagnoli, mentre nelle finali si concentra il racconto dellʼinimicizia tra Cervantes e un altro prigioniero, il padre domenicano Juan
Blanco de Paz. È dunque interna al testo la ragione esplicita che motiva tale inimicizia: nella XVII domanda racconta come Blanco de Paz
avesse denunciato al re di Algeri uno dei tentativi di fuga di Cervantes e nella XXIII come il domenicano, fin dallʼ estate, andasse raccogliendo «algunas informaciones […] contra el dicho miguel de cervantes, ynquiriendo de sus uidas y costumbres» (Sliwa, p.73).
Ma si trova fin dai preliminari del documento lʼaltra ragione, ancora più generale e neutra, che spiega cosa abbia spinto Cervantes a
stilare la “Información”: una volta tornato in Spagna gli avrebbe permesso di ricorrere alla generosità e ai favori del Consejo de Su Majestad, come recita ripetutamente il testo, a partire dallʼiniziale: «para
presentarla, si fuere menester, en consejo de su magestad, y rrequerir
le haga merced» (Sliwa, p.69). La richiesta di una documentazione ufficiale era peraltro in sintonia con la prassi che spingeva i prigionieri
liberati a procurarsi prove e testimonianze con cui attestare come nel
corso della loro permanenza in terra “de moros” la loro condotta fosse
stata irreprensibile.
Nel fornirsi di questo documento, Cervantes era dunque motivato
da diverse ragioni: una prima, ufficiale, espressa nel paratesto, in linea con la consuetudine; una seconda, interna al testo, per difendersi
dalle false accuse che avrebbe potuto muovergli Blanco de Paz e una
terza, implicita, legata alla sua condotta ad Algeri, relativa a quanto
non sappiamo cosa realmente possa essere accaduto nei cinque anni
della prigionia e sulla quale Blanco de Paz cercava di indagare.
Questʼultima ragione è stata oggetto di un interessante dibattito critico su cui qui non mi soffermo anche perché sono del parere che lʼinteresse del documento vada al di là della semplice esposizione dei
suoi contenuti. Merita invece di essere analizzata nei dettagli la complessa organizzazione con cui Cervantes sviluppò le sue tesi, dato che
si preoccupò di veicolarle attraverso una articolata costruzione dellʼinterrogatorio. È in questo testo che rivela di essere in grado di dispiegare una complessa competenza letteraria, nel senso che alla manipola-
244
Pina Rosa Piras
zione della parola ha dato Robert Escarpit.4
Tra le tesi difensive è centrale sia la sua inequivocabile fede cristiana con il corollario morale dellʼinsistita dedizione che lo aveva
spinto a organizzare i tentativi di fuga, sia il credito di cui godeva presso la comunità degli spagnoli presenti ad Algeri: «personas principales […] caballeros, capitanes, soldados». Afferma tutto ciò fin dalla II
domanda e lo ripete nella V, VI, XIV, XIX: una versione del luogo
comune “dime con quién andas, y te diré quién eres”, come afferma
Carroll Johnson.5
La “Información” è nata, come dicevo, da una situazione di tipo
giuridico-legale e fu voluntaria, così come il protagonista dichiara
espressamente dallʼinizio alla fine del testo: «miguel de cerbantes
[...] presentó el escripto de pedimiento siguiente, con cierto ynterrogatorio de preguntas, lo qual vno en pos de otra, es esto que se sigue
[...]» (Sliwa, p.68). Ma il documento, oltre a queste solenni, lecite ed
esplicite dichiarazioni, ossia che servisse per agevolargli il ritorno in
Spagna, possiede anche la finalità difensiva di cui ho parlato. Ed è
motivato anche dal fatto che, una volta nel suo paese, Cervantes sarebbe stato passibile delle accuse a cui erano sottoposti i prigionieri
dopo la liberazione: da quelle più comuni, come aver avuto rapporti
con i “moros y rrenegados”, (Sliwa, p.73), o non aver rispettato i precetti quotidiani, fino alle più gravi, come lʼapostasia, il tradimento o
persino la terribile accusa di aver commesso atti di sodomia6. Queste
accuse — oggetto delle interessanti ipotesi critiche a cui accennavo —
sono tutte plausibili e Cervantes con la “Información” tenta di prevenirle senza menzionarle esplicitamente, facendo in modo che restino
nel sottofondo della deposizione. Si trova in questo sfondo perciò la
ragione che spiega il complesso meccanismo comunicativo, anche
letterario quindi, che lʼautore costruisce.
Il documento possiede, data la sua stessa finalità e lʼoccasione da
cui nasce, un carattere fattuale e nonostante ciò appartiene anche al
piano della finzione. Sono del parere che questo accada a partire dal
fatto che le parti formulistiche presenti nelle domande, sia quelle introduttive che quelle finali, racchiudono una narrazione. Quando il
4
R. ESCARPIT, Le littéraire et le social. Élements pour une sociologie de la littérature, Paris, Flammarion, 1970.
5
C. JOHNSON, «La construcción del personaje...», cit. pp. 8-32, p. 27.
6
L. ROSTAGNO, Mi faccio turco, Roma, Istituto per lʼOriente C.A. Nallino, 1983,
p. 24 e B. e L. BENASSAR, Les Chrétiens d’Allah, Paris, Perrin, 1989, in particolare
le pp. 15, 25, 267.
La información en Argel di Miguel de Cervantes
245
narratore comincia a raccontare, ossia, man mano che si avvicina linearmente ai “fatti”, queste parti possono essere ignorate, soprattutto in
una lettura finalizzata, e restare come semplice cornice. Un esempio:
IV-ytem: si saben o an oydo decir [qui comincia a raccontare] que
llegado cautivo en este argel, su amo, daliman arraez, renegado griego, le tubo en lugar de caballero principal, y como a tal le thenia encerrado y cargado de grillos y cadenas […] encargandoles y suplicandoles favoresciesen el negocio; digan, etc.
E questo accade soprattutto dal momento in cui la narrazione degli avvenimenti si inserisce in una soggiacente argomentazione organizzata in modo tale da rendere credibile la tesi che lʼautore, lo
stesso Cervantes, vuole sostenere.7
È lʼanalisi del linguaggio della “Información,” e della sua particolare organizzazione, a dare un quadro dei significati che mi inducono
a sostenere la tesi che di pagine letterarie si tratti.
Premetto che le conquiste relative allʼutilità della descrizione delle relazioni sintattiche che negli ultimi anni sono intervenute, e che
un tempo si limitavano ai soli indizi8. inducono a un certo ottimismo
sullʼopportunità della ricerca degli effetti di senso generati dalla sintassi. A costituire validi precedenti delle osservazioni che seguono,
sono i lavori dedicati sia allʼosservazione dei rapporti fra i procedimenti linguistici e quelli stilistici a opera di Remo Ceserani9, sia quelli
per i quali lʼanalisi sintattica è comunque complementare, e quindi
utile, alla ricostruzione del più vasto quadro delle relazioni semantiche presenti nel testo.10
Uno sguardo sommario alla sintassi della “Información” permette
di osservare come la parte costituita dalle venticinque domande formulate da Cervantes, sia articolata in base a rapporti di subordinazione. Si può osservare inoltre come a caratterizzare le scelte operate
7
P.R. PIRAS, «Cervantes: la argumentación en la Información en Argel», in Peregrinamente peregrinos, ed. Alicia Villar Lecumberri, Actas del V Congreso Internacional de la Asociación de Cervantistas, Lisboa, 1-5 septiembre 2003, Asociación de Cervantistas, 2004, pp. 1659-1673.
8
O. DUCROT / T. TODOROV, Dizionario enciclopedico delle scienze del linguaggio, Milano, ISEDI, 1972, p. 291.
9
R. CESERANI, Treni di carta, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, p. 19.
10
T.A. VAN DIJK, «Critical Discourse Analysis», in The Handbook of Discourse
Analysis, Deborah Schiffrin, Deborah Tannen e Heidi E. Hamilton eds., Oxford,
Blackwell, 2001, pp. 352-371, p. 359.
246
Pina Rosa Piras
sulla lingua sia la relazione di certezza che i contenuti stabiliscono
attraverso la sintassi. Una riprova di ciò è data da un esame della ricorrenza numerica del gerundio, un modo che spesso prevede una azione necessaria, da compiere, che si deve compiere, per molti versi illocutoria: sulle venticinque domande del totale, venti contengono due
o più gerundi, e fino a ben sette ricorrono nella XVIII, dove lʼautore
enuncia le sue pratiche di «catholico y fiel cristiano» (Sliwa, 72).
Alcuni altri elementi linguistici pertinenti permettono inoltre di
osservare che è performativa anche la stessa formula iniziale e finale
delle domande contenute nella “Información”: «yten: si saben o an oydo
dez(sc)ir, como […]»; «[…] digan, etc.» (Sliwa, pp.68-74) e che sono costantemente performativi i ricorrenti ordini, soprattutto quelli relativi ai
tentativi di fuga, che il protagonista imparte ai suoi compagni: “dió horden”, “proveyó y procuró proveer” (VI), “conforme a la horden” (VII) ecc.
Per ragioni di spazio, non potendo estendere lʼanalisi a tutto il documento, devo limitare le mie osservazioni a una delle domande dellʼinterrogatorio cervantino, la IX, della quale riporto integralmente il testo:
IX yten: si saben ó an oydo dezir, como llegados los turcos y moros
á la cueba y entrando por fuerça en ella, viendo el dicho miguel de
servantes que heran descubiertos, dixo á sus compañeros que todos
le echasen á él la culpa, prometiendoles de condenarse él solo, con
deseo que thenia de saluarlos á todos; y ansi en tanto que los moros
los maniatauan, el dicho miguel de serbantes dixo en voz alta, que
los turcos y moros le oyeron: «ninguno destos cristianos que aqui estan tiene culpa en este negocio, porque yo solo e sido el autor dél y
el que los a ynduzido á que se huyesen», en lo qual manifiestamente
se puso á peligro de muerte, porque el Rei Haçan hera tan cruel que
por solo huirse un cristiano, é porque alguno le encubriese ó favoresciese en la huida, mandaua ahorcar vn hombre, ó por lo menos
cortarle las orejas y las narices; é ansi los dichos turcos, avisando
luego con vn hombre á caballo de todo lo que pasaua, al Rei, y de lo
que el dicho miguel de serbantes dezia que hera el autor de aquella
emboscada y huida, mandó el rrey que á él solo truxesen, como le
truxeron, maniatado y á pie, haziendole por el camino, los moros y
turcos, muchas ynjurias y afrentas; digan, etc. (Sliwa, 70)
Come si può constatare, questa IX domanda si apre con la formula:
“yten”, da ítem, termine latino, similmente, igualmente, con cui inizia
ognuna delle ripartizioni che costituiscono un documento scritto, ufficiale, come lo sono le clausole di un atto pubblico. La domanda si
chiude con la formula già ricordata, ricorrente nella “Información”,
La información en Argel di Miguel de Cervantes
247
anchʼessa illocutoria. Tali formule sono comuni alla maggior parte
delle domande dellʼinterrogatorio e concorrono a denunciare la motivazione burocratico-legale da cui il documento trae origine. La IX
domanda inoltre è indicativa della casistica dellʼipotassi che determina la progressività delle relazioni di subordinazione di cui si diceva in precedenza a proposito delle specificità del linguaggio della
“Información” nel suo complesso.
La narrazione vera e propria è introdotta dal paragone espresso da
“como”, che è poi una variante meno frequente (5 domande su 25) della
relazione espressa con “que” con cui si aprono le domande restanti,
precedenti e successive.
Un valore di relazione che permane anche in questa occasione, e
che qui è usato in modo straordinariamente duttile: “como” è anche
una congiunzione temporale equivalente a “en cuanto” e, tra le altre
funzioni, ha quella di instaurare un rapporto di uguaglianza con quanto precede: «[…]: si saben ó an oydo dezir”. Nello stesso tempo “como
[…]», che per il suo significato implica due termini, collega questo
primo termine dellʼequivalenza con tutto ciò che è espresso nel periodo successivo. Ossia il contenuto del primo termine — ciò di cui i
testimoni sono a conoscenza o di cui hanno sentito dire — resta significativamente implicito dato che si trova a monte. Viene però immediatamente espresso da tutto ciò che segue e che discende da “como”:
tutto il periodo va assumendo, necessariamente, un valore complessivo di veridicità. Inoltre ciò che si afferma lungo lʼenunciato a questo punto è, non solo pienamente performativo, tanto che i testimoni
non potranno che confermarlo, ma chi legge è condotto, accompagnato, indotto ad abbracciare quel contenuto come equivalente alla verità.
Al “como” iniziale segue “llegados”, nella terminologia di Mauricio
Molho, un «tiempo ʻcasi nominalʼ», aggettivale11. In questo contesto può
implicare una vez: «(una vez) llegados los turcos», che istituisce un
soggetto in “turcos y moros” a cui subito dopo viene sottratta lʼazione
che passa al protagonista: «viendo el dicho miguel de servantes […]
dixo».
Viene così veicolata una rappresentazione costruttiva del tempo,
in un movimento logico che va dalle cause, “llegados”, agli effetti, tra
questi i valori semantici di “viendo”, “dixo”, ecc. Col participio può
avvenire anche che lʼazione espressa successivamente sia posteriore
a quella veicolata dal participio stesso: è quanto avviene qui, dove
11
M. MOLHO, Sistemática del verbo español, Madrid, Gredos, 1975, p. 12.
248
Pina Rosa Piras
tutte le azioni che si succedono nel periodo sono posteriori a “llegados”. Con lʼeccezione di un inciso, precedente al finale, dove si riferisce della risaputa crudeltà del “Rei Haçan”, su cui, è da sottolineare,
si misura e si staglia in tutta la sua grandezza lʼeroismo del protagonista Cervantes nello sfidare un tale avversario. Con “llegados” inoltre, e con lʼazione immediatamente successiva “entrando”, i movimenti si svolgono in una progressione tra il dentro e fuori della “cueba”,
in una articolazione del significato dei ripetuti “dixo”, con contenuti
fortemente indicativi di eroico coraggio. Alcuni altri indicatori spaziotemporali del testo ne denunciano la costruzione estremamente consapevole: un esempio, «ninguno destos cristianos que aqui estan tiene
culpa en este negocio», attraverso i quali è possibile stabilire le posizioni dei personaggi nello spazio della “cueba”.
È interessante riscontrare anche un particolare tipo di deissi, quella in fantasma, che ricorre in particolare nei testi letterari quando il
narratore conduce il destinatario sul terreno di ciò che, pur assente, è
ricordabile o ricostruibile. Quanto consideravo in precedenza a proposito della crudeltà del re, qui è messo in opera con lʼevocazione
delle conseguenze, che il lettore è indotto a immaginare, a cui il protagonista avrebbe potuto esser sottoposto data la nota crudeltà del re
di Algeri. Con lʼinciso sulla crudeltà del re, in un passato che precede il tempo di tutte le altre azioni, si interrompe, stagliandosi ancora
di più, la lunga sequenza nella quale si accumulano le affermazioni
di estremo, individuale eroismo del protagonista.
Fatto unico in tutta la parte della “Información” dovuta a Cervantes, nella IX domanda il narratore dà la parola a una prima persona,
ovvero Cervantes dà la parola a sé stesso: «el dicho miguel de serbantes dixo en voz alta, que los turcos y moros le oyeron: ninguno destos
cristianos que aqui estan tiene culpa en este negocio, porque yo solo
e sido el autor dél y el que los a ynduzido á que se huyesen». Fino ad
ora la narrazione si era svolta e continuerà a svolgersi, in una terza
persona. In precedenza e in tutto il complesso periodo erano stati i
ripetuti “él” a collocarsi fra il parlante e il destinatario, come semplice “objeto del discurso”12. Col prendere la parola in prima persona,
una voce che vuole essere autoriale, una sorta di yo autobiografico
quindi, emerge sdoppiandosi dal narratore, ma si qualifica insieme,
tenendo conto di tutto il testo della “Información”, come autore, narra12
F. MATTE BON, Gramática comunicativa del español. De la lengua a la idea,
I, Madrid, Edelsa, 2000, p. 242.
La información en Argel di Miguel de Cervantes
249
tore e personaggio. Ricordo rapidamente che tra le sue caratteristiche il documento possiede quelle proprie del genere autobiografico
per cui tra autore, narratore e personaggio esiste identità, tanto che la
stessa terza persona con cui il documento è formulato, è sostitutiva
dellʼ“io” referenziale13. Se ne può concludere che nellʼ introdurre la
prima persona, Cervantes addita con intensità la “persona” protagonista di quanto viene detto. Ma questa osservazione permette di andare
oltre la “Información”, tanto che, rientrando in uno dei punti nodali
della critica cervantina, si può avanzare lʼipotesi che sia stata questa
lʼoccasione in cui Cervantes abbia elaborato quella moltiplicazione
dei piani che successivamente avrebbe riversato nel Don Quijote. Nel
corso di una esperienza di vita dunque, può aver pensato per la prima
volta a mettere in opera il meccanismo narrativo consentito dal gioco
di specchi delle diverse voci autoriali.
Ancora una osservazione: nel costituirsi come voce, in prima o in
terza persona, la “parola” emerge dallʼinterno della “cueba”, luogo dalle
complesse valenze simboliche, ma anche culturali e letterarie: da quella archetipica dellʼutero materno, alla proiezione platonica del mondo,
dai riti di iniziazione al confronto implicito con lʼUlisse nella caverna di Polifemo, ai collegamenti tra la caverna e la psiche e così via.
Per lʼaccumularsi delle azioni nella IX domanda sono indicativi i
due gerundi, “entrando” e “viendo”, che si svolgono “quasi” contemporaneamente; il secondo come effetto, conseguenza, del primo; “entrando”, come vuole la logica implicata, è la causa. Tra le due azioni
lo scarto di tempo è minimo, in un rapporto di anteriorità / posteriorità. La mente del ricevente quindi, si rappresenta tale scarto collegandolo agli avvenimenti evocati dai singoli significati: «llegados… entrando… viendo… heran descubiertos… dixo…»14
Come abbiamo già visto nelle considerazioni generali relative alla
parte dellʼinterrogatorio, anche questa IX domanda è organizzata in
base a una costruzione assertiva ottenuta con la scissione e frammentazione delle sequenze delle azioni che si sviluppano attraverso un
impianto sintattico in cui i piani temporali sono “quasi” simultanei.
Ossia, allʼassertività complessiva, nel documento si sovrappone una
cronologia che si deve in gran parte alla proiezione occulta delle suc13
P.R. PIRAS, «Cervantes: la Información en Argel entre ficción y documento»,
in Volver a Cervantes, ed. Antonio Bernat Vistarini, Actas del IV Congreso Internacional de la Asociación de Cervantistas, Lepanto, 1/8 de octubre de 2000, Palma,
Universitat de les Illes Balears, 2001, pp. 123-130.
14
MOLHO, Sistemática del verbo español, cit., p. 81.
250
Pina Rosa Piras
cessioni del gerundio nel linguaggio osservabile, e quindi al fatto che
con questo modo verbale lʼautore della “Información” stabilisca il complesso sistema del tempo.15
Tra le sue funzioni il gerundio contiene anche quella argomentativa: è particolarmente interessante, a mio parere, perché Cervantes nellʼusarlo ripetutamente accentua il valore di certezza che vuole imprimere al discorso. Fra le tante opzioni possibili che gli offriva il
sistema verbale di cui disponeva — per esempio: mientras entraban
—, anche considerando un relativo maggior uso del gerundio nel suo
tempo, Cervantes sceglie proprio questo per ottenere un determinato
effetto sui suoi interlocutori, che erano, in modo esplicito: «el consejo de su magestad», e implicitamente, tra gli altri, soprattutto le autorità inquisitoriali.
Lʼeffetto argomentativo del gerundio si ripercuote nella successione del periodo e per tutto il periodo, sintatticamente scandito dalla
debole punteggiatura costituita dal punto e virgola. Punteggiatura che
compare in due casi, ma che in entrambi è seguita, e quindi smentita
nel suo compito di separare il periodo, dai due rispettivi «y ansi» e «è
ansi» che invece col loro contenuto significativo tengono unita la lunga frase.
È da notare inoltre che sul finire del periodo si ripete un “como”:
«como le truxeron». I due casi in cui “como” è presente, si trovano in
parallelo, seppure debole, ma anche questa seconda ricorrenza ribadisce il significato di veridicità che nel primo ho già potuto valutare:
col primo sono i testimoni a essere chiamati ad attestare quanto viene
di seguito, col secondo si rimanda alla verità della “parola”: «que á él
solo truxesen, como le truxeron». Lʼaffermazione è seguita dalla sequenza drammatica della scena finale, «maniatado y á pie, haziendole por
el camino, los moros y turcos, muchas ynjurias y afrentas», che possiede una veridicità asserita ricorrendo allʼevocazione subliminale del
prigioniero connotato col più alto degli exempla, quello con il Cristo.16
Il carattere performativo degli ordini impartiti dal protagonista ai
suoi compagni, già osservato in precedenza, in questa IX domanda sfuma, dato che è veicolato da “dixo”, pur conservandone tutto lʼambito
di significato per cui il mittente si trova in una posizione di superiorità rispetto ai destinatari17. Un termine che è in qualche misura un
15
Ivi, p. 14.
PIRAS, «Cervantes: la argumentación en la Información en Argel», cit.
17
U. ECO, I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani, 1990, p. 268.
16
La información en Argel di Miguel de Cervantes
251
atto comunque “perlocutorio”, ciò che Oswald Ducrot chiama “consiglio” e che «consiste nel togliere parzialmente ad altri, e a prendere su
di sé, la responsabilità dellʼazione consigliata»18. É quanto esprime il
carattere edificante di ciò che con “dixo” Cervantes dice: un contenuto
che è quello di una generosità ripetutamente, eroicamente affermata
attraverso il valore della parola dietro cui è occultato il Cristo. La verità è in questo modo annessa alla “parola” stessa, e per di più è implicata nella ripetizione della funzione illocutoria, oltre che metalinguistica, dei due “dixo”. E si ripete ancora in «miguel de serbantes dezia», dove il tempo si dilata nella serie delle successioni, nel protrarsi dellʼazione imperfettiva, nellʼaddensarsi dei valori della ripetitività19: «dezia que era el autor», che sfocia nella drammatizzazione della scena finale:
miguel de cerbantes dezia que era el autor de aquella emboscada y
huida, mandó el rrey que á él solo truxesen, como le truxeron, maniatado y á pie, haziendole por el camino, los moros y turcos, muchas ynjurias y afrentas; digan, etc. (Sliwa, p.70).
I rapporti di subordinazione inoltre spingono in avanti, e costringono, il lettore a concentrarsi sulla linearità, tanto che questi non focalizza lʼattenzione sulle singole unità di significato, le quali anzi si
sovrappongono e si accumulano determinando un effetto finale in cui
è lʼimpressione di sintesi a prevalere. Si tratta di un tipo di articolazione sintattica che presuppone una lunga progettazione in chi ha disposto lʼordine delle singole unità per far sì che il lettore non sia indotto a ricostruire analiticamente il senso complessivo del discorso.
La IX domanda si presenta quindi come una gerarchia rigorosamente ordinata di posizioni la cui argomentazione è specificamente connessa al sistema linguistico. Ma non sono solo le scelte operate sul linguaggio della “Información” a confermare la complessità a cui, forse per
la prima volta, la scrittura di Cervantes era giunta. Può essere ancora
più eloquente un esame rapido del meccanismo della molteplicità
degli autori come espediente costruttivo comune sia a questo testo sia
alla produzione letteraria cervantina e, in particolare, al Don Quijote.
18
O. DUCROT/T. TODOROV, Dizionario enciclopedico delle scienze del linguaggio, Milano, ISEDI, 1973, p. 369.
19
S. CHAOUACHI/A. MONTANDON, ed., La répétition, Clermont-Ferrand, Association des Publications de la Faculté des Letteres et Sciences Humaines de ClermontFerrand, 1994.
252
Pina Rosa Piras
Allʼinterno della “Información” agisce un narratore di nome Miguel de Cervantes che si esprime in terza persona, e occasionalmente
in prima, come si è visto, mentre il nome dellʼautore, Miguel de Cervantes, appare fuori del testo, ossia nella parte preliminare. Ma è Juan
Gil a chiedere al notaio Pedro de Rivera di scrivere «el memorial abaxo escripto y firmado de su mano», ossia dalla mano di Cervantes
(Sliwa, 69).
Chi scrive è pertanto Pedro de Rivera, il quale, si può supporre
con Carroll B. Johnson20, trascrive sia il testo cervantino, sia quanto i
testimoni dichiarano. Nella sua funzione di trascrittore il notaio assume quindi il ruolo di editor del testo cervantino, per cui non deve
sfuggire lʼanalogia col paratesto del Don Quijote, ovvero col Prólogo della Prima Parte, dove viene enunciata lʼambiguità dellʼautore
che non è “padre” ma “padrastro” del libro. A riprova di come si tratti
di un meccanismo sul quale Cervantes deve aver riflettuto a lungo,
non può sfuggire nemmeno che nel famoso passaggio del capitolo IX
della Prima Parte del Don Quijote, è allʼinterno del romanzo che Cervantes introduce, orchestrandolo narrativamente, lʼartificio del manoscritto ritrovato da un autore che è anche narratore e personaggio.
Nella sua qualità di “escrivano” quindi, è Pedro de Rivera a svolgere un ipotetico ruolo di narratore. Questo avviene dal punto di
vista formale, se lo si considera, con Carroll Johnson, intradiegetico,
e pertanto gli si attribuisce la trascrizione del testo di Cervantes in
discorso indiretto utilizzando la terza persona21. E avviene anche se
lo si considera extradiegetico, ovvero secondo destinatario della
“Información”.
Cʼè di più: chi ordina di scrivere a Pedro de Rivera, è Juan Gil, ennesimo destinatario che, come dicevo, appare come supervisore allʼinizio e alla fine del documento, nella cornice quindi. Ma in quanto
supervisore è testimone, oltre che personaggio dentro il testo, dato
che lo si trova nella XIX domanda della “Información”. Una articolazione tra il dentro e il fuori del testo a proposito della quale Mauricio
Molho ha potuto affermare che “mai” Cervantes si affaccia dal Don
Quijote: avviene solo nel paratesto, ovvero nella Dedicatoria, nei
Prólogos, o nelle Aprobaciones 22. Nel Don Quijote la critica ha esa20
Cfr. qui, nota 3.
In due casi prende la parola una prima persona: come ho già visto, Miguel de
Cervantes nella IX domanda e in prima persona è trascritta la deposizione dellʼ
ultimo dei testimoni, Antonio de Sosa.
22
M. MOLHO, «Instancias narradoras en Don Quijote», MLN, 104 (1989), pp.
21
La información en Argel di Miguel de Cervantes
253
minato a fondo il gioco di livelli che apre la strada al metaromanzo
moderno: un autore che appare nel Prólogo, lʼambiguo autore iniziale che «no quiere acordarse», uno arabo, un tale che glossa il suo
libro, un personaggio che nellʼopera sa della propria esistenza nella
finzione. E la critica ben conosce il gioco complesso degli intermediari: lʼautore e gli autori, il manoscritto ritrovato, il traduttore morisco,
Cide Hamete, Avellaneda, la sua penna, ecc.
Si può concludere pertanto che, non solo lʼosservazione dellʼorganizzazione linguistica, ma soprattutto quella relativa ai meccanismi autoriali contenuti nella “Información”, rivelino come Cervantes
abbia operato in modo sistematico sul materiale con cui ogni scrittore
lavora. È significativo che abbia elaborato quei materiali nel momento in cui doveva metterli in opera nella “Información”. È stata questa
lʼ“occasione” che lo costrinse a formulare un testo allʼaltezza dei
problemi a cui andava incontro al suo ritorno in Spagna e quindi al
risvolto che questo documento avrebbe avuto con la realtà extralinguistica concreta, come dicevo: difendersi da una grave accusa. Del
resto, quale altro piano del discorso Cervantes avrebbe potuto imboccare se non, appunto, quello del “discorso”, o enunciazione, con cui
ogni scrittore filtra e indirizza, in base a una costruzione più o meno
complessa, e a seconda di ciò che col suo discorso vuole ottenere?
273-285, p. 275.
255
UN
DON C HISCIOTTE ITALIANO
DI FINE C INQUECENTO ?
Luisa Mulas
Università di Cagliari
Discutendo, per negarle, delle supposte influenze che i Discorsi dell' arte poetica e del poema eroico di Torquato Tasso avrebbero avuto
sulla teoria del romanzo dell'autore del Quijote 1, Daniel Eisenberg
allarga la questione a «las opiniones de Cervantes sobre Italia» e osserva che, se «el amor de Cervantes por Italia es muy evidente», «lo que
falta en su actitud es que España y los españoles tenían algo que aprender de la gente italiana». Nelle opere di Cervantes, secondo Eisenberg, manca anche «el entusiasmo por la literatura italiana, sin el cual
serìa improbable un interés por la teoría literaria italiana».
Con la única, aunque importante excepción de Ariosto, se encuentran
en las obras de Cervantes pocos recuerdos de la literatura italiana, en
sus días en franca decadencia. ¿Donde están las reminicencias de la
poesía de Petrarca, comparables con las de Garcilaso? ¿Donde están las
de Dante, el mayor autor de la poesía tanto italiana como cristiana?2
Fosse anche vero che ai tempi di Cervantes la letteratura italiana
giaceva in una “franca decadencia”, resterebbe comunque vero, in linea
di principio, che gli autori non si abbeverano solo alle fonti dei “maggiori” e che le vie attraverso le quali possono passare le “influenze”
sono infinite e imprevedibili. Ma tant'è: la forza del vecchio (e, evidentemente, perdurante) luogo comune della “decadenza” della letteratura italiana del tardo Cinquecento e del Seicento3, come ha sopito per
1
Alban FORCIONE, nel saggio Cervantes, Aristotle, and the "Persiles", Princeton, U.P., 1970, argomentava a sostegno dell'ipotesi di precise influenze di Tasso su
Cervantes.
2
Daniel EISENBERG, «Cervantes y Tasso vueltos a examinar», in Estudios cervantinos, Barcelona, Sirmio, 1991, pp. 37-56 (la cit. a p. 41).
3
A dispetto delle tante indagini che da vari decenni hanno fatto luce sulla letteratura e sulla cultura italiane del Cinque-Seicento, il luogo comune resiste. Lo si tocca
con mano anche nel saggio di Eisenberg, quando l'autore corrobora l'affermazione che
«Para cualquier español de tiempos de Cervantes […] Italia era agradable, pero era
débil y decadente» (pp. 40-41) con un'ampia citazione dal sempre grande, ma da que-
256
Luisa Mulas
lungo tempo l'interesse critico verso quella letteratura, così ha bloccato grosso modo ad Ariosto e al Furioso (cioè all'apice del Rinascimento) la ricerca delle possibili “influenze” italiane sull'opera di Cervantes.4
E tuttavia le tracce di possibili “influenze” a volte ci sorprendono
senza che le abbiamo cercate, in forma di agnizioni di lettura, come
quella che mi ha folgorato nel corso delle mie esplorazioni cinqueseicentesche, e che ora voglio rendere pubblica per farne un piccolo
dono a Pina.
Un giorno, alla biblioteca comunale di Mantova, avevo per le mani
il libro di Gabriele Pascoli, La pazzesca pazzia de gl'Huomini e donne
di Corte Innamorati, overo Il Cortigiano Disperato. Di G.P. da Ravenna. Divisa in due parti. Nella prima si scopre la Pazzia de gl'Huomini,
et nella seconda quella delle Donne. Da che si viene in cognitione
della pazzia de' Mondani, con molta dilettatione, et utile de' leggenti.
Con Privilegio, In Venetia, MDCVIII [1608], Appresso Evangelista
Deuchino, e Gio. Battista Pulciani, pp. [16], 293.5
sto punto di vista ormai anacronistico, Francesco De Sanctis, History of Italian literature, trad. Joan Redfern, New York, Harcourt Brace, 1931.
4
Questa è l'impressione che, da incompetente, ho ricavato scorrendo un po' di bibliografia relativa al problema dei rapporti tra Cervantes e la letteratura italiana.
Rinvio in particolare a Aldo RUFFINATO, Cervantes. Un profilo su smalti italiani,
Roma, Carocci, 2002. Anche dal saggio di Jean CANAVAGGIO, «Vida y literatura: Cervantes en el "Quijote"» e dal relativo «Resumen cronológico» (entrambi in M. de CERVANTES, Don Quijote de la Mancha, texto crítico y dirección de Francisco Rico,
Barcelona, Instituto Cervantes, 1998) non risultano indagini sulle non improbabili
frequentazioni di personaggi e ambienti letterari da parte di Cervantes tra il 1569 e il
1575, anni che egli trascorse in Italia (con gli intermezzi di Lepanto e della spedizione
di don Juan de Austria contro Tunisi). Nel corso del 1570-71, mentre era a Roma come
segretario del cardinale Giulio Acquaviva, e poi negli anni in cui era di stanza a Napoli è verisimile che Cervantes, già autore della Galatea (dedicata appunto al cardinale Acquaviva), partecipasse alla vita letteraria e culturale di queste città, o ne fosse
almeno osservatore.
5
Dell'autore, il ravennate Gabriele Pascoli, nessuna notizia al di là delle scarne
informazioni che si ricavano dal frontespizio di sue pubblicazioni cinquecentesche
di argomento religioso-edificante (Il perfetto ritratto dell'huomo cristiano formato
dalla mano di Dio, difformato dalla sua colpa, riformato dalla gratia di Dio… dialogo… Pavia, Andrea Viani, 1592; Il glorioso trionfo et la vittoriosa insegna sotto cui
trionfar si deve in vita, in morte e dopo morte… Ferrara, Giu. Ces. Cagnacini, 1587),
dove l'autore è detto «reverendo padre don G. P. da Ravenna» e «canonico lateranense». Il suo nome è assente persino dall'eruditissima Storia della letteratura italiana
del Tiraboschi. Adolfo ALBERTAZZI nel suo Romanzieri e romanzi del Cinquecento
e del Seicento, Bologna, Zanichelli, 1891, accenna allo stile «molto inetto e di poco
gusto» (p. 58) dell'autore della Pazzesca pazzia. Il romanzo è appena citato, ma evi-
Un don Chisciotte italiano di fine Cinquecento?
257
Titolo e sottotitolo (con l'evocazione della categoria degli Huomini
e donne di Corte Innamorati sintetizzati in quella di Cortigiano, e con
la finalità dichiarata di condurre il lettore in cognizione della pazzia
de' Mondani) e altre “soglie” del testo (in particolare le liste, prima dell'
Indice dei capitoli, degli Interlocutori che parlano e dei Luochi e città
in cui parlano) mi lasciavano supporre che l'opera fosse un trattato
in forma di dialogo, magari infarcito di qualche racconto esemplare
per dilettatione et utile del lettore6. Ad apertura di libro, invece, mi
trovai davanti ad un vero e proprio romanzo breve, o a una lunga novella che, per l'argomento passionale e per la propensione al colpo di
scena, si sarebbe potuta ascrivere al sottogenere della “novella spagnola”.7
La storia era introdotta da un gentiluomo che, reduce dalla battaglia di Lepanto, nell'attraversare un bosco incontrava un uomo mezzo
inselvatichito. Costui, dopo molte resistenze, gli raccontava di essere
fuggito dalla corte di Barcellona e dal consorzio umano e di essersi
ritirato nel bosco, deciso a lasciarsi morire di dolore per essere stato
ingannato dalla dama della quale era innamorato.
Questa storia, dopo un breve ondeggiamento in una sensazione di déjà vu, mi riportò alla memoria quella di Cardenio, narrata nella prima
parte del Chisciotte (capitoli XXIII e seguenti). E poiché leggevo un testo
stampato nel 1608, pensai quello che chiunque avrebbe pensato: Gabriele Pascoli riprende qui un episodio di El ingenioso hidalgo don
dentemente senza essere stato letto, nel vallardiano Cinquecento di Francesco Flamini (p. 428) e nella sua edizione riveduta da Giuseppe Toffanin (p. 516). Più circostanziato e meno liquidatorio il giudizio espresso da Riccardo BRUSCAGLI nel capitolo «La Novella e il Romanzo» del vol. IV della Storia della letteratura italiana
diretta da Enrico Malato, Roma, Salerno ed., 1996. Pur senza fare alcun riferimento
all'episodio boschereccio iniziale, Bruscagli sintetizza la trama del romanzo e dice che
l'ambientazione presso la corte ducale di Barcellona «rappresenta probabilmente
l'attrattiva più invitante dell'opera: per quanto lo sfondo sia astratto e le figure convenzionali, pure il modo in cui le passioni giocano all'interno dell'etichetta cortigiana è nuovo e non privo di sottigliezza» (pp. 892-93).
6
La letteratura del tardo Cinquecento e del Seicento fa un uso massiccio e polivalente della narrazione breve in opere di ogni genere. Su questa questione mi permetto di rinviare al vol. M.A. CORTINI-L. MULAS, Selva di vario narrare. Schede per lo
studio della narrazione breve nel Seicento, Roma, Bulzoni, 2000.
7
Un tempo gli studiosi di novellistica italiana (Bartolomeo GAMBA, Delle novelle
italiane in prosa, 1833; Giambattista PASSANO, Novellieri italiani in prosa, 1878;
Giovanni Battista MARCHESI, Per la storia della novella italiana nel sec. XVII, 1897;
Letterio DI FRANCIA, La novellistica, 1924-25) davano il nome di "novella spagnola" ad uno dei sottogeneri nei quali classificavano il genere "novella" del '600.
258
Luisa Mulas
Quixote de la Mancha, che evidentemente conosceva nella prima edizione del 1605.8
Sennonché subito dopo mi accorsi che la prima edizione dell'opera di Pascoli era uscita nel 1592, ben tredici anni prima che il cavaliere della Mancha partisse per la sua lunga avventura letteraria. Dovevo dunque controllare quell'edizione del 1592 per capire se quel singolare racconto fosse stato concepito in quella forma fin dal principio o
riscritto ad imitazione di Cervantes sedici anni dopo. Un veloce controllo effettuato alla biblioteca nazionale centrale di Roma dimostrò
che le due edizioni del Cortigiano disperato sono identiche9, e dunque che il racconto di Pascoli precede quello di Cervantes.
L'anteriorità, di per sé, non costituisce una prova decisiva dell'
“influenza”: la ricorrenza in tanta letteratura cinquecentesca del tema
della pazzia in generale, e della pazzia amorosa in particolare, induce
anzi a considerare con molta cautela l'ipotesi che proprio l'opera di
Pascoli abbia fornito qualche spunto al capolavoro di Cervantes. Ma le
analogie fra i due racconti sono tante e tali che vale la pena di osservarle minutamente, ripercorrendo innanzitutto l'intreccio del più antico.
La vicenda ha inizio all'indomani della gloriosa battaglia di Lepanto: alcuni dei «valorosi uomini» che avevano combattuto al comando
di don Giovanni d'Austria, esaurito il loro impegno militare e scortato
il loro capitano fin «nel suo bel regno e amate stanze», non vollero rinunciare «all'usata fatica (a cui già s'erano avezzi) alla loro generosità
convenevole; e come quelli, a' quali assai più li stranieri paesi e incogniti di cercare aggradiva, dal sacro Imperio perciò con buona gratia
preser commiato, e s'inviarono in diverse et incognite bande». Certi si
diressero in Calabria, altri in Sicilia, «et altri si deliberarono per la
ricca Spagna scorrere».
A questo punto la voce emittente del racconto prende corpo, e compare, in veste di io narrante, uno dei «valorosi uomini» che si sono
appena accommiatati da don Giovanni d'Austria.
8
Non avrebbe potuto leggerlo in italiano prima del 1622, quando uscì a Venezia,
presso Andrea Baba, L' ingegnoso cittadino Don Chisciotte della Mancia. […] nuouamente tradotto con fedelta, e chiarezza, di spagnuolo, in italiano. Da Lorenzo Franciosini fiorentino […].
9
La pazzesca pazzia de gl'Huomini e donne di Corte Innamorati, overo Il Cortigiano Disperato. Opera nuova Di Gabriel Pascoli da Ravenna. Divisa in due parti.
Nella prima si scopre la Pazzia de gli Huomini, et nella seconda quella delle Donne. Da che si viene in cognitione della pazzia de' Mondani, con molta dilettatione, et
utile de' leggenti. Con privilegio. In Venetia, MDXCII, Appresso Giulio Somasco.
L'esistenza di una ristampa (1608) prima edizione, dalla quale cito.
Un don Chisciotte italiano di fine Cinquecento?
259
«Io dunque a cui più assai esser solo, che a' compagni dilettava,
con un mio solo servitore ma fedele» presi il mare a «Genova […]
sopra una galea di mercatanti» diretta in Spagna, dove, «smontati a terra», «il servitore in tutti quei paesi quant'ogn'altro molto esperto […]
mi guidava». Questa dunque la situazione: un cavaliere e il suo servo
errano per la Spagna.
L'avventura si fa loro incontro, topicamente, «nel levar del sole».
Ecco: «con incredibil diporto andavam caminando, quando una mattina nel levar del sole, ci trovammo entrati in una folta e diserta selva». Quivi inoltrati, continua il narratore, scoprimmo «tra due boschi,
una bella, vaga e dilettevol pianura», dove decidemmo di «posare le
stanche membra nostre. Ma non tantosto da cavalli smontati», fummo
aggrediti da «una bona frotta d'huomini d'aspetto molto crudele, con
barbe rabuffate». Derubati, spogliati, malmenati, sopravvivono solo
perché i predatori, avvertiti dell'arrivo di altri passeggeri da derubare, distolgono da loro l'attenzione e li abbandonano gettandoli fra
cespugli spinosi. A fatica si riprendono e per due giorni si aggirano
nel bosco cercandone l'uscita, finché — continua l'io narrante nella sua
prosa non meno "inviluppata" del bosco — giungemmo presso un fiumicello, dove fummo colpiti da «una dolente e lamentevol voce» che
si faceva via via più alta e straziante, come il pianto che l'accompagnava: «ci fermassimo ad ascoltarlo, maravigliandoci sopra modo di
così dirotto pianto, e dolente voce; e così fatti ogn'hora più volonterosi di vedere chi così dirottamente piagnesse, seguendo la dolente
voce ci mettessimo (benché con gran fatica) ad entrare in quello invilupato bosco dove un dolente et affannato giovene, che piangendo se
ne dimorava, alla fine ritrovassimo; trasfigurato in faccia, e tutto mesto; quale mirando io fisamente, a pena lo stimai creatura humana;
poi che l'hebbi ben raffigurato, in fine lo conobbi huomo, ma huomo
tutto disperato; posciache sembrava huomo selvatico, bruno nel viso,
e con gli occhi entrati dentro, che a pena si discerneva se egli li havesse o no. In lui ciascun osso piangeva [sic], et havea la pelle tutta
ringricciuta, et già erano tanto cresciuti i capelli, che con disordinato
rabbuffamento coprivano parte del dolente viso; et la barba molto
torta e rigida, tutta divenuta; i panni erano tutti sozzi, e molto brutti;
niuno, che nella sua prosperità veduto l'havesse, per tale mai riconosciuto l'havrebbe» (pp. 3-7).
Fin qui il primo capitolo. Nel secondo il narratore, rivolgendosi
pietosamente al giovane inselvatichito, avvia un lungo dialogo che
260
Luisa Mulas
andrà avanti per tutta la prima parte: «O Giovine dolente, Dio ti salvi,
et ti renda anco il perduto conforto; la pietà grande, a cui le tue angosciose lagrime mi movono, mi fanno il mio proprio male dimenticare, e del tuo solo bene sollecito m'inducono; et a quello che in te
scorgo, l'habito, e le tue lagrime, i dirotti singulti, e le lamentevoli voci,
moverebbero ogn'indurato core ad infinita compassione» (p. 8). A lungo il narratore parla e interroga così suadente, ma il giovane selvatico da prima tace ostinato, poi parla solo per negare qualunque risposta, infine risponde sinteticamente per togliersi dattorno l'indesiderato soccorritore: «in questo così horrido e diserto loco […] mi sono ritirato per non voler più vivere tra gli huomini; e se in te è quella humanità, che le tue amorevoli parole dimostrano, vattene al tuo viaggio, e non cercar darmi maggior pena».
L'io narrante insiste ancora, e gli dice di essere determinato a lasciarsi morire nel bosco con lui, se da lui non riceverà una spiegazione. A questo punto il selvatico, «mandato un caldo, e affettuoso sospiro fuori del petto» (p. 11), inizia a raccontare dicendo che alla
corte del Principe di Barcellona, dove le giovani dame vivono in una
sorta di gineceo strettamente sorvegliato, egli è stato mortalmente
ferito d' amore dalla perfida Panfilia. Dice di essere italiano di Ravenna e racconta la lunga storia dei suoi travagli amorosi, che occuperà
tutta la prima parte del libro, partendo dal tempo felice in cui, già
accolto alla corte di Barcellona, egli era ancora esente dall'amore.
Una dama, amata amante di un suo amico, gli segnala la bella Panfilia. Gioseffo (questo è il nome dell'infelice) se ne innamora, ma Panfilia ama Paolo, al quale il Principe intende maritarla. Paolo non la
ama, e Panfilia per sedurlo finge amore per Gioseffo e poi glielo
nega. La disillusione amorosa di Gioseffo è resa più amara dalla
perdita della benevolenza del Principe, il quale si adira con lui dopo
aver scoperto che le severe regole del gineceo sono state violate.
Caduto nella disperazione, Gioseffo resta sordo alle esortazioni dell'amico Bartolomeo, ma, fingendo di dargli ascolto, gli dice: «ho veduto quanto siano savij i tuoi consigli e conforti; perciò lassami andare, che più non sentirai del mio dolore alcuno affanno». In realtà,
come spiega al narratore di primo grado, egli mette in atto ben altro
progetto: «E così partitomi da lui, et non essendo da persona veduto,
lasciai l'infelice e sempre a me abominevole Barcellona, e me ne venni in questo solingo, oscuro, e salvatico bosco, per esser di me stesso,
(come credo tu pensi e vedi) micidiale; dove son disposto, da poi che
in donna tanto da me amata non ho trovato verità, nè fede in amore,
Un don Chisciotte italiano di fine Cinquecento?
261
tanto piangere, che quivi disperato me ne moia». E conclude: «Hor
havendo dunque perciò udito tutte le cagioni della mia molta sciagura,
vattene di lungo al tuo viaggio, et non mi voler impedire dal cominciato corso, perché ad ogni modo ti affaticaressi in vano» (p. 143).
Il racconto del cortigiano disperato finisce qui, al XVII capitolo.
Alla pagina seguente finisce la prima parte del libro, nel punto in cui
il primo io narrante, fingendo di rispettare il cupio dissolvi del disperato, avvia una nuova strategia salvifica che andrà felicemente in
porto al secondo capitolo della seconda parte: da prima lo persuade ad
accompagnarlo fuori dal bosco, dal quale, dice, non saprebbe altrimenti svilupparsi; poi, continuando a parlare, lo conduce con sé finché
non arrivano in vista di Barcellona. A questo punto, allettandolo con
la prospettiva della vendetta, lo induce a tornare in città.
Affinché il disperato possa “governarsi” e riacquistare così un aspetto umano, il servitore viene mandato avanti a cercare un alloggio
poco fuori città. Dopo la toeletta, il narratore di primo grado, che finora si è rivolto al disperato chiamandolo semplicemente “Gioseffo” o
“Gioseffo mio”, lo apostrofa con l'appellativo di rispetto “signor Gioseffo” (p. 161), come a volerne sancire il rientro nella sfera delle convenzioni sociali. Ma forse il nuovo appellativo, più che registrare il
ripristino delle convenzioni sociali, anticipa l'imminente mutamento
della convenzione narrativa. Subito dopo, infatti, anche l'io narrante
perde il ruolo che ha rivestito fino a questo punto e diventa inopinatamente un egli, un personaggio designato alla terza persona da un'istanza narrativa indeterminata. Il lettore se ne accorge quando il racconto dice che Gioseffo, per ordire la sua vendetta, indirizza una
lettera a Panfilia e decide «che il messo quale habbi da portare la lettera […] sii l'amico che fuori del bosco l'ha condotto» (p. 162).
Divenuto dunque un personaggio a tutti gli effetti, l'ex narratore di
primo grado ha bisogno di un nome, e il racconto glielo dà: «Gregorio
(che così nome haveva l'amico di Gioseffo) la scrisse [la lettera], et fu
anco in questa occasione, et in tutte l'altre il messagiero…» (p. 163). E
nel capitolo XIV, poco prima che la vendetta e l'intero racconto giungano all'epilogo (la seconda parte consta di XVI capitoli), gli dà anche un passato che lo lega fatalmente all'uomo incontrato per caso
nel bosco: «Disse dunque Gioseffo: vergogna grande mi pare, che essendo noi stato cotanto insieme […] che ancor l'un l'altro non ci conosciamo apena fuori che nel nome solo…» (p. 270). Al che Gregorio rivela di provenire anch'egli da Ravenna e di appartenere alla nobile famiglia dei Lonardi, ostile per antica inimicizia alla casata dei Raspo-
262
Luisa Mulas
ni, cui appartiene Gioseffo. Questa rivelazione non può ormai incrinare l'amicizia che si è stabilita tra i due, ed essi si abbracciano come
fratelli e si impegnano a metter fine alla faida familiare promettendosi reciprocamente in sposa le rispettive sorelle.
Se nella prima parte il racconto dei fatti già avvenuti si sviluppava
attraverso il racconto di secondo grado fatto da Gioseffo a Gregorio,
in questa seconda parte gli avvenimenti, narrati in presa diretta, sono
resi noti al lettore per lo più attraverso le lettere missive e responsive
scambiate tra Gioseffo, Panfilia e altri personaggi.
L'inganno col quale Gioseffo si vendica di Panfilia consiste, infatti,
nell'assumere la falsa identità epistolare di Paolo, il quale, «sì per i
meriti suoi molto generosi, sì anco perché strettissimo parente del
Principe, fu per buona sorte di Gioseffo, questo istesso tempo, mandato in una legatione all'illustrissimo Prencipe di Valenza» (p. 161). Scrivendo false missive a nome di Paolo, Gioseffo finge che costui sia innamorato di Panfilia, scambia con lei lettere e doni, e le fa credere che
Gioseffo sia morto. Cosicché, quando Gioseffo finalmente si ripresenta a corte, Panfilia capisce di essere stata ingannata e muore di affanno
e di dolore. Il Principe dispone per lei esequie sfarzose, e ordina che
Gioseffo venga «con pena capitale dal suo bel stato perennemente
bandeggiato» (p. 292). Ma il giovane, ormai placato dalla vendetta, è
già in viaggio con Gregorio e col servitore Libero (solo ora il racconto ne dice il nome) alla volta di Ravenna, dove «si fecero le duplicate nozze tra di loro, secondo le promesse date» (p. 293).
Le analogie tra il disperato imboscamento di Gioseffo e quello di
Cardenio sono notevoli.
In generale, il motivo narrativo dell'imboscamento amoroso è ricorrente nel Chisciotte e Cervantes stesso ne sottolinea la natura di
topos quando rinvia, con le parole di don Chisciotte-Beltenebroso, ai
suoi più illustri antecedenti, e cioè agli imboscamenti di Amadigi e
di Orlando. I commentatori allungano la lista, ricordando i casi più
antichi di Yvain, di Lancelot, di Tristan, e quelli meno antichi di Lisuarte di Grecia, del Cavaliere di Febo e di altri eroi del romanzo cavalleresco castigliano10. Dunque non è tanto la ripresa di questo motivo in sé e per sé a stabilire una speciale analogia tra il “cortigiano
10
Ho presenti le note di Donatella MORO PINI alle pp. 1279-80 del Don Chisciotte
da lei curato per i "Meridiani" Mondadori, Milano, 1974, e la nota di Luis Andrés MURILLO a p. 304 del vol. I della sua ed. del Quijote per i "Clasicos Castalia", Madrid, 1978.
Un don Chisciotte italiano di fine Cinquecento?
263
disperato” di Pascoli e il Cardenio di Cervantes, quanto il modo peculiare in cui il motivo si ripresenta in entrambi i racconti.
Nella tradizione cavalleresca, infatti, il topos compariva secondo
due modelli essenzialmente distinti: quello del cavaliere che si ritira
nel bosco «in raccoglimento mite e silenzioso» (come Amadigi) e
quello del cavaliere «travolto da una furia demenziale» (come Orlando,
“furioso” per l'appunto)11. Nel romanzo ariostesco i due tipi sono entrambi presenti (e distinti): da un lato Sacripante che, in un locus amoenus boschivo, effonde la sua pena amorosa in lacrime e in sospirosi versi elegiaci; dall'altro Orlando e Rodomonte, nei quali la malinconia amorosa trapassa in smemorata furia demenziale. Pascoli e
Cervantes, invece, operano un'interessante contaminazione dei due
modelli, creando due personaggi affetti da “pazzesca pazzia” — solo
autodistruttiva in Gioseffo, autodistruttiva e aggressiva in Cardenio —
ma anche, per intervalla insaniae, miti, gentili e consapevoli della
propria pena nonché della propria follia.
Nella contaminazione dei due modelli Cervantes va poi oltre perché, se Orlando, spinto dalla follia, diventava involontariamente selvatico, e Amadigi si ritirava volontariamente nella selva senza impazzire, don Chisciotte, ispirato dal loco Cardenio, entra in una paradossale forma di pazzia volontaria, scegliendo di imitare juntamente sia
Amadigi, «el sol de los valientes enamorados caballeros […] cuando se
retiró, desdeñado de la señora Oriana, a hacer penitencia en la Peña
Pobre, mudado su nombre en el de Beltenebros», sia l'Orlando che «se
volvió loco» e fece “el bosquejo”. Scelta di gran fineza, e tanto più rara,
felice y no vista in quanto, come spiega don Chisciotte a Sancho,
manca la causa: «el toque está desatinar sin ocasión y dar a entender a
mi dama que, si en seco ago esto, ¿qué hiciera en mojado?»; e scelta
paradossalmente calcolata: «Loco soy, loco he de ser hasta tanto que
tú vuelvas con la respuesta de una carta que contigo pienso enviar a
mi señora Dulcinea; y si fuere tal cual a mi fe se le debe, acabarse ha
mi sandez y mi penitencia; y si fuere al contrario, seré loco de veras,
y, siéndolo, no sentiré nada».12
Inoltre Cervantes, non solo riprende lo schema narrativo del “pazzo per amore” che abbandona il consorzio umano, ma lo moltiplica
in una estremizzazione parodistica, che gli conferisce l'aspetto di una
11
Le due citazioni sono tratte dalle note di MORO PINI, cit.
M. de CERVANTES, El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, a c. di L.
A. Murillo cit., 2 voll., pp. I 303-306. I corsivi sono miei.
12
264
Luisa Mulas
vera epidemia, come la pestilencia scatenata dalla bella Marcela o la
locura collettiva dei tanti pretendenti della bella Leandra13. Per ben
tre volte don Chisciotte, durante la sua erranza, si imbatte in situazioni
di questo tipo (la quarta la crea egli stesso, facendosi Beltenebros):
dapprima nell'infelice caso di Grisóstomo (capp. XI-XIV), poi in quello
a lieto fine di Cardenio (capp. XXIII-XXVIII), e infine nel caso, che il
racconto lascia in sospeso, di Eugenio (cap. LI). La replica dello schema è così evidente che ha suggerito ai filologi cervantini l'ipotesi che
«en una redacción primitiva el episodio de Grisóstomo y Marcela formaba parte de lo narrado en el c. 25 [cioè nell'episodio di Cardenio]»14.
Comunque sia andata la storia redazionale del testo, sta di fatto che
in tutta la prima parte del romanzo il motivo ricorrente dell'imboscamento amoroso funge quasi da filo conduttore, seguendo il quale Cervantes sovrappone due boschi che la tradizione letteraria aveva fino
ad allora frequentato distintamente: quello dell'avventura cavalleresca e quello del romanzo pastorale. E per quanto si consideri l'esortazione di Fernando Lázaro Carreter a non «exigir a don Quijote, tal vez
ni a Cervantes mismo, la precisión en la distinción de géneros que
nosotros nos imponemos», non viene meno l'impressione che l'autore
vada mescolando di proposito e con cognizione dei generi la selva
Caledonia o la foresta Ardenna attraversate dai cavalieri e i boschi
d'Arcadia popolati da pastori.15
13
Cfr. ivi: «Y con esta manera de condición hace mas daño en esta tierra que si
por ella entrara la pestilencia […] Y si aquí estuviésedes, señor, algún día, veríades
resonar estas sierras y estos valles con los lamentos de los desengañados que la
siguen […] Aquí sospira un pastor, allí se queja otro; acullá se oyen amorosas canciones, acá desesperadas endechas […]» (p. I 166); «A imitación nuestra, otros muchos
de los pretendientes de Leanrdra se han venido a estos ásperos montes usando el
mismo ejercicio nuestro; y son tantos, que parece que este sitio se ha convertido en
la pastoral Arcadia […] y de todos se estiende a tanto la locura, que […] No hay
hueco de peña, ni margen de arroyo, ni sombra de árbol que no esté ocupada de
algún pastor que sus desventuras a los aires cuente […]» (p. I 595). Corsivi miei.
14
L'ipotesi di Geoffrey Stagg è citata nella lunga nota di Murillo, ivi, pp. I 278280. Sulla intricata questione dell'interpolazione che ha dato luogo all'ipotesi rinvio
al Don Quijote de la Mancha, ed. F. RICO cit., in particolare alle note n. 18 al cap.
XXIII, n. 53 al cap. XXV, n. 68 al cap. XXX e alla nota a p. 341 del "volumen complementario".
15
Fernando LÁZARO CARRETER, Las voces del "Quijote", Estudio preliminar al
Don Quijote de la Mancha, ed. F. RICO cit., p. XXIV. Per il bosco ariostesco cfr. Laura
Sannia, Bosco, foresta, selva nell’"Orlando furioso". Indagine sulla parola ariostesca, in “Linguistica e letteratura”, 28 (2003), 1-2, pp. 15-32. La contaminazione tra
i due generi aveva già fatto le sue prime prove nella parentesi pastorale che sospen-
Un don Chisciotte italiano di fine Cinquecento?
265
Come il personaggio pascoliano di Gioseffo, anche i vari imboscati
cervantini sono sempre giovani e colti gentiluomini (estudiantes sono
Grisóstomo e Eugenio). Ma tra Gioseffo e Cardenio c'è una speciale
affinità dovuta alla loro condizione di cortigiani, al peso che gli inganni e gli intrighi della vita di corte hanno sulle loro storie (si pensi
alle false missive) e alla funzione determinante dei rispettivi signori
(il Principe di Barcellona per Gioseffo, il duca andaluso e suo figlio
Fernando per Cardenio) sull'andamento degli eventi. Altro elemento
in comune è la slealtà femminile, effettiva nel caso di Panfilia, solo
supposta nel caso di Luscinda. Nelle altre storie degli imboscati cervantini la donna rinvia piuttosto ad altri precedenti ariosteschi: sdegnosa di tutti come Angelica è la melindrosa16 Marcela; mentre Leandra, ingannata e abbandonata in una grotta, richiama il personaggio di Isabella, per quanto i cauti dubbi di Eugenio sulla «continencia del mozo»17 che l'ha sedotta riportino alla memoria del lettore anche l'ironica ottava ariostesca sull'intatto fiore virginale di Angelica:
«Forse era ver, ma non però credibile…»18
A proposito dei personaggi femminili vale la pena di osservare
che nel romanzo di Cervantes lo schema dell'imboscamento amoroso, oltre che reiterato e variato nel suo sviluppo (infelice fine per Grisóstomo, lieto fine per Cardenio, incerto fine per Eugenio), appare
profondamente rinnovato rispetto alla tradizione perché non subisce
restrizioni né di sesso né di ceto. Non solo i giovani nobili, infatti, ma
anche giovani e ricche contadine abbandonano casa e aldea per imboscarsi. La bella Marcela, figlia di «un labrador» che morendo la lascia «muchacha y rica», desiderata da troppi e desiderando di «amar
por elección», all'improvviso lascia gli agi della sua casa e «remanece
[…] hecha pastora», conservando «en aquella libertad y vida tan suelta […] su honestidad y recato» come una ninfa consacrata a Diana:
«Los árboles destas montañas son mi compañía, las claras aguas destos arroyos mis espejos […] tengo libre condición y no gusto de sujetarme». Questa sua scelta di vita è resa possibile dalla sua condizione sociale di ricca e indipendente ereditiera: «Yo, como sabéis, tengo
riquezas propias y no codicio las ajenas»19. Anche la bella Dorotea,
de la fuga di due eroine della tradizione epico-cavalleresca: l'Angelica di Ariosto e
l'Erminia di Tasso.
16
CERVANTES, El ingenioso hidalgo, cit., p. I 165.
17
Ivi, p. I 594.
18
Orlando Furioso, I 56.
19
CERVANTES, El ingenioso hidalgo, cit., pp. I 164-165 e 186-188.
266
Luisa Mulas
figlia di un ricco contadino e amministratrice dell'azienda paterna, si
imbosca, ma non per difendere la propria libertà come Marcela, bensì per il dolore di veder negletta la propria soggezione amorosa a
Fernando, il quale, dopo aver contratto con lei nozze segrete, si è volto ad amare Luscinda.20
Traducendo al femminile il topos dell'imboscamento amoroso, Cervantes ne ripete fino in fondo lo schema. E come tutti gli imboscati
di sesso maschile del Quijote sono anche narratori delle proprie traversie amorose (persino il defunto Grisóstomo, che le lascia scritte
nei versi della sua Canción desesperada21), allo stesso modo Marcela racconta la propria storia (o fa la propria apologia) a don Chisciotte e ai caprai convenuti ai funerali di Grisóstomo, e Dorotea racconta
la sua al curato, al barbiere e a Cardenio, il quale rivive così da una
diversa prospettiva la sua propria storia e ne intravede quel possibile
lieto fine che poi si avvererà alla locanda col provvidenziale arrivo
di Luscinda e di Fernando.22
La funzione autobiografica è dunque un carattere tipico dell'amante
imboscato cervantino, sebbene non fosse presente negli analoghi personaggi della tradizione cavalleresca: non nei dissennati Yvain e Orlando, non nell'afflitto Amadigi, non in Tristano, i quali, per altro, nella
loro silvana solitudine incontravano solo eremiti di poche parole.
Yvain, trasformato in una creatura forsennata e selvaggia, che uccide
le bestie nella foresta e si ciba della loro carne cruda, riceve pane e
acqua da un silenzioso eremita. E ancora un eremita è colui che soccorre Amadigi nel suo dolore, gli dà il nome di Beltenebros e lo conduce a far penitenza nel proprio eremo sull'isola della Peña Pobre.
Cardenio ed Eugenio, invece, si imbattono entrambi in un cavaliere amante del dialogo e desideroso di conoscere le loro sventure:
«yo os suplico, señor — dice don Chisciotte a Cardenio — que me digáis
quién sois y la causa que os ha traído a vivir y a morir entre estas soledades»23; e ad Eugenio: «Por ver que tiene esto caso un no sé qué de
sombra de aventura de caballería, yo, por mi parte, os oiré, hermano,
de muy buena gana»24. Ma prima di loro era stato Gioseffo, il «cortigiano disperato», il pazzo imboscato di Gabriele Pascoli, ad incontrare
un pietoso cavaliere che lo aveva insistentemente pregato di raccon20
Cfr. ivi, pp. I 347-358.
Ivi, pp. I 180-184.
22
Ivi, pp. I 449-456.
23
Ivi, p. I 291.
24
Ivi, p. I 589.
21
Un don Chisciotte italiano di fine Cinquecento?
267
targli la sua storia, e lui gliel'aveva raccontata.
Chissà se è per effetto della lunga narrazione di Gioseffo che Cardenio detiene la funzione di narratore autobiografico di più e più a
lungo degli altri imboscati di Cervantes. Il suo racconto, inframmezzato da accessi di follia, si svolge in due riprese, avendo come ascoltatori attenti e partecipi dapprima don Chisciotte e Sancho, poi il barbiere e il curato.25
Cardenio somiglia a Gioseffo per questa inclinazione a narrare di
sé e per molti altri aspetti, primi fra tutti, come si è detto, la sua condizione di cortigiano e la sua speciale locura, che, come la pazzesca
pazzia di Gioseffo, convive con uno stato di triste consapevolezza di
sé. Le altre analogie riguardano il modo in cui il personaggio si presenta e agisce sulla scena.
Come Gioseffo compare in scena preannunciato dalla sua dolente
e lamentevol voce e dal suo dirotto pianto, così Cardenio, prima di
essere avvistato dal curato e dal barbiere, fa sentire i suoi sollozos,
lastimeros ayes, gemidos.26
Come Gioseffo appare a Gregorio in sembianza di
un dolente et affannato giovene, che piangendo se ne dimorava […]
trasfigurato in faccia, e tutto mesto”, a stento riconoscibile come “creatura humana […] posciache sembrava huomo selvatico, bruno nel
viso, e con gli occhi entrati dentro, che a pena si discerneva se egli li
havesse o no. In lui ciascun osso piangeva, et havea la pelle tutta
ringricciuta, et già erano tanto cresciuti i capelli, che con disordinato
rabbuffamento coprivano parte del dolente viso; et la barba molto
torta e rigida, tutta divenuta; i panni erano tutti sozzi, e molto brutti;
niuno, che nella sua prosperità veduto l'havesse, per tale mai riconosciuto l'havrebbe
25
L'intera storia degli amori di Cardenio e Luscinda e di Dorotea e Fernando si
viene componendo, oltre che nel racconto di primo grado (ritrovamento della valigia e del cadavere della mula da parte di don Chisciotte e Sancho: cap. 23), attraverso
i racconti di secondo grado fatti dal capraio (cap. 23) e da Cardenio a don Chisciotte
e Sancho (cap. 24), da Cardenio al curato e al barbiere (cap. 27), da Dorotea al curato
al barbiere e a Cardenio (cap. 28), e infine ancora dal narratore di primo grado che,
dopo il lungo intermezzo della novella del “curioso impertinente”, ci conduce fuori
“de aquel intricado laberinto” raccontando il felice epilogo (cap. 36) del quale resta
inconsapevole solo don Chisciotte, che frattanto “se estaba durmiendo a sueño
suelto, bien descuidado de todo lo sucedido” (inizio cap. I 37).
26
Ivi, p. 331. Il curato, il barbiere e Cardenio, prima di imbattersi in Dorotea, ne
odono la «voz […] con tristes acentos» (ivi, p. I 344).
268
Luisa Mulas
similmente Cardenio appare a don Chisciotte con
la barba negra y espesa, los cabellos muchos y rabultados, los pies
descalzos y las piernas sin cosa alguna; los muslos cubrían unos calzones, al parecer, de terciopelo leonado, mas tan hechos pedazos,
que por muchas partes se le descubrían las carnes.27
e ai caprai come un mancebo,
ya roto el vestido, y el rostro disfigurado y tostado del sol, de tal
suerte, que apenas le conocíamos.28
Come Gioseffo sceglie di ritirarsi in un «horrido e diserto loco»,
un «solingo, oscuro, e salvatico bosco per esser di sé stesso […] micidiale», così Cardenio si fa indicare dai pastori la parte «más áspera y
escondida» della sierra […] con intención de acabar aquí la vida».29
Come Gioseffo, pur distendendo il racconto delle proprie sciagure su tutta la prima parte del testo, si era mostrato da principio molto
restio a cedere alle sollecitazioni di Gregorio, così Cardenio, pregato
amabilmente da don Chisciotte, prima di iniziare la sua storia dice di
voler «pasar brevemente por el cuento de sus desgracias; que el traerlas a la memoria no le sirve de otra cosa que añadir otras de nuevo».30
Gli elementi comuni a Gioseffo e Cardenio sono numerosi e notevoli. Certo, sono anche elementi presenti, sia pure in combinazioni e
misure diverse, in troppi altri personaggi della letteratura narrativa
tradizionale31 perché si possa risolutamente sostenere che tra i due ci
27
Ivi, pp. I 284-285.
Ivi, p. I 287.
29
Ivi, pp. I 287 e 341.
30
Ivi, I 292.
31
Non solo nei già evocati personaggi della letteratura cavalleresca, ma anche
nella letteratura pastorale e nel Romancero, come quel caballero del romance di
Juan del Encina citato da Ramón Menéndez Pidal: «Aquel Cardenio que, de amante
despechado, se entra por lo más áspero y escondido de la Sierra, deja muerta su
mula y él se embosca en lo más cerrado y oculto de la montaña, entre jarales y
malezas, saltando de mata en mata; que, rodeado y compadecido por los pastores,
llora y da muestras de locura, suspendiendo su plática y clavando sus ojos en el
suelo, es una figura arrancada de aquel romance de Juan del Encina, divulgado al
par de los romances viejos en Cancioneros y pliegos sueltos:
Por unos puertos arriba
de montaña muy escura
caminaba un caballero
28
Un don Chisciotte italiano di fine Cinquecento?
269
sia una parentela diretta. Ad accrescere i dubbi c'è il fatto che nella
Pazzesca pazzia non c'è traccia dell'episodio del ritrovamento della
valigia e del cadavere della mula.
Eppure la somiglianza tra i due personaggi sussiste, ed è tanto più
intrigante quanto più appare sorprendente e suggestivo, in rapporto
al testo di Cervantes, un altro aspetto del racconto di Pascoli. Alludo
alla figura del narratore di primo grado, quel Gregorio che sembra racchiudere in sé, allo stato germinale, le figure di don Chisciotte e del
suo autore.
Gregorio è un cavaliere che ha combattuto a Lepanto, come Miguel
de Cervantes, ed erra per la Spagna in compagnia di un fedele servitore, come don Chisciotte con Sancho. Ad accentuare la sua somiglianza col cavaliere della Triste Figura ci sono altre due circostanze esterne, che si possono considerare prologo ed epilogo dell'incontro con
l'innamorato inselvatichito.
Nel “prologo” Gregorio e Libero vengono assaliti e derubati dai
masnadieri, così come don Chisciotte e Sancho, prima dell'incontro
con Cardenio, alla fine del capitolo XXII, vengono lapidati e mezzo
spogliati da Ginés de Pasamonte e dai suoi compagni galeotti, e la notte seguente (se si segue il testo della seconda stampa di Juan de la Cuesta del 1605), la prima che il cavaliere e lo scudiero passano nella
Sierra Morena, l'asino di Sancho viene rubato dallo stesso Ginés.
Nell'“epilogo” ritroviamo Barcellona come ultima tappa degli itinerari tanto di Gregorio quanto di don Chisciotte, prima del loro defilastimado de tristura.
El caballo deja muerto
y él a pie por su ventura,
andando de sierra en sierra,
de camino no se cura.
Métese de mata en mata
por la mayor espesura;
los ojos puestos en tierra,
sospirando sin mesura;
despedido por su amiga
por su más que desventura.
—¿Quién te trajo, caballero,
por esta montaña escura?
—¡Ay pastor, que mi ventura!…»
Cfr. Ramón MENÉNDEZ PIDAL, «Un aspecto de la elaboración del Quijote», en De
Cervantes y Lope de Vega, Buenos Aires-Madrid, Espasa-Calpe, 1948, 4.ª ed. 1964
(1920), pp. 9-60. Leggo il saggio in rete, sul sito del Centro Virtual Cervantes <http://
cvc.cervantes.es/portada.htm>.
270
Luisa Mulas
nitivo ritorno a casa. Gregorio, con Gioseffo e Libero, tornerà alla natia
Ravenna da Barcellona, da dove anche don Chisciotte tornerà definitivamente al suo innominato lugar de la Mancha dopo essere stato
abbattuto, proprio sulla marina di Barcellona, dal Caballero de la Blanca Luna.32
Se poi, al di là di queste coincidenze esterne, passiamo ad osservare più intimamente la cultura, l'etica, l'ideologia di Gregorio, le troviamo perfettamente aderenti all'idea di cavalleria errante professata
da don Chisciotte. Gregorio in verità non si autodefinisce mai «cavaliere errante», ma i valori della fatica, della generosità e della solitudine che lo inducono a peregrinare, invece che a restare in corte o a
tornare a casa alla fine della guerra, sono gli stessi che muovono don
Chisciotte.
Concetto basilare comune ad entrambi è la contiguità e continuità
tra la guerra e la cavalleria: come per Gregorio lʼerranza è la continuazione dellʼusata fatica della guerra, così per don Chisciotte «soldados y caballeros» costituiscono unʼunica categoria dedita allʼesecuzione di quel «bien de la tierra» che i religiosi chiedono al cielo con
le loro preghiere. «Y como las cosas de la guerra y las a ella tocantes
y concernientes no se pueden poner en ejecución sino sudando, afanando y trabajando», così soldati e cavalieri «tienen, sin duda, mayor
trabajo que aquellos que en sosegada paz y reposo están rogando a
Dios favorezca a los que poco pueden». Lo stato del cavaliere è dunque «más trabajoso y más aporreado, y más hambriento y sediento,
miserable, roto y piojoso», di quello del più rigido e «encerrado»
ordine religioso.
E' significativo che don Chisciotte, sviluppando questo paragone,
associ, da un lato, cavalieri e soldati in quanto esecutori di ordini,
dall'altro religiosi e capitani in quanto mandanti, e che proclami: «no
hace menos el soldado que pone en ejecución lo que su capitán le
manda que el mesmo capitán que se lo ordena»33. Serpeggia in queste parole un sussiegoso risentimento “di classe”, analogo a quello
che sostiene l'opposizione, stabilita poco prima da don Chisciotte
nella stessa scena, tra la faticosa e inquieta vita del cavaliere errante
e quella agiata e riposata dei «blandos cortesanos».
32
Cfr. CERVANTES, El ingenioso hidalgo cit., II, cap. 64. Naturalmente la somiglianza si attenua se si considera che Gregorio parte da Barcellona vincitore, avendo condotto a buon fine l'impresa della vendetta di Gioseffo su Panfilia, mentre don
Chisciotte ne parte sconfitto.
33
Ivi, pp. I 173-174.
Un don Chisciotte italiano di fine Cinquecento?
271
In queste battute c'è un sentore di menosprecio de corte percepibile
anche nell'erranza di Gregorio e nella dedica che lo stampatore Giulio Somasco indirizza ai Lettori della Pazzesca pazzia, proponendola
come un'opera per tutti, ma «specialmente per quelli che fanno professione di voler vivere nella Corte, e sapersi difendere dalle insidie,
et inganni delle dame di Corte» (c. 6r).
Per don Chisciotte, come già per Gregorio, la professione delle armi non è più compatibile con quella del cortigiano. Meno di un secolo prima di loro, Baldassar Castiglione aveva fatto pronunciare al
conte Ludovico di Canossa parole che sancivano il nesso tra armi e
cortigiania come un principio incorruttibile: «estimo che la principale e vera profession del cortegiano debba esser quella dell'arme».34 E
invece, nella Pazzesca pazzia e nel Quijote, quello della cortigiania e
quello delle armi sono ormai due mondi lontanissimi. Basta leggere
con quanta impazienza Gregorio e gli altri valorosi uomini prendano
commiato dal sacro Imperio (ossia dalla corte) per prorogare l' usata
fatica della guerra nell'escursione di stranieri paesi e incogniti, o
con quanta nettezza don Chisciotte opponga «el buen paso, el regalo
y el reposo» dei «blandos cortesanos» a «el trabajo, la inquietud y
las armas» di «aquellos que el mundo llama caballeros andantes»35, per
capire che nella realtà e nella cultura delle armi tutto è cambiato.36
E il cambiamento si manifesta sia nel teorizzato distacco tra cortigiania e professione delle armi, tra il riposo dell'una e la fatica dell'altra, sia nella assimilazione tra il trabajo della guerra e il trabajo
della cavalleria errante, che letterariamente ha già dato i suoi frutti
con l'integrazione dell'epica carolingia e del romanzo arturiano nel
poema epico-cavalleresco italiano.
I valorosi reduci da Lepanto, che si avventurano per stranieri paesi e incogniti (cioè si danno all'erranza) per non rinunciare all'usata
fatica […] alla loro generosità convenevole, ricercano la fatica dell'
erranza come una condizione di vita ideale, in quanto necessaria37
all'attuazione della loro generosità. Perché (e lo sa bene e lo dice più
34
Il libro del Cortegiano, I 17.
CERVANTES, El ingenioso hidalgo, cit., pp. I 169.
36
Le trasformazioni tecniche e culturali della guerra nell'Europa (e in particolare nella Spagna) tra Quattro e Cinquecento sono finemente analizzate nel volume di
Raffaele PUDDU, Il soldato gentiluomo, Bologna, Il Mulino, 1982.
37
Nel passo di Pascoli («usata fatica […] alla loro generosità convenevole»),
convenevole va inteso come aggettivo deverbale di convenire nel senso di "essere
necessario".
35
272
Luisa Mulas
volte don Chisciotte) la generosità del cavaliere, ossia la sua altruistica
disposizione a soccorrere i sofferenti e i bisognosi, tanto più risplende quanto più le difficoltà, i disagi, le fatiche, ne inaspriscono la pratica.
E' per generosità cavalleresca che Gregorio non si limita ad esprimere a parole la sua affettuosa compassione verso Gioseffo, ma è
determinato a restare nel bosco e persino a morire con lui se non
riuscirà ad ottenerne almeno la confidenza. Situazione pressoché identica a quella che si instaura tra Cardenio e don Chisciotte. Il cavaliere della Mancha, dopo averlo avvistato da lontano e aver ottenuto un
primo ragguaglio dal capraio, «quedó con más deseo de saber quién
era el desdichado loco, y propuso […] de buscalle por toda la montaña, sin dejar rincón ni cueva en ella que no mirase, hasta hallarle»38.
Quando poi lo incontra, gli dice che non desidera altro che servirlo e
aggiunge: «tenía determinado de no salir destas sierras hasta hallaros».39
Quanto alla solitudine propria del cavaliere, Gregorio la sottolinea
bene quando si distacca dagli altri valorosi uomini con il pronome di
prima persona: «Io dunque a cui più assai esser solo, che a' compagni
dilettava, con un mio solo servitore…». Solo vuol essere anche don
Chisciotte, soprattutto quando decide di imboscarsi come un desdichado amante, rinunciando persino alla compagnia del suo Rocinante: «¡Oh solitarios árboles, que desde hoy en adelante habéis de hacer compañía a mi soledad…»40 La differenza tra i due si misura nel
fatto che Cervantes dà al suo personaggio le splendide contraddizioni di quella savia e volontaria locura che Pascoli mai saprebbe immaginare per il suo Gregorio. Don Chisciotte, infatti, vedendo che Sancho si affretta a sellare Rocinante per dare ida y vuelta alla sua missione presso Dulcinea, lo trattiene perché la solitaria follia del cavaliere innamorato ha bisogno di un narratore testimone: «y digo que
de aquí a tres días te partirás, porque quiero que en este tiempo veas
lo que por ella [Dulcinea] hago y digo, para que se lo digas».41
Una differenza di livello artistico essenziale e radicale, che ripropone con maggiori perplessità la domanda: può il libro di Pascoli
aver fornito a Cervantes uno spunto per il suo capolavoro? La rispo38
CERVANTES, El ingenioso hidalgo, cit., p. I 289.
Ivi, I 291.
40
Ivi, p. I 308.
41
Ivi, p. I 309.
39
Un don Chisciotte italiano di fine Cinquecento?
273
sta meno azzardata potrebbe essere: forse non proprio il libro di Pascoli, ma piuttosto la realtà che gli ha dato vita, non lontana dalla
realtà vissuta dallo stesso Cervantes, quella «verdad de la calle y de los
caminos» che già era entrata nel romanzo con le storie di Lazarillo e
di Guzmán de Alfarache.42
L'ipotesi che Gregorio e gli altri valorosi uomini incarnino un tipo umano realmente diffuso nella società di fine Cinquecento (e nel
quale forse anche Cervantes si è riconosciuto) sembra desumibile dai
preliminari della Pazzesca pazzia. Nella sua lettera allo stampatore e
“amico carissimo” Giulio Somasco, l'autore Gabriele Pascoli, giunto
a un'età “homai senile”, dice di aver scritto la sua opera «già molti
anni sono […] per satisfare ad alcuni miei cari amici, e compagni, fin
quando ero nello studio di Padova, quali mi riferirono questo occorso
caso, et mi pregarono assai di porlo in carta più limato che fosse
possibile» (c. 4r). Le modestissime qualità letterarie e artistiche del
testo rendono credibile che quello di Gregorio sia un occorso caso,
una storia vera, che Gabriele Pascoli da sé non avrebbe saputo creare. Ma anche ammesso che si tratti di fabula ficta, magari ripresa da
una “leggenda metropolitana” circolante nel tardo Cinquecento fra
gli studenti padovani, ciò che importa a questo riguardo non è tanto
lo straordinario incontro nel bosco, quanto il tono di ordinaria cronaca contemporanea con cui il testo presenta all'inizio i valorosi uomini che prendono commiato dalla corte imperiale e si dirigono in diverse et incognite bande. E il fatto che essi si sentano attratti non, per
esempio, dai vasti spazi del “nuovo” mondo, ma da stranieri paesi e
incogniti nei quali la letteratura epica e cavalleresca aveva ambientato tante gesta e avventure di paladini e cavalieri (la Calabria, la Sicilia e la Spagna), può far intuire che proprio in quella letteratura essi
cercassero e trovassero un risarcimento alla loro condizione sociale
di ex-combattenti sradicati.
Da questa prospettiva, per farsi una ragione delle coincidenze tra
La pazzesca pazzia e il Quijote non è necessario ipotizzare un contatto diretto di Cervantes con l'opera di Pascoli, perché il desatino
del ingenioso hidalgo non si spiega solo con la sua afición y gusto
per un modello di cavalleria idealizzata nei libri, ma sembra trarre
alimento anche da un modello di erranza socialmente diffuso, prodotto dalle tante guerre del “secolo di ferro”.
42
Cfr. LÁZARO CARRETER, Las voces del "Quijote", cit. p. XXIII.
275
DON QUIXOTE
IN
INGHILTERRA
Santa Boi
Università di Cagliari
A Pina Ledda per la sua costante, gentile
amorevolezza e per l’esempio che ha sempre
dato di umanità, competenza e forza intellettuale.
Tra le tante voci che si interrogano su uno o più aspetti dellʼopera
maggiore di Cervantes, a quattrocento e più anni dalla sua pubblicazione, non si può non concordare con quella di Wladimir Krysinski
quando, nel suo volume sul romanzo moderno, afferma che
Lʼevoluzione del romanzo è debitrice di Cervantes, poiché è a partire dal Don Chisciotte che il genere romanzesco perseguirà un processo digressivo che destabilizzerà il racconto, rivelando lʼinstabilità
funzionale della narrazione.[…] A partire da Cervantes si costituisce
una moderna epistemologia del romanzo, un modo di rappresentazione prospettica che implica una serie di operazioni sulla rappresentazione narrativa del romanzo, le quali negativizzano o manipolano
la rappresentazione medesima. In ogni caso, particolarmente importanti in questa episteme del romanzo sono la digressività, lʼironia e la
discontinuità funzionali.1
Al momento attuale la critica si orienta verso unʼanalisi accurata,
puntigliosa, delle scelte stilistiche dellʼopera letteraria. Ad interessare
lo studioso sono soprattutto le questioni di forma, che meglio gli consentiranno di tentare di trovare un terreno comune, ʻpoliticamente correttoʼ, sul quale individuare eventuali punti dʼincontro con gli altri
critici. Per quanto riguarda il Don Chisciotte in Inghilterra, per nulla
ʻpoliticamente correttiʼ furono i giudizi che fioccarono immediatamente dopo la pubblicazione dellʼopera di Cervantes, letta, si può presumere, in lingua originale, e poi passata in Inghilterra, nella sua prima
1
W. KRYSINZSKI, Il romanzo e la modernità, prefazione di Francesco Muzzioli,
in Marina GUGLIELMI (a cura di), Trame, Roma, Armando, 2003, p. 67.
276
Santa Boi
traduzione ad opera di Thomas Shelton, con il titolo The History of the
valorous and Wittie Knight-Errant Don-Quixote of the Mancha, The
First Part, del 16122. A dire il vero lʼautore sosterrà di averla realizzata tra il 1609 e il 1610, mentre la seconda parte comparirà soltanto nel
16153, consentendo così lʼapertura di un suggestivo capitolo mai chiuso, relativo alle nuove istanze prodotte da Cervantes presso la cultura
delle isole britanniche.
Per tentare di costruire un percorso che renda conto di questo incontro di Don Chisciotte con la cultura inglese4, non si dovrebbe partire dalla relazione tra Cervantes e il romanzo — anche se tale incontro
avvenne e fu straordinariamente fecondo — bensì dal rapporto tra il
romanzo e il teatro. Furono infatti i drammaturghi del periodo giacomiano, e fra essi lo stesso Shakespeare, ad allertarsi immediatamente e
a instaurare un dialogo con lʼopera dellʼautore spagnolo, aprendo nuove prospettive su temi già ben conosciuti, ma che lʼintervento di
Cervantes consentiva di reinterpretare in totale novità.
Come si può facilmente intuire, accostarsi alle diverse forme che
questo incontro ha assunto nel corso di quattrocento anni, ovvero un
semplice resoconto delle principali tappe della ricezione di questʼopera in Inghilterra, richiederebbe una serie di volumi, oltre quelli già
stampati. Si cercherà pertanto di limitare lʼapporto a poche sottolineature seguendo un percorso che, se necessariamente scarta molte delle
tappe più importanti di questo dialogo tra testi, faccia intravedere la
vastità dei possibili spazi di lavoro interpretativo e dei principali snodi
che hanno caratterizzato questo legame fecondo tra le due culture.
Vorrei in tal modo assumere lʼatteggiamento umile, anche se lievemente malizioso, della ben nota autrice di History of England from
the Reign of Henry the 4th to the death of Charles the 1st, ammetten2
J. FITZMAURICE-KELLY (ed.), 1896, rpt. New York, AMS, 1967.
Innumerevoli sono state, dopo quella di Shelton, le traduzioni per tutto il Seicento, il Settecento, lʼOttocento e il Novecento; fino allʼultima del 2003 (recensita
molto positivamente da H. Bloom, da B. Williams a da A.S. Byatt) ad opera di Edith
Grossman. Il suo grande merito è lʼuso di un inglese vivo e attuale, nonostante non
vi manchino, proprio per questo processo di adattamento, alcune perdite, la più
grave delle quali è lʼattribuzione al protagonista dellʼ appellativo di Knight of the
Sorrowful Face, banale resa del molto più efficace e ricco di risonanze, Knight of
the Ilfavoured face della prima traduzione di Shelton o Knight of the Doleful Countenance di traduzioni successive.
4
Per una lettura diacronica del Don Quijote, in ambito europeo, si rimanda al
saggio di G. LEDDA, «Leggere il Quijote», in G. Cerina, (a cura di), Leggere il romanzo, Roma, Bulzoni, 1988, pp. 68-82.
3
Don Quixote in Inghilterra
277
do senza alcun indugio con lei di esprimere lʼopinione di «a partial,
prejudiced & ignorant Historian».5
La rilevanza del Quijote, anzi del Quixote, dato che gli Inglesi si
attennero fin da subito alla versione più arcaica del nome del protagonista, fu immediata. Possiamo dare le date della risposta dei drammaturghi giacomiani ad un testo così appetibile che ebbe diverse menzioni: di Ben Jonson il quale in Epicoene, or The Silent Woman (1609/
10) e in The Alchemist (1610)6, si limitò a identificare la malattia del
protagonista del romanzo spagnolo e a catalogarla subito in maniera
sarcastica come una fuga dal mondo quindi disdicevole e assurda7. Si
percepisce immediatamente nel classicista Ben Jonson lʼattenzione
specifica verso il genere pastorale e la sua preferenza per la concezione virgiliana della poesia bucolica che non scaturisce affatto da una
forma di escapismo e da un sognante desiderio, bensì dalla realtà e
ʻpresenza sperimentataʼ della poesia. LʼArcadia per Jonson non può
essere considerata come un paesaggio spirituale, una terra lontana ricoperta da una tinta dorata di irrealtà, ma come la presentazione del sé
e della propria poesia, le cui principali caratteristiche devono necessariamente essere, come accade nella mente di Virgilio, il luogo in cui
[…] political matters are closely connected with mythical concepts;
5
J. AUSTEN, «The History of England, Juvenilia», vol. II, in R.W. Chapman (a
cura di), Minor Works, Oxford, 1988, p. 138.
6
Ben JONSON, Epicoene, or The Silent Woman, atto IV, sc.1: «Truewit. Yes, but
you must leave tʼ live in you own chamber,then, a month together upon Amadis de
Gaul, or Don Quixote as you are wont; and come abroad where the matter is frequent, to court, to tiltings, public shows, and feasts, to plays, and church sometimes».Va bene, ma allora devi smettere di vivere chiuso in camera per un mese a
leggere Amadigi di Gaula o Don Chisciotte, come sei solito; e uscirtene dove abbonda il soggetto per il tuo studio, a corte, ai tornei, alle mostre pubbliche, alle
feste, alle commedie e qualche volta in chiesa” e ancora in The Alchemist, atto IV
sc. 7, in cui si gioca sulle parole e le battute sferzanti includono ormai, come personaggio acquisito e familiare il protagonista dellʼopera di Cervantes: «Surly. Why,
this is madness,sir, /Not valour in you; I must laugh at this. Kastril. It is my humour: you are a pimp and a trig,/ And an Amadis de Gaul, or a Don Quixote. Drugger. Or a knight oʼ the curious coxcomb, do you see?» «Siete un ruffiano, un vanesio, e un Amadigi di Gaula o un Don Chisciotte. […] O un Cavaliere dalla trista
mistura», come scherzano Castrino e Drogante. Cfr. Ben JONSON, Plays and Masques,
selected and edited by Robert M. Adams,Norton critical edition, New York and
London, 1979, p. 139 e p. 254. (Traggo le citazioni in italiano da Ben JONSON, Teatro
a cura di Nereo E. Condini, Editori Associati, Milano, 1988, p. 211 e 387).
7
Va sottolineato inoltre come si discuta soprattutto di poesia pastorale, e di poesia pastorale alla luce delle dottrine elaborate da teorici italiani del genere quali
Castelvetro, Guarini, Sannazzaro.
278
Santa Boi
and […] the combining and blending of myth and reality, which is so
characteristic of the arcadian temper, achieves a singularly impressive result,/…/ His Arcadia is set half-way between myth and reality/…/ In Virgil, politics is the ever-present condition without which
the pastoral fiction could not last.8
Da qui lʼimmediata presa di posizione di Jonson nei confronti dellʼopera di Cervantes e del suo estatico, sognante e digressivo protagonista, innamorato, per le ragioni sbagliate, della poesia pastorale, afferrato dalla magia irreale del mondo cavalleresco e delle sue trame,
ma privo, secondo Jonson, del virgiliano, forte, necessario, legame con
la concretezza del reale.
A questi primi testi deve aggiungersi lʼopera di Beaumont, The
Knight of the Burning Pestle, apparsa ancor prima delle opere già menzionate e che offre una singolare attestazione del dialogo, sempre allʼinterno della cifra del comico, iniziato, fin dal 16079, con il capolavoro di Cervantes. Ci si trasferisce, in questo caso, nel contesto di una
city comedy dove si crea una trasposizione, in ambito londinese, del
personaggio protagonista di Don Quixote, nel nuovo dramma chiamato Rafe, con un adattamento concretamente legato alla vita e ai costumi della Londra del tempo. Ad interessare Beaumont non sono tuttavia dei singoli richiami, ma è il personaggio protagonista che, con la
sua bizzarria, la sua patetica distanza dalla realtà è presentato ed è
chiamato a interagire per contrasto con una coppia di incolti Sancho
Panza che si interrogano sullʼazione di cui sono spettatori e sulle reali
possibilità per il coraggioso eroe di superare gli ostacoli che gli si stagliano dinanzi.
Degli stessi anni è lʼapporto di Shakespeare che in The Tempest
(1611) riprende il tema ovidiano dellʼEtà dellʼoro, già presente in Montaigne tradotto in Inghilterra da Golding e da Florio. Motivo ovviamente molto ricorrente nella poetica del Rinascimento anche in Inghilterra, ma che, Shakespeare, nel riprenderlo, ci sembra voglia far interagire con il passo in cui Don Quixote narra ai caprai esterrefatti le
8
E.A. SCHMIDT, Poetische reflexion. Vergils Bukolik, Munich, 1972, pp. 184 e
segg., cit. da Wolfang ISER, The Fictive and the Imaginary, Charting Literary Anthropology, Baltimore and London, The Johns Hopkins Univ. Press, 1993, pp. 28-29.
9
Stabilisce con accuratezza i momenti e i passaggi della lettura del Quixote e
del suo rapporto con The Knight of the Burning Pestle e con altre opere coeve,
Laura SANNA nel suo dettagliato ‘Sweet Deceiving’ Le strategie della finzione in una
commedia di Francis Beaumont, Pisa, Giardini editori e stampatori in Pisa, 1983,
(importanti ai fini della nostra argomentazione le pagine 78-88).
Don Quixote in Inghilterra
279
meraviglie di unʼepoca che ancora faceva riflettere:
—O venturosa età, e secoli venturosi quelli a cui dettero gli antichi il
nome di età dellʼoro, non perché lʼoro, che in questa nostra età di ferro tanto è pregiato, senza veruna fatica in quei fortunati tempi si ottenesse, ma perché ignorate erano allora dai viventi queste due parole:
tuo e mio. In quella pia età tutte erano comuni le cose; nessuno, per
ottenere il suo quotidiano alimento, aveva dʼuopo lʼaltra fatica, se non
dʼalzar la mano e coglierlo dalle robuste querce, che liberalmente al
banchetto dei loro maturi e saporosi frutti invitavano. […] Tutto era pace allora, tutto amistà, tutto concordia, né ancora il pesante vomere
del ricurvo aratro aveva ardito fendere ed esplorare le viscere pietose
della nostra prima madre che, senza esser da chicchessia costretta,
offriva, su tutti i punti del suo seno fertile e spazioso, ciò che poteva
sostentare, saziare e dilettare i figli, che allora vi dimoravano.10
La ripresa, in una nuova luce ironica e sarcastica, di tematiche
come quella dellʼetà dellʼoro, — intesa come frutto di fantasticheria,
espressione di illusione utopica, ingiustificata, priva di un qualsiasi
riscontro nel senso comune e raffigurata nella reazione dei pastori che
assistono in un silenzio denso di rispetto, ma di un rispetto per una
realtà che essi non comprendono —, viene commentata dal narratore
con accenti ironici che sottolineano la distanza tra lʼispirato discorso
dellʼeroe protagonista e lʼestraneità totale ad esso dei pastori costretti
ad ascoltarlo:
Questa lunga orazione (e se la poteva proprio risparmiare) pronunciò
il nostro cavaliere, sol perché le ghiande che gli avevan date, gli avevan fatto venire in mente lʼetà dellʼoro. Perciò gli venne il ghiribizzo
di far quellʼinutile discorso ai caprai, che senza dire una parola, intontiti ed estatici, erano stati ad ascoltarlo.11
Lʼequivalente del silenzio eloquente dei caprai, viene riproposto,
nello stesso spirito di Cervantes, dallo scetticismo che si oppone al discorso del buon Gonzalo, in The Tempest, laddove anchʼegli, con lo
stesso atteggiamento sognante e straniato di Don Chisciotte, parla di
unʼisola felice e della sua idea di commonwealth di fronte a due dei
10
Miguel de CERVANTES, Don Chisciotte della Mancia, a cura di Cesare Segre e
di Donatella Moro Pini, traduzione di Ferdinando Carlesi, Milano, Mondadori, 2000,
p. 92.
11
Ivi, p. 94.
280
Santa Boi
villains del romance shakespeariano, Antonio e Sebastian, che non
esitano a farsi beffe di lui, della sua isola utopica e del suo mondo
ormai fuori dal mondo:
Gonzalo. Iʼ thʼ commonwealth I would by contraries
Execute all things; for no kind of traffic
Would I admit; no name of magistrate;
Letters should not be known; riches, poverty,
And use of service, none; contract, succession,
Bourn, bound of land, tilt, vineyard, none;
No use of metal, corn, or wine or oil;
No occupation; all men idle, all;
And women too but innocent and pure:
No sovereignty; Sebastian.
Yet he would be King on ʻt.
Antonio. The latter end of his commonwealth forgets the
Beginning.
Gonzalo. All things in common Nature should produce
Without sweat or endeavour: treason, felony,
Sword, pike, knife, gun, or need of any engine,
Would I not have; but Nature should bring forth,
Of it own kind, all foison, all abundance,
To feed my innocent people.
Sebastian. No marrying ʻmong his subjects?
Antonio. None , man; all idle; whores and knaves.
Gonzalo. I would with such perfection govern, sir,
Tʼexcel the Golden Age.
Sebastian.
ʻSave his Majesty!
12
Antonio. Long live Gonzalo!
Certo in The Tempest la presenza innegabile del male, la sua forza distruttiva, non assoluta ma pure reale e disturbatrice del cosmo,
ʻla tempestaʼ, appunto, viene tenuta sotto controllo da rassicurazioni
sulla certezza che tutto andrà per il meglio, ma lʼetà dellʼoro è considerata ormai una realtà incomprensibile, irraggiungibile, che scricchiola sotto i colpi dello scetticismo e della visione ormai più amara,
pessimistica, se non cupa, della nuova cultura, pone seri dubbi su
Gonzalo e la sua nostalgia dei tempi felici in un contesto decisamente ostile e irriverente e che, con una certa arroganza, ne mette in di12
W. SHAKESPEARE,The Tempest, atto II sc. 1, a cura di F. Kermode, London
and New York, 1984, pp. 50-51, tr. it. G. Melchiori, The Tempest, I drammi romanzeschi, I Meridiani Mondadori, Milano, 2000, pp. 854-858.
Don Quixote in Inghilterra
281
scussione la validità, esattamente come avviene in Don Quixote13. Appare evidente come gli autori di teatro entrino in relazione con il testo
di Cervantes ma ne sottolineino solo alcuni aspetti, quelli che più interessavano la cultura giacomiana che proprio in quegli anni andava
proponendo i modelli italiani della tragicommedia, del dramma pastorale e di favole pastorali quali lʼArcadia di Sannazzaro, Il Pastor
Fido di Guarini, lʼAminta di Tasso.14
Cardenio, scritto da Shakespeare insieme a Henry VIII (1613),
The Two Noble Kinsmen (1613, pubb.1634) in collaborazione con
John Fletcher, è un dramma a noi non pervenuto, ma se ne può ricostruire con molta sicurezza il contesto in cui venne presentato a corte
una prima volta nel 1612 e poi, nel 1613. Si può inoltre ipotizzare di
riconoscere nella riscrittura più tarda (che avrebbe incorporato parte
del dramma originale, ad opera di Lewis Theobald dal titolo Double
Falsehood orThe Distressed Lovers) lʼoriginale perduto, sia pure modificato in qualche parte, e nei nomi, al quale lo Stationers’ Register15 aveva assegnato il titolo di Cardenna, o Cardenio, la paternità
congiunta di Shakespeare e Fletcher. Lʼepisodio di Cardenio, come è
13
Su questo punto si esprime esaustivamente V. BOURGEOIS RICHMOND nel suo
Shakespeare, Catholicism and Romance, New York e Londra, Continuum, 2000, p.
175, quando scrive di Gonzalo come del «[…] wise elder who never refuses charity,
calls their preservation ʻthe miracleʼ and observes that not even their garments are
stained (II.i.6,71) a fact unnoticed by the other voyagers who ridicule him as they
speculate upon the possibilities of easeful life on the island. This evolves into a
discussion of the ideal commonwealth, a sixteenth century preoccupation, as in
Thomas Moreʼs Utopia, (1516) and Montaigneʼs “On Cannibals”in the Essays
(1580). Gonzalo, like More, describes an ideal commonwealth, but gently moves to an
acknowledgement of its unreality […]». Si esprime inoltre R. LYNE, nel capitolo
«Shakespeare, Plautus and the discovery of New Comic space» in C. MartindaleA.B. Taylor (a cura di), Shakespeare and the Classics, Cambridge, 2004, p. 133, dove
segnala in maniera ancora più decisa la distanza tra il cinismo di Antonio e Sebastian
e lʼidealismo di Gonzalo.
14
Sul rapporto tra Shakespeare, John Fletcher e altri intellettuali, come John
Florio, e per unʼanalisi del contesto e delle modalità in cui si trasformò il genere
pastorale si rimanda allʼopera di R. HENKE, Pastoral Tranformations, Italian Tragicomedy and Shakespeare’s Late Plays, Newark e Londra,1997; e, per i rapporti di
Florio con la cultura italiana e inglese, in periodo Tudor e tra gli Stuart, si veda M.
WYATT, The Italian Encounter with Tudor England, A Cultural Politics of Translation, Cambridge. 2005.
15
R. WILSON, Secret Shakespeare, Studies in theatre, religion and resistance,
Manchester, Manchester University Press, 2004. Cfr. anche G.H. METZ (ed.), Sources
of Four Plays Ascribed to Shakespeare, The Reign of King Edward III, Sir Thomas
More, The History of Cardenio, The Two Noble Kinsmen, Columbia, Univ. of Missouri Press, 1989, pp. 255-370.
282
Santa Boi
noto, è collocato da Cervantes nellʼavventura della Sierra Morena ed è
connesso alla forzata separazione di due coppie di amanti, alla perdita
del senno di uno di essi, Cardenio, appunto, che abbandona la vita sociale nel consorzio cittadino a causa del dolore per la perdita dellʼamata Luscinda. Dato lʼipotetico tradimento, e le innumerevoli peregrinazioni delle due coppie di amanti, separati dallʼinimicizia del malvagio, la storia prevedeva tuttavia una soluzione felice. Si tentava probabilmente come già era avvenuto in Much Ado about Nothing
(1598-1599, rappresentata, ancora a corte, due volte nel Natale del 1612)
di riproporre il conflittuale rapporto con la Spagna in un contesto
ancora una volta di tragicommedia e di ipotizzare un legame più stretto, se non altro non ostile, con la corte spagnola che effettivamente in
quegli anni Giacomo I, o almeno una fazione importante della corte
inglese, sostenuta dalla Regina Anna, sperava di rendere possibile,
superando le chiusure del periodo precedente. Se dobbiamo prestar
fede a quanto scrive Richard Wilson nel suo Secret Shakespeare16
nel capitolo decimo egli tenta di ricostruire il contesto in cui il dramma apparve. Dando per buona la ricostruzione proposta da Lewis Theobald nel 1728, lʼargomento del dramma è considerabile come una
variante del ʻbroken nuptialʼ genre, descritto da Carol Neely ed è volto a solleticare «[…] both male fantasy and female sympathy, by first
giving womenʼpower to resist or alter courtshipʼ, and then taking it
away when they resume the dance into marriage»17. Essa doveva servire a sottolineare, nellʼambientazione e negli sviluppi della trama, la
situazione contingente che vedeva la potentissima fazione degli Howard sostenere un riavvicinamento con la Spagna e addirittura un
possibile matrimonio di uno dei figli di Giacomo I con una principessa cattolica. Tutto andò a monte per la scomparsa prematura del
figlio di Giacomo I, il principe Harry, che venne accompagnato a Westminster Abbey, nel cordoglio generale, appena un mese dopo che la
stessa madre del sovrano, Mary Stuart, era stata sepolta, con grande
pompa, nella stessa Abbazia18. La scelta dellʼargomento dovette neces16
Cfr. WILSON, cit., pp. 232-233.
C.T. NEELY, Broken Nuptials in Shakespeare’s Plays, Univ. of Chicago Press,
Chicago, 1993, p. 53, apud R. WILSON, cit., p. 233.
18
«The funeral of James Iʼs eldest son, Henry, prince of Wales, on 7th December 1612, was the occasion of an unprecedented display of grief on the streets of
London […] Throughout the Christmas celebrations of 1612 the catafalque of the
Prince of Wales remained at Westminster alongside the sumptuous new tomb of his
grandmother, Mary Queen of Scots, in which her body had been reinterred only a
month befor». R. WILSON, cit., pp. 230-231.
17
Don Quixote in Inghilterra
283
sariamente essere legata a quel fatidico Natale in cui si mescolarono
in maniera sorprendente fatti lieti e tragici, corpi in decomposizione
e festeggiamenti con masques di argomento nuziale. Pur non volendo
prestar fede ad ipotesi che individuano sia pur solo delle parti del
dramma di Shakespeare e Fletcher nel dramma di Theobald, (sul quale
tanti studiosi si sono interrogati e sulla cui ricostruzione il dibattito è
ancora in corso), la scelta di Cardenio è sicuramente indicativa dellʼinteresse per argomenti ʻspagnoliʼ legati ancora allʼambito del dramma pastorale e della tragicommedia e al desiderio del sovrano di fungere da mediatore. Lo dimostravano le sue nuove alleanze dinastiche,
che non escludevano necessariamente i paesi cattolici, onde rendere
possibile quella riconciliazione agognata di cui lo stesso sovrano si
faceva portatore come monarca garante di una difficile, forse impossibile, restaurazione di unʼetà di pace simboleggiata da un incontro
con la Spagna19. Nulla andò come di fatto ci si aspettava ma il dramma Cardenio venne riproposto a corte durante i festeggiamenti per il
fidanzamento tra lʼElettore Palatino e la principessa Elisabetta, celebrato, nonostante il lutto recente, con grande sfarzo.20
Il Settecento assiste ad una dilagante presenza dellʼopera di Cervantes nei contesti più disparati e a partire da motivazioni le più contrastanti. Paulson21 fa notare come, per il comico, sia stata lʼopera di Cervantes a plasmare la cultura del ʻ700 inglese, così come Milton servì
da modello per il sublime. Traduttori, romanzieri, autori di teatro, saggisti, intellettuali, pittori e incisori, fra i quali emerge lo stesso William
Hogarth22, interpretarono e utilizzarono Don Quixote in un modo completamente differente da come venne utilizzato in Spagna e in Francia,
paesi a maggioranza cattolica e retti da governi assolutistici. Molteplici sono gli ambiti di riferimento per la cultura inglese allʼopera di
Cervantes: si insinua il concetto di enthusiasm per trovare un corrispondente al misto di patetica esaltazione e di contenuta, malinconica
serietà, del Cavaliere della Mancia. Questi diventa The knight of the
doleful countenance, traduzione del Caballero de la triste figura23, e si
19
Ivi, p. 235.
«Thus, the picture emerges of a Shakespeare at the end of his career in the
orbit of Englandʼs last great Catholic family, and writing his romances as a legitimation of the Howard programme of religious reconciliation». Ivi, p. 240.
21
Cfr. R. PAULSON, Don Quixote in England. The Aesthetics of Laughter, Baltimore and London, The Johns Hopkins Univ. Press, 1998, p. ix.
22
Ivi, pp. 131-143.
23
Qui gli esempi possono essere molteplici; uno fra tanti, The Man of Feeling
di Mackenzie, in cui la tristezza del Quixote si trasforma in un sentimento che
20
284
Santa Boi
sviluppa, o meglio, si rafforza e si personalizza il dialogo fra i due
personaggi Don Quixote e Sancho. Si creano inoltre altre coppie celebri, come pure, dʼaltra parte, si riflette sullʼuso catastrofico che la scarsa
presa sul reale può provocare causa lʼeccessiva concentrazione su letture monotematiche, idea che ricorre molto spesso nella letteratura dei
grandi moralisti del Settecento o negli stessi romanzi.24
Dopo il dramma sarà il romanzo realistico o parodico a misurarsi
con il grande testo di Cervantes. A rendere il dialogo con esso ancora
più serrato, si utilizzano riferimenti precisi che servono a chiarire meglio ciò che la cultura letteraria del tempo andava elaborando e a rafforzare lʼattenzione su punti nodali che venivano affiorando. Essendo,
infatti, lʼopera di Cervantes costruita su un contrasto, formale e tematico, tra due differenze, (il corpo lungo, smilzo, spiritualizzato di Don
Quixote e quello grasso, rozzo, plebeo di Sancho), tra lo stile alto e il
discorso demotico, ricco di proverbi e si sapienza popolare, tra lʼazione idealistica e altruistica e le conseguenze di segno totalmente
opposto che si verificano e toccano, spesso dolorosamente, il corpo,
gli autori inglesi individuano una polarità nella quale appare loro
difficile bilanciare gli elementi dellʼimmaginazione con quelli dellʼesperienza. Da questa discrasia nasce e si sviluppa il comico che diventa la qualità peculiare delle diverse riscritture inglesi del Don
Quixote in questo periodo. Scrittori appartenenti a correnti politiche
opposte utilizzano lʼopera di Cervantes per motivi contrari: Swift a
rafforzare, in A Tale of a Tub, il suo punto di vista nella controversia
tra gli antichi e i moderni e, usando la follia di Don Quixote come
correlativo oggettivo del tentativo, per lui destinato al fallimento, di
cambiare il mondo da parte dei Moderni. Utilizzando, inoltre, come
principio normativo lʼesperienza del senso comune, egli evidenzia le
folli conseguenze dellʼimmaginazione senza regole, dominata dallʼispirazione e dallʼentusiasmo25, caratteristici del settarismo radicale. Sulsfiora il patologico, anticipazione dello spleen che si diffonderà nel Romanticismo.
24
J.Austen, in Sense and Sensibility, con sottile ironia per bocca di Elinor mette
in risalto la necessità di non leggere solo poesia ma anche della solida prosa che
bilanci lʼeccessiva malinconia provocata da un lutto o da una lettura costante e
troppo coinvolgente della poesia di Byron. Jane AUSTEN, Persuasion, in R.W. CHAPMAN (a cura di), cit., vol. V, pp. 100-101.
25
Enthusiasm è parola chiave in tutto il Settecento e segnala sempre un atteggiamento fuorviato, legato a mancanza di razionalità, alla superstizione, a scarso
controllo sulle emozioni, spesso assegnato in ambito religioso, e sempre comporta una
connotazione denigratoria. Cfr. soprattutto SHAFTESBURY, Characteristics of Men,
Manners, Opinion, Times, Etc., ed. by John M ROBERTSON, New York, 1900, I, pp.
Don Quixote in Inghilterra
285
la sponda opposta, Addison, nello Spectator, strappa il protagonista
del romanzo di Cervantes al dominio del discorso morale e lo colloca, riconoscendone e apprezzandone la natura fortemente trasgressiva, in una estetica che risponde positivamente, con una risata accogliente, condivisa, da commedia, in un ambito «[…] which he designated as the Novel; New, or Uncommon».26
Don Quixote servì sia alla creazione di un nuovo concetto di bello
letterario, non necessariamente legato alla morale, applicabile alla satira e alla commedia, sia alla costruzione del concetto di follia, intesa
come disordine dellʼimmaginazione, o del riso di fronte al ridicolo (ridicule) che scaturisce dalla scarsa conoscenza delle regole del vivere,
delle buone maniere; uso talvolta venato di crudeltà, di un senso implicito di superiorità. Il Quixote servì, infine, allʼestensione dellʼidea
di follia in opposizione alla ragione empirica, nellʼambito del pensare
religioso.27
Attraverso la creazione di una lunga serie di eroine protagoniste
di altrettanti romanzi ispirati a personaggi femminili modellati sullʼeroe dellʼopera di Cervantes, si contribuisce a favorire la cultura delle donne, ad assegnar loro un posto di primo piano nellʼuniverso culturale. Eʼ interessante il fatto che ormai chi vuole accedere al Don Quixote nella sua pienezza, come Lady Mary Montague28, lo voglia fare
leggendo il testo nella lingua originale, per coglierne pienamente la
bellezza e tutte le sfumature di significato. Fanny Burney, Lennox,
Austen, prendono spunto dalla lettura del Quixote per approfondire
una riflessione sul pericolo suscitato dalla scelta delle letture e dalla
cattiva interpretazione dei testi letterari riservando una particolare
attenzione ai comportamenti; ma ciò che più interessa è che protagoniste di tali opere siano delle fanciulle e che lʼuniverso sia ormai un
universo nel quale hanno diritto di essere protagoniste delle donne. Le
36-37.
26
R. PAULSON, cit., p. xii.
27
«Enhusiasm, associated before the Restoration with Puritans and after with
Non conformists, has become Quixotic madness». R. PAULSON, cit., p. 9. Si veda
anche R.D. LUND (ed.), The Margins of Orthodoxy. Heterodox Writing and Cultural
Response, 1660-1750, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 1995, 2006.
28
«Though I am a piddler in the Spanish language, I had rather take pains to
understand him in the original than sleep over a stupid translation». The Collected
Letters of Lady Mary Wortley Montagu, ed. Halsband, Oxford, Clarendon Press, III,
p. 78, apud J. SKINNER, «Don Quixote in 18th Century England: A Study in Reader
Response», in Cervantes: Bulletin of the Cervantes Society of America, 7:1 (1987),
p. 47.
286
Santa Boi
autrici mostrano di essere allʼaltezza della situazione e di avere acquisito un ruolo che viene loro riconosciuto anche dai letterati più importanti del periodo, primo fra tutti lo stesso Samuel Johnson. In questo
contesto si inseriscono i contributi della cultura femminile del tardo
Settecento e dei primi anni dellʼOttocento, fra i quali sarà indicativo
richiamare almeno tre opere: Evelina di Fanny Burney, romanzo il cui
sottotitolo The History of a Young Lady’s Entrance into the World29,
indica chiaramente lʼintento didattico, implicito sia nellʼimpianto sia
nei riferimenti ironici alla tendenza sentimentale della protagonista:
So, my dear, ʻcried sheʼwhat, still courting the rural shades! –I thought
ere now you would have been satiated with this retired seat, and I
have been seeking you all over the house. But I now see the only
way to meet you, - is to enquire for Lord Orville. However, donʼt let
me disturb your meditations; you are possibly planning some pastoral dialogue.30
Il percorso iniziatico prevede che lʼeroina di questi romanzi si liberi delle fantasticherie e di ogni forma di sentimentalistico Quixotism, termine che è ormai entrato nella lingua, a segnalare ogni forma di irrazionale incongruenza31. The Female Quixote di Charlotte
Lennox e, infine, Northanger Abbey di Jane Austen danno testimonianza di unʼattenzione ormai proiettata verso una piena partecipazione al dibattito letterario, fino ad allora in mano quasi esclusivamente agli scrittori, da parte del mondo femminile.
Dal punto di vista del tema affrontato in questa sede va rilevata la
più sottile, problematica, soluzione di Austen rispetto al problema
della scelta e dellʼuso delle letture di cui si tratta in Northanger Abbey e in The Female Quixote. Per Austen, i romanzi gotici, corrispettivo dei romanzi cavallereschi dellʼopera di Cervantes, suscitano problematiche non facilmente riducibili ad una scelta che elimini la necessità del discernimento, che escluda, soprattutto, quella componente di imprevedibilità allʼinterno di contesti culturali governati dalla
razionalità più lucida. Costantemente e quixotescamente, Austen, al
contrario di Lennox, fa intervenire lʼelemento paradossale, imprevisto,
segno del dinamismo antididattico della sua opera, dellʼaccoglienza
29
F. BURNEY, Evelina or The History of a Young Lady’s Entrance into the World,
Ed. with an Introduction by E. A BLOOM, Oxford, OUP, 1970.
30
Ivi, p. 368.
31
Ivi, p. 369.
Don Quixote in Inghilterra
287
di quel seme di saggezza sorprendente, singolare, di quellʼinaspettato
irrompere dellʼelemento positivo, imponderabilmente folle, che sottrae la narrazione al perfetto e totale controllo del narratore.
A questo elemento, al mistero stesso della presenza del bene in un
mondo completamente sgangherato, alla componente di ʻsanta folliaʼ,
dedica la sua attenzione W.H. Auden. Questi ritorna con insistenza
alla figura di Don Quixote, nellʼopera poetica e diverse volte nei suoi
saggi critici: in The Dyer’s Hand, in The Enchafèd Flood, e prima
ancora in un saggio intitolato The Ironic Hero. Some Reflections on
Don Quixote32. Auden ha riflettuto a lungo sul Knight of the Doleful
Countenance e più volte ritorna a tratteggiarne i contorni rivelando
lʼinteresse profondo che il personaggio aveva suscitato in lui. Don
Quixote racchiude per il poeta un nucleo di significati che, allʼoccorrenza, può essere utile a chiarire aspetti del suo rapporto col reale, con la letteratura, con lʼarte in genere. Addirittura il Quixote diventa per Auden una sorta di misterioso archetipo dellʼuomo sofferente, completamente disinteressato, paziente, che mai dispera, così
come era stato per lʼIdiota di Dostoevskij.33 In Two Don Quixote
Lyrics, del 1963, ripubblicate nella sezione XII dei Collected Poems,
(liriche che sarebbero dovute entrare a far parte della versione musicale di un dramma televisivo dal titolo, I, Don Quixote, commissionato da Dale Wasserman nel 1963 e che poi non fu più confermata)34,
32
W.H. AUDEN, «The Ironic Hero, Some reflections on Don Quixote», in E.
Mendelson (ed.), Prose, Vol. II, 1939-1948, Princeton Univ. Press, Princeton, 2002,
pp. 377-384.
33
Discute questo punto Rossana ROSSANDA nel saggio «La bontà: L’Idiota. Fedor Dostoevskij, 1868-69», in F. Moretti (a cura di), Il Romanzo, vol. I La Cultura del
Romanzo, Torino, Einaudi, 200I, p. 433, vedendo, in Myskin e in Don Quixote, «[…]
la sconfitta dʼuna creatura a suo modo dʼeccezione». Secondo Rossanda lʼironia, la
più amara ironia è nella disfatta della bontà. Non così per Auden che vede, al contrario, proprio in questa sconfitta, la misteriosa liberazione dalle strettoie di un
sommamente pericoloso trionfalismo. Don Quixote è disarmante perché è totalmente, comicamente/felicemente disarmato. Auden distingue fra una follia donchisciottesca e una follia tragica o comica, prospettando, proprio nellʼironia che accompagna la figura del protagonista del romanzo di Cervantes la cifra più aderente
allʼeroe cristiano: «For he tragic hero suffering is real and destructive; for the comic
hero it is unreal or temporary or curative; for both it is a sign that they are not in the
truth: both suffer with misunderstanding. The saint on the other hand, is ironically
related to suffering; it is real, nevertheless he understands that it is a blessing, a sign
that he is in the truth. ʻI say pain but ought to say solaceʼ». Cfr. W.H. AUDEN, «The
Ironic Hero», cit., p. 379.
34
Cfr.J.FULLER, W.H. Auden, A Commentary, London, Faber and Faber, 1998,
p. 555.
288
Santa Boi
Auden torna a riflettere sullʼetà dellʼoro, chiudendo così il cerchio
aperto dalla interpretazione/reinterpretazione dellʼopera di Cervantes
o di parti di essa che in modi differenti ne hanno scandito il percorso
di ricezione. Nella prima lirica, intitolata The Golden Age, si parte da
una riflessione in cui felicità, amore, abbondanza, semplicità, dominano scandite da una rima che segnala, nella sua ripetitività cantilenante,
la scarsa plausibilità di questa condizione di primordiale, prelapsaria,
ingenua, felicità. Anche il lessico raccoglie e esaspera tutta una serie
di luoghi comuni di cui la rima sottolinea, nella sua ovvietà, lʼelemento di irreale inconsistenza:
The poets tell us of an age of unalloyed felicity,
The Age of Gold, an age of love, of plenty and simplicity,
When summer lasted all the year and a perpetual greenery
Of lawns and woods and orchards made an eye- delighting scenery.35
Da questa condizione si passa però, al dominio degli Incantatori,
in cui
Joy fled,
There came instead
Grief,unbelief,
Lies, sighs,
Lust, mistrust,
Guile ,bile,
Hearts grew unkind,
Minds blind,
Glum and numb,
Wthout hope or scope.
There was hate between states,
A life of strife,
Gaols and wails
Donts, wonts,
Cants, shants,
No face with grace
None glad, all sad. 36
La lunga elencazione di mali di ogni genere, prevalentemente tristezza, insensatezza, odio, disamore e scortesia suscita di necessità
lʼintervento dellʼeroe che sfida, con forza e determinazione, pur pa35
W.H. AUDEN, Two Don Quixote Lyrics, E. MENDELSON (ed.), Collected Poems,
Faber and Faber, London, 1991, p. 719.
36
Ivi, p. 720.
Don Quixote in Inghilterra
289
tetiche nella loro vana presunzione, queste forze del male:
It shall not be! Enchanters flee! I challenge you to battle me!
Your powers I with scorn defy, your spells shall never rattle me.
Don Quixote de la Mancha is coming to attend to you,
To smash you into smithereens and put a final end to you.37
Lʼatteggiamento fortemente ironico potrebbe far pensare a una
forma di scetticismo, ma lʼeleganza formale è ancora il bastione sul
quale la voce poetante si arrocca. Eʼ la riproposizione coerente dei
tratti salienti dellʼeroe di Cervantes a renderlo ancora una volta credibile; proprio nella sua debolezza sta, infatti, la sua forza. Il Recitative by Death funge da memento mori diretto al mondo contemporaneo, ha i toni della meditazione seria e lievemente sarcastica volta a
risvegliare una società, progredita da un punto di vista scientifico ma
non altrettanto attenta a darsi un limite, un fine che è la fine e che Auden vede cupamente arrivare su un mondo tronfio, sicuro delle proprie
conquiste scientifiche e tecnologiche ma dimentico, nella sua superficialità e vana illusione di autosufficienza, del termine di ogni realtà:
Ladies and gentlemen, you have made most remarkable
Progress, and progress, I agree, is a boon;
You have built more automobiles than are parkable,
Crashed the sound-barrier, and may very soon
Be setting up juke-boxes on the Moon:
But I beg to remind you that, despite all that,
I, Death still am and will always be Cosmocrat.
Still I sport with the young and daring; at my whim,
The climber steps upon the rotten boulder,
The undertow catches boys as they swim,
The speeder steers onto the slippery shoulder:
With others I wait until they are older
Before assigning, according to my humour,
To on a coronary, to one a tumor.
Liberal my views upon religion and race;
Tax posture, credit-rating, social ambition
Cut no ice with me. We shall meet face to face,
Despite the drugs and lies of your physician,
37
Ivi, p. 720.
290
Santa Boi
The costly euphemisms of the mortician:
Westchester and Bowery Bum,
Both shall dance with me when I rattle my drum.38
A questo quadro cupo si può accostare la riflessione del poeta sulla
morte di Don Quixote, meno moralistica e più attenta allʼaspetto estetico, posta a conclusione del già richiamato lungo saggio dedicato, nel
1949, al personaggio immortale di Cervantes:
However many further adventures one may care to invent for Don
Quixote — and, as in all cases of a true myth, they are potentially infinite — the conclusion can only be the one which Cervantes gives,
namely, that he recovers his senses and dies. Despite the protestations of his friends who want him to go on providing them with
amusement, he must say: “Neʼer look for birds of this year in the
nests of the last: I was made but I am now in my sense: I was once
Don Quixote de la Mancha but am now plain Alonso Quijano, and I
hope the sincerity of my words and my repentance may restore me
the same esteem you have had for me before”. For in the last analysis, the saint cannot be presented aesthetically. The ironic vision
gives us a Don Quixote who is innocent of every sin but one; and
that one sin he can put off only by ceasing to exist as a character in a
book, for all such characters are condemned to it, namely, the sin of
being at all times and under all circumstances interesting.
Analogy is not identity.
Art is not enough.39
38
39
W.H. AUDEN, Two Don Quixote Lyrics, cit. pp. 720-721.
W.H. AUDEN, Prose, cit., pp. 383-384.
291
D AI
BOGATYRI AL PRINCIPE DEL G OSPLAN :
D ON C HISCIOTTE IN R USSIA
Lidia Sedda
Università di Cagliari
El Quijote — scrive Edgardo Rodríguez Juliá — ha sido, desde sus comienzos como obra maestra de la literatura universal, un libro promiscuo, abierto, provocador de parodias, ejecutante de palimpsestos,
incitador de juegos endemoniados desde su complejísima escritura.1
Intorno al romanzo di Cervantes si è venuto a creare lungo quattro
secoli un complesso sistema di ricezione e rielaborazione che ha coinvolto tutte le arti: la letteratura, la musica, la pittura, il cinema, la scultura.
Oggetto di questo articolo è l’analisi della ricezione di Don Chisciotte nella cultura russa dal 1720 ai giorni nostri2. In questo lasso di tempo la figura di Don Chisciotte è entrata prepotentemente nelle opere
dei più importanti scrittori, saggisti, pubblicisti russi con modalità
che, pur richiamando la tradizione europea, costituiscono il frutto originale di riflessioni legate alla contingenza russa, alle condizioni storiche, economiche, politiche dei loro tempi e alle esigenze dei diversi
strati sociali.
Il comparatista russo Nikolaj Konrad osserva nel 1959:
Da lungo tempo è ormai consuetudine che le creazioni veramente significative di una letteratura penetrino rapidamente nel mondo letterario di un altro paese, divenendo in un certo grado patrimonio della
1
Cit. in Santiago A. LÓPEZ NAVIA, «La génesis del “Quijote” como objeto de ficción en la literatura hispánica (1861-1993)», in Actas del II Congreso Internacional
de la Asociación de Cervantistas, Napoli, Società Editrice Intercontinentale Gallo,
1995, p. 727.
2
L’articolo che propongo si basa sulla tesi di dottorato L’Influenza del «Don
Chisciotte» sulla cultura russa (1720-1928), che ho discusso all’Università di Cagliari nel 2004. Dal lavoro di ricerca che ha preceduto e seguito l’elaborazione della
tesi sono stati tratti due articoli. Il primo «“ýevengur” di Andrej Platonov» è stato
pubblicato in Portales, 3-4 (ott. 2003-apr. 2004), pp. 70-94; il secondo «Don Chisciotte
nei percorsi della modernità russa: Dmitrij Merežkovskij, Vjaþeslav Ivanov, Fedor
Sologub» è in corso di pubblicazione sulla rivista Eudossia.
292
Lidia Sedda
letteratura di quest’ultimo. Naturalmente, in tali circostanze, a penetrare è innanzitutto ciò che in un dato luogo suscita particolare attenzione, che è necessario ed importante per la sua realtà letteraria, per
il suo pensiero sociale, oppure ciò che aiuta a meglio comprendere
lo stato della letteratura e del pensiero sociale del paese in cui una
data opera è comparsa.3
Venti anni dopo, Žirmunskij stabilisce un principio generale importante per lo sviluppo degli studi comparati russi:
La storia delle società umane non conosce esempi di uno sviluppo culturale (e quindi anche letterario) assolutamente isolato, senza un’ interazione più o meno diretta e senza un’influenza reciproca tra le varie
zone.4
L’idea dell’impossibilità della crescita della conoscenza nell’isolamento senza l’apporto di un partner, ripreso e riformulato negli anni
Ottanta da Jurij Lotman5, mantiene inalterata la sua validità e può
essere utilizzato in particolare all’interno dello studio della ricezione
in un paese dato di “temi e miti” prodotti in altri ambiti culturali.
Ogni collettivo - scrive Simonetta Salvestroni - ha fuori dei suoi confini - territoriali, sociali, ecc. - un mondo estraneo con il quale dialoga non in modo diretto, ma attraverso una serie di mediazioni, che
consentono la creazione di una lingua comune e l’interiorizzazione
dell’estraneo all’interno del proprio mondo […]. Il processo che si sviluppa in questi casi è la produzione dalle proprie viscere di un’immagine enantiomorfa - che può essere basata sul rovesciamento dei codici di chi la produce o sul loro annullamento. L’oggetto riprodotto
viene privato così delle sue più genuine proprietà, quelle più originali e stimolanti. Proprio questa nuova forma gli consente, tuttavia, di
assumere un ruolo attivo e dinamico.6
3
N.I. KONRAD, «Problemi di letteratura comparata contemporanea», in AA.
VV., Saggi russi di teoria letteraria, a cura di R. Platone, Roma, La Nuova Italia,
1995, p. 229.
4
V.M. ŽIRMUNSKIJ, Izbrannye trudy. Sravnitel’noe literaturovedenie. Zapad i
Vostok (Lavori scelti. Critica letteraria comparata. Occidente e Oriente), Leningrad,
Nauka, 1979, t. V, p. 20. Tutte le traduzioni in testo e in nota, tranne quando esplicitamente dichiarato il contrario, sono mie.
5
Cfr. in particolare i lavori Testo e contesto (1980) e La semiosfera (1985).
6
S. SALVESTRONI, «Nuove chiavi di lettura del reale alla luce del pensiero di
Lotman e dell’epistemologia contemporanea», in Ju.M. Lotman, La semiosfera.
L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, Venezia, Marsilio, 1985, p. 21.
Don Chisciotte in Russia
293
Nel noto saggio «Costruzioni rettilinee e costruzioni a spirale nel
“Don Chisciotte”», Cesare Segre lamenta la trasformazione di Don
Chisciotte e Sancio Panza in «simboli, l’uno della cieca fede in un
ideale che resiste a qualunque oltraggio e smentita, l’altro del buon
senso, della concretezza anche ingrata del reale», che, nata in epoca
romantica, trova la sua apoteosi in Spagna nella Vida de don Quijote
y Sancho (1905) di Miguel de Unamuno.7
Come osservava già Michail Bachtin, in realtà questa trasformazione, così come tutti i passaggi intermedi che la hanno preceduta e seguita non fa altro che mostrare la vitalità dell’opera di Cervantes, la
sua capacità di stabilire contatti, mettere in discussione e arricchire il
lettore di ogni tempo e di ogni luogo.8
La Russia conosce Don Chisciotte con forte ritardo rispetto ai paesi europei, attraverso la mediazione della cultura francese che si concretizza in traduzioni volte ad esaltare gli aspetti comici dell’opera e in
commenti che sminuiscono il suo protagonista principale9. L’epoca
dei Lumi vede il diffondersi in buona parte dell’Europa di una concezione negativa dell’eroe di Cervantes: Don Chisciotte è considerato un
personaggio ridicolo che vaga per il mondo alla ricerca di avventure
sorprendenti, che scambia la propria immaginazione per realtà e compie
7
C. SEGRE, «Costruzioni rettilinee e costruzioni a spirale nel “Don Chisciotte”»,
in Le strutture e il tempo. Narrazione, poesia, modelli, Torino, Einaudi, 1986, p. 183.
8
Secondo Michail Bachtin la fortuna del Don Chisciotte è legata alla polisemanticità del suo protagonista. «La figura di Don Chisciotte nella successiva storia
del romanzo è stata molteplicemente riaccentuata e variamente interpretata, riaccentuazioni e interpretazioni che sono un necessario e organico ulteriore sviluppo di
questa figura, la continuazione della discussione incompiuta in essa riposta». M.M.
BACHTIN, «Slovo v romane», in Voprosy literatury i estetiki (Questioni di letteratura e di estetica), Moskva, Chudožestvennaja literatura, 1975, p. 221 [trad. it. «La parola nel romanzo», in Estetica e romanzo, Introduzione di R. Platone, trad. C. Strada
Janovic, Torino, Einaudi, 1997, p. 217]. Un’analisi dettagliata delle posizioni di Bachtin
sul romanzo di Cervantes è stata compiuta da Giuseppina LEDDA, in Il Quijote e la
linea «dialogico-carnevalesca», Università degli Studi di Cagliari, Istituto di lingue
e letteratura straniera, [sd]. Il testo è stato pubblicato per la prima volta nel 1974.
9
Vedi M.P. ALEKSEEV, Russkaja kul’tura i romanskij mir (Cultura russa e mondo romanico), Leningrad, Nauka, 1985, in part. pp. 63-78. Sulle prime traduzioni del
Chisciotte cfr. A.D. UMIKJAN, «Rannie russkie perevody Servantesa (1763-1831)» (Le
prime traduzioni russe di Cervantes 1763-1831), in Servantes. Stat’i i materialy
(Cervantes. Articoli e materiali), Leningrad, Izdatel’stvo Len.Gos.Or.Len.Univ.Im.
Ždanova, 1948, pp. 214-239; V.E. BAGNO, «Perevody “Don Kichota” kak interpretacii» (Le traduzioni del “Don Chisciotte” come interpretazioni), in AA.VV., Servantesovskie þtenija (Letture cervantine), Leningrad, Nauka, 1988, pp. 132-140.
294
Lidia Sedda
azioni folli ed insensate10. Questo giudizio poco lusinghiero è condiviso dalla maggior parte degli intellettuali russi del XVIII secolo, con una
significativa eccezione: Nikolaj Karamzin, il primo scrittore russo che
vede nel cavaliere della Mancia la realizzazione di alti e nobili ideali.
La frequenza con cui il nome di Don Chisciotte è citato in racconti, poesie, commedie, saggi e trattati e la presenza del romanzo nelle
più importanti biblioteche private del tempo testimoniano il diffondersi di una moda, legata alla gallomania. Solo pochi intellettuali ne
percepiscono la complessità ma tutti ne parlano e ne scrivono. Influenzati dalla critica illuministica i russi sottolineano in genere gli aspetti
più superficiali del romanzo. Sentono tuttavia che il testo non è limitato a quegli aspetti, ma, privi delle chiavi di lettura per decodificarlo, si limitano a diffonderne la fama.
Nelle testimonianze del secolo, la riduzione del protagonista a personaggio comico si unisce ad un’appropriazione del testo in chiave
russa. In Rassuždenie o okazatel’stvach k miru (Ragionamento su cose
manifestatesi al mondo, 1720) troviamo un breve riassunto dell’opera
di Cervantes in cui i mulini a vento vengono scambiati da Don Chisciotte per bogatyri, ossia per i mitici eroi dell’antica Rus’:11
Nel libro intitolato Don Chisciotte è descritta la trama della vita di un
cavaliere spagnolo, chiamato Don Chisciotte, il quale girovagando in
lungo e in largo per il mondo, fa ridere e compie atti fantastici diretti
contro persone dalle quali si sente offeso. Si scrive che combatté contro i mulini a vento, scambiandoli per Bogatyri. Sono chiamati cavalieri della tavola rotonda coloro che, come Don Chisciotte compiono
atti insani.12
10
Vedi F. AGUILAR PIÑAL, «Cervantes en el siglo XVIII», in Anales Cervantinos,
21 (1983), pp. 153-163. Un caso particolare è costituito dall’Inghilterra, paese in cui
l’interpretazione in chiave comica e ridicola di Don Chisciotte appartiene al secolo
XVII. Su questo tema si rimanda a R. GNUTZMANN, «“Don Quixote in England” de
Henry Fielding con relación al “Don Quijote” de Cervantes», in Anales Cervantinos,
22 (1984), pp. 77-101.
11
I bogatyri sono gli eroi delle byline antico-russe (“canti epici, composti in
ambiente popolare soprattutto nelle età kieviana e tartarica”). Si tratta di «indomiti
difensori della «terra russa» contro i nemici esterni […] e non di rado suscitatori di
eroiche iniziative nonostante la fiacchezza del principe e dei maggiori potenti. In
loro si riflettono figure di remote semidivinità ancestrali, di condottieri d’età storica, di cavalieri bizantinamente stilizzati, di guerrieri variaghi od anche cumani e mongoli». R. PICCHIO, La letteratura russa antica, Milano, Rizzoli, 1999, pp. 308-309.
12
P. PEKARSKIJ, Nauka i literatura v Rossii pri Petre Velikom (Scienza e letteratura nella Russia del tempo di Pietro il Grande), Sanktpeterburg, Izd. Tovarišþestva
“Obšþestvennaja pol’za”, 1862, t. II, pp. 488-489.
Don Chisciotte in Russia
295
In Bova (1798-1799) di Radišþev si trova una strofa in cui Dulcinea del Toboso è presa per una “elegantona moscovita”:
Ȼɵɥɢ ɪɵɰɚɪɢ ɧɟ ɯɭɠɟ
ɋɥɚɜɧɚ ɜ ɫɜɟɬɟ Ⱦɨɧ Ʉɢɲɨɬɚ.
ȼ ɪɨɝ ɨɯɨɬɧɢɱɟɣ, ɜ ɜɚɥɬɨɪɧɭ
ȼɫɟɦ ɬɪɭɛɢɥɢ ɝɪɨɦɤɨ ɜ ɭɲɢ:
«Ⱦɭɥɶɰɢɧɟɹ Ɍɨɛɨɡɢɣɫɤɚ
ȼɫɟɯ ɩɪɟɤɪɚɫɧɟɟ ɧɚ ɫɜɟɬɟ».
Ⱥ ɤɚɤ ɜɨɡɪɢɲɶɫɹ ɜ ɤɪɚɫɨɬɤɭ,
Ɍɨ ɭɜɢɞɢɲɶ ɩɨɞ ɥɢɱɢɧɨɣ
ȼɫɟɯ ɛɟɥɢɥ, ɪɭɦɹɧ ɢ ɦɭɲɟɤ,
Ɉɛɟɡɶɹɧɭ ɢɥɢ ɤɨɲɤɭ,
ɂɥɶ Ɇɨɫɤɨɜɫɤɭ ɳɟɝɨɥɢɯɭ.
Sono esistiti cavalieri
Non peggiori del glorioso Don Chisciotte.
Con il corno da caccia, con il corno da musica
Strombazzava a tutti forte all’orecchio:
«Nel mondo, Dulcinea del Toboso
E’ la più bella di tutte»
E invece, come ti rivolgi alla bella
Vedi che sotto la maschera
Di belletto, di fard e di finti nei,
C’è una scimmia o una gatta,
O una elegantona moscovita13.
Un altro caso degno di nota è quello di Deržavin, che nella celebre ode Felica (1782), conia il verbo donkišotstvovat’ (“fare follie”,
“dare di matto”, “avere comportamenti stravaganti”):
ɇɟ ɫɥɢɲɤɨɦ ɥɸɛɢɲɶ ɦɚɫɤɚɪɚɞɵ,
Ⱥ ɜ ɤɥɨɛ ɧɟ ɫɬɭɩɢɲɶ ɢ ɧɨɝɨɣ;
ɏɪɚɧɹ ɨɛɵɱɚɢ, ɨɛɪɹɞɵ,
ɇɟ ɞɨɧɤɢɲɨɬɫɬɜɭɟɲɶ ɫɨɛɨɣ;
Ʉɨɧɹ ɩɚɪɧɚɫɫɤɚ ɧɟ ɫeɞɥɚɟɲɶ,
Ʉ ɞɭɯɚɦ ɜ ɫɨɛɪɚɧɶɟ ɧɟ
ɜɴɟɡɠɚɟɲɶ,
ɇɟ ɯɨɞɢɲɶ ɫ ɬɪɨɧɚ ɧɚ ȼɨɫɬɨɤ;
ɇɨ ɤɪɨɬɨɫɬɢ ɯɨɞɹ ɫɬɟɡɟɸ,
Ȼɥɚɝɨɬɜɨɪɹɳɟɸ ɞɭɲɨɸ,
ɉɨɥɟɡɧɵɯ ɞɧɟɣ ɩɪɨɜɨɞɢɲɶ ɬɨɤ.
I balli in maschera molto non ami,
Del club la soglia col piede tuo non varchi;
Preservando costumi, cerimonie,
Ogni donchisciottismo eludi;
I destrieri del Parnaso non selli,
Agli spiriti incontro non ti rechi,
Dal trono verso Oriente non t’allontani;
Ma percorrendo il sentiero della mitezza,
Con animo benefattore,
Lo scorrere dei giorni utili accompagni.14
Questi esempi dimostrano come sin dal suo apparire il romanzo di
Cervantes abbia subito un processo di “russificazione” che risponde alla
necessità di semplificarlo, adattarlo, renderlo più vicino al pubblico locale. L’immissione dello svoe (il proprio) nel þužoe (l’altrui) è uno dei
modi più significativi con cui la Russia si inserisce nel contesto europeo e allo stesso tempo matura una coscienza di se stessa, delle proprie
13
A.N. RADIŠýEV, Bova, in Polnoe sobranie soþinenij (Opere complete), MoskvaLeningrad, Izd. Akademii Nauk SSSR, 1938, t. I, p. 43.
14
G.R. DERŽAVIN, Stichotvorenija (Poesie), Leningrad, Sovetskij pisatel’, 1957,
p. 98 [trad. it. Poesie, a cura di C.M. Schirò, Napoli, Guida, 1998, pp. 43-44].
296
Lidia Sedda
capacità e possibilità15. Varcata la soglia del mondo russo Don Chisciotte viene da subito messo a contatto con i protagonisti della cultura secolare autoctona o con le manie, le mode, le tendenze della contemporaneità: questo processo nel Settecento dà risultati minimi, ma
produrrà effetti più importanti nelle epoche successive.
Una svolta nell’interpretazione dell’eroe di Cervantes è costituita
dalla lettura che ne fa Karamzin. Poeta, scrittore e storico Nikolaj Karamzin è il primo ad identificarsi con Don Chisciotte e a partire da
questa identificazione per riflettere su se stesso, sulla propria condizione di intellettuale, sulla realtà in cui vive e opera. In un brano del
romanzo incompiuto Un cavaliere del nostro tempo (1802-1803),
descrivendo la vita interiore del protagonista, Karamzin racconta:
Leon a dieci anni poteva già giocare con l’immaginazione e costruire
castelli in aria. I pericoli e l’amicizia eroica costituivano il suo sogno
preferito. Merita attenzione il fatto che in mezzo ai pericoli lui vedeva
se stesso nei panni del salvatore e non nei panni del salvato: segno di un
cuore fiero e desideroso di gloria. Il nostro eroe volava con il pensiero
nell’oscurità della notte al richiamo del viandante attaccato dai malfattori, oppure dava l’assalto ad un’alta torre dove pativa in catene un
suo amico. Questo donchisciottismo formava precocemente il suo carattere e la sua vita. Voi, senza dubbio non sognavate così nella vostra
infanzia, tranquilli flemmatici che non vivete ma sonnecchiate e vi agitate per un nonnulla! E voi, egoisti razionali, che non vi legate agli
altri, ma vi piazzate di fronte a loro solo nel caso in cui vi serva qualcosa ma siete subito pronti a ritirare la vostra mano allorché vi chiedano sostegno. Il mio eroe davanti a voi si toglie il cappello e inchinandosi dice: «Brava gente, non mi vedrete mai sotto le vostre insegne».16
Il “chisciottismo” è qui presentato come il sogno ad occhi aperti
di intervenire direttamente su un mondo dominato da anti-valori (l’
egoismo soddisfatto di sé, l’opportunismo, la meschinità) per contribuire a creare una realtà altra in cui trionfino l’amicizia, il coraggio, la tutela dei più deboli. La contrapposizione Leon/Don Chisciotte — “egoisti
razionali” è il punto d’arrivo di una serie di riflessioni sull’ egoismo
che Karamzin elabora lungo l’intero arco della sua attività intellettuale. Questa contrapposizione, nata sulla scia dell’educazione che
15
M.C. PESENTI, «La mobilità della cultura comica come segno della sua eterogeneità», in Slavica Tergestina, 4 (1996), p. 166.
16
N.M. KARAMZIN, Rycar’ našego vremeni (Un cavaliere del nostro tempo), in
Izbrannye Soþinenija (Opere scelte), Moskva-Leningrad, Izd. Chudožestvennaja literatura, 1964, t. I, p. 772. Il corsivo è mio.
Don Chisciotte in Russia
297
Karamzin ha ricevuto all’interno dei circoli massoni moscoviti17, è
destinata ad esercitare una vasta influenza sulle letture russe del Chisciotte. Verrà sviluppata nel saggio Amleto e Don Chisciotte di Ivan
Turgenev e poi ripresa da Leskov e da Dostoevskij con modalità che
svolgono un ruolo importante nella formazione delle idee di tutto il
Novecento russo. La forza di questa influenza dipende dal modo in
cui Karamzin pone la questione. Il suo discorso è infatti una meditazione sul rapporto uomo-società valido in ogni tempo e in ogni luogo
pur contenendo un richiamo specifico alla contemporaneità dello
scrittore.18
L’esempio di Karamzin e, più in generale, l’influenza del romanticismo inglese e tedesco stimolano un ripensamento nella concezione
dell’eroe. Tale ripensamento si concretizza nella pubblicazione di nuove traduzioni, più attente alla ricchezza di significati dell’opera di
Cervantes19 e di racconti e romanzi nei quali Don Chisciotte indossa
le vesti più diverse e inaspettate.20
17
Sulla biografia umana e intellettuale di Karamzin vedi Nikolaj Michailoviþ Karamzin. Ego žizn’ i soþinenija. Sbornik istoriko-literaturnych statej (Nikolaj Karamzin. La sua vita e le opere. Raccolta di articoli storico-letterari), sost. V.I. Pokrovskij,
Reprint of the Edition 1912, Oxford, Meewws, 1981; Essays on Karamzin: Russian
Man-of-Letters, Political Thinker, Historian, 1766-1826, ed. by J.L. Black, Paris, Mouton, 1975; Ju.M. LOTMAN, Sotvorenie Karamzina (La creazione di Karamzin), Moskva,
Kniga, 1987; G. HAMMARBERG, From the idyll to the novel: Karamzin’s Sentimentalist prose, Cambridge, Cambridge University Press, 1991.
18
Sono palesi in questo testo, a mio parere, le allusioni alle repressioni che colpiscono l’intelligencija e, in particolare, la massoneria russa di fine Settecento. Per
ricostruire una storia della massoneria in Russia, cfr. S. PAVAN PAGNINI, «La massoneria in Russia nel Settecento (Le logge di Mosca durante il regno di Caterian II)»,
in Storia della massoneria: testi e studi, Torino, Edi. Ma., 1984, t. II, pp. 75-166; R.
FAGGIONATO, «Un utopia rosacrociana. Massoneria, rosacrocianesimo e illuminismo
nella Russia settecentesca: il circolo di N.I. Novikov», in Archivio di storia della
cultura, Napoli, Liguori, 10 (1997), pp. 11-251; G. GIARRIZZO, Massoneria e illuminismo nell’Europa del Settecento, Venezia, Marsilio, 1994, pp. 311-339.
19
Tra queste traduzioni vanno ricordate quelle di Vasilij Žukovskij (1804-1806),
per meriti artistici, e Konstantin Masal’skij (1838), la prima ad essere stata effettuata sull’originale spagnolo. Vedi A.D. UMIKJAN, «Rannie russkie perevody Servantesa
(1763-1831)» (Le prime traduzioni russe di Cervantes 1763-1831), cit., pp. 231-232;
V.E. BAGNO, «“Don Kichot” Servantesa i russkaja realistiþeskaja proza» (“Don Chisciotte” di Cervantes e la prosa realistica russa), in AA.VV., Epocha realizma. Iz
istorii meždunarodnych svjazej russkoj literatury (L’epoca del realismo. Dalla storia
dei legami internazionali della letteratura russa), Leningrad, Nauka, 1982, pp. 8-14 e,
dello stesso autore, Dorogami «Don Kichota» (Sulle strade di «Don Chisciotte»),
Moskva, Kniga, 1988, pp. 298-306. Per una introduzione di carattere generale alla
traduzione russa dell’Ottocento vedi Ju.D. LEVIN, Russkie perevodþiki XIX veka i
298
Lidia Sedda
La prima metà del XIX secolo è attraversata in Russia da fermenti
culturali, politici e ideologici di vasta portata. L’oggetto privilegiato
dei dibattiti verte sulla necessità di riformulare il concetto e lo status
della classe intellettuale, che si pone il compito nuovo di agire su
una realtà dominata dall’arretratezza e da un sonno secolare (quella
che verrà poi definita oblomovšþina21) per promuovere il “progresso
e la civiltà”. Don Chisciotte entra a pieno titolo in questi processi e la
sua presenza funge da “rivelatore ideologico”22 delle posizioni assunte
dalle forze in campo, svelando attitudini, pensieri e posizioni degli autori che se ne servono per chiarire le proprie tesi.
Uno dei contributi più significativi che vede la luce in questo
contesto è costituito dalle analisi del critico Belinskij.
L’idea di Don Chisciotte - scrive nel 1842 - non appartiene al tempo di
Cervantes: è un idea eterna, comune a tutta l’umanità, come ogni «idea». I Don Chisciotte sono stati possibili dal momento in cui sono
comparse le società umane, e saranno possibili sino a che gli uomini
[ljudi] non si disperderanno per i boschi. Don Chisciotte è una persona
[þelo-vek] generosa e intelligente, che si è data, con tutta la passione
della sua anima energica, ad un’amata idea; il lato comico nel carattere di Don Chisciotte consiste nella contrapposizione della sua idea
alle esigenze del suo tempo, con il fatto che essa non può concretizzarsi nella realtà, non può essere messa in pratica. Don Chisciotte
comprende appieno le esigenze della cavalleria vera, ne parla giustamente e poeticamente, ma in qualità di cavaliere agisce in modo
stupido e assurdo; quando ragiona su cose al di fuori della cavalleria
è un vero saggio. Ecco perché c’è qualcosa di triste e di tragico nel
destino di questo personaggio comico.23
razvitie chudožestvennogo perevoda (I traduttori russi del XIX secolo e lo sviluppo
della traduzione artistica), Leningrad, Nauka, 1985.
20
Qualche esempio: il racconto L’anello del poeta Evgenij Baratynskij (1832) ha
come protagonista lo “strannyj” (“strano”, “stravagante”) proprietario terriero Opal’skij, una figura colta, intelligente, buona, generosa che si dedica con tutta l’anima
allo studio delle arti magiche per poter cogliere i segreti della natura; nella “favola
per bambini” di Vladimir Odoevskij, Segeliel’, ovvero un Don Chisciotte del XIX
secolo (1832), il protagonista “chisciotizzato” è un angelo caduto che è stato costretto da Lucifero ad indossare un “misero corpo mortale” come punizione per aver
amato troppo l’umanità; infine, il romanzo del traduttore Konstantin Masal’skij Don
Chisciotte del XIX secolo (1834) propone la storia di un giovane proprietario terriero
che impazzisce a causa dei suoi studi filosofici.
21
Ossia, la terra abitata dagli “Oblomov”, rappresentati da Ivan Gonþarov nel
protagonista del celebre romanzo del 1859.
22
D.H. PAGEAUX, La littérature générale et comparée, Paris, Colin, 1994, p. 79.
23
V.G. BELINSKIJ, Polnoe sobranie soþinenij (Opere complete), Moskva, Akademii Nauk SSSR 1955, t. VI, p. 34.
Don Chisciotte in Russia
299
Il brano mostra una partecipazione personale notevole dell’autore
al tragico destino di Don Chisciotte24. Non una volta Don Chisciotte
è considerato un “cavaliere di carta”25: egli è un þelovek (una “persona”) che si muove in mezzo agli altri uomini (ljudi). Recuperando
il giudizio romantico tedesco sulla generosità degli ideali di Don
Chisciotte, conseguenza del riavvicinamento alle posizioni di Schiller26, Belinskij identifica la radice della comicità tragica dell’eroe
nella sua incapacità di capire a fondo i tempi in cui vive, nella sua
volontà di interpretare un ruolo contrastante con i valori maturati nel
contesto sociale al di fuori di lui.
Ogni persona [þelovek] - continua nell’articolo del 1842 - è un po’ un
Don Chisciotte; ma in modo particolare lo è colui che possiede una
fantasia ardente, un’anima innamorata, un cuore generoso e persino
una volontà di ferro e un’intelligenza notevole, ma privo di senno e
di discrezione. Ecco perché in questi uomini c’è un lato comico, che
risulta essere triste, che fa sorridere tra le lacrime; se queste fossero
persone insignificanti, non sarebbero neppure troppo buffe: gli autentici Don Chisciotte si possono trovare solo fra le persone eccezionali. Ma la cosa importante è che questi uomini ci sono sempre
stati e sempre ci saranno. Questo è un tipo eterno, è un’idea unica,
che si concretizza in migliaia di aspetti e di forme, in funzione dello
spirito e del carattere di un secolo, di un paese, di un ceto e degli altri atteggiamenti, necessari e casuali. Ad esempio, quanti Don Chisciotte ci sono, adesso, nella letteratura! Una persona che è sinceramente convinta di qualcosa, a cui nessuno crede, che sacrifica se
stesso, il proprio status, la serenità e la salute per convincere gli altri
della propria idea - ma davvero non è un Don Chisciotte? […] Il merito del romanzo di Cervantes consiste nell’idea […]. Nell’idea è
racchiuso il motivo per cui […] persone di tutte le nazioni e di tutti i
secoli leggono e leggeranno Don Chisciotte.27
Nell’evoluzione successiva del pensiero di Belinskij, Don Chi24
Cfr. A.L. GRIGOR’EV, «Don Kichot v russkoj literaturno-publicistiþeskoj tradicii» (Don Chisciotte nella tradizione letterario-pubblicistica russa), in Servantes.
Stat’i i materialy (Cervantes. Articoli e materiali), cit., p. 15.
25
Nel 1840 Belinskij, a proposito di Don Chisciotte aveva scritto: «Un’opera
geniale che riproduce artisticamente l’idea di questi cavalieri di carta per i quali è
più caro l’inganno dell’amara realtà». BELINSKIJ, Polnoe sobranie soþinenij (Opere
complete), cit., 1954, t. IV, p. 412.
26
BELINSKIJ, Polnoe sobranie soþinenij (Opere complete),cit., 1956, t.XI, p. 556.
27
BELINSKIJ, Polnoe sobranie…, cit., 1955, t. VI, pp. 34-35.
300
Lidia Sedda
sciotte rimarrà sempre una «una creatura generosa»28. Tuttavia, l’urgenza di collaborare fattivamente alla costruzione di una società migliore e di denunciare apertamente la chiusura e l’arretratezza del mondo russo, inducono il critico a riesaminarne le azioni compiute in risposta alla corruzione, alla volgarità, all’assenza di valori del “secolo
di ferro”:
A cagione della sua natura, o della sua educazione, o delle condizioni della sua vita, - scrive nel 1845 - la fantasia lo ha privato di tutte le
facoltà rimanenti e ne ha fatto uno scherzo, il divertimento dei popoli e dei secoli. […] Vivendo nel sogno, al di fuori della realtà a lui
contemporanea, ha perso ogni forma di tatto nell’azione e si è pensato di farsi cavaliere in un tempo in cui nella terra non ce n’é uno
[…]. Gloriosamente segue il suo obbiettivo: difendere i deboli dai
forti, rimanere fedele alla sua immaginaria Dulcinea, nonostante tutte le crudeli delusioni, che una realtà assolutamente non cavalleresca
gli rigira. Se questo coraggio, questa magnanimità, questa devozione, se tutte queste belle, alte, generose qualità fossero state adoperate al tempo giusto e a proposito, Don Chisciotte sarebbe stato veramente un grande uomo.29
L’impostazione del discorso del critico russo è evidente. La sua
analisi di Don Chisciotte muove da motivazioni di tipo etico-politico.
Don Chisciotte è un personaggio bello, ma la sua azione è destinata a
fallire. Il suo nome è sinonimo di sogno, fantasia, distacco dalla realtà. Già nel 1843, nell’articolo “Diletantizm v nauke” (Il dilettantismo
nella scienza) Herzen aveva sviluppato un interessante parallelo tra Don
Chisciotte e i romantici che, “persi nel passato”, «non vogliono stabilire nessun altro rapporto col mondo se non con una spada in mano»30.
Riprendendo le posizioni di Herzen, Belinskij nell’articolo citato aggiunge che “chisciotteschi” sono i “folli bonapartisti”, i “legittimisti del
passato”, Schelling, gli slavofili, insomma, tutte le nature “paradossali”,
le quali, come Don Chisciotte vivono tragicamente in uno stato di separazione dalla realtà e sono destinate al martirio dell’incomprensione.31
28
GRIGOR’EV, «Don Kichot v russkoj…», cit., p. 15.
BELINSKIJ, Polnoe sobranie…, cit., 1955, t. IX, p. 80.
30
Cfr. Z.I. PLAVSKIJ, «Servantes v Rossii» (Cervantes in Russia), in Migel’ de
Servantes Saavedra. Bibliografija russkich perevodov i kritiþeskoj literatury na russkom jazike. 1763-1957 (Miguel de Cervantes Saavedra. Bibliografia delle traduzioni
russe e letteratura critica in lingua russa. 1763-1957), Moskva, Izd. Vsesojuz. Kniž.
Palaty, 1959, pp. 18-20.
31
BELINSKIJ, Polnoe sobranie…, cit., t. IX, p. 81.
29
Don Chisciotte in Russia
301
Con gli scritti di Belinskij degli anni Quaranta Don Chisciotte assume nuove connotazioni in qualità di personaggio della fiction narrativa e, al contempo, cessa di essere una figura squisitamente letteraria per assumere un nuovo significato. Don Chisciotte diventa un
“intellettuale”, nel senso gramsciano del termine, il portatore di una
ideologia che può essere oggetto di valutazioni contrastanti, ma sulla
cui base intere generazioni di intellettuali russi si interrogano sul loro
presente e sul loro futuro.
Questo è il valore del discorso di Turgenev Amleto e Don Chisciotte (1860), unanimemente considerato dalla critica uno dei più importanti fattori di sviluppo della letteratura e della vita culturale russa.32
L’interpretazione che Turgenev dà dell’eroe spagnolo propone
non solo un nuovo modo di comprendere il romanzo di Cervantes e
il suo protagonista, ma, allo stesso tempo, dà vita a un appassionato
dibattito di interesse letterario, politico e ideologico. La volontà dell’autore di scrivere un saggio che, prescindendo da considerazioni di
natura estetica o filologica, potesse avere un carattere militante è
evidente sin dalle prime pagine. Le riflessioni sui celebri “tipi” di Cervantes e Shakespeare non sono tanto una analisi critica delle opere,
quanto una discussione aperta e vivace sull’uomo moderno, sui suoi
pregi e sui suoi limiti.
Ci è sembrato - scrive Turgenev - che in questi due tipi fossero incarnate due caratteristiche radicali e contrapposte della natura umana:
quasi due termini, due poli dello stesso asse, intorno al quale essa gira.
Ci è sembrato che tutti gli uomini, più o meno, appartengano ad uno di
questi due tipi; che ciascuno di noi assomigli o a Don Chisciotte o ad
Amleto; in verità nel nostro tempo gli Amleto sono molto più numerosi dei Don Chisciotte, anche se i Don Chisciotte non sono scomparsi.33
In Amleto, Turgenev vede la rappresentazione dell’egoismo, del
dubbio, del cinismo; Don Chisciotte, al contrario, è il portatore di alti
valori:
32
BAGNO, Dorogami…, cit., pp. 328-329.
I.S. TURGENEV, Gamlet i Don Kichot (Otkrytie pamjatnika A.S. Puškinu v Moskve) in Polnoe sobranie soþinenij i pisem v dvadcati vos’mi tomach (Raccolta
completa delle opere e delle lettere in ventotto volumi), Moskva-Leningrad, Nauka,
1964, t. VIII, pp. 172-173 [trad. it. Amleto e Don Chisciotte (Discorso pronunciato il
10 gennaio 1860 in una pubblica lettura a favore dell’Associazione per l’Aiuto ai Letterati e agli Scienziati bisognosi) in Tutte le opere, a cura di E. Lo Gatto, Milano,
Mursia, 1964, t. IV, p. 720].
33
302
Lidia Sedda
Che cosa esprime Don Chisciotte? Prima di tutto la fede; la fede in
qualche cosa di eterno e incrollabile: nella verità insomma, nella verità che si trova al di fuori del singolo uomo, che non gli si dà facilmente, che chiede di essere servita, che chiede vittime, ma che è accessibile a colui che la serve fedelmente, e che si sacrifica. Don Chisciotte è tutto compenetrato della devozione all’ideale per il quale è
pronto a sottoporsi a tutte le possibili privazioni, a sacrificare la vita;
e la sua stessa vita egli apprezza e valuta solo in quanto può essere
un mezzo per incarnare l’ideale, perché regni la verità e la giustizia
sulla terra. […] Don Chisciotte avrebbe ritenuto vergognoso vivere
solo per se stesso, preoccuparsi solo di sé. Egli vive completamente,
se così si può dire, fuori di sé, per gli altri, per i suoi fratelli, per estirpare il male, per contrapporsi alle forze ostili all’uomo, ai maghi,
34
ai mostri, cioè agli oppressori.
Sulla scia delle letture romantiche del Chisciotte, che conosceva
ed apprezzava, Turgenev idealizza al massimo grado l’eroe spagnolo
e con ciò lo snatura35. Questa idealizzazione è funzionale al Turgenev
pensatore e scrittore che si dibatte negli stessi anni in una profonda
meditazione sulla realtà russa, sui problemi inerenti il senso della
vita individuale, il rapporto tra il singolo e la collettività e le possibilità del bene di agire in un mondo che sembra degradare sempre più
verso il nichilismo e il terrorismo. La figura di Don Chisciotte viene
scelta dall’autore e, contrapposta al “senza cuore” Amleto, diviene la
proposta di un modello ideale al quale dovrebbero ispirarsi le nuove
generazioni.
Il discorso di Turgenev e soprattutto il tentativo di immetterlo nei
propri processi artistici con risultati contrastanti, scatenano ampie
reazioni in Russia. La gioventù rivoluzionaria rifiuta con sdegno il
parallelo con il vecchio hidalgo, portatore, a suo avviso, di conservazione e ristagno e si esprime con toni fortemente polemici ogni qualvolta esce dalle stampe un nuovo racconto o un nuovo romanzo ispirato all’eroe spagnolo. Allo stesso tempo, il risalto dato agli aspetti
ideali della lotta del cavaliere errante influenza la maggior parte dei
grandi scrittori della seconda metà dell’Ottocento. Dostoevskij, Leskov
e, più tardi, i precursori e i seguaci del simbolismo russo introducono
34
Ibidem, pp. 173-174 [p. 721].
Il Don Chisciotte di Turgenev “sa poco”, “conosce poco”, è in grado “a malapena” di “leggere e scrivere”, ma non solo: egli si presenta altresì come il vero “gentleman”, “l’uomo d’ordine”, semplice e calmo, privo di “amor proprio”. Ib., p. 174 [p.
721], p. 188 [p. 732], p. 187 [p. 731].
35
Don Chisciotte in Russia
303
Don Chisciotte nelle loro ricerche artistiche e conoscitive creando
opere che testimoniano le infinite possibilità di uso e di rielaborazione offerte dal romanzo spagnolo.
Don Chisciotte compare nella produzione artistica e pubblicistica di
Fedor Dostoevskij a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta36.
Nelle lettere, negli appunti preparatori dell’Idiota e negli articoli
contenuti nei Diari di uno scrittore l’eroe spagnolo è presentato come
un grande esempio di nobiltà d’animo e di coraggio. Don Chisciotte,
secondo Dostoevskij, è un personaggio che non si lascia abbattere
dalle leggi del mondo, che crede di poter incidere personalmente
sulla realtà senza attendere e senza delegare ad altri la soluzione dei
suoi problemi. Queste qualità del protagonista principale rendono il
romanzo di Cervantes un’opera immortale, degna di essere diffusa:
La conoscenza di questo grandissimo e tristissimo fra tutti i libri
creati dal genio dell’uomo - scrive Dostoevskij nel 1877 - indubbiamente innalzerebbe l’anima del giovane con un grande pensiero, lascerebbe cadere nel suo cuore grandi problemi e contribuirebbe ad
allontanare la sua mente dall’adorazione dell’eterno e stupido idolo
della mediocrità, dalla presunzione soddisfatta di sé e dalla triviale
ragionevolezza.37
Nella citazione proposta è racchiuso lo scopo che anima tutta
l’attività intellettuale dello scrittore russo: quello di mostrare ai suoi
contemporanei come sia possibile concepire e vivere la propria vita
in modo autonomo, diverso rispetto al senso comune. Spinto da questa esigenza, Dostoevskij va oltre il generico riconoscimento del
valore degli ideali di Don Chisciotte e inizia un’indagine a tutto
campo volta a verificare quanto il modello del cavaliere errante possa
rispondere alle esigenze concrete del suo tempo. Conseguenza diretta
dei suoi limiti e delle sue debolezze, la prassi del Cavaliere dei Leoni
è, secondo l’autore, inadeguata già rispetto alla realtà del secolo
d’oro e si dimostra inconcludente e addirittura nociva se riproposta
in mondi più complicati e ambigui, come quelli delle grandi capitali
36
Cfr. F.M. DOSTOEVSKIJ, «Neizdannyj Dostoevskij» (Dostoevskij inedito), in
Literaturnoe nasledstvo (L’eredità letteraria), Moskva, Nauka, 1971, t. 83, p. 387, p.
404, p. 420, pp. 442-443, p. 448, p. 454.
37
F.M. DOSTOEVSKIJ, Dnevnik pisatelja za 1877 god, in Polnoe sobranie
soþinenij v tridcati tomach (Opere complete in trenta volumi), Leningrad, Nauka,
1984, t. XXVI, p. 25 [trad. it., Diario di uno scrittore, traduzione e cura di E. Lo Gatto, Firenze, Sansoni, 1981, p. 1080].
304
Lidia Sedda
russe degli anni Sessanta e Settanta. Raggiunta la consapevolezza dei
danni che l’entusiasmo, l’innocenza e l’assenza di razionalità possono
provocare, Dostoevskij avvia una ricerca artistica volta a creare un
nuovo modello di personaggio e di uomo, in cui la nobiltà d’animo, il
coraggio, la generosità di chisciottesca memoria convivano con la capacità di concepire e realizzare un’azione discreta e mirata. Da questa ricerca, intrapresa con il principe Myškin dell’Idiota38, nasce l’ultimo eroe di Dostoevskij, Aleša, il Cristo-Don Chisciotte dei Fratelli
Karamazov.
L’influenza del romanzo di Cervantes e della lettura di Turgenev
si fanno sentire in modo forte all’interno dei racconti e dei “romanzi
cronaca” che Nikolaj Leskov compone tra gli anni Sessanta e Ottanta.39
I protagonisti di queste opere sono nature attive, mosse dall’amore
per gli altri, che lottano contro le istituzioni in nome della verità, del
bene comune e della giustizia sociale. Collocati in ambienti che richiamano la biografia umana e intellettuale del loro autore (il clero e la
“gente semplice”)40, questi eroi agiscono secondo il Vangelo, cercando
38
«L’idea principale del romanzo - scrive Dostoevskij in una lettera del 1868 - è
quella di rappresentare una natura umana pienamente bella. […] Tutti gli scrittori,
non soltanto russi, ma anche tutti gli europei, che si sono accinti alla rappresentazione di un carattere bello e allo stesso tempo positivo, hanno sempre dovuto rinunciare. Giacché si tratta di un compito smisurato. Il bello è un’ideale, e l’ideale - sia
il nostro sia quello dell’Europa civilizzata - è ben lontano dall’essere stato elaborato.
Al mondo c’è stato soltanto un personaggio bello e positivo, Cristo […]. Tra tutti i
personaggi umanamente belli della letteratura cristiana il più completo e perfetto è
Don Chisciotte. Ma Don Chisciotte è bello unicamente perché allo stesso tempo è
ridicolo. Il Pickwick di Dickens (che è una figura infinitamente più debole di Don
Chisciotte, ma pur sempre immensa) è anche lui ridicolo, e appunto per questo ci
conquista. Nel lettore si determina un sentimento di compassione nei confronti del
personaggio umanamente bello che viene deriso e che non è cosciente del proprio
valore, e con ciò stesso viene provocato anche un sentimento di simpatia verso di
lui». DOSTOEVSKIJ, in Polnoe sobranie soþinenij v tridcati tomach (Opere complete in
trenta volumi), cit., 1985, t. XXVIII, p. 251 [trad. it. Lettere sulla creatività, traduzione
e cura di G. Pacini, Milano, Feltrinelli, 1994, pp. 84-85]. Corsivo dell’autore. In questo
passo si nota la presenza di una forte influenza, quella di Belinskij, che già nel 1845
aveva descritto Don Chisciotte come «la persona più bella e più generosa». Cfr. nota 29.
39
Vedi I.V. STOLJAROVA, «“Gamlet i Don Kichot”. Ob otklike N.S. Leskova na
reþ’ Turgeneva» (“Amleto e Don Chisciotte” La risposta di N.S. Leskov al discorso di
Tur-genev), in Turgenevskij sbornik (Miscellanea turgeneviana), Leningrad, Nauka,
1967, pp. 120-123 e, della stessa autrice, «Russkie Don Kichoty v tvorþestve Leskova»
(I Don Chisciotte russi nell’opera di Leskov), in Uþenye zapiski Leningradskogo
universiteta (Dispense dell’università di Leningrado), N. 355, vyp. 76, 1971, pp. 7795.
40
Sulla biografia di Leskov, cfr. H. MCLEAN, Nikolai Leskov. The Man and His
Don Chisciotte in Russia
305
di esprimerne lo spirito e le idealità in contesti sociali dominati dall’indifferenza, dalla corruzione, dal dilagare di valori che mirano alla
soddisfazione delle esigenze individuali a scapito della collettività.
Tra questi personaggi va ricordato, in particolare, “Don Chisciotte
Rogožin”, protagonista della “cronaca familiare” Zachudalyj rod (Una
stirpe decaduta, 1874). “Nudo come un santo turco, ma nell’animo un
cavaliere”, Dorimedont Rogožin è tutto costruito sulla immagine dell’eroe di Cervantes:
Dorimedont Vasil’eviþ Rogožin, soprannominato Don Chisciotte,
era un originale come anche allora ve n’erano pochi al mondo, e
come non se ne incontra più nemmeno uno nel nostro secolo stereotipato. Era un gentiluomo lungo, magro e rossiccio, con occhi tristi
come smeraldo […]. Nel suo aspetto esteriore egli ricordava straordinariamente il celebre Don Chisciotte, e come lui era un po’ matto.
Per un capriccio del caso, l’originale abbigliamento di Rogožin
completava questa somiglianza: Dorimedont Vasil’eviþ prediligeva
una sopravveste corta, sul tipo dei camiciotti e dei giubboni che faceva pensare alla povera casacca fuori moda del cavaliere della
Mancia, stretta da una cintura di metallo rugginosa e composta di lastrine lunghe unite fra loro con catenelle […]. Tutto questo abbigliamento era sempre in disordine, ma Rogožin non faceva attenzione a queste piccolezze […]. Era nemico di qualsiasi oppressione e
41
amico della democrazia […] e detestava gli arrivati pretenziosi.
Nutrito dalle idee liberali diffusesi in Russia dalla guerra contro
Napoleone alla quale prende parte, Dorimedont Vasil’eviþ decide di
dedicarsi totalmente al compito di alleviare le condizioni di vita degli oppressi. Nei processi di sviluppo interiore dell’eroe, come accade per Don Chisciotte, grande importanza assumono la lettura e l’amore per i libri antichi che gli consentono di elaborare una propria
visione del mondo e finiscono con l’acuirne la pazzia. Anche Rogožin
“esce nel mondo” accompagnato da un fedele scudiero, il contadino
Zinka, che, nel suo intimo, considera Dorimedont “un uomo di Dio”42.
Art, Cambridge Mass., Harvard University Press, 1977; A. LESKOV, Žizn’ Nikolaja
Leskova po ego liþnym, semejnym i nesemejnym zapisjam i pamjatjam, (La vita di
Nikolaj Leskov ricostruita attraverso note e ricordi personali, familiari e non) Tula,
Priokskoe knižnoe izdatel’stvo, 1981; V. SEMENOV, Nikolaj Leskov. Vremja i knigi
(Nikolaj Leskov. Il tempo e i libri), Moskva, Sovremennik, 1981.
41
N.S. LESKOV, Zachudalyj rod, in Sobranie soþinenij v dvenadcati tomach (Opere in dodici volumi), Moskva, Pravda, 1989, t. VI, pp. 69-70 [trad. it. Una stirpe decaduta, in Romanzi e racconti, a cura di E. Lo Gatto, Milano, Mursia, 1963, p. 367].
42
Si veda l’analisi comparativa proposta da BAGNO in Dorogami «Don Kichota»
306
Lidia Sedda
Conclude questo quadro dei difensori degli oppressi l’originale presenza di due (talvolta tre) “sorprendenti rozze”, molto diverse dal buffo
Ronzinante e dal mulo di Sancio: cavalli “mal ferrati” e spesso affamati, sono capaci di volare come uccelli e di partecipare intrepidamente
alle avventure dei loro padroni.
“Amico fedele”, “eterno compagno di viaggio”43, il Don Chisciotte
di Cervantes occupa un posto di rilievo nella scrittura dei precursori e
dei seguaci del simbolismo russo. Dmitrij Merežkovskij, Vjaþeslav
Ivanov, Fedor Sologub, riflettono a fondo sul significato del romanzo
spagnolo e se ne servono per esemplificare le proprie teorie sulla letteratura e sullo sviluppo culturale russo44. Allo stesso tempo Merežkovskij e Sologub compiono un’altra operazione: dedicano a Don Chisciotte
alcuni componimenti poetici in cui, raffrontando direttamente la storia
del cavaliere errante con la propria, attribuiscono all’eroe spagnolo i
pensieri, le parole, i dubbi e le angosce della propria disagiata esperienza di intellettuali “fuori dal coro”. Così accade nella lunga poesia di
Merežkovskij Alonzo Dobryj (Alonso il Buono, 1884), in cui appare un
Don Chisciotte morente, solo, distrutto nel corpo e nello spirito che si
domanda: «E’ forse stato davvero tutto un delirio, ciò in cui ho ardentemente creduto? […] E’ possibile che al mondo non esista la verità?».45
In alcuni componimenti di Fedor Sologub, invece, il tema guida è costituito dalla morte di Dulcinea, che viene “inventata” dal poeta per rievocare la morte della propria moglie e con lei dell’ispirazione poetica.46
Tra gli scrittori russi del Novecento che fanno riferimento al Don
Chisciotte per elaborare le proprie opere spicca per importanza Andrej Platonov.
L’influenza del testo spagnolo è evidente nei “bolscevichi sognatori” che dominano la sua prosa nella seconda metà degli anni Venti
e in particolare nel romanzo ýevengur, opera composta tra il 19261928 e pubblicata in URSS nel 1989. Tra i cumovoj47 del romanzo, il
(Sulle strade di «Don Chisciotte»), cit., pp. 364-367.
43
D.S. MEREŽKOVSKIJ, «Veþnye sputniki» (Gli eterni viaggiatori), in L. Tolstoj i
Dostoevskij. Veþnye sputniki (Tolstoj e Dostoevskij. Gli eterni viaggiatori), Moskva,
Respublika, 1995, p. 353.
44
Si rimanda la discussione su questo tema al secondo articolo citato in nota 2.
45
D.S. MEREŽKOVSKIJ, Sobranie Stichotvorenij (Raccolta dei versi), Sankt Peterburg, Folio Press, 2000, pp. 71-73.
46
Si vedano Slušaj gor’kie ukory (Ascolta gli amari rimproveri), Don Kichot
putej ne vybiraet (Don Chisciotte non sceglie i suoi percorsi), 1922 in F. Sologub,
Stichotvorenija (Poesie), Sankt Peterburg, Akademproekt, 2000, pp. 462-463, p. 465.
47
Termine adoperato da Platonov con il significato di “folle”, “forsennato” nel
Don Chisciotte in Russia
307
più vicino al modello di Turgenev è il cavaliere errante Stepan Kopenkin, che combatte in nome della sua dama Rosa Luxemburg. Come Don
Chisciotte è un vecchio con un passato appena accennato, che insegue un ideale altamente simbolico e si scontra continuamente con la
prosaicità dell’esistenza.
Si può dire che un po’ tutti gli abitanti di ýevengur siano personaggi creati a partire dall’idea del prode guerriero che combatte senza risparmiarsi per raddrizzare i torti e correggere le offese, in nome
di un futuro mitico, di un moderno secolo d’oro della cavalleria errante. Immersi nei «primordi della società comunista»48, questi cavalieri riflettono le ansie di un tempo di caos e di guerra, un tempo in
cui la morte è la norma e la follia regna indisturbata. In essi Platonov
immette i dati biografici propri e di una intera generazione, cresciuta
sotto il segno delle grandi speranze aperte dalla rivoluzione d’Ottobre
e, allo stesso tempo, tutta la propria travagliata ricerca spirituale intorno al significato della natura umana, della nascita, del dolore, del
rapporto tra il singolo e la collettività, della lotta per il dominio sugli
elementi, del potere, della storia e infine della morte.
Testo complesso, di riflessione critica, di condanna di un sistema
dall’interno, di proposta attiva di miglioramento, ýevengur non doveva trovare spazio nell’editoria sovietica del suo tempo, così come
altre opere potenzialmente pericolose. Tra queste ricordiamo il Don
Chisciotte di Bulgakov (1938), una piéce teatrale proibita a lungo in
Russia. Come ýevengur, anche la commedia di Bulgakov è costruita
intorno ai concetti di libertà, di schiavitù, di diversità e di omologazione. Da questo punto di vista essa trascende il suo contesto e si
presta bene a rappresentare la situazione degli intellettuali negli anni
dell’affermazione dello stalinismo. La lotta che Don Chisciotte conduce contro i mulini a vento è la lotta dei bolscevichi sognatori, degli
uomini d’azione, degli intellettuali, dei “maestri” che cercano disperatamente di seguire percorsi personali all’interno di sistemi chiusi,
in cui lo sforzo di raggiungere il bene collettivo soffoca le esigenze
del singolo e il suo diritto di esprimersi.
racconto Il dubitoso Makar (1929). A. PLATONOV, Usomnivšijsja Makar, in Gosudarstvennyj žitel’(Un abitante dello Stato), Minsk, Mastackaja literatura, 1990, pp. 104120 [trad. it. Il dubitoso Makar, trad. di G. Pacini, in La Primavera della morte, Milano, 1989, pp. 17-45].
48
A.M. GOR’KIJ, Neizdannaja perepiska s sovetskimi pisateljami (Corrispondenza inedita con gli scrittori sovietici), Literaturnoe nasledstvo (L’eredità letteraria), t. 70, Moskva, Nauka, 1963, p. 312.
308
Lidia Sedda
Nelle opere della grande letteratura mondiale, nei suoi eroi (Faust,
Amleto, Don Giovanni, Don Chisciotte), la Russia cerca risposta alla
domanda sul senso della propria esistenza, su come costruire il proprio futuro. Le interpretazioni più originali nascono e si sviluppano
nelle fasi nodali della storia russa, nei momenti di crisi, quando dominano il caos e l’incertezza e gli uomini sono posti di fronte alla responsabilità intellettuale e morale di esprimersi, offrire il proprio
contributo alla ricerca e alla definizione dei percorsi da intraprendere. L’Europa, sin dai tempi di Pietro il Grande, ha sempre avuto un
ruolo di primo piano nell’indirizzare le riflessioni della classe dirigente e dell’intelligencija russa, ma non nel senso postulato da Marx,
secondo il quale un paese più avanzato non fa che mostrare a quello
meno sviluppato l’immagine del suo avvenire49. Il rapporto con l’Europa si è sempre configurato come un rapporto complesso, critico, per
sua natura “dialogico”, laddove questo termine presuppone l’ascolto,
l’analisi e la riformulazione, sulla base delle condizioni concrete del
paese ricevente, di intuizioni, immagini, principi.
Il campo privilegiato nel quale si è svolto questo rapporto è stato
quello letterario. La letteratura ha sempre avuto e continua ad avere
tutt’ora un ruolo di primo piano nella vita culturale russa. La storia
della Russia, l’alternanza di regimi autoritari — lo zarismo prima, il
“socialismo reale” poi — ha sempre impedito l’espressione diretta del
dissenso: da qui il ricorso — attraverso una serie di strategie elaborate
nel tempo — alla letteratura e alla critica letteraria come unica possibilità di confronto e di diffusione delle idee.
La carica eversiva che Don Chisciotte poteva assumere nella qualità di guerriero isolato che combatte contro le ingiustizie del potere,
non viene colta da subito. Belinskij, Turgenev, Dostoevskij possono
esprimere le proprie posizioni politico-sociali attraverso il cavaliere
errante e dare alle stampe le proprie opere. Questo non accade nel
periodo sovietico: Andrej Platonov e Michail Bulgakov non vedranno mai pubblicate in vita le loro storie.
Trascorsa la fase della “lagernaja proza” (prosa del lager), in cui
Don Chisciotte è stato adoperato per esprimere l’anelito alla libertà
degli intellettuali passati attraverso le purghe staliniane50, il perso49
Cfr. N. MARCIALIS, “Introduzione”, in D. I. Fonvizin, Il brigadiere. Il minorenne, a cura di N. Marcialis, Venezia, Marsilio, 1991, pp. 51-54.
50
Cfr. ad esempio, Ju.A. AJCHEN’VALD, Don Kichot na russkoj poþve (Don Chisciotte sul suolo russo), Moskva, Gendal’f, Minsk, OOO MET, 1996 e l’autobiografia
Don Chisciotte in Russia
309
naggio di Cervantes è ricomparso più volte nella letteratura contemporanea. Da Venedikt Erofeev a Viktor Pelevin, passando per Juz Aleškovskij, l’eroe di Cervantes continua ad esprimere istanze non solo
letterarie ma politiche e sociali: la voglia di riorganizzare la propria
squallida esistenza ai margini dello stato inseguendo un’utopica Dulcinea51, il desiderio di lottare contro le menzogne della scienza e della
tecnologia che annientano l’uomo e gli impediscono di costruirsi un
mondo a propria misura52, il rifiuto della quotidianità borghese e la
scelta di vestire gli abiti dell’“invincibile principe” in una realtà virtuale.53
Nelle specifiche condizioni della Russia, studiare la ricezione del
Don Chisciotte non può limitarsi a fare uno spoglio delle traduzioni,
delle citazioni, dei rimandi contenuti in saggi, articoli, racconti, romanzi e poesie. La maggior parte dei critici russi che hanno studiato
il tema hanno cercato da subito di capire quale significato avessero i
continui richiami all’eroe di Cervantes negli autori che hanno preso
in considerazione, con risultati altalenanti ma sempre profondamente
originali. Questa originalità è spesso figlia dell’impossibilità di mantenere le distanze dal testo spagnolo e dai testi che da esso traggono
ispirazione, al punto che opere diversissime come Don Chisciotte sul
suolo russo di Jurij Ajchenval’d o Sulle strade di «Don Chisciotte»
di Vsevolod Bagno, per portare due esempi illustri, oltre che fornire
una grande quantità di elementi utili agli studiosi dicono molto dei
loro autori, dei loro pensieri, dell’epoca in cui vivono e testimoniano, ancora una volta, la forza dell’opera di Cervantes, la sua capacità
di V.T. ŠALAMOV, ýetvertaja Vologda (La quarta Vologda), Moskva, Izdatel’stvo
Grifon, 1994 [trad. it., La quarta Vologda, a cura di A. Raffetto, Milano, Adelphi, 2001].
51
V. EROFEEV, Moskva-Petuški, Sankt-Peterburg, Sojuz, 1991, pp. 56-64 [trad. it.
Mosca-Petuški, in Mosca-Petuški e altre opere, a cura di G. Zappi, Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 65-70].
52
Osserva tristemente Nikolaj Nikolaeviþ, il “donatore di sperma” protagonista
dell’omonimo romanzo di Juz Aleškovskij: «E’ ora di farla finita con questo lavoro.
Dopo il Don Chisciotte persino farsi le seghe è diventato difficile e terribile. Cosa ci
sto a fare io qui, quando bisogna continuare la guerra contro i mulini a vento?». Ju.
ALEŠKOVSKIJ, Nikolaj Nikolaeviþ. Maskarada, Vil’njus Vest’, 1990, p. 68 [trad. it.
Nikolaj Nikolaeviþ: il donatore di sperma (Viaggio illuminato all’interno dell’oscuro
letamaio della biologia sovietica), a cura di M. Dinelli, Roma, Voland, 2002, pp. 8788].
53
V. PELEVIN, Princ Gosplana, in Omon Ra, Moskva, Vagrius, 2001, pp. 343-398
[trad. it. Il principe del Gosplan, in Un problema di lupi mannari nella Russia centrale, trad. A.L. Corritore, Milano, Mondadori, 2000, pp. 187-247].
310
Lidia Sedda
di abbattere le barriere e di mettere in comunicazione mondi distanti
nel tempo e nello spazio. Per questo ancora oggi è necessario riflettere ed esprimersi su come questo grande classico della letteratura
mondiale sia stato letto ed interiorizzato: è un processo che consente
infatti non solo di capire qualcosa in più sulla cultura che riceve e
sulle dinamiche che stanno alla base del suo sviluppo, ma anche e
soprattutto su se stessi, sulla propria vita e sul proprio tempo.
311
C ONTROCANONE
E CONTRAPPUNTO BARBARICO .
L’ OCCASIONE PERDUTA DEL ROMANZO SPAGNOLO AUREO
Giovanni Cara
Università di Padova
1. In un recente studio, Asor Rosa rievoca la celebre definizione
del Novecento come “secolo breve” affermando che il canone classico
della grande letteratura si ferma appena agli anni Trenta: dopo, solo
svuotamento e impoverimento. Dice il critico che il Novecento «è questo gruppo di autori: Paul Valéry, Marcel Proust, Rainer Maria Rilke,
Thomas Mann, Robert Musil, Franz Kafka, Virginia Woolf, James
Joyce». Tutti autori di un decennio d’oro, come viene chiamato, a cui,
per consonanza — seppure in tono minore — si possono accostare Forster, Hofmannsthal, Eliot, Mansfield, Schönberg, Stravinskij, Klee, Picasso, Einstein: «immediatamente alle loro spalle si ergono colossi come Schopenhauer, Nietzsche e Freud (ma per certi aspetti anche Max
Weber), e le grandi esperienze del naturalismo e del simbolismo»1.
Per il critico, questi grandi autori europei innalzano monumenti di
letteratura “grande borghese” dall’interno della loro classe di appartenenza, come eroici tentativi di autocritica, continuamente predisposti
alla scrittura di un universo alternativo rispetto a quello reale. Per
essi, la letteratura — l’arte in genere — costituisce ancora un’utopia
immaginifica attraverso cui comprendere il mondo e profetizzarne i
destini. L’unica punta estrema, l’unico istante in cui, per incanto, l’Europa ripeté tale esperienza fu nel 1947 col Doktor Faustus.
La destinazione cui tale congerie di fenomeni porta (dopo la mediocrizzazione del nuovo sistema sociale e politico e il collasso della
“grande borghesia” che costituiva la destinazione ideale del fatto artistico) è costituita dalle avanguardie. Fenomeno che Asor Rosa dice
di non condannare né giudicare, ma semplicemente rilevare come
manifestazione del nuovo mondo “piccolo borghese”: il che significa
«la disgregazione del mondo all’unità formale dell’opera». La conclu1
Cfr. A. ASOR ROSA, «Per una interpretazione del Novecento», in Mappe della
letteratura europea e mediterranea. III. Da Gogol’ al Postmoderno, G.M. Anselmi
(ed.), Milano, Mondadori, 2001, pp. 253-270. La cit. alle pp. 255-256.
312
Giovanni Cara
sione, in realtà, non è affatto innocua, e travolge tutto il secondo Novecento.2
Come sia accaduto che simile interpretazione abbia paradossalmente potuto coincidere talvolta con certa rigidità critica dei postmodernisti è questione ancora tutta da studiare3: tale impostazione ha
contribuito a determinare i processi per cui, nel Novecento, si è venuto
a creare un canone interpretativo del romanzo esclusivo ed escludente
che non ha fatto altro che avvalorare la tesi del romanzo come “epopea
borghese” (Hegel) e che tanto successo, significativamente, ha avuto
per la scuola critica anglosassone.
Senza invece considerare aspetti accolti in altri àmbiti, per esempio per quanto riguarda le discipline demoantropologiche4 e la storia
della cultura5, si rischia di non comprendere a fondo il romanzo spagnolo dell’Ottocento, che getta nuovamente le basi per il successivo
romanzo novecentesco; e si rischia di non comprendere, retrospettivamente, il motivo per cui il Settecento romanzesco in Spagna abbia innegabilmente una scarsa rappresentatività. Scarsa rappresentatività che
può avere anche (in parte) il senso di una alterità della Spagna rispetto
ai grandi movimenti borghesi europei, certo: tuttavia tale unidirezionale lettura non spiegherebbe perché il romanzo del Cinque e Seicento
spagnolo sia stato tanto ricco e complesso da ergersi lì come un monumento colossale e imprescindibile per tutta la narrativa europea (e
poi mondiale); e senza, con ciò, poter noi oggi affermare che il Quijote o il Lazarillo sono romanzi borghesi.
Circa il motivo e il significato del silenzio narrativo spagnolo si
sono da molte parti messe sul tappeto alcune ipotesi, parziali se considerate singolarmente e forse più valide se considerate congruente2
Scrive Asor Rosa infatti: «Le masse sono mediocri e hanno bisogno di una
cultura mediocre: la civiltà tecnologica viene loro incontro con il suo inesauribile
corredo di mezzi (un compromesso sembra più semplice, infatti, con la tradizione
dell’avanguardia, purché anche questa sia spogliata del suo spirito trasgressivo e delle
sue velleità di rottura, e ricondotta all’interno di uno schema di universale mercificazione a cui obiettivamente si presta meno la strumentazione espressiva dell’altra
tendenza). Io dubito fortemente, persino, che alla fama istituzionalmente consolidata di
questi grandi autori corrisponda oggi un’adeguata capacità di lettura da parte degli
utenti; anzi, penso che essi sostanzialmente siano poco letti»: cfr. cit., p. 266.
3
Ma cfr. P. ROSSI, Paragone degli ingegni moderni e postmoderni, Bologna, Il
Mulino, 1989; ID., Naufragi senza spettatore. L’idea di progresso, Bologna, Il Mulino,
1995. E anche, da un’altra prospettiva, G. FERRONI, Dopo la fine. Sulla condizione
postuma della letteratura, Torino, Einaudi, 1996.
4
Cfr. A. CIRESE, Culture egemoniche e culture subalterne, Palermo, Palumbo, 1973.
5
Cfr. P. ROSSI, voce “Cultura” in Enc. Treccani del Novecento, Treccani, 1975.
Controcanone e contrappunto barbarico: il romanzo spagnolo aureo
313
mente come articolazioni interattive di un sistema complesso: l’assenza
di una vera e propria classe media può spiegare sociologicamente
solo la distanza tra il romanzo come “epopea borghese” (con tutte le
sue sottogeneriche manifestazioni e specializzazioni: romanzo d’ambiente, romanzo d’avventure, romanzo storico, eccetera) e il “romanzo
tradizionale” così come seguitò a rigenerarsi successivamente fuori
dal contesto europeo. È altresì significativo, sotto questo profilo, che il
supposto canone occidentale, fino almeno alla sua consunzione di metà
Novecento e all’atto di constatazione che il romanzo era morto (salvo
poi risorgere numerose volte in tutto il mondo), imponga persino una
difficoltà terminologica nel parlare di tale differenza e costringa a
usare la discutibile rappresentazione critica di “romanzo tradizionale”
per poter parlare, per esempio, delle altissime prove offerte dalla narrativa ispanoamericana. Potrebbe forse bastare o tornare utile, in questo senso, la distinzione tra novel e romance di Frye6 se non fosse per
il fatto che, proprio nel romanzo ispanoamericano — come anche, per
molti versi, nel romanzo nordamericano delle origini —, tale oscillazione s’infrange appunto sull’indiscrezione del canone occidentale che
non prevede la sapida mescolanza di novel e romance in società complesse e meticce che rappresentano l’esigenza di entrambi i cospetti
narrativi. Ancora a questo proposito va forse notato come chi si occupi
di esperienze letterarie extraeuropee — intendendo qui riferirsi alla concezione d’Europa che ancora ci portiamo dietro, ristretta a una manciata di paesi, oggi semmai sotto l’egida aggiuntiva di uno storico e
contraddittorio complesso di colpa americano — trovi talvolta estrema
difficoltà nell’applicare categorie critiche e canoni interpretativi che
inseguano asintoticamente la distinzione hegeliana tra un “non ancora” e un “non più”.
«Noi siamo una piccola specie umana, un mondo a parte […], né
indiani né europei, ma a metà strada fra i legittimi proprietari della
terra e gli usurpatori spagnoli», scriveva Simón Bolívar nella Lettera a
un cittadino della Giamaica nel 1815. Dopo quasi centocinquanta anni
il senso di questa percezione di sé rimarrà ancora drammaticamente
sospeso in moltissimi romanzi del “continente meticcio”7 — ma non
solo: basterebbe pensare a molta letteratura dell’esilio spagnolo ed esemplarmente alla trilogia di Juan Goytisolo — e renderà conto di una
6
Cfr. N. FRYE, La scrittura secolare, Bologna, il Mulino, 1976.
Cfr. G. MARTIN, Il romanzo di un continente: l’America latina, in F. Moretti
(ed.), Il romanzo. Storia e geografia, vol. III, Torino, Einaudi, 2002, pp. 506-529. La
cit. a p. 509.
7
314
Giovanni Cara
necessità critica e terminologica per molti versi insufficiente, costringendo a parlare, quasi come in un assurdo logico, di “realismo magico”, all’incrocio tra Nuovo e Vecchio mondo, dentro una permanente
condizione di ibridazione vissuta, di volta in volta, come dramma o
come straordinaria possibilità narrativa. Un processo narrativo analogo, anche se di matrice e con sviluppo completamente diversi, a quello
del romanzo nordamericano delle origini per il quale, tuttavia, il mito
del Continente sconfinato si pose, da subito, sotto un altro segno:
La storia e la letteratura latinoamericane mostrano un’oscillazione continua fra utopia e distopia. Il grande mito degli Stati Uniti, estensione del
mito fondamentale dell’Occidente, è fatto di frontiere senza fine e di esplorazione incessante: un cammino infinito verso la libertà, il progresso e lo sviluppo attraverso la realizzazione di sé. Il mito dell’America
Latina ne è il rovescio: origini romantiche (come le stesse nazioni dell’
America Latina), nucleo surrealista (negli anni Venti), orientamento
ideologico ribelle (gli anni Sessanta del boom e della guerriglia). È il
mito della subalternità del Nuovo Mondo nei confronti del Vecchio.8
Portelli nota che la cultura nordamericana nasce su una doppia
necessità contrastiva: la necessità della scrittura (scrittura Sacra prima,
a ottemperare un archetipico legame fra la “città sulla collina” puritana e la Gerusalemme biblica; scrittura dell’autorità legale dopo, con
la prima Costituzione della storia moderna) e il fondamento narrativo
della voce, perché ognuno tra i diversi componenti della comunità meticcia abbia il suo posto lungo il cammino della frontiera o attraverso
un nuovo viaggio nel deserto9.
DeLillo e Mark Twain stanno dicendo che quelli che hanno la voce,
in America, sono i bambini proletari del Bronx, i ragazzi neri di Harlem, gli adolescenti fuggiaschi del Missouri. Attraverso loro, grazie a
loro, parlano tutti e, come il nero sotterraneo Uomo invisibile (1952)
di Ralph Ellison, «sulle frequenze più basse parl[ano] per [noi]».10
È davvero pensabile, dunque, interpretare il romanzo moderno solo
come grande epopea borghese? E non dovremmo piuttosto, in considerazione della sua fondante natura semioticamente meticcia, considerarne i molteplici sviluppi proprio dove l’Occidente europeo estese
la sua mano, una mano spesso peraltro macchiata di sangue umano?
8
Ibidem, p. 522.
Cfr. A. PORTELLI, Nel segno della voce. Oralità e scrittura negli Stati Uniti, in F.
Moretti (ed.), vol. III, cit., pp. 419-439.
10
Ibidem, p. 439. Correggo la data da 1915 (per un evidente refuso) in 1952.
9
Controcanone e contrappunto barbarico: il romanzo spagnolo aureo
315
Basta dunque da sola la Rivoluzione industriale a spiegare il fallimento del romanzo spagnolo, che borghese non era ma che costituì la matrice di moltissime narrazioni romanzesche per i secoli a venire? Forse
può essere una spiegazione congruente per due secoli d’Europa in via
d’industrializzazione; ma la presenza di un filone aureo che, sotterraneo in Spagna sino alla seconda metà dell’Ottocento, riemerge rivitalizzato tanto nel paese d’origine come altrove può spiegare che l’assenza di una vera e propria classe borghese giustifica l’assenza di un
romanzo, non di tutti i possibili romanzi. Con le parole del romanziere
messicano Carlos Fuentes:
A cavallo fra l’Illuminismo e il Romanticismo, Goethe propose l’idea
di una “letteratura mondiale” che abbracciasse generosamente i molteplici aspetti della creazione letteraria, oltre gli stretti confini nazionali. Lo stesso Goethe rappresentò l’ultimo respiro dell’“uomo rinascimentale”, ugualmente interessato, se non esperto, in tutte le attività
dello spirito, seguendo l’ideale di Terenzio: «Nulla di quanto è umano
mi è estraneo». Tuttavia, l’epoca di Goethe, lo spirito del suo tempo,
difficilmente consentiva di avere una visione culturale universalistica.
Forse Goethe sarebbe stato d’accordo con la filosofia della storia di Vico: la lingua è l’origine della civiltà e questa è espressa e quindi apportata da tutte le culture umane. Ma il mondo dell’Illuminismo circoscrisse la cultura, e perfino la natura umana, a un unico centro, quello europeo. Hume e Locke sostengono che la natura umana è sempre una sola
ed è la stessa per tutti gli uomini, benché scarsamente sviluppata nei
bambini, nei dementi e nei selvaggi (Locke). Vale a dire: la vera natura umana, nel suo massimo grado di sviluppo, si trova in Europa e nelle élite europee. Soltanto l’Europa è in grado di vivere storicamente,
asserisce lo scrittore romantico tedesco Herder. «Com’è possibile essere persiani?» si domanda un personaggio di Montesquieu. L’America, pontifica Hegel, è un Non Ancora. [...] All’antico eurocentrismo si
è imposto un policentrismo che, se seguiamo nella sua logica la critica
postmoderna di Lyotard, deve condurci all’«attivazione delle diversità»
come condizione comune di un’umanità centrale in quanto è eccentrica,
o eccentrica perché tale è la mera situazione dell’universale concreto,
soprattutto se si manifesta attraverso l’apporto di quanto è diverso, ossia
l’immaginazione letteraria. La “letteratura mondiale” di Goethe alla fine
riacquista il suo vero senso: è la letteratura delle differenze, la narrazione delle diversità, che, però, solo così confluiscono in un unico mondo,
il mondo delle superpotenze, per utilizzare un’espressione che si adatta all’epoca successiva alla guerra fredda.11
11
Cfr. C. FUENTES, Geografia del romanzo, Milano, Pratiche, 1997, pp. 166-167.
316
Giovanni Cara
La domanda che porrebbe Juan Goytisolo sarebbe piuttosto: «com’
è possibile non essere persiani?». L’esplosivo meticciato sociale spagnolo, percepito come tale anche dagli stessi autori e rappresentabile
in immagini emblematiche come quella d’esordio nel Lazarillo, con
una sorta di assurda scombinata sacra famiglia, o quella dell’ incontro
tra Sancho e Ricote nel Quijote, che non smette di provocare un’ amarezza di lontana e storica vicenda, dovrà allora forse restare incompreso al razionalismo illuminista (o a certo razionalismo illuminista)
per il quale la storia europea era già una storia compiuta ed esportabile, come un esempio morale e politico al di là del quale vi fosse la
barbarie caotica del disordine. Bisognerà attendere molto tempo per
riconoscere che, paradossalmente, invece, se «la Spagna è una deformazione grottesca della civiltà europea» (Ramón del Valle Inclán) è
anche perché, con tutte le contraddizioni del caso, in epoca compresa
tra Modernismo e Avanguardie essa ebbe il coraggio di cercare la propria immagine nello specchio.
2. Alle spiegazioni sociologiche per il silenzio spagnolo in ambito
romanzesco, e a quelle complementari che contemplano la presenza
ingombrante di un’etica controriformista, si può provare ad aggiungere una paradossale unità d’intenti che compatta i precettisti aristotelici tra Cinque e Seicento e i teorici illuministi, propensi a considerare il romanzo come genere di volta in volta disarmonico o immorale
e protesi a chiudere i codici dell’arte a qualunque pericolosa intrusione eterodossa. Il che spiega altri possibili aspetti interpretativi di tale
silenzio. Tutte queste ragioni, insieme, sarà forse possibile (ri)osservarle dentro il lungo viaggio che concerne i processi di assestamento
insieme ideologici e del linguaggio, alla ricerca del codice romanzesco
adatto a penetrare l’esplosiva articolazione della società spagnola.
Fra il 1550 e il 1551, nell’ambito del Consejo voluto appositamente
da Carlo V, ebbe luogo a Valladolid la celebre disputa fra Las Casas
e Juan Ginés Sepúlveda circa la liceità dei metodi di conquista del
Nuovo Mondo. I precedenti sono noti: il domenicano si inserisce nel
filone della letteratura critica sui fatti dell’intervento spagnolo nelle
Indie, che viene definito violento e fuori dai limiti che la legge naturale impone a tutti gli uomini; il dotto umanista invece aveva dato alle
stampe un libro a favore della causa spagnola, basando il suo convincimento sulla comprovata inferiorità etnica e culturale delle popolazioni sottomesse. A voler osservare le circostanze e le persone coinvolte nella disputa, affiora una contraddizione interessante. Las Casas
Controcanone e contrappunto barbarico: il romanzo spagnolo aureo
317
apparteneva a un ordine tradizionalista, fortemente radicato nella
storia del cattolicesimo europeo, e tuttavia si trovava coinvolto in una
battaglia illuminata e, diremmo in termini anacronistici, progressista;
Sepúlveda, dotto latinista dentro le forme culturali dell’Umanesimo,
lottava per un principio eurocentrico ereditato dal passato. L’epilogo
risulta ai nostri occhi ancor più controverso: non sappiamo come fu
giudicata la disputa, ma il saccheggio del Nuovo Mondo seguitò tra
le violenze e l’autocritica del mondo culturale spagnolo.12
Ancora un esempio delle incomprensioni tra gli spagnoli e l’alterità, questa volta, in sottotraccia, sul filo della storia della lingua: L. Terracini13 mette a confronto due personalità così diverse come Boscán
e Valdés, per rilevarne la contrapposizione ideale, quasi i due aspetti
del Rinascimento spagnolo. Le osservazioni prendono in considerazione in prima istanza due termini chiave del Dialogo de la lengua
come “cuidado” e “descuido”. In essi si scorge non solo l’ espressione della contrapposizione tra equilibrio linguistico e affettazione, ma
anche il sintomo del divario ch’esiste tra coscienza e volontà personale di stabilire una norma linguistica e la totale assenza di leggi (come
dire che il cuidado è la via razionale all’espressione linguistica su base
individuale): si riproduce così il senso della responsabilità personale
(etica) che Valdés dà alla sua concezione della vita. La versione in spagnolo del Cortegiano di Boscán offre l’opportunità di un confronto
con Valdés sul piano non della teoria del linguaggio ma delle sue applicazioni pratiche, nella fattispecie della traduzione: in particolare a
partire dall’uso degli stessi termini, cuidado e descuido, in un contesto del tutto diverso, dove la rigidità ideologica e il tradizionalismo
linguistico del traduttore si contrappongono alla chiarezza e alla disponibilità intellettuale del linguista. Per Boscán i due termini ricoprono un’area semantica vasta e aleatoria a testimonianza non solo
della riluttanza ad accogliere un neologismo lessicale, ma anche un
neologismo semantico, dentro gli schemi rigidi di una cultura casticista e tradizionalista che non accettava l’immissione nei luoghi
della propria cultura di elementi esterni.14
12
Cfr. A. PARKER, La época del Renacimiento, Barcelona, Labor, 1972, pp. 235
ss. Cfr. anche J.H. ELLIOTT, La Spagna imperiale (1469-1716), Bologna, il Mulino,
1982, pp. 71-82.
13
Cfr. L. TERRACINI, Lingua come problema nella letteratura spagnola del Cinquecento (con una frangia cervantina), Torino, Stampatori, 1979.
14
Diverso è il descuido linguistico di Santa Teresa. Esso non è scelta etica ma
condizione formale del linguaggio per allontanarsi dalle cose del mondo: si può anzi
318
Giovanni Cara
Entrare attraverso uno dei possibili percorsi dentro il labirinto della
precettistica e della prassi retorica del Cinquecento, consente in definitiva di rilevare la consonanza e lo scambio fra aspetti diversi del
Siglo de Oro; e, d’altra parte, evoca il lento trascorrere, come ancora
dice Terracini, dal cuidado di Valdés a quello di Boscán, sino al despejo di Gracián:
La preponderanza del momento ornamentale a spese dei valori d’uso,
coi quali esso conviveva nel cuidado di Valdés e in parte di Morales,
si accompagna ovviamente al crescente distacco con cui la lingua
d’arte guarda il volgo.15
3. La norma linguistica delle perspicuitas e concettosità rinascimentali, poco a poco, viene acquisita e rigenerata nella complessa
“estroflessione” del linguaggio barocco che si presenta in continuo
movimento alla ricerca di un suo pubblico sì stratificato ma, proprio
perché stratificato, sempre più decisamente ripartito in vulgo e discretos. Il Settecento seguirà la logica della fijación16, rendendo lungamente stabile tale separazione e facendo perdere al romanzo un’ occasione che proprio la vitalità multilinguistica e stratificata del Barocco
avrebbe potuto comprendere e rilanciare, come, sul crinale di questa
vicenda, Cervantes in Spagna per la prosa dimostra pienamente. Un’
occasione perduta in nome non solo della condanna moralistica ma
anche, paradossalmente, di un fantomatico precetto aristotelico di verosimiglianza che rigetta il romanzo cavalleresco ma riesce a salvare
il romanzo del pellegrino in terra; salvando il principio del linguaggio barocco e la retorica del concepto, contemporaneamente rifiuta il
principio del contenuto immorale, svuota lo scheletro linguistico dalla
materia possibilmente sovversiva e giunge alla pura (e in certi casi
altissima) metaforesi e allegoresi narrativa retoricamente preordinata.
Da un punto di vista della costruzione epidittica, insomma, si autocontrolla nel medesimo senso in cui irreggimenta tutta l’enorme produzione oratoria (specialmente sacra) del Seicento. Il Guzmán, il Buscón, il Criticón (ma non, secondo me, il Persiles) possono finire così
per essere sofisticatissimi romanzi a tesi e l’affinamento oratorio ridire che paradossalmente è la via irrazionale, attraverso “l’espressione abnorme”
(Terracini) della letteratura mistica, per ottenere lo stesso risultato che Valdés cerca
razionalmente col cuidado: ossia la distanza dal superfluo e dall’affettazione.
15
Ibidem, pp. 188-189.
16
Ibidem, p. 188.
Controcanone e contrappunto barbarico: il romanzo spagnolo aureo
319
schia di soffocare qualunque segnale d’intemperanza narrativa e ideologica. Il linguaggio, a poco a poco, si sta rarefacendo e divenendo
puramente speculativo. Le possibilità mimetiche offerte dalla prosa rinascimentale (nel linguaggio della Celestina o del Lazarillo) o l’ambivalenza barocca tra idealismo e illusione realista (nel linguaggio
tridimensionale del Quijote, delle Soledades o dei Sueños), contemperati questi ultimi grazie alle suggestioni offerte dalla rete metaforica, vanno sciogliendosi e dissipandosi nell’evento linguistico per il
quale la meraviglia è persino più bella della realtà: ciò che suppone,
per certi versi, la dissoluzione della irriducibile forma romanzesca;
forma romanzesca che tuttavia col Quijote aveva raggiunto l’estrema
punta avanguardista riuscendo a contemperare, in un delicatissimo
equilibrio, il reale storico e il reale poetico dentro il linguaggio di certo barocco capace di coltivare proprio la sofisticata liason tra opera e
pubblico.
Secondo Deffis de Calvo, il Persiles (come il Peregrino o il Criticón), esaurita la spinta del grande romanzo spagnolo cinque e secentesco, rappresenta una «búsqueda fallida de nuevos modelos de ficción
narrativa»17; o, detto altrimenti, «seguir a Heliodoro en el Persiles […]
supuso un retroceso» rispetto al Quijote.18
I concetti di “fallimento” e “retrocessione”, certo, non dovrebbero
implicare questioni di gerarchia o qualità letterarie; e del resto, messa in questi termini, specie in riferimento al Persiles, l’affermazione
è opinabile. Il Persiles può rappresentare, ancor più del Quijote, esattamente la riflessione di uno scrittore intorno al fallimento (o alla resurrezione in altri lidi) della sua “scrittura secolare”: quasi un acutissimo, spesso autoironico, ripensamento intorno alla questione della
verosimiglianza sotto altro cospetto. La stesura del Persiles, praticamente coeva al secondo Quijote, costituisce non un semplice ritorno
di Cervantes alla prassi del romance o, se si preferisce, un allontanamento dal novel; non, perlomeno, in maniera così netta: piuttosto,
il Persiles è la storia di uno scacco, tutto interno alla poetica d’autore,
col quale si mette in luce che il modello altissimo cui s’ispirava Don
Quijote, per quanto giustificato dalla follia, non è più realizzabile e
che Don Quijote stesso deve dunque morire. Quel modello, e quel tipo
17
Cfr. E.I. DEFFIS DE CALVO, Viajeros, peregrinos y enamorados. La novela española de peregrinación del siglo XVII, Anejos de RILCE, n. 28, Ediciones Universidad de Navarra S.A., 1999, p. 158.
18
Cfr. A. EGIDO, Fronteras de la poesía en el Barroco, Barcelona, Crítica, 1990,
p. 113.
320
Giovanni Cara
di viaggio dentro “el gran teatro del mundo” dev’essere realizzato in
funzione di una nuova meta e di una nuova epoca.
Ma trascurando il caso per molti aspetti avanguardista di Cervantes, si tratta di rilevare il lungo processo di autoconsunzione che
società e cultura inducono a perpetrare sul linguaggio romanzesco,
per di più in quanto decisamente meno canonizzato e sistematizzato
dalla precettistica rispetto al codice della poesia. Risulta persino essere indicativo il fatto che, allora, il motivo del viaggio allegorico (e contemporaneamente il sistema narrativo del medesimo viaggio come
itinerario poetico) possa diventare il rifugio più sicuro per spingersi
ai margini della effabilità e narrabilità del mondo, per dire e teorizzare, col silenzio della poesia in prosa (o con l’allegoria poetica del
viaggio), ciò che non era più possibile raccontare esplicitamente: dato
che la duplice tensione “a lo ideal” e “a lo posible” del Quijote non
poteva più essere raccontata, rimaneva da raccontare il senso ultimo
e desengañado di tale fallimento. L’uomo non cerca più l’uomo, in
Spagna; l’uomo cerca di nuovo Dio per ricostituire un’epica della
creazione.19
4. Nel trattato sull’Agudeza Gracián non troverà alcun problema
nell’esemplificare con prose romanzesche la traza concettista della
metafora continuata come artificio compositivo complesso. Senza porsi il problema del nomen farà esplicito riferimento al Guzmán, alla
Celestina, a Luciano, all’Asino d’Oro, allo stesso Eliodoro (II, VI). L’
esemplificazione, sotto l’egida dell’allegoria concettosa portante, permetterà dunque di accostare alle prose romanzesche anche opere in
versi (i Trionfi di Petrarca, la Commedia dantesca, l’Odissea). Che
non avesse preclusioni di tipo retorico circa la prosa (ma che fossero
ben altre, in realtà, le sue perplessità) lo afferma esplicitamente:
No es de esencia de la agudeza fingida el metro y composición poética, sino ornato que la prosa suele suplir con su aliñada cultura. […]
Nada debe a la más numerosa composición la preciosa Metamorfosis
de Apuleyo, de quien dura aún la disputa, que adhuc sin judice lis
est, de si es prosa o si es verso.20
La discriminante, sul fronte contenutistico, può consistere nell’ analogo atteggiamento verso la poesia di argomento erotico, circa la
19
Per tali questioni cfr. per esempio E. RILEY, Introducción al “Quijote”, Barcelona, Crítica, 1990.
20
A, II, LVI.
Controcanone e contrappunto barbarico: il romanzo spagnolo aureo
321
quale l’autore osserva il silenzio:
Lo mismo ocurre en la prosa, donde los silencios son, si cabe, más
significativos: no se cita a Cervantes, pero tampoco El Buscón de
Quevedo, en donde el inmenso derroche de ingenio y agudeza podría
dar materia para escribir todo un tratado. Por el contrario se sirve con
cierta asiduidad de un libro de apólogos medieval, El conde Lucanor;
y, entre los contemporáneos, es el Guzmán de Alfarache, con toda la
digresión moral entreverada, el repertorio preferido por el jesuita.21
Siamo insomma pienamente dentro la comprensione (e voluta omissione) del potenziale sedizioso di un genere che lo stesso Gracián
praticherà nel viaggio a lo divino del Criticón. Possiamo forse dire
che con il gesuita si descrive la parabola di una duplice incomprensione tra il romanzo e gli spagnoli: da una parte la sua potenzialità
divagatrice ed eterodossa; dall’altra il suo essere pericolosamente al
limite tra diverse soluzioni e codificazioni, tanto da poterne provocare l’esplosione e la frammentazione. Il motivo per cui Gracián poteva
amare il Guzmán e le sue ampie digressioni moraleggianti che convergono verso una soluzione finale esemplare (e, per il medesimo motivo, poteva apprezzare l’Asino d’oro di Apuleio), è in fondo lo stesso
motivo che giustifica l’opposto atteggiamento intertestuale di Cervantes rispetto di nuovo al Guzmán; atteggiamento peraltro desumibile
anche dai continui interventi di Scipione intorno alla tentazione divagatrice di Berganza nel Coloquio de los perros, dalla scelta autocensoria del secondo Quijote verso una narrazione priva di interpolazioni narrative e più concentrata, e dall’annoiata perplessità di Mauricio nell’ascoltare i prolissi rendiconti di Periandro nel Persiles.22
21
Cfr. E. BLANCO (ed.), B. Gracián, Obras completas, Madrid, Turner, II, 1993, p.
XXVII.
22
La doppia consapevolezza circa la possibilità che il romanzo fosse potenzialmente esplosivo o che proprio la sua intima natura plurilinguistica ne disinnescasse la carica, mi sembra rendersi esplicita fin dal dibattito italiano cinquecentesco, ch’ebbe in Spagna tempestiva risposta. In trasparenza c’è la gaia disponibilità
cervantina alla scrittura “desatada” che porta alle estreme conseguenze la convinzione già di Tasso, il quale nel difendere l’Amadís de Gaula, «accetta, almeno parzialmente, la distinzione tra epica e romanzo già formulata da Giraldi e Pigna.
Sostiene che il romanzo è una forma specifica dell’epica e che, in quanto tale, richiede una scrittura diversa; ma aggiunge che anche per questa forma vale il principio aristotelico dell’unità d’azione, nonostante la molteplicità di avvenimenti che
può accogliere. A differenza di Giraldi e Cinzio, individua la caratteristica peculiare
del romanzo nella mescolanza “soavissima” tra storia e invenzione: mescolanza in
322
Giovanni Cara
Anche sotto il profilo dei rapporti fra struttura tematica e régimen
retorico, insomma, il tardo Barocco procede verso l’allegoria complessa del romance e svuota la tensione romanzesca di opere come il
Lazarillo e il Quijote. Il passaggio ideale, alla lunga, sarà quello che
condurrà, analogamente, dal discours concettoso della facciata di una
chiesa barocca al discours depotenziato della facciata di una chiesa
rococò. Tenendo presente la struttura che sottende molte prose romanzesche secentesche, si legga un passo di Gracián:
La agudeza encadenada en una traza, es aquélla en que los asuntos,
así de la panegiri, como de la ponderación suasoria, se unen entre sí
como parte, para componer un todo artificioso mental.23
Si definiscono i termini della costruzione metaforica complessa
che può essere visualizzata come rete e che Ricoeur, in riferimento
alle possibilità cognitive del modello metaforico, in epoca contemporanea chiama metafora continuata24. D’altra parte si profila la possibilità di pensare a un’analoga struttura anche per il genere specifico
di “dimostrazioni persuasive” quali possono apparire taluni romanzi:
Siempre un todo, así en la composición física, como en la artificial,
es lo más noble, el último objeto y el fin adecuado de las artes; y si
bien su perfección resulta de la de las partes, pero añade él la mayor
de la primorosa unión.25
E poco più avanti, sempre nel Discurso introduttivo: «Dos cosas
ennoblecen un compuesto conceptuoso: lo selecto de sus partes y lo
primoroso de su unión”26. Gracián individua due possibilità nell’ambito dell’agudeza compuesta: la prima «se compone de conceptos incomplejos, como de tres o cuatro proporciones, de tres o cuatro reparos, paridades, etc...»27; mentre la seconda «es un compuesto por ficción, como lo son las épicas, alegorias continuadas, diálogos, etc...»28.
Nel secondo caso si aprono, a proposito del romanzo, vaste prospettive di ricerca. I dominî di retorica e poetica, difficilmente individuavirtù della quale la storia perde la sua forma specifica per assumere quella della
poesia» (cfr. E. SCARANO in G. Baroni 1997, p. 216).
23
A, II, LI.
24
Cfr. P. RICOUER, La metafora viva, Milano, Jaka Book, 1981, pp. 315 ss.
25
A, II, LI.
26
Ibidem.
27
Ibidem.
28
Ibidem.
Controcanone e contrappunto barbarico: il romanzo spagnolo aureo
323
bili nell’opera di Gracián, e anzi sottilmente mescolati come in tutta
la trattatistica e la prassi barocca, conducono anche il romanzo
all’antica tentazione idealizzante e alla negazione del lascito dell’espejismo realista cinque e secentesco. Dice il teorico del concettismo:
Los discursos persuasivos participan tal vez del ingenioso artificio, y
es entonces adecuada su perfección, porque se van introduciendo un
notable agrado, y es cebo lo gustoso para lo importante.29
Proseguendo in questo senso Gracián specifica meglio:
Lo más arduo y primoroso destos compuestos de ingenio falta por
comprender, que es la unión entre los asuntos y conceptos parciales.
El arte de hallarle sería superlativo primor de sutileza. Esta conexión
es constante que ha de ser mortal y artificiosa, así como todo el compuesto lo es. En los discursos metafóricos es aun más fácil, pues consiste en ir acomodando las partes, propiedades y circustancias del término con las del sujeto translato, y cuanto más ajustada en la correspondencia campea más el discurso. [...] El sujeto, cuando tiene partes
en sí, da pie para la ponderación dellas, y con la misma unión material ocasiona la formal en el concepto; si estas partes son varias y
heterogéneas, ayudan mucho para la variedad y distinción de los
asuntos parciales; no es menester más unión que la que el sujeto encierra con sus partes.30
Risulta evidente che l’autore pensa a qualcosa di piú che a una retórica conceptista nel senso in cui la ricostruzione storica elaborata
nel Novecento vuole che si parlasse di retorica nel secolo XVII31.
Muovendosi secondo direttive non del tutto lineari fra i due luoghi
che la tradizione postaristotelica aveva irrimediabilmente confuso,
Gracián coglie, nel momento di espansione del razionalismo cartesiano, la possibilità che il linguaggio agisca anche attraverso i modelli
metaforici e consenta complessi processi di ridescrizione della realtà.
In questo quadro egli sottolinea le potenzialità dell’agudeza, in grado di realizzare una rete concettuale a partire da una singola parola
così come su vasta scala e in quest’ultimo caso di intervenire tanto
sul piano della creazione poetica quanto su quello del discorso retorico, così come esso ci viene descritto fin già da Aristotele.
29
A, II, LIII.
A, II, LIV.
31
Cfr. Hidalgo SERNA, El pensamiento ingenioso en Baltasar Gracián, Barcelona, Anthropos, 1993, per es. pp. 57-74.
30
324
Giovanni Cara
Con riferimento al romanzo, se un luogo circoscrivibile all’interno
della tessitura può servirsi degli strumenti comunicativi propri della
finzione poetica, ciò che consta risulta alla fine il disegno unitario
della narrazione come macrocostruzione retorica, in cui agisce la prospettiva reticolare che l’idea di agudeza compuesta apre anche ai discursos persuasivos. La continuità tematica e formale viene garantita
dal grado di correlazione che le singole parti intrattengono col tutto e
«no basta la unión del texto para que hagan compuestos asuntos; es
menester que digan alguna correlación entre sí y se encadenen en
alguna circustancia o predicado universal a todos ellos».32
Sembra dunque proposta dallo stesso Gracián la possibilità e la
separazione di un uso retorico del concepto rispetto a quello poetico;
contemporaneamente si delinea chiaramente la natura degli immensi
affreschi barocchi quali sono molti romanzi del tardo Seicento, in cui
la trama intricata è sottesa su una griglia concettosa che ne garantisce
in qualche modo la monolitica compattezza (retorica). L’autore ricrea
una realtà letteraria moltiplicando all’infinito i segni e inventando,
percorso dopo percorso, un labirinto concettoso. Con esso rielabora il
vero attraverso i processi della metaforesi, dell’allegoresi e della costruzione simbolica. Una costruzione dei segni sui segni che può rigenerare il tessuto poetico nella direzione della episemantica di cui parla
Molho a proposito di Góngora e Quevedo33, ma che può anche disinnescare facilmente il potenziale eversivo dell’exemplum offerto dal
testo medesimo quando tale procedimento allegorico renda definitivamente ideale il verosimile e conduca, dall’intensa individualità del caso di Lazarillo de Tormes, all’infinita schiera di pastori inesistenti; e dal
paradossale viaggio per arrimarse a los buenos, che costituisce un sapido e secco itinerario di crescita senza successo, ai molteplici viaggi
esemplari d’anime che cercano di fuggire dal corpo per tornare a Dio.
L’ipertrofia linguistica e codificativa barocca, insomma, poteva
contemporanemente decretare lo sviluppo o l’autoconsunzione della
forma romanzesca, tanto più in un paese come la Spagna in cui la natura eversiva e intimamente polifonica della compagine sociale rappresentava, per sé stessa, un incredibile potenziale di inventio narrativa. Tra i due estremi del Lazarillo e del Buscón sembra compiersi
esattamente lo sforzo di chi comprese perfettamente tutta la radicale
rivoluzionarietà del viaggio di parole romanzesco, anche per il suo
32
33
A, II, LIV.
Cfr. M. MOHLO, Semántica y poética, Barcelona, Crítica, 1988.
Controcanone e contrappunto barbarico: il romanzo spagnolo aureo
325
essere codice di codici eterogenei; dall’autore anonimo del Lazarillo
sino al Quevedo del Buscón, a poco a poco e dall’interno del medesimo sistema, si procede (in certo senso inconsapevolmente) per disinnescare tale polifonia poetica, specchio trasparente e molesto della
polifonia sociale spagnola. Già dentro la concezione filosofica del linguaggio barocco, tra due strade egualmente praticabili — la traza concettista come omologa e anticipatrice storica del moderno concetto di
“trama” romanzesca; oppure la traza come dissoluzione centrifuga ed
esplosione metalinguistica —, venne scelta, in Spagna, quella per il romanzo più impervia.
5. Ci si può chiedere, e nell’ottica di queste pagine sembra chiara
una risposta affermativa, se tale scelta non sia dipesa indirettamente
dal (o non abbia corrisposto al) tentativo di sfuggire proprio all’affresco meticcio, multiculturale e problematico della società secentesca
in crisi. E ci si può anche chiedere se, più direttamente, il colosso
ispanico dovesse scontare tale scelta anche in relazione a Francia e
Inghilterra specialmente, dove di lì a poco il romanzo, il novel, avrebbe avuto straordinari natali. L’atto di consunzione della lingua
d’arte, dall’interno degli stessi meccanismi linguistici, si può dunque
spiegare a partire dal concetto che esprime Tatarkievicz sulla “gran
teoría de la belleza” e sul decorum che, in epoca barocca, deve riassestarsi in un universo semico in via di rivoluzione:
En representantes [...] como por ejemplo Gracián y Tesauro, la sutileza suplantó sencillamente a la belleza y se atribuyó su nombre y
lugar. Según esta nueva idea, sólo la sutileza era verdaderamente bella: existía una finesse plus belle que la beauté. Y esta belleza superior no consistía en ninguna perfecta armonía de las partes. Gracián
llegó incluso a afirmar que la armonía surge de la no-armonía.34
Non può insomma sfuggire il fatto ch’era possibile sin dalla precettistica che, affinando e raffinando la disarmonia per renderla baroccamente armonica, la si riducesse a mera occasione linguistica, fino
ad allontanare dalla poiesis la realtà che chiedeva d’essere descritta.
In Spagna, da Pinciano in poi, si aveva abbastanza chiaro il fatto che
la distinzione tra verso e prosa era inesistente nel termine greco poiesis, essendo quest’ultimo consuntivo tanto dell’opera in metro quanto
di quella in prosa. Semmai, il problema che, anche con Pinciano, ci
34
Cfr. W. TATARKIEVICZ, Historia de seis ideas. Arte, belleza, forma, creatividad,
mímesis, experiencia estética, Madrid, Tecnos, 1992, p. 166.
326
Giovanni Cara
si pose, fu di considerare la poiesis in verso superiore (per decorum e
deleite) alla poiesis in prosa o, quantomeno, di cercare gli strumenti
perché l’epopea in prosa raggiungesse in altezza l’epopea in versi:
ciò in cui sembra consistere lo sforzo metalinguistico di Cervantes nel
Persiles. Ma il criterio teorico distintivo di ciò ch’era considerabile
poiesis e di ciò che non lo era, piuttosto, consisteva nel criterio della
verosimiglianza (vero rovello cervantino e, peraltro, termine fondamentale su cui si attesterà tutta la tradizione critica sul romanzo moderno
e contemporaneo) che teneva nettamente separate la storia dalla poesia: la prima come l’universo del reale, la seconda come universo del
possibile35; la prima come luogo del particolare, la seconda come luogo dell’universale e, per questo, la seconda (poiesis) superiore alla prima (storia) per l’implicita possibilità di «far vivere in una sola realtà
tutta la vita»36. Gracián, in definitiva, seguirà la tradizione trattatistica
di poco più di un secolo per affermare non tanto la differenza tra verso
e prosa, quanto tra poesia retoricamente e tematicamente accettabile
(secondo il criterio della verosimiglianza reso più complesso, ora, dall’
ornatus concettista) e allegoria perversa. Non siamo molto distanti dal
problema che pone Cervantes col Quijote, risolvendolo in maniera
tutta personale, allorquando basa il processo narrativo paradossalmente sulla lettura di opere indegne d’essere considerate poetiche in
quanto inverosimili.
Ma Cervantes conduce il problema della verosimiglianza nella prosa poetica più in là dell’oscillazione fra reale e possibile, portando
alle estreme conseguenze lo straordinario contributo di un’opera come
il Lazarillo: introduce anche il problema dell’ideale e dunque tematizza in certo modo la questione cardine della scrittura moderna,
ossia la questione del rapporto fra autore e opera; e fra opera e volontà di cambiare il mondo. Il problema, per di più, è da Cervantes
posto in termini metapoetici e linguistici, sicché immediatamente la
storia di don Quijote è la storia di una sconfitta personale dinanzi a
un modello irraggiungibile37 e la testimonianza postuma (per noi che
la osserviamo) della sconfitta di un progetto romanzesco. Si dovrà for35
Cfr. ancora EGIDO, cit.; E. RILEY, Teoría de la novela en Cervantes, Madrid,
Taurus, 1971.
36
Cfr. E. GARIN, L’Umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento,
Roma-Bari, Laterza, 1981, p. 188.
37
Cfr. D. PINI, El Quijote y los dobles: sugerencias para una relectura de la
novela cervantina, in AA.VV., Actas del I Coloquio Internacional de la Asociación de
Cervantistas, Barcelona, Anthropos, 1990, pp. 223-233.
Controcanone e contrappunto barbarico: il romanzo spagnolo aureo
327
se notare che il movimento di condensazione dalla prima alla seconda
parte del Quijote, anche in esplicita polemica verso il processo di retoricizzazione del Guzmán (che, sotto il profilo narrativo, aveva dissolto
l’asciuttezza linguistica del Lazarillo nella prassi epidittica e antinarrativa delle digressioni moraleggianti) è inverso al processo di ipertrofizzazione verbosa che sta subendo la prosa romanzesca contemporanea a Cervantes: «el triunfo de la retórica sobre la poética, en este
caso, supuso el agostamiento de un género naciente, el novelesco».38
Nella prima metà del Seicento, proprio quando il romanzo spagnolo darà le sue ultime straordinarie prove, lentamente e impercettibilmente quest’ultimo, rispondendo forse a ragioni di sociologia letteraria e di destinazione cortesana, cederà il passo alla moda della novela
corta e, ancor meglio, alla suggestione del pretesto macrostrutturale
della cornice: tanto che risultano più acute di quanto appaia a prima
vista le parole che Tirso de Molina usò in Cigarrales de Toledo (1621)
per criticare, dal suo punto di vista, il libro capostipite di tale modalità narrativa, ossia le Novelas ejemplares cervantine, delle quali afferma che sono «ni hurtadas a las toscanas, ni ensertadas unas tras
otras como procesión de disciplinantes, sino con un argumento que lo
comprende todo». Ben diversa, tale unità, da quella opposta e divergente dei libri a cornice cortesana (di prosa e poesia) che proliferarono da quell’epoca in avanti e che al discours mosso di un tragitto nel
gran teatro del mondo, un tragitto insieme di storie e di parole, preferiscono la dilatazione antiromanzesca nel giardino del ben parlare;
alle contraddizioni del colosso imperiale in disfacimento preferiscono le illusioni di uno spazio e di un tempo fissati nella nobiltà (vera
o simbolica) di anime elette; alla robusta polisemia delle sventure di
Lazarillo e all’espejismo realista di personaggi come Ricote preferiscono la stasi simbolica dell’entretenimiento e del regocijo. Dietro, è
pur certo, s’intravedono le crepe di un sistema che sta crollando su sé
stesso; ma la narrativa, intanto, riconosceva a sé stessa una carica
sediziosa e proprio per questo cercava di mutuare le possibilità offerte dal Lazarillo nella profferta linguisticamente più rarefatta del Buscón; s’indisponeva di fronte alla curiosa e nuova esemplarità cervantina, piegata, per citare Riley, a vivere modernamente la vita in crisi;
spostava lo stesso segno linguistico dalla realtà cui si riferiva (nella
38
Cfr. EGIDO, cit., p. 112, n. 57. Anche se, dalla mia prospettiva, risulta improprio
parlare del romanzo nel Seicento come “género naciente” col rischio di incorrere
ancora una volta nell’hegeliana contrapposizione tra un “non ancora” e “non più”.
328
Giovanni Cara
carica metaforetica barocca, con il suo riempirsi d’imprevedibilità e
paradosso) verso il concepto fine a sé stesso, verso il linguaggio rococò che apparirà presto come una bellissima lastra di cristallo frangibile e pronta ai tre siglos de quejas evocati da Carmen Martín Gaite
nella seconda metà del Novecento.39
La crisi del romanzo spagnolo corrisponde dunque al successo di
libri a cornice e di novelas cortas40; che sia il viaggio, il sopraggiungere della sera, il luogo idealizzato e protetto dell’incontro, la narrabilità rarefatta del mondo corrisponde in queste opere alle medesime
modalità presenti per esempio nelle Academias poetiche (1630) di
Polo de Medina o nel Para todos (1632) di Pérez de Montalbán; così
come risulta emblematico che il processo di svuotamento della picaresca venga praticato proprio da autori come Salas Barbadillo e Castillo Solórzano che, tra prosa romanzesca e accademia letteraria,
smontavano le medesime ragione e struttura della dilatazione narrativa. Ciò che, nell’ambito più propriamente romanzesco e nello stesso
senso con cui in fondo si criticò a Cervantes l’interpolazione di novelas cortas nella prima parte del Quijote, accade in due libri come il
Menandro (1630) di Matías de los Reyes (che utilizza la novela bizantina, la comedia, la picaresca e il racconto cortigiano di matrice italiana) e il Lisardo enamorado (1629) ancora di Castillo Solórzano, che
affiancano le diverse matrici narrative senza alla fine riuscire a comporle dialetticamente e polifonicamente come fa Cervantes nel Quijote.
Eppure, nel 1617, Periandro e Auristela, di nuovo riconoscibili come Persiles e Sigismunda, al termine del loro pellegrinaggio in una
civilissima Europa che stava distruggendo intere civiltà oltreoceano,
avrebbero forse potuto pensare a molti romanzi da interpretare una
volta tornati in patria nelle barbare meticce terre settentrionali.
39
Cfr. C. MARTÍN GAITE, La búsqueda del interlocutor, Barcelona, Anagrama,
2000.
40
Come i Diálogos de apacible entretenimiento (1609) di Gaspar Lucas de Hidalgo, Las Noches de invierno (1609) di Antonio de Eslava, il Fabulario (1613) di Sebastián del Mey, La casa del placer honesto (1620) e il Don Diego de noche (1623)
di Alonso Jerónimo de Salas Barbadillo; le Historias peregrinas y ejemplares
(1623) di Gonzalo de Céspedes y Meneses; come le Tardes entretenidas (1625), le
Jornadas alegres (1626), il Tiempo de regocijo (1627), la Huerta de Valencia e le
Noches de placer (1631) di Alonso Castillo Solórzano.
329
G LI
ANGELI DI
S ANTA T ERESA
Giuseppe Mazzocchi
Università di Pavia
Per Pina, che dell'immaginario barocco è stata sempre studiosa
così attenta e partecipe1, lontana dai giudizi anacronistici, ma anche
poco proclive alle esaltazioni cui le scelte confessionali ci possono
portare, con tutta la prudenza del caso (il sorriso non ha mai celato,
in lei, l'opinione ferma, quella più solida perché discende dalla serenità) raccolgo ora alcune riflessioni che mi frullano in capo da qualche tempo, piccolo e certo inadeguato omaggio alla studiosa, ma soprattutto, in tempi ormai non sospetti, un nuovo grazie affettuoso a
chi ebbe la bontà di stimarmi a tal punto da pensare un giorno che
potesse essere un lombardo arruffone come me chi poteva succederle
sulla Cattedra tenuta con tanta sapienza e signorilità. E così, tra gli
angeli di una donna come Teresa de Jesús, il grazie prende nuances
grate ad entrambi, omaggiata ed omaggiante, sullo sfondo, naturalmente, dell'Estasi del Bernini.
Infatti, quando esco dalla Stazione Termini, non manco mai (inizio con una piccola confessione personale) di passare dalla chiesa
carmelitana di Santa Maria della Vittoria (tra gli habitués, la Vittoria, come la chiamano anche i Padri), per guardare lei, la Teresa di
marmo, con il suo angelo: è un omaggio al mio Bernini (vade retro,
Borromini!), ma, nelle intenzioni, un omaggio anche a Lei, alla Madre, che, con il corpo rilasciato tra le pieghe di un vestito troppo stretto, sta vivendo in un'altra dimensione. E solo il napoletano-romano
Gian Lorenzo Bernini, che nella pressione del pollice del satiro sulla
natica della ninfa ci sa dare con decenza la misura del desiderio di
lui2, poteva calcolare con esattezza l’edema, lievemente abnorme, di
una mano che cade penzoloni, e porci un piede scalzo pure rilassato
e quasi gonfio, simbolo antico della nudità essenziale con cui l'anima
si deve presentare al cospetto di Dio3. Eh sì, il piede, su cui ricordo,
1
Basti citare il recente La parola e l’immagine, Pisa, ETS, 2003, un libro splendido, di cui queste poche pagine vorrebbero essere un satellite.
2
Penso, naturalmente, al Plutone e Proserpina della Galleria Borghese.
3
Cfr. V. STOICHITA, Cieli in cornice. Mistica e pittura nel secolo d’oro dell’arte
330
Giuseppe Mazzocchi
in un taxi romano la discussione con un'illustre studiosa di mistica (di
cui non dirò il nome, perché è coniugata) e quell'altro grande studioso
di mistica che è Gaetano Chiappini: presi tutti da qualche scemenza
ministeriale, avevo dirottato entrambi i compagni di sventura in pellegrinaggio (why not?) alla Vittoria; e già sulla via del ritorno, reduci
dalla visita e dai debiti acquisti in sacrestia (occhio: il Padre che vende cartoline e diapositive, e non se ne farebbe gran conto, magari è
Padre Moretti, e gli americani con il cappello texano e il fare un po’
gay non immaginano la bibliografia che ha4) li stimolavo a schierarsi.
Il problema su cui volevo l'opinione dei colleghi, era la rigidezza dell'estremità: piede teso, libidinale, anzi «metáfora de genitalidad activa,
de potencia libidinal»5; o piuttosto, piede rilasciato, segno anch'esso
di un corpo ignorato dall'anima, arrivata a superare le sue potenze (cioè,
diremmo noi, che aristotelici non siamo più, la propria psiche6)? Dubitava don Cayetano; certa della rigidezza, dell'orgasmicità, la collega, e con lei si schierava (distogliendo pericolosamente lo sguardo dal
traffico) anche il tassinaro. Eppure... i tendini sono invisibili, il turgore leggero ma evidente, e il corpo poggia appena sulla nuvola (l'elemento strutturale standard del quadro di visione, come ci insegna
spagnola, Roma, Meltemi, 2002, pp. 90-91. L’opera è stata pubblicata per la prima
volta in inglese nel 1995. Sulla tanto opportuna traduzione italiana ho pubblicato
una recensione su Teresianum, 57 (2006), pp. 613-626, da cui riprendo e sviluppo
alcune osservazioni nella parte finale di questo saggio.
4
Per dire: «Cominciamo con l’indicare il ruolo prezioso della contemplazione,
infusione misteriosa di amore e di conoscenza, dalle forme che vanno da presenze
inavvertibili ad irruzioni che sommergono tutta l’anima; attraverso di essa, l’azione
dello Spirito Santo va infondendo la Comunicazione dell’essere divino e persino le
profondità della vita trinitaria sino all’essenza, alle radici dell’anima» (Roberto MORETTI, «La “dynamis” trasformante delle virtù teologali», in La Mistica, ed. E. Ancilli e M. Paparozzi, Roma, Città Nuova, 1984, II, pp. 191-217, a p. 214).
5
F. RODRÍGUEZ DE LA FLOR, La península metafísica, Madrid, Biblioteca Nueva,
1999, p. 237. Citazione da un brutto capitolo di un libro affascinante. Ma anche in
questo brutto capitolo si mostra una cosa importante, ossia il contrasto tra la scompostezza della Teresa berniniana e la compostezza delle rappresentazioni iconografiche spagnole, dove il piede non si vede mai. L'apparato documentario della trasverberazione nell'iconografia teresiana precedente il Bernini (raccolto da I. LAVIN,
Bernini e l'unità delle arti visive, Roma, Edizioni dell'Elefante, 1980) mostra con
agio come il piede nudo e senza calzare in vista sia un'innovazione assoluta del
nostro artista: in tutte le realizzazioni precedenti (prevalentemente incisioni) il piede è
coperto dalla falda dell'abito, o, se si vede, calza un sandalo.
6
Cfr. T. GOFFI, «La Grazia e le strutture dell’anima», in La mistica cit., I, pp. 139151.
Gli angeli di Santa Teresa
331
Stoichita7): quel piede sinistro non si pone a segno di un godimento.
Il piede non tradisce mai, e men meno può fregare un napoletano romanizzato. (Oh Gian Lorenzo, ma come vi sarà venuto in mente di ritrarre la vostra amante come la Carità? E ora, vedete, ella l'è bell'e
che finita accanto alla Paolina del Canova; certo, voi dite, non c'è
paragone, ed è vero: finché avrà un senso emettere passaporti giustificandoli con il monolinguismo petrarchesco, finché ci sentiremo «uni
di cor» entrando in San Luigi dei Francesi, o alla Vittoria, o girando
per via Garibaldi a Genova, o percorrendo Spaccanapoli..., nessun
maschio italiano sano potrà negare che Costanza Piccolomini in Bonuccelli vince sulla Paolina). Ma, al di là del piede, ci sono ben atri
elementi strutturali della cappella Cornaro (ci torneremo) che fanno
relegare senza rimorsi le centinaia di pagine scritte sulla carica erotica del gruppo scultoreo tra la bibliografia da leggere, ma con prudenza; anzi, della bibliografia la cui lettura dovrebbe essere concessa solo
per motivi ben documentati di studio, come, ancora nel 1948, c'era
da essere autorizzati per leggere la Guía espiritual di Molinos: raccontandomelo, il Padre, castigliano de pura cepa, con il sorriso spontaneo di chi cerca ogni giorno di vedere, e forse vede davvero, ma con il
carattere tagliato nel legno da Gregorio Fernández, mi diceva «¡Qué
tiempos!» (quelli di Pio Dodici, non quelli dei quietisti). E mentre me
lo diceva, mi assicurava che “nada obstaba” al mio desiderio di far
dire una messa di suffragio per l’anima di quell’improbabile eretico.
Resta però il fatto (e ora, dopo aver fatto solo l'uomo, mi provo a
fare il professore) che nell'immaginario collettivo visualizziamo tutti
Teresa come il Bernini ce la rappresenta; anche mia mamma, la signora Luigina, che ha pochi studi (e meno di ispanistica), e la cui
formazione religiosa si è solidamente costituita prima del Vaticano
II, non oltre l'anno santo del 1950; lei, che quando riceve le mie cartoline romane, dice che Santa Teresa è «la santa innamorata di Gesu». Una Teresa, dunque, accompagnata dall'angelo, asessuato come
di dovere, con tanto di dardo. La domanda da porsi è allora quella
sulla misura in cui (oddio, il professore!) Bernini riesce a rendere la
spiritualità della santa.
È un dato di fatto che alla centralità dell'angelo nel gruppo (solo
lui divide la scena: e non è una metafora: si ricordi il boccascena, con
tanto di fastigium, che nella sua profondità prospettica accoglie la
coppia), non corrisponde la centralità degli angeli negli scritti e nella
7
STOICHITA, Cieli in cornice cit., passim.
332
Giuseppe Mazzocchi
riflessione di Santa Teresa. Gli angeli, che hanno nella devozione controriformistica il ruolo che sappiamo (è, tra l'altro, il momento della
stesura dei grandi trattati di angelologia8) hanno, tutto sommato, un
ruolo secondario nella vita di Teresa, soprattutto in quella più intimamente spirituale. In questo senso, riveste caratteri di eccezionalità l'episodio della trasverberazione, che Teresa narra in un passo della Vida
che, com'è noto, Bernini, un Bernini nella fase finale della sua vita
sempre più spirituale (Costanza o non Costanza), e ripiegato volentieri ad esplorare gli abissi dell'anima, compresa la sua, prende a
guida (in che modo, dovremo vederlo).
Teresa, beninteso, non si colloca in alternativa rispetto alla spiritualità e alle devozioni del suo tempo; semplicemente, nella sua ricerca spirituale non c'è spazio per gli angeli, che, protagonisti come
sono dell'immaginario a lei contemporaneo, vengono invece usati
con frequenza come metafora9. Negli scritti del Dottore della Chiesa10,
sono spesso «ángeles» le monache, come nel bel passo di V 31, 24 («aquellos ángeles que allí alabavan a Dios»); e «ángeles» o «angelitos»
le bambine accolte nei conventi dell'ordine per esservi educate. Angeli
sono, in certi casi, i morti più cari, come il padre (V 7, 16: «Quedó
como un ángel; ansí me parecía a mí lo era él —a manera de decir—
en alma y dispusición, que la tenía muy buena. No sé para qué he dicho esto, si no es para culpar más mi ruin vida después de haver visto
tal muerte y entender tal vida, que por parecerme en algo a tal padre
la havía yo de mijorar»), o Beatriz de la Encarnación (F 12, 8: «Y con
esta alegría que digo, lo ojos en el cielo, espiró, quedando como un
ángel»), o ancora Petronila de San Andrés (F 16, 4). E chi non ricorda
il sorriso (che può essere solo quello di una donna intelligente) con
cui la Madre chiama «ángeles» gli inquisitori nelle sue lettere, riser8
Tra cui va citato, almeno, il De angelis di Suárez, pubblicato postumo nel 1620.
Operazione opposta a quella che fa San Juan de la Cruz, che non usa gli angeli
come figuranti, ma applica loro, in quanto figurato, metafore: «A partir de esa
misión de enlace entre Dios y el hombre, los ángeles pueden llamarse “majadas”,
“pastores” y “flores”» (E. PACHO, «Cortejo de medianeros y mensajeros. Angelología sanjuanista», nei suoi Estudios sanjuanistas, Burgos, Monte Carmelo, 1997, II,
pp. 311-321, a p. 317). Per un primo orientamento sugli angeli di Teresa si veda T.
ÁLVAREZ, «Ángeles», in Diccionario de Santa Teresa de Jesús, ed. T. Álvarez,
Burgos, Monte Carmelo, 2000, pp. 104-105.
10
Tutte le citazioni provengono da Santa Teresa de Jesús, Obras Completas, ed.
Efrén de la Madre de Dios e O. Steggink, Madrid, Biblioteca de autores cristianos,
19796. Strumento indispensabile di ricerca le mirabili concordanze di J.L. ASTIGARRAGA, Concordancias de los escritos de Santa Teresa de Jesús, Roma, Editoriales
O.C.D., 2000, 2 voll.
9
Gli angeli di Santa Teresa
333
vando a Gaspar de Quiroga quello di «ángel mayor»? Questo uso in
chiave11 si estende anche a se stessa, quando, nelle lettere a Gracián,
si chiama Ángela (o, occasionalmene, e per ossimoro, «negra ángela»)
e riferisce problemi di reperibilità di confessori12. Una designazione,
se ci si pensa, ironica quant'altra mai, nel momento in cui una donna
di carattere si ribattezza «ángela», nomen non omen, anzi quasi un'antifrasi: perché questa «ángela» non solo ha bisogno di un confessore,
cioè pecca, cioè è fragile; e anche perché l'assoluzione, gesto di misericordia, neppure gli angeli potrebbero darglielo, ma solo da un uomo le
può venire (un paradosso, o forse uno dei tanti spigoli vivi che rendono il Cattolicesimo anche intellettualmente interessante).
E questa implicita, ma forte, contrapposizione dell'angelico all'umano può servire come introduzione alla comprensione di due passi
importanti, forse non ancora considerati come meritano13. Il primo proviene dalle Meditaciones sobre los cantares (2, 3). Mettendo in guardia contro la falsa pace di una vita religiosa tiepida, Santa Teresa insegna così:
...no es posible ser aquí ángeles, que no es nuestra naturaleza. Es ansí
que no me turba alma cuando la veo con grandísimas tentaciones;
que si hay amor y temor de nuestro Señor, ha de salir con mucha ganancia, ya lo sé; y si la veo andar siempre quieta y sin ninguna guerra -que he topado algunas-, aunque la vea no ofender al Señor,
siempre me train con miedo, nunca acabo de asigurarme y provarlas y
tentarlas yo, si puedo, y ya no lo hace el demonio, para que vean lo
que son.
E nella Vida (22, 10), riandando alle fasi iniziali del suo cammino,
scrive:
Querernos hacer ángeles estando en la tierra -y tan en la tierra como
yo estava- es desatino, sino que ha menester tener arrimo el pensa11
Sull’uso dei criptonimi negli scritti della santa cfr. C. CUEVAS GARCÍA, «Los
criptónimos en el epistolario teresiano», in Actas del Congreso Internacional teresiano, Salamanca, Universidad de Salamanca-Universidad Pontificia de Salamanca,
1983, II, pp. 557-580.
12
Ct 113, 1 (Toledo 5 settembre 1576 a Jerónimo Gracián): «Ya sabe como Ángela tomó por confesor al prior de la Sisla, porque crea que para muchas cosas no se
puede estar sin quien dé consejo ni acertaría en ellas ni ternia sosiego . El dicho
solíala ver muchas veces y después que esto comenzó era casi nunca. Estando la
negra ángela hablando una vez a Josef [Cristo]…».
13
Non sono registrati, ad esempio, nella per altro esaustiva scheda angelologica
di Padre Álvarez (cf.n. 9).
334
Giuseppe Mazzocchi
miento para lo ordinario, ya que algunas veces el alma salga de sí, u
ande muchas tan llena de Dios que no haya menester cosa criada para recogerla: esto no es tan ordinario, que en negocios y persecuciones y travajos, cuando no se puede tener tanta quietud y en tiempo
de sequedades, es muy buen amigo Cristo, porque le miramos Hombre y vémosle con flaquezas y travajos, y es compañía; y haviendo
costumbre, es muy fácil hallarle cabe sí, aunque veces vernán que lo
uno ni lo otro se pueda.
L'idea forte che lega i due passi, e qualche altro affine14, su cui
forse non si è riflettuto abbastanza, è che la ricerca spirituale di Teresa è tutta umana, e deve tener conto di una condizione che non è
solo quella dell'imperfezione inerente al peccato, ma anche di una
specificità ineludibile di natura. Una corporeità chiamata alla Resurrezione non può essere solo segno negativo15; marca piuttosto una
creatura ben diversa da quella angelica:
También les parecerá aquí a algunas almas que no pueden pensar en
la Pasión. Pues menos podrán en la Sacratísima Virgen ni en la vida
de los santos, que tan grande provecho y aliento nos da su memoria.
Yo no puedo pensar en qué piensa, porque apartados de todo lo corpóreo, para espíritus angélicos es estar siempre abrasados en amor,
que no para los que vivimos en cuerpo mortal, que es menester trate
y piense y se acompañe de los que, tiniéndole, hicieron tan grandes
hazañas por Dios, cuanto más apartarse de industria de todo nuestro
bien y remedio, que es la sacratísima Humanidad de nuestro Señor
Jesucristo. (6M 7, 6)
La vicinanza a Cristo si gioca anche sulle fragilità e incertezze di
quest'ultimo; ma proprio la centralità della figura di Cristo impedisce
che gli angeli occupino nella vita spirituale di Teresa uno spazio rilevante: per gli angeli, a ben vedere, non c'è posto.
14
6M 1, 8: «Comencemos por el tormento que da topar con un confesor tan
cuerdo y poco esperimentado que no hay cosa que tenga por sigura; todo lo teme,
en todo pone duda como ve cosas no ordinarias, en especial si en el alma que las
tiene ve alguna imperfeción (que les parece han de ser ángeles a quien Dios hiciere
estas mercedes, y es imposible mientra estuvieren en este cuerpo), luego es todo
condenado a demonio u melancolía».
15
Non si spiegherebbero, altrimenti, pensieri come i seguenti: «Dios nos libre,
hermanas, cuando algo hiciéremos no perfecto decir: “no somos ángeles”, “no somos
santas”. Mirad que aunque no lo somos, es gran bien pensar: si nos esforzamos, lo
podríamos ser, dándonos Dios la mano; y no hayáis miedo que quede por Él, si no
queda por nosotros» (CV 16, 8).
Gli angeli di Santa Teresa
335
La mistica carmelitana, rispetto ad altre esperienze pure centrali
nell'ambito del cristianesimo (dall'emozione razionale ignaziana al già
ricordato quietismo molinosista), si caratterizza per il fatto di essere
essenzialmente una mistica del dialogo, che non a caso adotta di preferenza la simbologia dell'unione amorosa, intesa essenzialmente (secondo gli schemi dell’eros del tempo) come passività femminile di
fronte all’incontro con il maschile16. Si tratta di un dialogo in cui un
io (l'anima assetata di Dio) si slancia nella ricerca di un tu (il suo amato, Dio), dimenticando ogni altra realtà, ogni altra attrazione. Tale
dialogo è esclusivo: un elemento su cui riflettere è che mai Teresa
parla con gli angeli, neppure con quello che le trafigge il cuore; né
gli angeli le si rivolgono, contro una tradizione scritturale di angeli
loquaci (dall'Annunciazione al Sepolcro, per limitarci al Nuovo Testamento). L'affollarsi di angioletti nelle visioni, a costituire il seguito
della Madonna o dei santi, contrasta con l'assenza di una parola angelica, sicché questi cortei17 trascendono di poco la funzione di ambientare in cielo la visione che hanno nei quadri, da cui per altro (secondo
un processo ben noto18) possono discendere, come in questo passo
delle Cuentas de conciencia (22, 1):
La víspera de san Sebastián, el primer año que vine a ser priora en la
Encarnación, comenzando la Salve, vi en la silla prioral, adonde está
puesta nuestra Señora, bajar con gran multitud de ángeles la Madre
de Dios y ponerse allí. A mi parecer, no vi la imagen entonces, sino
esta Señora que digo. Pareciome se parecía algo a la imagen que me
dio la Condesa, aunque fue de presto el poderla determinar, por suspenderme luego mucho.
Se l'obiettivo è quello dell'unione con l'amato, ogni intermediazione (per quanto celestiale) viene percepita come un'intrusione: l'altro,
chiunque esso sia, rischia di frapporsi fra l'io che cerca la visione del
volto adorato trascendendo la propria fisicità e la propria psichicità,
e il raggiungimento di questa meta d'amore19. Si tratta (servirà preci16
Cfr. G. CASTRO MARTÍNEZ, «Il simbolismo mistico. Simboli ricorrenti in Santa Teresa e in San Giovanni della Croce», in Mistica e mistica carmelitana, Città
del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2002, pp. 177-221.
17
Ad esempio quello di V 40, 12: «estando una vez en oración con mucho recogimiento y suavidad y quietud, parecíame estar rodeada de ángeles y muy cerca de Dios».
18
STOICHITA, Cieli in cornice… cit., pp. 59-67.
19
Lo stesso sentimento si trova in San Juan de la Cruz, per quanto entro una riflessione angelologica molto più articolata di quella di Teresa (cfr. PACHO, «Corte-
336
Giuseppe Mazzocchi
sarlo) di una scelta, più che programmatica, dettata dall'esperienza,
dalle necessità che l'itinerarium impone. Teresa può dichiararsi devota dell'Arcangelo Michele (V 27, 1), o ricordare en passant il proprio angelo custode, ma la luce che cerca è luce diretta, che annulla
con il suo bagliore ogni creatura. Persino il demonio, evocato di frequente come “ángel de la luz”, secondo la definizione di 2 Cor 11, 14,
è rappresentato con un'evidenza maggiore da Teresa; e si capisce: è
infatti l'ostacolo concreto che impedisce le fasi più sublimi dell'esperienza mistica, ingannando con arti di psicologo e psicagogo consumato l'anima in viaggio verso il suo amato. Ma si osservi, piuttosto,
che l'aiuto invocato contro i demoni è sempre quello diretto di Dio,
anche nella visione di V 31, 11:
Estando un día de la Trinidad en cierto monesterio en el coro y en
arrobamiento, vi una gran contienda de demonios contra ángeles; yo
no podía entender qué querría decir aquella visión. Antes de quince
días se entendió bien en cierta contienda que acaeció entre gente de
oración y muchos que no lo eran, y vino harto daño a la casa que era;
fue contienda que duró mucho y de harto desasosiego. Otras veces vía
mucha multitud de ellos en rededor de mí, y parecíame estar una
gran claridad que me cercava toda, y ésta no les consentía llegar a
mí. Entendí que me guardava Dios para que no llegasen a mí de manera que me hiciesen ofenderle. En lo que he visto en mí algunas veces que era verdadera visión. El caso es que tengo tan entendido su
poco poder -si yo no soy contra Dios- que casi ningún temor los tengo; porque no son nada sus fuerzas si no ven almas rendidas a ellos
y covardes, que aquí muestran ellos su poder.
Credo che con questi elementi alla mano si possa accostare sotto
una luce diversa il passo (V 29, 13-14) che il Bernini traduce nel marmo. Il parallelo tra i due testi, quello verbale e quello artistico, è stringente, e bene fanno i Padri della Vittoria a mettere a disposizione
anche il primo ai visitatori, in tutte le lingue: «La escena se atiene
con bastante fidelidad al texto autógrafo de Vida 29, excepto en pequeños detalles: el ángel visto por ella “no era grande sino pequeño”
y localizado no al lado derecho sino al lado del corazón»20; Bernini
jo» cit., pp. 312-313).
20
T. ÁLVAREZ, «Corazón, transverberación del», in Diccionario de Santa Teresa
de Jesús cit., pp. 422-434, a p. 431. Nonostante la forse eccessiva insistenza sul simbolismo eucaristico-cristologico, la miglior lettura d'insieme di tutta la cappella resta
quella di I. LAVIN, Bernini e l’unità delle arti visive cit.
Gli angeli di Santa Teresa
337
rinuncia anche a rappresentare il fuoco sulla punta del dardo, e aggiunge raggi e nuvola. Ma ciò che distanzia (anche se in modo non
immediatamente evidente) la scultura dalla pagina, al di là, come ovvio, dello specifico del testo verbale rispetto a quello iconico, è soprattutto un elemento strutturale. Ma rileggiamo il passo:
13. Quiso el señor que viese aquí algunas veces esta visión: vi a un
ángel cabe mí hacia el lado izquierdo en forma corporal, lo que no
suelo ver sino por maravilla; aunque muchas veces se me representan ángeles, es sin verlos, sino como la visión pasada que dije primero.
Esta visión quiso el señor le viese ansí: no era grande, sino pequeño,
hermoso mucho, el rostro tan encendido que parecía de los ángeles
muy subidos que parecen todos se abrasan (deven ser los que llaman
cherubines, que los nombres no me los dicen, mas bien veo que en el
cielo hay tanta diferencia de unos ángeles a otros, y de otros a otros,
que no lo sabría decir); víale en la mano un dardo de oro largo, y al
fin de el hierro me parecía tener un poco de fuego; éste me parecía
meter por el corazón algunas veces y que me llegava a las entrañas;
al sacarle, me parecía las llevava consigo y me dejava toda abrasada
en amor grande de Dios. Era tan grande el dolor que me hacía dar
aquellos quejidos y tan excesiva la suavidad que me pone este grandísimo dolor, que no hay desear que se quite, ni se contenta el alma
con menos que Dios. No es dolor corporal, sino espiritual, aunque
no deja de participar el cuerpo algo, y aun harto. Es un requiebro tan
suave que pasa entre el alma y Dios, que suplico yo a su bondad lo
dé a gustar a quien pensare que miento.
14. Los días que durava esto, andava como embovada; no quisiera ver
ni hablar, sino abrazarme con mi pena, que para mí era mayor gloria
que cuantas hay en todo lo criado. Esto tenía algunas veces cuando
quiso el Señor me viniesen estos arrobamientos tan grandes que aun
estando entre gentes no los podía resistir, sino que con harta pena
mía se comenzaron a publicar. Después que los tengo, no siento esta
pena tanto, sino la que dije en otra parte antes -no me acuerdo en qué
capítulo- que es muy diferente en hartas cosas y de mayor precio;
antes en comenzando esta pena de que ahora hablo, parece arrebatar
el Señor el alma y la pone en éstasi; y ansí no hay lugar de tener pena ni de padecer, porque viene luego el gozar. Sea bendito por siempre, que tantas mercedes hace a quien tan mal responde a tan grandes beneficios.
In primo luogo va rimarcato che Teresa parla di una visione iterata
(«algunas veces»), non di un episodio isolato (quale la visione ci viene
incontro dal «teatro» della Cappella Cornaro); in secondo luogo Tere-
338
Giuseppe Mazzocchi
sa non dice che c'è un angelo accanto a lei, ma che lo vede («vi a un
ángel cabe mí»): la differenza è notevole perché il verbo ver, che è
inerente di sua natura alla visione, viene ripetuto in modo insistito
lungo tutta la narrazione e ne rende totalmente soggettiva la natura.
Non credo che ci si trovi dinanzi ad una semplice espressione di prudenza, di quelle che Teresa, donna e senza letras, sparge a piene mani
nei suoi scritti, anche qui, quando ostenta ignoranza sulle gerarchie
angeliche: «bien veo que en el cielo hay tanta diferencia de unos
ángeles a otros, y de otros a otros, que no lo sabría decir»21. Penso
piuttosto che prema a Teresa riportare la visione all'esperienza intima e personale, in cui, si badi, è Dio che si accampa con determinazione nell'esperienza che la santa vive. Da lui le piaghe del cuore,
come si ricordava già nel preambolo alla narrazione della visione (V
29, 11); e l'effetto di questa altro non è che l'amore di Dio: «me dejava toda abrasada en amor grande», «Es un requiebro tan suave que
pasa entre el alma y Dios, que suplico yo a su bondad lo dé a gustar
a quien pensara que miento».22
Credo si possa legittimamente concordare, senza forzare il testo,
anzi alla luce che ne emana, che l'angelo occupa nella visione uno
spazio ridotto: se tutto viene da Dio, il suo ruolo risulta ridimensionato, e finisce dunque per non costituire un'eccezione in un orizzonte
angelico piuttosto contratto, poco effusivo, come quello teresiano.
Nel suo commento alla Vida, con parole definitive Padre Steggink ha
scritto: «En realidad ni el ángel tenía cuerpo, ni el dardo era dardo,
ni el fuego fuego, ni la herida herida. Sólo eran formas sensibles con
que la imaginación traducía tales experiencias místicas inefables».23
21
È noto che il domenicano Domingo Báñez, grande amico e sostenitore di Santa
Teresa, quando ebbe tra le sue mani l’autografo della Vida appose ai “querubines” la
seguente postilla: «más parece de los que llaman Seraphines» (c. 127v); da qui il diffondersi di tale designazione nelle allusioni liturgiche e non all’angelo della visione.
22
Dove l’idea del gusto spirituale (P. ADNÈS, «Gout spirituel», in Dictionnaire
de spiritualité, Paris, Beauchesne, VI, 1967, coll. 626-644) si accompagna all’idea
(già dei mistici medievali) dell’esperire come base essenziale del conoscere mistico
(M. COLOMBO, Dai mistici a Dante: il linguaggio dell’ineffabilità, Firenze, La Nuova
Italia, 1987, pp. 73-89). Con la stessa formulazione, questo pensiero ritorna molto
di frequente in Teresa, anche nei passi sulla trasverberazione citati di seguito.
23
Santa TERESA DE JESÚS, Libro de la Vida, ed. O. Steggink, Madrid, Castalia,
1986, p. 384. Afferma con decisione la spiritualità della trasverberazione (contro le
letture patologiche di taglio positivista e la tardiva e non unanime tradizione carmelitana) M. RUBIO CERCAS, «La patología frente a los fenómenos místicos», Revista de
espiritualidad, 1 (1941), pp. 89-101. Fondamentale sulla trasverberazione nella
spiritualità teresiana ÁLVAREZ, «Corazón» cit.; di questa panoramica bisogna rite-
Gli angeli di Santa Teresa
339
In tal senso, è rivelatore che nei numerosi passi dei suoi scritti in
cui Teresa torna sulla mercede del dardo, e sono tutti posteriori alla
Vida, non compaia mai l’angelo24. Il passo di V 29 e gli altri condividono molti particolari, ma anche espressioni e termini; Teresa sottolinea sempre il carattere dolce-amaro della ferita, quindi il suo carattere spirituale e non materiale, e infine che la stessa proviene misteriosamente da Dio. Questa breve scelta di qualcuno dei luoghi più significativi sulla trasverberazione, mostra con evidenza tale situazione:
[…] Su Majestad la despierta, a manera de una cometa que pasa de
presto, o un trueno, aunque no se oye ruido, mas entiende muy bien
el alma que fue llamada de Dios, y tan entendido, que algunas veces
–en especial a los principios- la hace estremecer y aun quejar, sin ser
cosa que le duele. Siente ser herida sabrosísimamente, mas no atina
cómo ni quién la hirió; mas bien conoce ser cosa preciosa y jamás
querría ser sana de aquella herida. Quéjase con palabras de amor,
aun esteriores, sin poder hacer otra cosa, a su Esposo, porque entiende que está presente, mas no se quiere manifestar de manera que
deje gozarse, y es harta pena, aunque sabrosa y dulce; y aunque
quiera no tenerla, no puede; mas esto no querría jamás. Mucho más
le satisface que el embevecimiento sabroso, que carece de pena, de
la oración de quietud. (6M 2, 1)
[...] un golpe, u como si viniese una saeta de fuego; no digo que es
saeta, mas cualquier cosa que sea, se ve claro que no podía proceder
nere varie idee e spunti; basti per ora rimandare all’utile rassegna (pp. 429-432)
sulla presenza dell’episodio nella letteratura e nell'arte.
24
Che si trova invece (e nella versione teologicamente corretta del serafino) nel
passo sulla trasverberazione della Llama giovannea: «Mas otra manera de cauterizar
el alma suele haber también muy subida, y es en esta manera: acaecerá que, estando el
alma inflamada en este amor, aunque no esté tan clarificada como aquí habemos
dicho (aunque harto conviene que lo esté para lo que aquí quiero decir), y es que
acaecerá que el alma sienta embestir en ella un serafín con un dardo herbolado de
amor encendidísimo, traspasando esta ascua encendida del alma, o, por mejor decir,
aquella llama, y cauterizarla subidamente; y entonces, en este cauterizar traspasándola, apresúrase la llama y sube de punto con vehemencia, al modo que un encendido
horno o fragua cuando le hornaguean y trabucan el fuego se afervora la llama y se
aviva el fuego; y entonces siente esta llaga el alma en deleite sobre todo encarecimiento, porque demás de ser toda removida al trabucamiento y moción impetuosa de su
fuego, en que es grande el ardor y derretimiento de amor, la herida fina y la hierba con
que vivamente iba templado el hierro, siente el alma en la sustancia del espíritu, como
en el corazón del alma traspasado» (2, 9; trascrivo il testo della redazione A secondo
San JUAN DE LA CRUZ, Obras completas, ed. L. Ruano de la Iglesia, Madrid, Biblioteca de Autores Cristianos, 198211). Ma quest’angelo rappresenta un omaggio evidente alla Madre.
340
Giuseppe Mazzocchi
de nuestro natural; tampoco es golpe, aunque digo golpe; mas agudamente hiere, y no es adonde se sienten acá las penas –a mi parecer-, sino en lo muy hondo y íntimo del alma, adonde este rayo, que
de presto pasa todo cuanto halla de esta tierra de nuestro natural y lo
deja hecho polvo, que por el tiempo que dura es imposible tener
memoria de cosa de nuestro ser; porque en un punto ata las potencias, de manera que no quedan con ninguna libertad para cosa, sino
para las que le han de hacer acrecentar este dolor. (6M 11, 2)
Otra manera harto ordinaria de oración es una manera de herida, que
parece al alma como si una saeta la metiesen por el corazón, u por
ella mesma. Ansí causa un dolor grande que hace quejar, y tan sabroso, que nunca querría le faltase. Este dolor no es en el sentido, ni
tampoco es llaga material, sino en lo interior del alma sin que parezca
dolor corporal, sino que, como no se puede dar a entender sino por
comparación, pónense éstas groseras -que para lo que ello es lo son,
mas no sé decirlo de otra suerte-; por eso no son estas cosas para escrivir ni decir, porque es imposible entenderlo sino quien lo ha espirimentado, digo adonde llega esta pena, porque las penas del espíritu
son diferentísimas de las de acá. Por aquí saco yo cómo padecen más
las almas en el infierno y purgatorio que acá se puede entender por
estas penas corporales. (R 54, 14)
Y aunque en hecho de verdad es herida que da el amor de Dios en el
alma, no se sabe adónde ni cómo ni si es herida ni qué es, sino siéntese ese dolor sabroso que hace quejar, y ansí dice:
Sin herir dolor hacéis
Y sin dolor deshacéis
El amor de las criaturas. (Ct 173, 9)
Il semplice raffronto mostra, del resto, una differenza fondamentale. Nella più antica e completa trattazione della trasverberazione,
quello della Vida, Teresa racconta (racconta –va precisato- come se
di un unico episodio si trattasse, offrendo così allo scultore già pronta la reductio ad unum di una fenomenologia molteplice e protrattasi
nel tempo); mentre successivamente (la carta a Lorenzo de Cepeda e
le Moradas sono del 1577, mentre la Relación citata del 1576) riflette
sul fenomeno e lo considera. Questa differenza di statuto formale conta
più della distanza cronologica intercorsa, lungo coordinate che vedono
naturalmente, nel tempo, l’arricchirsi e l’approfondirsi delle esperienze
della santa. La vocazione narrativa del passo della Vida è stata già sottolineata25, per contrasto con gli altri passi; ma —ed è quello che ora ci
25
ÁLVAREZ,
«Corazón» cit., p. 423: «En ella [Teresa] no comparece [la gracia
Gli angeli di Santa Teresa
341
importa— solo entro quest’ambito narrativo fa la sua comparsa l’angelo.
Dobbiamo dunque, al di là della ben nota distinzione tra visioni
materiali e visioni mentali26, concepire l'angelo trasverberante come
un «derivato narrativo», come lo sviluppo in trama di un simbolo (la
ferita d’amore), ben presente tra i referenti culturali dell’autrice27, cui
l'anima associa l'esperienza che ha vissuto: e, nel lavoro psicoanalitico,
se il simbolo corrisponde alle libere associazioni psichiche individuali,
oltre che ai riferimenti culturali del soggetto, il «derivato narrativo»
riflette spesso un testo già noto: un film, un romanzo, un'opera d'arte
contemplata. Si tratta dello stesso processo che soggiace, per intenderci, alla stesura del Cántico Espiritual di San Juan de la Cruz: dove il simbolo erotico della copula come figurante dell'unione mistica,
si sviluppa nel derivato narrativo di una riscrittura (certamente molto
personale) del Cantico dei cantici. Proprio nell'ambito della teoria
psicanalitica di Bion, da cui prendo il concetto di «derivato narrativo»28, si può trovare la più completa messa a punto di questo modello
di funzionamento della mente; un modello che, credo meglio di qualunque altro, ci permette di spiegare la genesi del testo mistico, ossia
il processo che da un'esperienza transpsichica (e percepita dal soggetto come esterna a sé) ci porta a una struttura testuale, segnata dall'individualità e dal contesto culturale nella stessa misura. Non voglio, beninteso riproporre un'altra grossolana sovrapposizione della
psicanalisi al modello mistico29. Mi interessa, invece, segnalare una
del corazón herido] como dato doctrinal, sino como hecho y experiencia personal
suya. Por eso comienza “narrándolo”, no interpretándolo. En el relato autobiográfico
de Vida ese hecho surge de improviso en el tramo de las gracias místicas desbordantes
(extáticas), en el contexto de las “heridas” que le sobrevienen a medida que le crece
el amor. Es por tanto y ante todo un hecho de amor».
26
P. ADNÈS, «Visions», in Dictionnaire de Spiritualité cit., 16 (1994), coll. 9941002; M. MARTÍN DEL BLANCO, «Visiones», in Diccionario de Santa Teresa de Jesús
cit., pp. 1421-1438.
27
Si tratta infatti di un tema scritturale, a partire dal Cantico dei cantici (4, 9
“Vulnerasti cor meum”), molto caro a tutti i mistici, sino a Giovanni della Croce; e,
nel contempo, di un motivo proprio della letteratura amorosa profana (Poeti cancioneriles del sec. XV, ed. G. Caravaggi, Roma-L’Aquila, Japadre, 1986, “Indice lessicale e tematico”, s.v. herida e llaga). È appena il caso di sottolineare che il simbolo
non è esclusivo, ma convive con altri, pure prediletti dalla scrittrice (come il castello delle Moradas).
28
Come introduzione al pensiero di Wielfred R. Bion si può vedere «Teoría de
Bion», in Asociación Psicoanalítica Americana, Términos y conceptos psicoanalíticos, Madrid, Biblioteca Nueva, 1997, pp. 403-406; e A. FERRO, Il lavoro clinico,
Milano, Cortina, 2003 (specialmente le pp. 13-24).
29
Molto utile la veloce ma corretta e critica carrellata di L.J. GONZÁLEZ, Psico-
342
Giuseppe Mazzocchi
teoria psicoanalitica non dominante che, senza interferire con l'interpretazione che del testo mistico vogliamo dare, senza imporci né
delimitarci un patto di lettura («il mistico crede nella verità di quello
che dice»), né di aderire al messaggio che il testo mistico trasmette
(«è vero ciò che il mistico dice»), ci permette di spiegare nel modo
più convincente il nesso tra esperienza e concrezione testuale30.
Torniamo dunque al gruppo berniniano, per riproporci la domanda che abbiamo lasciato in sospeso. In che misura Bernini riesce ad
esprimere la spiritualità di Santa Teresa senza tradirla? Il quesito è
serio, e di primo acchito si ha fin troppo gioco a rispondere che ciò
che contempliamo alla Vittoria è la barocchizzazione (dunque, in
qualche modo, il travisamento) della spiritualità teresiana, ridotta ai
suoi aspetti spettacolari, a quei fenomeni eccezionali cui la santa non
dava rilievo assoluto, e da cui era anzi infastidita, ben più preoccupata com’era di una ricerca tutta intima di perfezione. Tenere presenti
le differenze tra testo verbale e testo iconico può certo contribuire a
correggere queste prime impressioni:
la pittura è spaziale perché ci mostra contemporaneamente tutti gli
elementi di una data rappresentazione. […] Per contro, il discorso
verbale, anche quello letterario, è rettilineo, presenta di volta in volta
un solo oggetto, un solo movimento, una sola azione; ed è anche selettivo, nel senso che se per esempio parlo di una persona, non posso
contemporaneamente dire com’è fatta, se alta o bassa, bruna o bionda, ecc., com’è vestita, con che fogge, con che colori, e così via; e
posso anche non dirlo, se non è pertinente al mio discorso. La pittura
non può prescindere da questi particolari, è costretta sempre a compromettersi31.
Ma bisogna anche considerare, credo, più di quanto normalmente
non si faccia, la struttura dell'opera, o meglio il meccanismo della
visione che essa impone. Chi vede cosa alla Cappella Cornaro? Gli
otto personaggi della famiglia dell'offerente chiacchierano tra di
loro, e pur affacciandosi ai loro palchi teatrali policromi (che potrebbero anche essere tribune di chiesa, senza che ne perda un apice la
teatralità dell'insieme) sembrano ignorare lo spettacolo che si sta
svolgendo davanti a loro. Questo perché, se non perché lo spettacolo
logia dei mistici, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2001, pp. 127-175.
30
Sull'aiuto notevole che da Bion può venire agli studi di mistica ho in preparazione una piccola monografia.
31
C. SEGRE, La pelle di San Bartolomeo, Torino, Einaudi, 2003, p. 104.
Gli angeli di Santa Teresa
343
è loro invisibile? E ciò, non solo per il fatto (aneddotico e banale, di
fatto irrilevante per l'artista) che sono personaggi vissuti in epoche
diverse; ma perché solo Teresa può vedere l'angelo. I testimoni di
una visione non possono, infatti, vedere ciò che vede il visionario; ne
possono al massimo essere informati, anche in sincronia, dal visionario stesso: penso, è solo un esempio, alle visioni di Maria Maddalena
de' Pazzi, trascritte dalle sue consorelle32; ma anche a quanto dice
Teresa, proprio al capitolo 29, 14 della Vida, circa il fastidio che le
provoca avere estasi in pubblico: «Esto tenía algunas veces cuando
quiso el Señor me viniesen estos arrobamientos tan grandes que aun
estando entre gentes no los podía resistir, sino que con harta pena mía
se comenzaron a publicar»; ed alle testimonianze superstiti33. Proprio
per questo motivo i testimoni, che occhieggiano quasi sempre dai
quadri di visione, guardano normalmente verso di noi (spettatori esterni), o verso il visionario, ma non verso la scena che gli compare, che
essi, infatti, non possono vedere. A noi, spettatori, che alla Vittoria,
affacciandoci dalla balaustra della cappella, veniamo a chiudere il
teatro con un terz'ordine di posti (dopo i due palchi laterali con i
cardinali e il doge della famiglia Cornaro) l'artista concede la posizione di superiorità di contemplare ciò che nessun altro tranne Teresa poté vedere. È certo una superiorità che sottolinea al massimo le
potenzialità dell'opera d'arte, del fare dell'artista, e che ricorda, per
certi versi, l'onniscienza che il drammaturgo barocco (almeno in Spagna) condivide con gli spettatori, e non concede mai a nessun personaggio. Bisogna però anche chiarire che ciò che vediamo non è esattamente la visione: vediamo, piuttosto il corpo della visionaria in estasi (con gli occhi senza iride34, il corpo rilasciato, l'abito scomposto, il
32
Cfr.la fondamentale antologia curata da Padre G. Pozzi: MARIA MADDALENA
PAZZI, Le parole dell’estasi, Milano, Adelphi, 1984.
33
Ad esempio quella di doña Guiomar, sulla trasverberazione riferita dalla figlia: Biblioteca Mística Carmelitana, Burgos, El Monte Carmelo, 1935, XIX, pp.
394-395.
34
«Ancora per sottolineare il carattere soprannaturale delle visioni Gian Lorenzo
Bernini usò un altro espediente, più nascosto, e forse per questo non bene rilevato,
che si può chiarire leggendo le fonti. Generalmente i mistici insistono sul fatto che
le visioni non sono percepite dagli occhi, come avviene d’ordinario nell’atto fisico del
guardare, ma nel corso di un’operazione mentale; “con gli occhi della mente” precisa
santa Caterina Fieschi Adorno, e Santa Teresa d’Avila puntualizza con la solita sottigliezza che la visione più che vedersi si percepisce: “e per la maggior parte stanno
serrati gli occhi ancorché non volessimo chiuderli, e se sono alcune volte aperti,
come già dissi, [la santa] non considera, né avverte quello che vede”. Probabilmente
proprio la lettura di questa o di altre pagine può aver consigliato all’artista il modo
DE’
344
Giuseppe Mazzocchi
piede sinistro nudo e floscio, quello destro appena poggiato a sfiorare
la nube); e ciò che lei vede all'esterno del suo corpo, ossia l'angelo
con il dardo, angelo che dovette dunque essere visto, in un'altra dimensione, con gli occhi dell'anima, gli scritturali occhi della mente,
ben aperti. La situazione che viene rappresentata è cioè ibrida, e non
corrisponde né a ciò che i testimoni poterono vedere (ossia il corpo
estatico), né alla scena della visione, con Teresa che vede l'angelo, il
volto dell'angelo, e ne sente l'azione. In altri termini, il corpo di Teresa fa da ponte tra il mondo della realtà e quello dello spirito; o, se
si preferisce (tra professori), tra mondo dell'oggettività e mondo
della soggettività. E proprio per questo il corpo di Teresa appare più
statico che dinamico; in quiete, piuttosto che librato verso il cielo:
L’unico «moto» raffigurato da Bernini, è uno stato di sospensione fra
cielo e terra, con un lieve accenno di ascensione, ma non è un sollevarsi in estasi, un ratto, come quelli di Caterina de’ Ricci o di san Giuseppe da Copertino. […] Il sollevarsi della santa, il saettare del serafino appaiono fermati, sospesi, come smorzati dal velo di una visione
interiore.35
Se così stanno le cose, Bernini ha penetrato a fondo, e ha saputo
renderlo essenzialmente a livello strutturale piuttosto che stilistico, il
senso della visione di Santa Teresa, lasciandole tutta l'intimità, tutta
la soggettività profonda, cioè tutta la spiritualità. Certo, con la fisicità di un corpo a far da ponte tra due dimensioni che solo questo corpo
(attraverso cui passerà il racconto dell'esperienza, quando l'anima
demanderà alla psiche la costituzione del derivato narrativo) unisce.
Come ha saputo sintetizzare Lavin da par suo:
di rendere questo tipo di visione. Sugli occhi di Santa Teresa – come pure di Suor
Maria Raggi e della beata Ludovica Albertoni - evita di scolpire l’iride con la pupilla,
cioè quella parte dell’occhio che con più evidenza registra l’oggetto della visione,
mentre in genere nei tratti le conferisce un grande risalto. L’occhio cioè non viene
camuffato, ma semplicemente disattivato, trasformato nell’occhio della mente. È
questo un dettaglio che mostra nell’artista la volontà di rendere non solo i particolari
iconografici proposti dai testi, ma un altro ordine di aspetti, la dinamica stessa di
una visione vista “senz’occhi”» (V. CASALE, «Più accennarsi che esattamente descriversi: difficoltà e sperimentazioni nelle immagini di visioni e estasi dell’arte romana
fra Sei e Settecento», in Visioni ed Estasi, Milano, Skira, 2003, pp. 69-83, alle pp.
76-77; ma sul problema del doppio piano su cui è costruito il quadro di visione tutto
il saggio è fondamentale).
35
CASALE, «Più accennarsi» cit., p. 80.
Gli angeli di Santa Teresa
345
Prima del Bernini la trasverberazione era concepita come un episodio sostanzialmente didattico, in cui gli autori rappresentavano ruoli
simbolici per illustrare il tema della virtù e della sua ricompensa. Per
il Bernini invece la trasverberazione fu innanzi tutto un avvenimento
non morale, ma metafisico e i cambiamenti formali introdotti rispetto
alla tradizione precedente definivano due distinti livelli di esistenza.
Mentre molti dei cambiamenti sottolineano che la trasverberazione
era un'esperienza interiore, involontaria e umana, altri indicano che
era anche un atto esterno, deliberato e soprannaturale. Nel gruppo
beninteso la trasverberazione diviene il punto di contatto fra terra e
cielo, fra materia e spirito.36
Se non comprendiamo questa meccanica della visione, possiamo
facilmente cadere nell’equivoco di pensare che lo scultore abbia
dovuto piegarsi alle esigenze della rappresentazione:
El artista acentúa demasiado el éxtasis, y con él la aparente ausencia
de Teresa, mientras en el relato autobiográfico ella está consciente y
presente, “Viendo” al ángel, “viéndole” el dardo “en las manos”, atenta a la llameante punta del hierro. No muda, sino dando quejidos.37
In realtà, la «presenza» di Teresa avviene, come si è indicato, su
un piano che non è quello della realtà fisica. E non pare che il testo
autorizzi la scissione in due momenti, uno iniziale preestatico ed uno
finale, appunto estatico, che Bernini avrebbe unito38. La soluzione
proposta dal Bernini è diversa, e tutta giocata sulla centralità del corpo
del visionario, copresente su due piani diversi. Soluzione, è il caso di
aggiungere, condivisa con tutti gli artisti che si trovano di fronte allo
spinoso problema della rappresentazione di ciò che visibile non è.39
Ho iniziato con qualche ricordo quasi gaddiano (lombardité oblige), e così finirò, fidando nella comprensione e nella tolleranza (posso dire materna?) della carissima amica per cui scrivo. Portavo alcuni fa una cinquantina di miei studenti di Ferrara (quasi tutte ragazze)
a Roma lungo un itinerario carmelitano (Santa Maria della Scala, il
Teresianum, l'Archivio Generalizio, come no, la Vittoria...). Alla Vitto36
LAVIN, Bernini e l'unità delle arti visive cit., p. 123.
ÁLVAREZ, «Corazón» cit., p. 431.
38
«el artista […] aúna los dos momentos extremos del relato: el comienzo, en la
actitud del ángel, y el final, en la actitud de Teresa, con el alma “arrebatada por el
Señor y puesta en éxtasis” (29, 14: conclusión del relato)» (ibidem).
39
Superfluo esemplificare facendo nomi. Basti il rimando alla mia recensione
del libro di Stoichita (cfr. n. 3) e al catalogo della grande mostra romana (cfr. n. 34).
37
346
Giuseppe Mazzocchi
ria parlò una valentissima collega di storia dell'arte, grande specialista di Seicento, illustrando chiesa e cappella; la seguii spiegando la
teatralità dell'insieme sulla scorta di Orozco40; e lasciai la parola a un
carissimo amico carmelitano, perché esaminasse i rapporti tra la
spiritualità di Teresa e il Bernini. Con mio stupore, il Padre espresse
l'idea che, essendo la sensualità una componente insopprimibile della
natura umana, bene aveva fatto Bernini a metterla in relazione alla
spiritualità teresiana41. La cosa non mi convinceva, e la discussione,
cui partecipava anche un novizio basco dell'ordine che mi prometteva
in dono tutti i numeri della rivista Karmel, redatta in euskera, continuò sul torpedone che ci portava verso la beata Ludovica Albertoni.
Proprio attraversando Viale Trastevere, in fila per due verso la chiesa di San Francesco a Ripa, il dibattito era ormai caloroso, e fu allora
che dissi: «Ma come si può confondere mistica e erotismo? Basta un
minimo di esperienza sessuale [confesso che usai un'espressione più
castrense] per capire che sono due cose che non c'entrano l'una con
l'altra». Il silenzio del novizio e del Padre fecero sì che mi rendessi
immediatamente conto di quanto ero stato, come dire, indelicato; e la
discussione si spense. Però, Padre, che Bion ci aiuti anche a capire
Bernini?
40
E. OROZCO DÍAZ, Teatro e teatralità del barocco, Pavia-Como, Ibis, 1995 (1969),
pp. 112-113. L’edizione italiana, con l’accurata traduzione di Renata Londero, offre
in appendice la lunga e fondamentale recensione della Cultura del Barroco di Maravall che Orozco pubblicò nel 1982.
41
Idea, per altro, che recentemente tra i Padri circola abbastanza, come si vede
dalle parole pronunciate dall’allora superiore generale, Padre Camillo Maccise, in occasione del restauro della Cappella (Analecta ordinis Carmelitarum discalceatorum,
41 (1996), p. 205).
347
F RAY H ORTENSIO P ARAVICINO ATACADO Y
DEFENDIDO (1625). E L ANÓNIMO A NTIHORTENSIO Y LA
A POLOGÍA POR LA VERDAD DE J UAN DE J ÁUREGUI
Francis Cerdan
Université Toulouse-Le Mirail
Entre los estudiosos de la oratoria sagrada del Siglo de Oro, Giuseppina Ledda ocupa un lugar eminente y sus trabajos, publicados a
lo largo de muchos años, han destacado como importantes hitos en el
avance de nuestros conocimientos relativos a este dominio calificado
durante muchos años de «capítulo peor tratado de la literatura española». Si, como puntualicé en mi estudio “Historia de la historia de
la oratoria sagrada del Siglo de Oro”1 los estudios sobre la oratoria
sagrada fueron hasta la mitad del siglo pasado producidos por eclesiásticos y con enfoque claramente religioso, a partir de Miguel Herrero2, Dámaso Alonso3, y sobre todo Emilio Alarcos4 y Andrés Soria5,
los estudios sobre la predicación áurea cobraron una orientación marcadamente sociológica y literaria. Tales estudios, todos de afamados
universitarios, dejaron definitivamente sentado que la oratoria sagrada del Siglo de Oro pertenecía al campo de la literatura. No fue mera
coincidencia si las primeras tesis doctorales de este dominio (las de
Alarcos y Soria) versaron sobre Fray Hortensio Paravicino, amigo y
discípulo de Góngora, pero también relacionado con Lope y casi
todos los ingenios de su tiempo, y sobre Fray Manuel de Guerra, íntimo amigo y admirador de Calderón de la Barca. Abierta esta vía, se
multiplicaron los trabajos filológicos y sociológicos sobre este «hecho
social apasionante» como lo denominó Dámaso Alonso. Giuseppina
1
Criticón 32 (1985), pp. 55-107.
Miguel HERRERO GARCÍA, Sermonario Clásico, Madrid-Buenos Aires, Escélicer, 1941.
3
Dámaso ALONSO, «Predicadores ensonetados», en Desde el Siglo de Oro a este siglo de siglas, Madrid, Gredos, 1968.
4
Emilio ALARCOS GARCÍA, «Los sermones de Paravicino», en Revista de Filología Española, 24 (1938), pp. 162-197 y 249-319.
5
Andrés SORIA, Fray Manuel de Guerra y Ribera y la oratoria sagrada de su
tiempo, Granada, Universidad, 1950.
2
348
Francis Cerdan
Ledda proporcionó a los siglodoristas perspicaces estudios que, a su
vez, engendraron otros. En la actualidad, los progresos son patentes
y varios investigadores de los departamentos de filología hispánica,
en España y fuera de ella, fijan su atención en el fenómeno de la
predicación áurea, con plena conciencia de desarrollar una labor totalmente legítima.
Desde Carlos V y Felipe II, y después, cada vez más, durante los
reinados de Felipe III y Felipe IV, la importancia de la predicación
fue creciendo y los predicadores (particularmente los Predicadores Reales) fueron considerados como artífices de la palabra y artistas de la
lengua. A este respecto el caso de Fray Hortensio Paravicino es emblemático y digno de interés. Algunos manuales de Historia de la Literatura le han dedicado algunas páginas, olvidando casi totalmente los
numerosos predicadores de gran valía que florecieron a lo largo de
los siglos XVI y XVII. No obstante esos predicadores participaron activamente en la vida literaria y cultural de su época, llegando a veces a
ser implicados en debates y enfrentamientos muy vivos. Como lo
anuncia el título del presente estudio, me ceñiré al examen de un
acontecimiento circunscrito pero muy revelador del bullicio apasionado que conoció el Madrid de la primera mitad del siglo XVII.
En las cartas-dedicatorias que encabezan los pocos sermones que
publicó en vida, Fray Hortensio Paravicino alude a menudo a los
ataques o censuras que le dirigen, atribuyéndolos a la «envidia». El
ejemplo más completo y acabado (podríamos decir modélico) de esas
dedicatorias es la dirigida al cardenal-infante don Fernando para el
Panegírico funeral a la reina Doña Margarita de Austria (1628). En
esta dedicatoria Fray Hortensio escribe:
Aliento que casi está para atrever a la afabilidad de Vuestra Alteza
alguna respuesta, no satisfacción a tantas censuras. No sé, Serenísimo Señor, si las llame envidias […] De tantas censuras, pues digo,
de palabras, de plumas, de prensas, de otras profesiones y la mía,
hasta en lugares obligados, como a más pública, a doctrina más sana,
desatendí siempre.6
La insistencia con la que Fray Hortensio desarrolla este tema de
las censuras desmiente esta última afirmación. La oposición censu6
En adelante cito los textos de Paravicino por mi edición: Fray Hortensio PARASermones Cortesanos, Madrid, Castalia-Comunidad de Madrid, Clásicos Madrileños n° 6, 1994. Aquí, p. 222.
VICINO,
Fray Hortensio Paravicino atacado y defendido (1625)
349
ras / envidias funciona perfectamente. Si censuras podría dejar sobrentender críticas merecidas por las insuficiencias o los defectos de
los sermones, envidias supone celos de inferiores envidiosos del éxito.
Porque Paravicino manifiesta, a veces con cierto orgullo, la conciencia
de haber logrado éxito, ahí donde otros fracasaron y, adoptando una
postura dramatizada, se atribuye la ventajosa posición de la víctima
injustamente perseguida, pidiendo a Dios «el valor para recibir mortificaciones, las que vienen calumnias, y más si fuesen de hermanos,
aunque mayores». Muy probablemente esta frase alude a unos versos
satíricos bastante difundidos por toda la provincia de Toledo que acusaban a Fray Hortensio de los peores pecados y le achacaban las peores ignominias. El presunto autor de esos versos era un monje trinitario del convento de Toledo. Paravicino apeló al Nuncio, pero tuvo que
desistir por no poder afianzar su denuncia con el autógrafo.
Para centrarnos en el terreno histórico-literario, recordaremos el
conocido episodio que opuso Fray Hortensio a Pedro Calderón de la
Barca en 16297, poco después de la impresión del Panegírico funeral
a la reina Doña Margarita de Austria. Calderón, en el último momento,
obtenida ya la aprobación de la censura, añadió unos versos satíricos
a la comedia que acababa de escribir, El Príncipe constante. El gracioso Brito, al desembarcar en las playas de Marruecos, declamaba:
……………….Una oración se fragua
Fúnebre, que es sermón de Berbería,
Panegírico es que digo al agua,
y en emponomio horténsico me quejo,
porque este enojo, desde que se fragua,
con ella el vino, me quedó, y ya es viejo. 8
El público, y sobre todo los cortesanos, se lo tomaron a risa, pero
la pulla hirió al Predicador Real, que tomó el asunto muy a pecho y
acudió a los jueces protutores de teatros. Pero mientras tanto El Príncipe constante se siguió representando con estos versos, incluso delante de Felipe IV, quien se divirtió bastante. Fray Hortensio, muy morti7
Véase mi estudio «Paravicino y Calderón: Religión, Teatro y Cultismo en el Madrid de 1629», en Actas del Congreso Internacional sobre Calderón y el teatro español del Siglo de Oro (Madrid-1981), Anejos de la revista Segismundo n° 6, 1983,
pp. 1259-1269.
8
Véase la edición de Enrica CANCELLIERE, El Príncipe constante, Madrid, Biblioteca Nueva, 2000, pp. 173-174. Estos versos, que fueron censurados después de la queja
de Paravicino, venían después del 513 y respondían a la pregunta: «¿Qué es esto?»
350
Francis Cerdan
ficado, dirigió al rey un muy violento Memorial, lleno de exageraciones y de amalgamas. La sátira de los predicadores era cosa corriente
en la villa y corte9, y el mismo Paravicino había sido objeto de varias
composiciones satíricas. Esta vez la violencia de su reacción a las
rápidas burlas de Calderón sólo se puede explicar como el resultado
de la convergencia de varios ataques. En los versos de Calderón, tres
palabras o expresiones podían herir particularmente a Fray Hortensio: Oración fúnebre, panegírico y emponomio horténsico y de ellas
se valió para montar sus amalgamas y exageraciones del Memorial,
implicando al rey, a la familia real, a su cargo de Predicador Real y a
la religión católica entera. Y es que esas palabras remiten directamente
a una censura anónima (ahora sabemos que se titulaba Antihortensio)
que se había difundido en copias manuscritas por Madrid tres años antes, censura que vamos a examinar ahora como la refutación que escribió don Juan de Jáuregui para rebatir las acusaciones del anónimo censor y que se publicó sin tardar con el título de Apología por la verdad.10
Después de la muerte de Felipe III, a 31 de marzo de 1621, el nuevo rey Felipe IV encargó al conde de Arcos que pidiera a los principales Predicadores Reales unos Epitafios para reunirlos en un libro
en memoria del difunto rey. Fray Hortensio respondió sin tardar a las
solicitaciones del de Arcos y escribió un elogio fúnebre de Felipe III
así como un corto epitafio en latín. Sin esperar que se publicara el
libro proyectado (que nunca se imprimió) Paravicino mandó a la imprenta sus dos piezas que salieron en un opúsculo de 24 páginas en
las prensas de Tomás Junti en mayo de 1621.
Siguiendo el gusto de la época, Felipe IV organizó cada año ceremonias de aniversario o parentaciones en memoria de su padre (y
también de su madre). En 1625, Fray Hortensio fue escogido para el
sermón fúnebre y lo predicó en la Capilla Real en presencia del rey y
de toda la Corte. Poco después, el sermón fue impreso con título de
Panegírico funeral por Teresa Junti, quien realizó también la reimpresión de los Epitafios de 1621. Esta doble publicación provocó enton9
Véase Dámaso ALONSO, «Predicadores ensonetados» ya citado.
El punto de partida de este estudio es mi contribución, redactada en francés,
al Hommage à Robert Jammes, anejos de Criticón n°1, Toulouse, PUM, 1994, p.
199-210, bajo el título de «En marge de la querelle antigongorine: Jáuregui defenseur de Paravicino. Examen de l’Apología por la verdad (1625)». Con la reaparición de una copia manuscrita del Antihortensio, en la Biblioteca Universitaria Estense de Módena, puedo entregar un estudio más completo del texto, antes de proceder a su edición crítica.
10
Fray Hortensio Paravicino atacado y defendido (1625)
351
ces una violenta respuesta de un ingenio que, bajo el anonimato, difundió en el mundillo literario de Madrid numerosas copias manuscritas en censura de las dos obras de Paravicino. Hasta muy recientemente no se conocía ninguna copia del texto y nada permitía identificar su autor. Por aquel entonces la Censura despertó gran interés y
lo más curioso e inesperado del caso fue que don Juan de Jáuregui
decidió redactar una réplica para rebatir los argumentos de la Censura. Esta réplica (con dedicatoria al conde-duque de Olivares) fue impresa sin tardar «a instancia de Pedro Pablo Bugía, mercader de libros y a su costa» en las prensas de Juan Delgado. El librito salió en
diciembre de 1625 con el título de Apología por la verdad.
Jáuregui hace un examen lineal y responde punto por punto, dirigiéndose directamente al anónimo Censor. A través del texto de la Apología por la verdad y gracias a las citas textuales hechas por Jáuregui, se podía reconstituir en gran parte el contenido de esta desaparecida Censura en ausencia de su forma completa. Afortunadamente,
recientemente un ejemplar o copia manuscrita reapareció en la Biblioteca Universitaria Estense de Módena. La Profesora María Teresa Cacho, de la Universidad de Zaragoza, investigando en las bibliotecas de Italia en busca de los manuscritos hispánicos conservados,
tuvo conocimiento de un fondo de impresos y manuscritos españoles
proveniente de la biblioteca privada de la familia Falcó, Príncipes
Pío de Saboya, del Marquesado de Castel Rodrigo. En un códice de
este fondo aparecían novedades importantes, tales como el texto completo de la desaparecida Farsa de la Costança o un texto crítico contra Paravicino. La profesora María Teresa Cacho me comunicó la
noticia de sumo interés para mí. Poco después recibía de la Profesora
Blanca Periñán, de la Universidad de Pisa, la fotocopia completa de
este texto escrito contra Paravicino. Me es grato manifestar aquí mi
más hondo agradecimiento a ambas colegas y amigas que han hecho
posible mi acercamiento a este reaparecido texto de censura contra
Paravicino. El manuscrito lleva el título de Antihortensio / o ejercicio
de erudición / del erudito Don N y está incluído en el códice Epsilon
32.3.4 (Estero 198), que es un volumen facticio compuesto de 13 impresos y 19 manuscritos de los siglos XVI y XVII. María Teresa Cacho
ha dado una descripción completa de este códice en la Rivista di Filologia e Letterature Ispaniche, IX, 2006, pp. 19-28. El Antihortensio ocupa los folios 281-289. En adelante citaré por esta foliación moderna,
a lápiz, aunque existe otra más antigua que dice 331-339. Fue fácil
identificar este texto como el de la Censura refutada por Jáuregui. Aho-
352
Francis Cerdan
ra sí que disponemos del texto en su forma completa para una futura
edición crítica.
Este manuscrito es relativamente corto, ya que ocupa sólo nueve
folios, con numerosas notas marginales de la misma mano. Puede dividirse en dos partes distintas, después del prólogo: la censura del Panegírico funeral de 1625, y luego la censura del Epitafio o Elogio funeral escrito en 1621 y reimpreso en 1625. En ambos casos el anónimo
Censor emplea el mismo procedimiento que consiste en seguir linealmente, párrafo tras párrafo y plana tras plana, el texto del sermón
que está censurando. Antes de entrar en el examen del contenido de este
Antihortensio, conviene recalcar unos puntos sobresalientes. Primero, además de la evidente voluntad de anonimato, el autor se presenta
(o es presentado, porque no estamos seguros de que el título sea de
su autoría) como un «erudito» y su censura como «ejercicio de erudición». Aunque no hay dedicatoria explícita, la obra parece ser dirigida
a una persona precisa llamada «Señor mío» en la primera línea y «V.
m» (Vuestra merced) en la última. En ningún momento, después del
título (que tal vez, repitamos, no sea del mismo autor) aparece el nombre de Fray Hortensio Paravicino, lo que bien podría delatar una postura demasiadamente personal, muy alejada de la serena objetividad
de una censura. Luego, lo que llama la atención en esta Censura es
la extremada disparidad de los argumentos y su esparcimiento. Bien
parece que el Censor ha querido valerse de todos los medios y que su
motivación profunda haya sido una enemistad personal hacia Paravicino, más que un desacuerdo de orden literario, ideológico-religioso
relativo a la “manera de predicar” o el estilo empleado en el sermón.
Fuera de una constante voluntad de denigrar y de dañar, difícil es
encontrar una coherencia profunda de los criterios o la organización
consecuente de su sistema de pensamiento.
Como no viene al caso seguir aquí la misma progresión lineal
adoptada por el autor, agruparemos las principales acusaciones dirigidas por el anónimo Censor al predicador trinitario en cinco puntos
principales:
1- Acusación de plagio; Paravicino ha imitado «a la letra» a tres
autores contemporáneos.
2- Abuso en la denominación Panegírico para la oración fúnebre
o de Epitafio para el elogio.
3- Defectos o inadaptación en la manera de dirigirse al rey.
4- Interpretación errónea de la escritura en particular en cuanto a
Fray Hortensio Paravicino atacado y defendido (1625)
353
la Pascua de los Hebreos.
5- Censuras relativas, sino al estilo propiamente dicho, por lo
menos al texto mismo del sermón o del epitafio. Se consideran como impropias y se censuran algunas expresiones por incorrectas.
Como se notará, esas censuras son bastante circunscritas y no acusan a Paravicino de ser el jefe de una escuela o el adalid de un nuevo
modo de predicar. Incluso en este último punto relativo a los problemas de la expresión (la elocutio de la retórica tradicional) donde se
podría encontrar un ataque contra la “nueva predicación” nunca aparecen palabras como “culto” o su sinónimo “crítico”, ni la menor alusión a la “secta” de los “oscuros” influídos por el estilo gongorino. Nunca el Censor achaca a Paravicino la dificultad intrínseca de su estilo
(acusación a la que alude Paravicino de manera sistemática en las dedicatorias de sus sermones impresos), ni tampoco aparece la crítica
de un sistema de pensamiento basado en el concepto, fruto del ingenio, en el sentido que le dará Gracián y no sólo en el anodino «concepto predicable». Ahí radica la verdadera dificultad de Paravicino. El
Censor no entra en la coherencia de Fray Hortensio y se sitúa en el
plano de la “imagen de marca” externa que da de sí mismo el predicador, su posición casi “moral” se podría decir, o sea la notoriedad de
su personalidad, usurpadora, según el Censor, de una fama falsa que
merecía ser denunciada a la luz pública.
Esta Censura fue rebatida, pues, por don Juan de Jáuregui en su
Apología por la verdad. La obra consta de cuarenta y cuatro folios, o
sea una extensión muy superior al texto de la Censura. Veamos primero lo que Jáuregui afirma de entrada. En su dedicatoria al condeduque puntualiza y repite que no conoce al autor anónimo de la Censura y que si escribe esta Apología por la verdad no es para defender
al predicador impugnado, sino en nombre de la verdad y de la razón:
Yo no salgo aquí a la defensa del autor impugnado; no apruebo ni
repruebo su obra; la Censura sola examino, en beneficio de algunos
que por insuficiencia o pereza no averiguan sus desconveniencias, o
están engañados en ellas. Algunas satisfacciones mías serán forzosamente más largas que las acusaciones, porque el marañar en confuso es obra fácil y breve, cuanto largo y difícil el desenvolver la
maraña. (Preliminares).
De manera general Jáuregui adopta el mismo procedimiento lineal
que el autor de la Censura y examina el texto siguiendo fielmente el
354
Francis Cerdan
desarrollo del ataque como queda dicho arriba. Se dirige directamente al autor anónimo:
Al Censor del Panegírico. Llegó a mis manos un cuaderno de muchos
que V. m. (sea quien fuere) ha divulgado estos días contra la Oración
o Panegírico que se predicó a Su Majestad en honras de su padre.
(Apología f. 1).
Los folios 1-8 responden al Prólogo del original y después, a partir
del folio 8v. Jáuregui sigue la Censura plana por plana hasta el final
del folio 37. Los folios 38-44 versan sobre la segunda Censura redactada contra el Epitafio o Elogio funeral. El examen realizado por Jáuregui no tiene un desarrollo uniforme porque se demora o pasa rápidamente según la importancia que merece, según él, la acusación expresada o, mejor dicho, la importancia del error que quiere corregir.
Desde el principio Jáuregui pone al desnudo la posición del Censor, introduciendo, no sin una fina ironía, una primera cita textual
que volverá a emplear también en la conclusión:
Entra V. m. en su Prólogo con misteriosas preñeces, lamentando el siglo presente, abominando de su ignorancia y afirmando de sí estas palabras: Los que tenemos obligación de saber algo, igualmente nos corre de examinar lo que se estima. Y después: Sirva esta censura el
oficio de Luz, que es descubrir verdades que ocultan las tinieblas etc.
Sin leer lo interior del papel, desde este principio me llevó luego la
curiosidad a ver también el remate, donde hallé estas aclamaciones:
¡Oh Verdad, hija del tiempo! ¡Oh Luz hermosa, cuanto más alta más
divina! ¡Oh Sabiduría! ¡Oh Erudición! a ti sola venero, tus secretos
adoro, todo vulgo profano aborrezco. Estas prefaciones magníficas y
estas invocaciones misteriosas y venerandas me persuadieron a esperar milagros, pues en una Corte Española, donde forzosamente concurre la primera erudición del mundo, se ofrecía V. m. a desterrar tinieblas como luz verdadera que alumbra todo hombre o, como autor del
saber a cuyo conocimiento dice que se halla obligado, cuyas luces y
misterios arcanos juzga por propios, tan exento de profanidades. Vide
ergo (dice Cristo) ne lumen quod in te est tenebræ sint. [Luc. 11].
(Apología f. 1).
En las dos páginas siguientes, Jáuregui, sin dejar de burlarse del
anónimo Censor, repite su propósito de situarse en el terreno de la
verdad y de la razón. En esas páginas trasparece el verdadero propósito subyacente de Jáuregui que es denunciar la maligna intención y
Fray Hortensio Paravicino atacado y defendido (1625)
355
las maniobras deshonestas del Censor a quien, muy probablemente,
había identificado.
Pero volvamos a esos cinco puntos expuestos más arriba para
examinarlos uno por uno. El primero concierne pues el problema del
plagio. Los autores que, según el Censor, habían servido de modelo
directo son el padre Maestro Márquez (en su Gobernador Cristiano,
publicado en Salamanca en 1612 y con numerosas reediciones en 1614,
1615 etc.) el Padre Diego de Baeza (en sus Comentaria moralia in
Evangelicam Historiam publicadas por primera vez en 1623 en Valladolid y reeditadas varias veces) y el Provincial trinitario de Portugal Frei Baltezar Páez (en su Sermão funeral nas honras del rey Philippe II de Portugal, Lisboa, Pedro Craesbeeck, 1621). Después de reconocer la fama de Fray Hortensio Paravicino (llamado aquí «el Autor»), el Censor lo ataca directamente:
No puedo negar que el Autor es tenido por elocuente, pero también
confieso que la profesión que hace de singular y las querellas que
publica de la infelicidad de su estado (es palabra suya) han movido los
ingenios más sosegados a mostrarle que no toda infelicidad es ironía
ni la seguridad es acierto, en especial en este papel en quien consagra
(tanto de él se satisface) su nombre a la inmortalidad, como si le escribiera con puntas de acero en hojas de diamante, siendo todo el empleo de él en dos libros vulgares, conocidos, manoseados. Manchas que
no merecen ser lavadas con agua del olvido… (Censura, f. 281 r.).
Lo que contesta Jáuregui es significativo de su estrategia. Ataca de
manera muy recia:
Esto no es más que furor colérico, muy aprisa manifestado. Son palabras solas que, no habiendo después de probarse ni con infinita
distancia, sirven sólo de mostrar el ánimo y de que se vea en los umbrales la vehemente pasión de la Censura; y para mejor conocerlo
importa averiguar esta cláusula. (Apología f. 2)
En esta cuestión Jáuregui hace muestra de gran rigor intelectual,
aduciendo la clara demostración de lo que afirma. Tras mofarse del
empleo de los adjetivos «vulgares, conocidos y manoseados» sitúa el
debate en su verdadero nivel que es la licitud de la asidua frecuentación de los buenos autores e incluso de su imitación. Se apoya en un
precepto de Horacio: Vos exemplaria Græca nocturna versate manu,
versate diurna. Con abrumadora erudición Jáuregui se vale de Macro-
356
Francis Cerdan
bio sobre Virgilio, de Erasmo sobre San Juan Damasceno y San Gregorio Nazaciense, así como de la práctica de varios Padres de la Iglesia, San Ambrosio, San Basilio, San Juan Crisóstomo y el Teodoreto,
para subrayar que la similitud de los asuntos desarrollados justifica
el parecido de los escritos y no constituye una imitación servil.
Más allá de esta verdad de alcance general, Jáuregui censura a su
vez un modo de argumentar que evidencia la deshonestidad del Censor: nada se ha de afirmar sin que se aduzcan pruebas fehacientes:
Y cuando V. m. , por su antojo, dice que imita planas el Autor, ya se
ve que no es prueba en los pleitos el simple dicho de la parte. Presente papeles, léanse los autores que cita por imitados, que en ellos
todo recto juez verá que apenas hay sombra de imitación, cuanto
menos columnas o planas. (Apología, f. 12 v.).
Cuando el Censor se contenta con afirmar:
El Padre Diego de Baeza de la Compañía imprimió el año 23 un libro sobre los evangelistas que anda en las manos de los predicadores
más noveles. Deste autor se trasladó otra parte no menor […] Ahora,
desde esta palabra hasta el fin de la plana 5a, trasladó de Baeza pensamientos, lugares, ponderaciones, cláusulas y palabras. (Censura, f.
283r.).
Jáuregui reprehende:
Cuesta poco el decirlo así, más todavía sale barato cuando se averigua lo contrario. Y el primer modo de averiguarlo, es considerar solamente que si hubiera esta conformidad en la imitación, no había de
excusar V. m. (importándole tanto) trasladar en su nota algunos renglones del Autor y del Padre Baeza, por muestra de lo que asegura. No
traslada una sola palabra, luego bien se entiende aun sin verlo que ni
palabras, ni cláusulas, ni ponderaciones, ni pensamientos son traídos
de nadie, sino de los Santos que allí se alegan. (Apología f. 14 v.).
Además Jáuregui nota que el libro de Baeza está escrito en latín y
que por ende mal se pueden copiar las mismas palabras o cláusulas
en castellano.
Tomemos unos pocos ejemplos precisos.
En su Panegírico, Paravicino decía: «Pues toca al príncipe saber
las historias propias y ajenas, las costumbres de sus pueblos y los
extraños, de unas y otras gentes». La Censura observa que esta frase
es «del maestro Juan Márquez» sin dar más detalles. Jáuregui no deja
pasar la oportunidad de confundir al Censor y responde, notando que
Fray Hortensio Paravicino atacado y defendido (1625)
357
un precepto tan común se hallará «no sólo en Márquez, sino en cualquier libro del mundo…» y prosigue:
Vea V. m., por su vida, que el aconsejar a los príncipes que sepan historias con los demás estudios es precepto tan fácil de conocer y así
comúnmente se halla en cuántos escriben Política y en otros muchos.
Expresamente me acuerdo de Francisco Patricio en todo el capítulo
10 de su libro 2 De Regno. Justo Lipsio advierte lo mismo en el libro
1, capítulo 9 de sus Políticos, Comines, el Señor de Argentón en todo el capítulo 6 del libro 2 de sus Memorias no encarga otro estudio
a los reyes sino leer historias. Las palabras de Márquez son estas:
Tengo por parte necesaria en un príncipe que tenga conocidas las
costumbres de las naciones extranjeras, siquiera por historias y se
haya ejecutado años antes en estudios, por lo menos de varia lección. Esto y mucho más aconsejan los políticos todos. Veamos ahora
por qué las palabras brevísimas del Autor y tan diversas de Márquez
han de ser traslado. (Apología f. 25 v.-26 r.).
Donde Paravicino decía, hablando de Felipe III:
Mas ¿qué no haría su religión? Su respeto al Cielo, ¿qué no obraría?
Si sabe del sol mismo de Dios su fénix amoroso Agustino, que no le
parte nunca en las batallas, antes bien atiende (como si pudiera dudarlo) a las armas más justas y religiosas, para entregarles con la luz
la victoria, como lo experimentó Abías con cuarenta mil hombres
menos que Jeroboam en su ejército. (Panegírico, p. 201).
El anónimo censura:
El lugar que cita de San Agustín y la victoria de Abías juntas las
halló el Panegirista en Fray Juan Márquez y aunque hay otros vulgares ejemplos fuesen los que más holgadamente pudo trasladar. Poca
costa le va teniendo el Panegírico funeral. (Censura, f. 284 v.-285).
Para resumir su refutación en este punto Jáuregui repite:
Vuelve V. m. a hacer ruido con imitaciones y de algunas diciendo que
son a la letra. Esto fue tan fácil de decir cuanto imposible de probar.
Y supuesto que V. m. (a quien toca el honus probandi) no trae unos
lugares y otros en testimonio. Sin poner yo más de mi parte, se está
el Autor defendido y queda la impugnación por calumnia. […] El estilo de V. m. cuanto a la comprobación de los hurtos es de esta manera.
Si Márquez habla de Moisés o Sichen y sus historias, y el Autor trata
de las mismas, dice luego que es copia a la letra. ¡Gracioso tema!
¿Quiere V. m. prohibir el leer la Escritura, y citarla cada uno a su intento? (Apología f. 28 r.-v.).
358
Francis Cerdan
Lo mismo pasa con la supuesta imitación de las Comentaria del Padre Diego de Baeza. Cuando Paravicino, aludiendo al conocido episodio del sacrificio de Abraham (Gén. 22), dice:
Ejemplo hiciera a esta verdad, si tal temiera de ella, con el cuidado
que Abraham tuvo en su hijo Isaac, cuando vio en él más gusto de
consagrarse al cuchillo, o por excusar la turbación de las aras con algún estremecimiento del sacrificio, como ponderó un grande autor, o
por prevenir la impaciencia a que podía obligar el dolor a una víctima racional y gallarda, como sintió Agustino, o porque, como ilustres
plumas notaron, juzgó que le era a un gran dolor algún exceso lícito,
mientras no ofendiese ni la obediencia ni el ánimo. (Panegírico, p. 214).
El Censor denuncia:
El ejemplo de Isaac, con las advertencias de Cayetano (que es el autor a quien señala) y otro lugar de San Zenón (a quien llama ilustre
pluma) lo trasladó a la letra de Baeza. (Censura, f. 287).
Y un poco más lejos, cuando Paravicino, hablando de la agonía
de Felipe III, dice:
El caso es que quiso Dios, como en su Hijo, que viésemos todos sus
agonías: sus glorias y favores él solo las vio. Vi su gloria, dijo en singular Isaías, y vimos sus congojas, dijo en común. Vencer sabía, antes
de nacer, Jacob a Esaú, como pensó la sutileza florida de Crisólogo, y
le llegó a temer después, cuando se halló hombre y poderoso. (Panegírico, p. 215).
El Censor nota:
Traslado a la letra de Baeza. Sólo puso propio el mudar los lugares,
poniendo en primer lugar el que está en Baeza en el segundo. (Censura, f. 287).
Aquí hay que recalcar que el empleo de referencias a episodios de
la Escritura, así como las citas de los Padres, de Santos o de otros autores para ilustrar y autorizar el discurso del orador era cosa, más
que corriente, totalmente obligada en la oratoria sagrada del Siglo de
Oro. La palabra «lugar», empleada aquí por el Censor, ha de tomarse
en el sentido que da el Diccionario de Autoridades: «el texto, autoridad
o sentencia de algún autor que se cita, expone y alega». Notaremos
que «lugar» puede tener dos acepciones, algo diferentes pero a menudo combinadas de “cita” textual o aludida, o de “pasaje” o “episodio”
Fray Hortensio Paravicino atacado y defendido (1625)
359
de la Escritura. Jáuregui responde al Censor refutando su acusación
de plagio:
Cuando Baeza o Páez acotan con Tertuliano, Salustio o San Cirilo y
el Autor con los mismos, dice V. m. al momento que traslada a Páez
y Baeza. Respondo lo que ahora decía del sagrado Texto: que alegar
unos mismos autores, no es imitarse aquellos que los alegan, es sólo
un concurso forzoso en valerse de antiguas doctrinas y acudir a las
fuentes donde se hallan. (Apología f. 29).
El caso del Padre Páez es algo distinto. Efectivamente, algunas frases son muy parecidas o, a veces, idénticas en el Epitafio de Paravicino y el Sermão funeral de Páez. El Censor se regocija al denunciar,
con aguda ironía, los que llama «hurtos» de Fray Hortensio. Pongamos dos ejemplos.
Paravicino:
Las causas soberanas a las más inferiores encomiendan los efectos.
Y aunque la virtud del sol llega a inquietar mudamente las entrañas
de la tierra (inmoble base de la máquina que vemos) para hacer las
oficinas de los metales, no pasan de la faz de ella los resplandores.
(Epitafio, p. 96).
Páez:
E Deus a quem os Reys devem imitar, pois estão em seu lugar, sérvese das causas segundas e as toma por instrumentos seus, ainda nos
negocios mais importantes, como são os sobrenaturais, cuando nos faz
mercê da sua graça e dões supremos, e ainda que o sol com sua virtude está nas entranhas da terra produzindo o ouro e prata, não passam os seus raios da superficie exterior da terra. (Sermão, f. 10 v.).
El segundo ejemplo es más evidente.
Paravicino:
¿Cuántos aparatos de guerra y de común horror y suspensión al mundo en otros Monarcas, celosos de excedidos, desbarató su oración? Y si
bien, no sin uno y otro Josué, ministros suyos, a las manos solas de este
Moisés cristiano (manso de condición sobre los hombres todos) levantadas en un oratorio, desvanecieron intentos y armas. (Epitafio, p. 97).
Páez:
…e suas orações, tão poderosas com o Ceu, que com ellas e com a
suas mãos levantadas a Deus, como outro Moisés, desbaratou e deixou
360
Francis Cerdan
frustradas grandes máquinas que se levantaram, grandes poderes que
se armaram, e ameanaçavam grandes ruinas. (Sermão, f. 19).
Hay que reconocer que la similitud es grande y cabe preguntarse,
como ya lo hacía Jáuregui, en qué sentido va la influencia o el traslado:
En esta nota trae V. m. muchas cláusulas expresas del Autor y de
Páez, que toda la plana a la letra es traslado del otro sermón, caso
bien prodigioso para quien ha visto lo que ya dijimos, y sabe por las
fechas notadas, quien pudo trasladar a quien, cuando algo fuese el
traslado. (Apología f. 42).
En efecto, el Padre Maestro Páez, que había predicado al final de
la primavera, imprimió su sermón en verano de 1621 (con imprimatur del 22 de julio y la licencia del 23) cuando el Epitafio o Elogio de
Paravicino había salido de las prensas en mayo de este mismo año de
1621. Dadas las frecuentes relaciones entre los conventos trinitarios
es muy posible que Frei Baltezar Páez recibiera muy rápidamente el
Epitafio impreso. También se puede alegar que los manuscritos circulaban con toda rapidez. Pero cabe señalar que entre la muerte de
Felipe III (a últimos de marzo) y la impresión del Epitafio apenas pasó
más de un mes. Es poco verosímil que Paravicino pudiera recibir el
borrón manuscrito del sermón de su hermano de hábito. Lo contrario
es mucho más posible. De todas formas estamos en pleno debate sobre
la licitud de la imitación. En el Siglo de Oro no imperaba el concepto de «propiedad intelectual» y no existía el que llamamos hoy «copyright». Cada autor podía inspirarse en escritos ajenos con absoluta
buena conciencia. La erudición, tanto lega como eclesiástica, era el
lote común de muchos ingenios de entonces.
El segundo punto que examinaremos es el que concierne los títulos
dados por Paravicino: Epitafio o Elogio funeral con el Epitaphium /
Panegyrica inscriptio en 1621 y Panegírico funeral para la Oración
fúnebre de 1625.
Como bien es sabido, la oración fúnebre tuvo siempre en la liturgia católica (y desde los primeros siglos) una marcada importancia y,
en España, durante el Siglo de Oro, cobró una resonancia social considerable. Fray Hortensio, que se lució bastante en tal ejercicio, tenía
conciencia de haber favorecido el abandono (o por lo menos la disminución) de la dimensión litúrgica del “sermón fúnebre” en pro del
aspecto panegírico del discurso, con la exaltación de las virtudes y
Fray Hortensio Paravicino atacado y defendido (1625)
361
méritos del difunto. La acusación del Censor no es, pues, gratuita y va
más allá del mero uso de las palabras y de su adecuación con la tradición de los clásicos. Por eso se vale, con certera erudición de ejemplos
escogidos en los grandes autores latinos (Horacio, Plinio, Cicerón Plutarco), eclesiásticos (Quintiliano, San Jerónimo) y modernos (Celio
Rodiginio, Justo Lipsio). Pero, con extremada atención y precisa
erudición, Jáuregui le refuta y justifica el empleo de esas palabras
por Fray Hortensio, remontándose a veces hasta las palabras griegas.
De paso amonesta al Censor que había citado a Quintiliano a través de
Celio Rodiginio («lo que dijese Quintiliano, en él se ha de buscar y
aprender, no en el moderno que lo cita»), antes de desarrollar su argumentación basada en numerosas autoridades (Dionisio Alicarnaceo,
San Isidoro, Quintiliano, Escalígero, Plinio, Isócrates, Claudiano, Tibulo, Mario Nizolio, Nicetas y Plutarco). No se trata de hacer muestra
gratuita de erudición, pero sí de valerse de argumentos adecuados y
eficaces. Con lo que queda patente que Jáuregui, aunque ingenio lego,
tenía una amplia cultura, incluso en el dominio religioso y que sabía
valerse de esa cultura con la mayor soltura cuando lo necesitaba.
El tercer punto que examinaremos es el que se relaciona con los
reproches que dirige el Censor a Paravicino en cuanto al uso de ciertas
palabras y expresiones que él juzga como poco apropiadas o contrarias al decoro. Como, por ejemplo, cuando Fray Hortensio, después de
dirigirse al rey con “Vuestra Majestad” prosigue con “su padre”. El
Censor, no sin razón, preconiza “vuestro padre”. Poco después censura el no haber añadido la fórmula “Señor nuestro” tras la mención de
“la Majestad de Felipe IV” o la expresión “la iglesia a quien reina”
que juzga peligrosa y preconiza «para quien reina». Predicando en la
Capilla Real, Fray Hortensio había dicho; «Yo digo delante de vasallos
e hijos» cuando el decoro exigía el orden inverso “hijos y vasallos”. A
semejantes censuras, Jáuregui responde las más veces con ironía. Por
ejemplo para el empleo de la segunda persona del plural:
Al Padre Juan de Mariana, por su ancianidad, se le oyen sin queja
antiguallas que aprendió en su niñez, y es estilo conservado sólo en
algunas peticiones o memoriales jurídicos; mas en una epístola culta,
fuera hoy desacuerdo quitar al rey su título de Majestad y tratarle sólo de Vos. (Apología f. 10).
O, también, porque la cosa le parece de poca importancia, concede
sin detenerse y prosigue:
362
Francis Cerdan
fue indecoro nombrar antes vasallos que hijo; en esta duda, cual si
fuera caso averiguado y muy grave, lo condena con leyes y párrafos
del Digesto. Bien empleada jurispericia. Doyme por vencido. (Apología f. 10).
Pasemos al cuarto grupo de censuras. Son las que versan sobre
puntos de fondo, relativos a la Escritura. Entre varias, escogeremos dos.
Paravicino, hablando del nacimiento de Felipe III a 14 de abril de
1578, evoca la salida de los Hebreos de la cautividad de Egipto:
En el día catorce, día en los anales divinos célebre por haber sucedido en él la Redención Hebrea, las divisiones pasmosas del mar bermejo y el naufragio escandaloso de Faraón. (Panegírico, p. 196).
El Censor se detiene en comentar largamente la palabra escandaloso, pero aún más en la fecha del catorce. Siguiendo muy de cerca
el capítulo 14 del Éxodo y el 33 de Números afirma:
Bien se puede exornar con la verdad que esto es contra la Escritura tan
expresamente que no admite jueces árbitros, y me admira que se predicase en púlpito y se publicase dando a la estampa lo que es tan evidentemente contra el texto. Lo primero erró en decir que la Redención
Hebrea fue a catorce, porque esta Redención es la salida de Egipto que
fue a quince. Así dice el capítulo 33 de los Números. (Censura, f. 17).
y hay que reconocer que, a primera vista, lleva la razón. Pero es
interesante ver cómo Jáuregui, convocando con mucha erudición, el
texto bíblico y los comentaristas, San Agustín, Flavio Josefo, Macrobio, El Tostado, Cornelio a lapide, Fray Luis de León y Escalígero, se
explaya en más de quince páginas, para refutar la Censura. Partiendo
de la distinción que él hace entre la Redención y la salida de Egipto,
establece que la verdadera Redención Hebrea se realizó con el Transito de Jehová (de ahí se llama la Pasqua o Phase) y llega a la conclusión que el que tiene razón es Paravicino y no el Censor. Pero, a la verdad, leyendo detenidamente el texto del Panegírico, se ve muy bien
que Fray Hortensio aúna todos los acontecimiento en el día catorce.
En otra página, Paravicino, hablando de la clemencia y mansedumbre de Felipe III y comparándola con la de Cristo, que siempre fue manso y piadoso, muy diferente del Dios severo y justiciero del Antiguo
Testamento, decía:
De sentir los pasos de un Dios muy severo huye un hombre solo que
había en el paraíso; y ya hecho hombre ese Dios, andaban mirándole a
Fray Hortensio Paravicino atacado y defendido (1625)
363
los semblantes los hombres. […] Jamás vieron los enemigos en Dios
humanado acción lustrosa de aparato o grandeza… (Panegírico, p. 206).
La Censura reprehende:
Menester habrá el Panegirista templarse. ¿Y los milagros que dieron
ilustrísima noticia de la divinidad del Hijo de Dios? ¿Cómo? ¿Y no
era acción de grandeza obedecerle los mares y los vientos? ¿Resucitar con una palabra un difunto? No es éste el lenguaje de los santos
que aún en el oprobio (ahora tan glorioso) de la cruz le reconocieron
por Dios sus enemigos: Vere filius Dei erat iste. (Censura, f. 285 v.).
Pero Jáuregui refuta, luciéndose como suele hacerlo, en un largo
desarrollo atestado de erudición y rebate con seguros argumentos la
reprensión de la Censura. Cabe subrayar una vez más el perfecto dominio que tenía Jáuregui de la Escritura (comparando, cuando es necesario, la traducción de los Setenta con la Vulgata de San Jerónimo), de la Patrística, de los comentaristas y de autores modernos. A
menudo en esta Apología por la verdad estamos en presencia de una
verdadera “disputa” escolástica de perfecto desarrollo que no vacila
en entrar en los más mínimos detalles.
El último punto que examinaremos toca a la forma misma de la
expresión o la elocutio de la retórica. Como queda dicho, no se trata
de un ataque frontal contra la “nueva predicación” culta de la que
Paravicino era el reconocido adalid, sino de censuras circunscritas
que no llegan a formar un conjunto coherente, aun cuando se nota que
el anónimo autor del Antihortensio es adepto de la predicación más
tradicional de los años anteriores a la emergencia del culteranismo y
del conceptismo. Por ejemplo se puede escoger el pasaje en el que el
Censor reprehende el empleo de “asombrar” en el sentido de “hacer
sombra” en la frase «Suelen las nubes del ocaso aún asombrar el sol
antes de que se ponga» (Panegírico p. 213). El Censor se extraña ante
lo que hoy llamamos «un cultismo de acepción»: «Hasta ahora habíamos entendido que asombrar era de asombro y no de sombra». (Censura f. 286 v.)
Jáuregui desarrolla una argumentación muy interesante. No sólo
explica la traslación semántica,
Este género de ironías con que V. m. se burla, cae bien sobre quien ha
dicho un gran disparate. Pues hágole saber, si hasta ahora entendía que
asombrar no venía de sombra, que era engaño pueril, porque Asombrar, Asombro y todos los Asombramientos del mundo no tienen otro
364
Francis Cerdan
origen que de la sombra, sin que esto reciba disputa. Y así en propio
significado y elegante se dice que el árbol asombra el terreno, bien
que el abuso común le haya trasladado al Espanto. Aquí es trasladado
y allí propio. (Apología f. 37).
Sino que, entrando en el terreno poético, justifica el empleo metafórico que hace Fray Hortensio:
Mas cuando diésemos que asombrar fuese meramente espantar y no
otra cosa, ¿por qué no cabrá este sentido en nuestra cláusula? siendo
tan conforme al intento. Suelen las nubes del ocaso asombrar el sol
antes que se ponga, y aplícalo luego al temor que tuvo aquel rey en
su muerte, pues prosigue: Encarecióse siempre que había temido Felipo con demasía su muerte. ¿Qué es esto sino comparar el asombro
de Filipo cercano a su muerte, con el del sol a quien espantan las nubes cercano a su ocaso? Perdición es grande mover V. m. tan sin
causa disputaciones y en sólo este punto del asombro alegaremos a
Tertuliano, Lactancio, Jerónimo y Cicerón: padres (como dice) y
abuelos en diversos siglos de la lengua latina. (Apología f. 37).
De la misma manera, es el lenguaje poético el que se pone en tela
de juicio cuando Paravicino, hablando de la guerra de Flandes dice: «No
pudo Filipo volver a echar el yugo a los rebeldes, que halló frías las
cervices y descolladas, con insolencia no reciente, antes duras» (Panegírico p. 200). El censor pregunta «¿qué hace aquí frías? no lo adivinará ni Tiresias, porque no hay palabra en toda la cláusula que le
corresponda» (Censura f. 383). Lo que contesta Jáuregui, usando una
vez más de la más mordaz ironía, es una verdadera «explicación de
texto»:
Si V. m. es mal adivino y corto de vista, no juzgue lo mismo de todos. Yo, sin ser Tiresias, veo claramente, y todos sin adivinarlo verán que esta voz frías tiene aquí su lugar y sentido, con toda propiedad y correspondencia, siguiendo advertidamente su metáfora en esta manera. Acabado de quitar el yugo al novillo, que aún tiene la
cerviz caliente, es fácil volvérsela a poner, y fácilmente le tolera,
porque no ha olvidado la sujeción, lo cual no sucede pasando tiempo, cuando la cerviz está fría y el rostro alto y descollado, que entonces ha menester de nuevo domarse. Esto hace frías y esto dice con
acuerdo y con acertada locución el Autor, como se ve aquí en sus palabras. Y no es propio oficio de luz quedarse V. m. tan a oscuras, en
inteligencias tan fáciles. Antes, si procediera en su censura con ojos
abiertos, quizá viera la correspondencia que no halla y niega poderla
adivinar Tiresias. (Apología p. 26 v.).
Fray Hortensio Paravicino atacado y defendido (1625)
365
Como último ejemplo del «lenguaje poético» censurado en el Antihortensio, pondremos esta frase: «Estrella que en eternidades manche hermosamente de luz la parte que le toca del cielo» (Panegírico
p. 195). El ejemplo es muy interesante porque en él se manifiesta una
constante de la poética paraviciniana que, a menudo, menta los rayos
del sol y de luz con particular dilección. El Censor no deja de burlarse: «Bañe querrá decir el Panegirista, o deberémosle el conocimiento
de que la luz mancha y de que hay más manchas hermosas que lunares» (Censura f. 283). Una vez más Jáuregui entra en la lógica de la
poética de Fray Hortensio y justifica esta “traslación” que, en cierto
modo, es herencia de la estética gongorina.
Otros muchos ejemplos o expresiones poéticas, censuradas por el
anónimo Censor y legitimadas por Jáuregui podrían añadirse aquí.
Quedémonos con lo aducido, que es bastante significativo.
Ya es tiempo de sacar las conclusiones de este rápido examen
comparativo del Antihortensio y de la Apología por la verdad. La primera es que en ningún caso se trata de un debate sobre el modo de
predicar elaborado con coherentes argumentos. El anónimo Censor
parece ser movido por una fuerte dosis de enemistad personal hacia
Paravicino y lo mismo se puede decir de Jáuregui hacia el Censor.
No obstante ambas piezas apuntan a la práctica concionatoria al final
del primer tercio del siglo XVII y a los cambios introducidos por Paravicino. Gracias a los ataques del anónimo y a las refutaciones de Jáuregui se puede comprender mejor la insistencia de Fray Hortensio en
aludir, en las dedicatorias de sus sermones impresos a las censuras y
calumnias de las que era víctima.
El Antihortensio se presenta, según lo indica el título, como un
ejercicio de erudición y la refutación de Jáuregui en la Apología por
la verdad, es a su vez un espléndido ejercicio de erudición donde se
perfila mejor su personalidad así como su estética literaria y las características de su credo poético. Los dotes de polemista que se manifestaban ya en el Antídoto o en la Carta del Licenciado Claros de
la Plaza al Maestro Lisarte de la Llana conforman la Apología por
la verdad en la que Jáuregui maneja perfectamente el humor y la
ironía para triunfar mejor de su adversario. Ese adversario anónimo
no ha sido identificado ni los diferentes “ingenios más sosegados” en
nombre de los cuales parece expresarse. Quizá algún día sea posible
saber quién era y saber así las razones de su enemistad. Lo seguro es
que conocía perfectamente el mundo de la predicación y particular-
366
Francis Cerdan
mente a Fray Hortensio y su “circunstancia”. Había leído sus sermones impresos y también su obra poética que sólo corría en copias
manuscritas. Era capaz de reconocer la influencia de Góngora e incluso versos aislados del vate cordobés. En todo caso el texto completo de este Antihortensio merece ser publicado en su integralidad
(ya estoy preparando la edición crítica con abundantes notas). La
Apología por la verdad no ha merecido de los estudiosos de don
Juan de Jáuregui el interés que merece y es de desear que se realice
en breve una edición moderna que la haga accesible a todos cuantos
se interesan por la literatura española del Siglo de Oro.
367
G LI
I
OCCHI NELLE ORECCHIE .
SERMONI DI L ANCELOT A NDREWES
Laura Sanna
Università di Cagliari
'Wherfore I muste (of verray ryht,)
Translate thyn Eyen & thy syht,
Thyder wher thyn Erys stonde.
And (as thow shalt wel vnderstonde,)
Thyn Erys muste haue Eyën clere
Taparceyvë, in thys matere,
And to conceyven euery thyng.
'ffor, trustë me wel, that Eryng
Wel dysposyd, voyde of slowthe,
Kan the tellë best the trouthe,
In thyngës wych that ben dotous,
Wonderful & merveyllous.
John Lydgate, The Pilgrimage of the Life of Man, (1426)
1. Lancelot Andrewes (1555-1626) contende a John Donne la palma di predicatore principe dell’età tardo-elisabettiana e giacomiana.
Lo attestano le numerose edizioni a stampa dei suoi sermoni apparse
in vita e l’ imponente collezione di XCVI Sermons voluta dal sovrano e
curata da William Laud e John Buckeridge ad appena tre anni dalla
sua morte1. Nel 1928 T.S. Eliot lo definiva «the first great preacher of
the English Catholic Church» e ne assimilava l’opera a «the finest
English prose of their time, of any time»2. Le qualità del suo stile sono,
nelle parole di Eliot, «ordonnance, or arrangement and structure, precision in the use of words, and relevant intensity»; peculiare il suo
metodo: «Andrewes takes a word and derives the world from it;
squeezing and squeezing the word until it yields a full juice of meaning which we should never have supposed any word to possess»3.
1
In 3 voll. in folio, London, George Miller for Richard Badger, 1629.
T.S. ELIOT, For Lancelot Andrewes: Essays on Style and Order, London, Faber & Gwyer, 1928, ed. cons. in Selected Essays, London, Faber & Faber, 1958. pp.
344, 341.
3
Ivi, p. 344, 347.
2
368
Laura Sanna
Nei decenni trascorsi dalla pubblicazione del saggio eliotiano non è
stato aggiunto molto al sintetico acume del suo giudizio. Ancora
oggi la paronomasia eliotiana offre infatti la cifra più adeguata a
introdurre un corpus omiletico che, se non proprio terra incognita, è
tuttavia di problematico accesso. Al suo interno infatti sbarrano il
passo i leones di una cultura radicata su fondamenta misconosciute e
screditate dalla cultura moderna: sono a noi ostiche le regole impartite
dalle ‘artes praedicandi’ medievali, che erano ancora valide per Andrewes, e l’universo testuale, biblico, filosofico, letterario cui rimandano i suoi scritti è per noi obsoleto. A differenza, poi, di John Donne,
ed è sempre Eliot a rilevarlo, l’adesione di Andrewes al credo religioso, e in particolare alla chiesa anglicana, è priva di titubanze e ondeggiamenti, quindi lontana dagli smarrimenti caratteristici della coscienza e del pensiero contemporanei. Per questo John Donne, la cui
fede palesa «the tumults of a strong emotional temperament», fa più
facilmente breccia nel lettore, e dei due «Andrewes is the more medieval, because he is the more pure, and because his bond was with
the Church, with tradition […] Donne is the more modern […] he is
primarily interested in man».4
Chi voglia attingere il modello ideale della prassi omiletica cinquesecentesca in Inghilterra trova, tuttavia, più consono campo di studio
nei testi di Lancelot Andrewes, proprio per la loro ben ferma adesione alle linee teologiche e pastorali che la giovane Chiesa Anglicana
andava faticosamente individuando come proprie. A partire degli anni
1572-73, essa era infatti obiettivo di feroci attacchi, e il suo tentativo
di seguire una via media fra Roma e Ginevra era condannato nei manifesti puritani:
Lordly Lordes, Archbishopps, Bishoppes, Suffraganes, Deanes, Doctors, Archdeacons, Chauncelors, and the rest of that proude generation,
whose kingdome must downe, holde they never so hard, bicause their
tyrannous Lordshippe can not stande wyth Christes kingdome.5
L’uso delle immagini era stato uno dei bersagli preferiti dei Riformatori, e ancora nel 1603, quando salì al trono Giacomo I, nei sermoni
puritani erano denunciate le tracce residue della ‘idolatria papista’
nel culto, presagio di quel rigurgito di violenza iconoclastica che sarebbe esploso durante il Commonwealth.
4
Ivi, p. 352.
The Admonition to the Parliament 1572, in W.H. FRERE (ed.), Puritan Manifestoes: a study of the origin of the Puritan revolt, London, SPCK, 1954, p. 5.
5
I sermoni di Lancelot Andrewes
369
Insieme al teatro, il pulpito fu infatti, tra cinque e seicento deputato alla diffusione non solo di dottrina, ma anche di propaganda, e
come il teatro fu sottoposto a severe misure di controllo governativo.
Sensibile alle passioni coeve, il pulpito rivelava quella stessa «anxiety about the relation of word and image»6 che percorre la letteratura rinascimentale inglese.
Nei sermoni di Andrewes, sembra essere indizio di conflittualità
fra parola e immagine la drastica eliminazione di effetti e ornamentazioni barocche, e nel contempo, la determinazione con cui la parola
si ‘spazializza’. Più di quelli di Donne, essi manifestano il logocentrismo della Chiesa Anglicana durante il regno di Giacomo I: il predicatore non parla agli occhi, ma li costringe invece a fissarsi sul Libro Sacro per intraprendere, partendo dalla Parola, un percorso intorno e all’interno di essa. Ne scaturisce quella che può definirsi una
“spatial form”, una modulazione, ossia, dell’espressione verbale che
impone la spazialità come elemento essenziale alla comunicazione.
La parola non racconta il mondo nel tempo, ma lo esplora nel proprio spazio; il mondo è nella parola, il mondo è parola e dalla parola
deriva, in senso etimologico, come un corso d’acqua deriva dalla
sorgente. La potenza della parola, Logos divino, ma anche espressione umana, per Andrewes è tale da invadere e asservire a sé trionfalmente la dimensione visiva.
2. Una ventina di anni fà W.J.T. Mitchell osservava:
The dialectic of word and image seems to be a constant in the fabric
of signs that a culture weaves around itself. What varies is the precise nature of the weave, the relation of warp and woof. The history
of culture is in part the story of a protracted struggle for dominance
between pictorial and linguistic signs.7
E la constatazione, ormai largamente condivisa, che «there is implicit in Western culture a deep seated tension between language and
visual representation, between the word and the image»8 ha riproposto all’attenzione di studiosi in diversi campi disciplinari il complesso fenomeno dell’iconoclastia rinascimentale. Se la tensione fra vista
6
Michael O’CONNELL, The Idolatrous Eye. Iconoclasm and Theater in EarlyModern England, New York Oxford, Oxford University Press, 2000, p. 5.
7
W.J.T. MITCHELL, Iconology: Image, Text, Ideology, Chicago, University of Chicago Press, 1986, p. 43.
8
O’CONNELL, The Idolatrous Eye, cit., p. 4.
370
Laura Sanna
e orecchio genera anche oggi partiti in vivace contrapposizione, l’
Europa rinascimentale la visse in modo cruento, e il crinale che spartì le nazioni di osservanza cattolico-romana da quelle che aderirono
alla Riforma è lo stesso che divise iconoclasti da iconoduli, le sontuose chiese barocche dalla nudità dei templi protestanti. In Spagna,
e in Italia, tra XVI e XVII secolo, come magistralmente illustrato da
Giuseppina Ledda,
immagini concrete, plastiche, di efficace verismo illusionistico, arricchiscono il tempio creando sublimi scenografie […] collocate secondo una sapiente dispositio tessono un discorso epidittico e deliberativo. I personaggi vengono colti nel movimento, con espressioni sublimate, sostanziate da accensione spirituale; l’enfatico movimento
dei manti e delle vesti, profondamente scavate ed agitate da un impercettibile vento, ben accompagna la actio delle braccia levate, imploranti, invitanti, creatrici di reciproche connessioni con le altre immagini e con il pubblico9.
Negli spazi abitati da simili ‘immagini eloquenti’, «il linguaggio
parlato riconosce e sfrutta le possibilità offerte da quello visivo, quello visivo può trarre ispirazione da quello parlato»10. Parola e immagine, di concerto, si offrono reciproco sostegno, e in alcuni casi «il supporto visivo si rende necessario al sermone che, senza un’analoga scena di fondo, pronunciato in altra sede, perderebbe la sua efficacia».11
Non così in Inghilterra nel corso dei cento anni che videro succedersi sul trono i tre figli di Enrico VIII e i primi due Stuart. Bandite
dagli spazi del sacro — abbattute dai jubé, scardinate dai piedestalli,
cancellate dalle pareti, frantumate insieme a vetrate e reliquari nelle
violente campagne iconoclastiche del 1538 e del 1547-48 — le immagini religiose sopravvissero soltanto nel privato di collezioni clandestine, mentre le rappresentazioni di soggetti laici trionfavano sulla
carta stampata. Nelle navate delle chiese, là dove una volta batteva su
affreschi e simulacri, la luce non filtrava più incanalata dal reticolo
di figure colorate nelle immense finestre ogivali, ma era indirizzata a
illuminare la grande Bibbia in lingua Inglese, di cui ogni parrocchia
doveva essere equipaggiata12, e testi scritturali, soprattutto la tavola
9
Giuseppina LEDDA, La parola e l’immagine. Strategie di persuasione religiosa
nella Spagna secentesca, Pisa, ETS, 2003, p. 33.
10
Ivi, p. 84.
11
Ivi, p. 86.
12
A seguito di una ingiunzione regale (1559) rivolta a «deans, archdeacons, par-
I sermoni di Lancelot Andrewes
371
dei comandamenti, erano impressi sulle pareti bianche di calce o
incisi su pannelli sospesi.13
La battaglia sulle immagini, pur con alterne fasi di virulenza, alimentò diatribe accademiche e sermoni14, ingiunzioni regali e pamphlet, e soprattutto, fu per la gente comune il segno più vistoso della
trasformazione radicale del sistema socio-politico. Il potere assicurò
il proprio pieno controllo sulle immagini, così come sul teatro, e
mentre ne decretava l’espulsione dalle chiese, ne usava invece ampiamente la forza persuasiva e il linguaggio simbolico nella ritrattistica — basti pensare alle innumerevoli celebrazioni della ‘regina
vergine’ — e nelle illustrazioni dei libri15, da cui rivolgeva ai lettori
discorsi fortemente ideologizzati.
Soffermandosi sulla violenta iconoclastia che caratterizzò la Riforma non solo in Inghilterra, ma in tutta Europa nei secoli XVI e XVII,
Michael O’Connell propone di considerarla come l’inevitabile esito di
sons and vicars, and all other ecclesiastical persons», nella quale l’articolo VI ordina:
«they shall provide within three months next after this visitation at the charge of the
parish, one book of the whole Bible of the largest volume in English; and within
one twelve months next after the said visitation, the Paraphrases of Erasmus also in
English upon the Gospel, and the same set up in some convenient place within the
said church that they have cure of; whereas their parishioners may most commodiously resort unto the same, and read the same, out of the time of common service»,
Henry GEE and W.H. HARDY, eds., Documents Illustrative of English Church History,
New York, Macmillan, 1896, p. 421.
13
Elisabetta suggeriva all’arcivescovo Parker che i comandamenti potessero essere
«comely set, or hung up in the east end of the chancel, to be not only read for edification, but also to give some comely ornament and demonstration, that the same is a
place of religion and prayer». Cit. in Margaret ASTON, England’s Iconoclasts, (1988)
Oxford, Oxford University Press, 2003, p.362.
14
Una Homily against Peril of Idolatry, probabilmente opera di Jewel, fa parte
del secondo volume di omelie elisabettiane, apparso nel 1563. E’ in assoluto la più
lunga delle 33 composizioni che costituiscono The Book of Homilies, considerato,
insieme agli articoli di fede, alla Bibbia in lingua inglese, e al Book of Common
Prayer una delle quattro colonne su cui venne eretta la Chiesa Anglicana.
15
In Actes and Monuments di Foxe l’edizione del 1563 ne presenta cinquanta,
nella sola seconda edizione divennero più di cento, e ogni edizione successiva ne
aggiunse ancora, insieme a storie nuove e diverse di martiri della chiesa riformata.
David Freedberg dà conto del ‘potere delle immagini’ riscontrandone la causa nella
«natura epifanica della rappresentazione» per cui «l’immagine dichiara e rende presente ciò che è assente»; il significante, ossia, viene percepito come significato e il
processo cognitivo, annullando la differenza fra i due, li fonde in una sorta di perturbante identità. The Power of Images. Studies in the History and Theory of Response,
Chicago, The University of Chicago Press, 1989; trad. it. Il potere delle Immagini,
Torino, Einaudi, 1993, p. 587.
372
Laura Sanna
un processo innescato da cause a tutta prima disparate e remote16. Fu
la concomitante pressione dell’umanesimo erasmiano e dell’invenzione della stampa, suggerisce lo studioso, a sconvolgere il tradizionale equilibrio fra parola e immagine nel sistema di conoscenze del mondo occidentale. Da Erasmo, che affermava la assoluta priorità della
Parola nella rivelazione cristiana17, alle assillanti richieste evangeliche
affinché i testi sacri venissero diffusi e commentati nelle lingue nazionali, all’invettiva di Latimer contro coloro che dal pulpito sostenevano che «more fruit, more dovotion cometh of the beholding of an
image, though it be but a Pater-noster while, than is gotten by reading
and contemplation in Scripture, though ye read and contemplate therein seven years space»18, corre un filo rosso che si innervava allora di
argomentazioni teologiche, ma che oggi è facile vedere corroborato
soprattutto dalla diffusione e facile reperibilità del libro a stampa. A
dire di Edward Muir, il potere dell’immagine
troubled the Protestant reformers who wonted to redirect attention to
the Word, thereby replacing sight as the privileged sense with hearing. In so doing, they hoped better to control the meaning imputed
to religious experiences: they could become the interpreters of Scripture through preaching.19
La parola aggredì e sbaragliò l’immagine quando cominciò a vedere in essa un pericoloso baluardo a difesa di un sistema epistemico
inconciliabile con il Nuovo Mondo che si voleva edificare.
A proposito degli iconoclasti Margaret Aston osserva:
It takes great spirit to destroy great things […] They regarded themselves, indeed, as having taken on a task comparable to the first conversion of the world. Unless we accept this as their premises, we
shall fail to grasp the essence of their destructive and constructive
works. […] The task the reformers set themselves was not to reedu16
O’CONNELL, The Idolatrous Eye, cit., pp. 9-10, 46-60.
«Qui quod pollicitus sese semper nobiscum fore usque ad consummationem
seculi, in his litteris precipue praestat, in quibus nobis etiamnum vivit, spirat, loquitur, pene dixerim, efficacius quam cum inter homines versaretur», Desiderius ERASMUS,
Paraclesis, in Opera Omnia, ed. Joannes Clericus, 6 vols, Leiden 1703-1706; reprint
Hildescheim, Georg Olms, 1961, vol. 5, p. 142.
18
Hugh LATIMER, Sermon ad clerum in 27 Sermons by Maister Hugh Latimer,
London, John Day, 1562.
19
Edward MUIR, Ritual in Early Modern Europe, Cambridge, Cambridge University Press, 1997, p. 193.
17
I sermoni di Lancelot Andrewes
373
cate, but to reconvert the world. What they were doing for England
seemed as momentous as the mission of St Augustine which had
first brought the English to the true faith.20
E come per i missionari cristiani sbarcati nel Kent mille anni prima,
la parola fu lo strumento potente di diffusione del nuovo credo evangelico. Il sermone divenne il fulcro della solenne liturgia eucaristica21
e, inevitabilmente, il punto su cui massimamente si concentrò, durante
il regno di Elisabetta, l’attenzione del potere politico. In età giacomiana,
poi, «the sermon, not shakespearean drama, and not even the Jonsonian masque — was the preeminent literary genre»22. Il sovrano, lui stesso un buon teologo, diede un forte impulso alla pratica del sermone e
il suo regno è stato definito «the alcyon days of a sermon-centred
Protestantism»23. Nei sermoni sono pertanto da cercare le tracce dei
più accesi conflitti non solo religiosi, ma politici e sociali del tempo.
3. In questi ultimi nostri decenni turbati da una rinnovata tensione
fra vista e udito24, in ambito anglosassone sembra essere rifiorito l’interesse nei confronti del sermone cinque-secentesco25, la forma d’espressione più ampiamente presente nell’editoria coeva e la più drasti20
ASTON, England’s Iconoclasts, cit., p. 9.
La collocazione del sermone all’interno del rituale venne stabilita nel Book of
Common Prayer del 1549 e mantenuta inalterata nelle successive rielaborazioni elisabettiane: «After the Crede ended, shall folowe the Sermon or Homely, or some portion of one of the Homelyes, as thei shalbe herafter devided: wherein if the people
bee not exhorted to the worthy receivyng of the holy Sacrament of the bodye and
bloude of our savior Christ: then shal the Curate geve this exhortacion, to those that
be minded to receive ye same».
22
Peter E. MCCULLOUGH, Sermons at Court. Politics and Religion in Elizabethan
and Jacobean Preaching, Cambridge, Cambridge University Press, 1998, p. 125.
23
Ivi, p. 2.
24
Gli studi di W.J. MITCHELL (oltre al già citato Iconology. Image, Text, Ideology,
ricordo la miscellanea The Language of Images, Chicago, The University of Chicago
Press, 1974; Picture Theory, Chicago and London, The University of Chicago Press,
1995) e del gruppo di ricercatori che insieme a lui lavora all’Università di Chicago
hanno in questi ultimi decenni rievocato la diatriba vista/udito sull’onda di una consapevolezza che pare generalmente condivisa di un prevalere oggi nella cultura occidentale del ‘pictorial turn’ sul ‘linguistic turn’. In Italia oltre agli studi d’avanguardia di
Giuseppina Ledda, credo sia fondamentale il contributo teorico di Cesare SEGRE, La
pelle di San Bartolomeo. Discorso e tempo dell’arte, Torino, Einaudi, 2003.
25
Per una disanima dello stato degli studi attuali sul sermone cinque-secentesco
rimando a Lori ANNE FERRELL e Peter MCCULLOUGH (eds.), The English Sermon Revised. Religion, Literature and History 1600-1750, Manchester & New York, Manchester University Press, 2000.
21
374
Laura Sanna
camente sottovalutata dalla critica letteraria nel secolo scorso. La
ricca messe di studi apparsi ha privilegiato problematiche legate alla
posizione dei sermoni nella storia della prosa inglese, aspetti squisitamente stilistici, e soprattutto la figura monumentale di John Donne.
Poco si è indagato sull’opera di altri grandi nomi dell’oratoria sacra
coeva e poco si è studiato un aspetto che meriterebbe maggiore attenzione, il rapporto, ossia, del sermone con la peculiarità del contesto spaziale in cui esso veniva predicato, una dimensione che gli
eventi della Riforma avevano trasformato radicalmente rispetto alla
tradizione medievale e alla prassi cattolica; una dimensione che oggi
è assai difficile ricostruire. Quattro secoli di storia non hanno cancellato solo i teatri di Southwark: le devastazioni della guerra civile, i
pesanti e arbitrari restauri dell’ età vittoriana, i bombardamenti tedeschi negli anni 1939-45, hanno distrutto o modificato radicalmente gli
edifici e gli spazi urbani di quella che era la Londra elisabettiana. La
scenografia che faceva da sfondo al sermone — che, peraltro, veniva
predicato non solo nelle chiese ma anche a corte e nelle università, e
non sempre in interni, ma anche in spazi aperti — è ormai svanita:
Paul’s Cross da cui parlava John Donne non c’è più, e St.Giles-withoutCripplegate, non è più la stessa in cui Lancelot Andrewes esercitava
il suo ministero; ed è scomparsa anche la reggia di Whitehall, la
residenza londinese preferita dai sovrani Tudor e Stuart, dove nella
‘rota’ quaresimale o per le grandi festività religiose venivano convocati i predicatori più famosi.
Un tentativo di ricostruzione (l’unico a me noto) per quanto riguarda gli ambienti di corte nei quali si tenevano i sermoni —le cappelle
dei palazzi reali e il cosiddetto ‘Preaching Place’ all’aperto, nei giardini di Whitehall — è stato abilmente compiuto da Peter E. McCullough26, che ha anche posto in rilievo il linguaggio simbolico e il
potente apparato persuasivo che strutturava tali spazi. Se, da una parte,
infatti, il sermone in età Tudor e Stuart si avvalse e continuò nella
linea della tradizione medievale, dall’altra il rapporto diverso che lo
Scisma della Chiesa Anglicana aveva instaurato fra potere politico e
religioso impose una serie di innovazioni architettoniche che modificarono insieme al contenuto dei sermoni, l’antico assetto del pulpito.
Essendo ora il Sovrano a capo della Chiesa, nello spazio del sacro gli
era assegnata una posizione privilegiata e simbolicamente pregnante.
26
Il primo capitolo del qui già citato Sermons at Court è dedicato a “Architectural settings of Elizabethan and Jacobean court preaching” (pp. 11-49).
I sermoni di Lancelot Andrewes
375
Il Sovrano assisteva alle funzioni religiose e ascoltava i sermoni
dall’alto del ‘Royal Closet’, una sorta di balcone che si affacciava sul
lato occidentale della cappella reale, o su un’area del giardino di Whitehall allestita in tarda età enriciana come “preaching place”27. La posizione elevata gli permetteva di ribadire visivamente la preminenza
e insieme la solitudine del proprio ruolo, giacché «the sovereign was a
kind of present absence, a hovering, presiding genius, removed but
more keenly felt because of that removal»28. E nell’elaborato tessuto
di cerimonialità delle funzioni religiose «the chapels royal distilled
perfectly the theory that religious and political, ecclesiastical and civil
were not only joined, but inseparable. This theory depended upon the
acceptance of precisely the hierarchy that the chapel interior structurally and iconographically declared».29
Nelle cappelle reali (e nelle chiese in genere, ogniqualvolta la presenza del sovrano esigeva l’adeguazione dello spazio ai dettami del
cerimoniale) il cosiddetto “King’s Closet” sovrastava il pulpito imponendo la propria simbolica egemonia non solo sul pubblico ma anche
sul predicatore. Tuttavia, l’imponenza e la posizione del pulpito segnalava sempre e comunque nelle chiese l’enfasi che la Riforma assegnava alla Parola.
Documentata in alcune incisioni coeve e nei pochi edifici sopravvissuti oggi nell’assetto elisabettiano, la disposizione degli spazi nelle
chiese distingueva aree non più contrassegnate dall’ antitesi presbiterio/navata, il primo nelle liturgie medievali riservato ai religiosi, e il
secondo soltanto permesso ai laici. Smantellati altari e jubé, esse si
connotavano per i sacramenti che vi erano amministrati30, Battesimo,
Eucaristia e Parola. Lo fa evidente, nel 1570, una incisione del celebre
27
La descrive un viaggiatore tedesco, Lupold VON WEDEL, Beschreibung seiner
Reisen und Kriegserlebnisse, 1561-1606. La traduzione inglese della parte del viaggio relativa all’Inghilterra, ad opera di Gottfried VON BULOW, intitolata Journey
Through England and Scotland in the Years 1584 and 1585, fu pubblicata in Transactions of the Royal Historical Society, New Series IX, 1895, pp. 223-270.
28
MCCULLOUGH, Sermons at Court, cit., p. 21.
29
Ivi, p. 40.
30
Con una ordinanza del Privy Council al vescovo di Londra, il 2 novembre 1550,
si imponeva «for the avoiding of all matters of further contention and strife […] the
said altars in every church or chapel, as well in places exempted as not exempted
within your said diocese to be taken down, and instead of them a table to be set up
in some convenient part of the chancel within every such church or chapel to serve
for the ministration of the blessed communion». Order to Take down Altars, in David
WILKINS (ed.), Concilia Magnae Britanniae et Hiberniae, 4 vol., London 1737, vol.
IV, pp. 65-66.
376
Laura Sanna
libro di Foxe, Actes and Monuments31, il cui messaggio, pur silenzioso, è chiaro: per ordine del sovrano-fanciullo, novello Giosia, la Parola viene dal libro trasmessa ai fedeli in un edificio purificato dagli
allettamenti ‘papisti’ di ori e colori e forme seducenti — ori e colori
e forme seducenti che, a dire dei riformatori, avevano profanato le
chiese «with heathenish and jewish abuses […] to make a goodly
outward shew and to deface the plain, simple, and sincere religion of
Christ»32. E, nelle grandiose cattedrali come nelle piccole chiese parrocchiali, gli occhi dei fedeli che non potevano più nutrirsi e dilettarsi di immagini dipinte o scolpite, si concentravano ormai sul pulpito,
che, soppiantando l’altare, era il centro focale delle cerimonie di culto. La voce del predicatore, come quella dell’attore nell’altrettanto spoglia scenografia del palcoscenico elisabettiano, si incaricava di condurre il pubblico oltre lo spazio e il tempo del quotidiano, in una dimensione di conoscenza e di esperienza ‘altra’, una dimensione tutta
interiore in cui — e soltanto in essa — si poteva attingere la verità della
Parola rivelata. Mondata dalle concrezioni ‘idolatriche’ della chiesa di
Roma, la giovane Chiesa Anglicana si affidava alla potenza della parola, su di essa giocava la propria capacità di affermazione e di so31
A pagina 1483 dell’edizione del 1570, sotto il titolo che introduce il libro nono,
dedicato a “Actes and thynges done in the reigne of kyng Edward the 6”, appare una
illustrazione glossata come «King Edward deliuering the Bible to the Prelates». Nella
parte inferiore due interni: a sinistra una sala a corte dove assiso su un trono sotto un
imponente baldacchino, il giovane sovrano, circondato da una corona di dignitari,
affida a un alto prelato in ginocchio davanti a lui un libro; a destra un interno di chiesa in cui una folla di fedeli si assiepa sotto il pulpito da cui parla un predicatore,
mentre alle loro spalle sono rappresentati ‘the communion table’ e il fonte battesimale, negli spazi destinati ai soli sacramenti riconosciuti dalle confessioni riformate. La
parte superiore dell’incisione mostra invece uno spiazzo in riva al mare. Dalla porta
spalancata di un grande edificio, escono uomini carichi di pesanti sacchi, ecclesiastici
che reggono ostensori, pastorali, incensieri e altre paraphernalia del cerimoniale cattolico, avviandosi verso un barcone, ancorato a riva - «the ship of the Romish Church»;
da una nicchia viene abbattuta una statua, e un enorme falò è attizzato a consumare
croci e immagini accatastate da volenterosi fuochisti. Un cartiglio esorta «Shippe your
trinketts and be packing ye papistes», un altro descrive «The Papistes packyng away
their paultrye», un terzo sovrasta l’edificio sottostante – «The Temple well purged».
32
“Homily on the Place and Time of Prayer” in Certaine Sermons appoynted by
the Quenes Maiesty, to be declared and read, by al Curates, eueri Sunday and holi day,
in theirParsone, Vicars, Churches: And by her Graces aduise perused and ouer-sene,
Richard Iugge, and Iohn Cawood, London, 1563. La stessa omelia registra la colorata protesta di una popolana «Alas gossip, what shall wee now doe at Church,
since all the Saints are taken away, since all goodly sights we were wont to haue,
are gone, since wee cannot heare the like piping, singing, chaunting, and playing vp
on the organs that we could before».
I sermoni di Lancelot Andrewes
377
pravvivenza. Fu la parola di sanguigni predicatori come Latimer o
Lever o Hooper durante i regni di Enrico VIII e Edoardo VI, e poi, dopo
il breve intervallo di restaurazione cattolica e di roghi mariani, quella dei grandi maestri di oratoria sacra a costruire e radicare una ‘religione dell’orecchio’33, che rimpiazzasse con la propria arte sagace l’
opulenza visiva delle cerimonie romane.
4. Andrewes non condivise la furia iconoclasta dei Puritani, né la
focalizzazione esclusiva della prassi religiosa sul sermone a scapito
della preghiera personale e dei sacramenti, e fu anzi un appassionato
anticalvinista (ma anche fustigatore dell’ usanza cortigiana - e regale –
di limitare all’ascolto dell’omelia la partecipazione alle cerimonie liturgiche34) nel denunciare il suo tempo in cui «hearing of the word is
growen into such request, as it hath got the start of all the rest of the
parts of God’s service»35; un tempo in cui, ammoniva, nella lotta senza quartiere contro la chiesa di Dio, «seeing idolatrous images would
down, he [diabolus] bent his whole device in place of them to erect
and set up divers imaginations, that the people instead of the former
might bow down to these and worship them”36. Accostamento polemico, dunque, nel suo pensiero, fra “images” e “imaginations”, queste
ultime ancora più pericolose delle prime per il credente perché capaci di sedurre a forme raffinate e subdole di errore, temibili quanto le
superstizioni combattute dalla Riforma. Se il Tempio era libero dalle
concrezioni idolatriche del cattolicesimo romano, altrettanto fermamente andava purgata e difesa la Parola da quelle che egli stigmatizzava come le fantasticherie incontrollate del puritanesimo più aggressivo. E così Andrewes diagnosticava con preoccupazione, già nel 1592,
«the disease of our age», deplorando «that there hath been good rid33
«The Reformation erected a ‘religion of the ear’ to supplement the Roman liturgies of the past with an evangelical logocentrism fuelled simultaneously - indeed,
symbiotically - by pulpit and press”. FERRELL and MCCULLOUGH, The English Sermon Revised, cit., p. 10.
34
«This way is our age affected, now is the world of sermons. For proof whereof,
as if all godliness were in hearing of sermons, take this very place, the house of God,
which now you see meetly well replenished; come at any other parts of the service of
God (parts, I say, of the service of God no less than this) you shall find it in a manner
desolate» “Sermon preached before the King’s Majesty at Greenwich, A.D. MDCVII”
in Lancelot ANDREWES, Works, Eds. J.P. Wilson and J. Bliss, Library of AngloCatholic Theology, 11 vols., Oxford, J.H.Parker, 1841- 1854, vol. V, p. 186.
35
Ibidem.
36
«Sermon Preached in the Parish Church of St.Giles, Cripplegate, on the 9th of
January, A.D. MDXCII», in ANDREWS, Works, cit., vol. V, p. 55.
378
Laura Sanna
dance made of images, but for imaginations, they be daily stamped in
great number, and instead of old images set up, deified and worshipped,
carrying the names and credit of ‘the Apostles’ doctrine’ governmente,
&».37
Il metodo da lui prescelto a combattere false e nefaste “imaginations” consiste in una drastica riduzione della parola a se stessa. Se
non era pensabile alcun ricupero delle immagini nelle chiese38, con
altrettanta fermezza si doveva preservare la Parola di Dio da annessioni spurie. L’edificazione della chiesa e la salvezza personale imponevano che gli occhi dei fedeli non si volgessero a raffigurazioni
pittoriche o plastiche di Dio e dei Santi (giustificate invece dall’aforisma cattolico romano, aborrito dalle chiese riformate, “invisibilia
per visibilia”), e che non venissero altresì sviati nel labirinto di ‘imaginations’ sediziose. La parola predicata doveva guidare verso, e attraverso, la Parola scritta, la Bibbia, il Libro per eccellenza39, dal quale i
sermoni di Andrewes prendono sempre avvio e al quale sempre rimandano. L’universo di pensiero e di fede di Andrewes è centripeto e tutto
attira e riconduce alla Scrittura: parola, e parola soltanto, dunque.
La struttura dei suoi sermoni si incardina sulla precettistica delle
‘artes praedicandi’. Egli rispetta, infatti, pur con qualche aggiustamento, la scansione tripartita dell’oratoria sacra tardo medievale e
rinascimentale: a un tema proposto (e talvolta preceduto da quello che
veniva chiamato ante- o pro-theme, una sorta di introduzione all’ascolto) nella forma di un brano tratto dalla Scrittura40, fa seguito la
divisio (o partitio come preferiva chiamarla), nelle sue varie parti meticolosamente segnalate all’attenzione dell’ascoltatore, e infine la
conclusione che è una preghiera o un’esortazione41. Raramente la di37
Ibidem.
Il sesto dei Thirty-nine Articles of Religion promulgati nel 1562 con l’approvazione della regina Elisabetta, recita: «Holy Scripture containeth all things
necessary to salvation: so that whatsoever is not read therein, nor may be proved
thereby, is not to be required of any man, that it should be believed as an article of
the Faith, or be thought requisite or necessary to salvation».
39
Come illustrato in diverse incisioni di Acts and Monuments, nelle quali il devoto ascoltatore dei sermoni ha fra le mani un libro a differenza del ‘papista’ che
sgrana rosari.
40
Sulla struttura del sermone in età tardo medievale si veda Marianne BRISCOE,
«Artes Prædicandi» in Marianne BRISCOE, Barbara H. HAYE, Artes Prædicandi, Artes
Orandi, Typologie des sources du Moyen Âge Occidental, Turnhout, Brepols, 1992.
41
Sulle caratteristiche strutturali dei sermoni di Andrewes ha scritto David A.
DE SILVA, «‘The Feast in the Text’. Lancelot Andrewes on the Task and Art of Preaching», Anglican Theological Review, 76:1 (Winter 1994), pp. 9-26. Si veda inoltre
38
I sermoni di Lancelot Andrewes
379
mensione del brano scritturale prescelto supera i due-tre versetti42.
Nella sua stringatezza, esso tuttavia diventa chiave di volta in una
imponente costruzione (in media sulle otto-diecimila parole) eretta dal
suo immenso sapere teologico, scritturale, linguistico. Ne tratteggio
rapidamente alcuni aspetti caratteristici.
In apertura e chiusura del sermone, e solo in tali settori, possono
talvolta apparire allusioni al contesto enunciativo. Si tratta di asserzioni43 che permettono di intravedere gli elementi costitutivi della
situazione di enunciazione: il locutore, l’allocutore, il tempo, il luogo.
Più raramente sono concesse informazioni sull’autore del branotema44. Sempre e comunque le coordinate deittiche mirano a far convergere l’attenzione dell’ascoltatore sul brano scritturale scelto: definiscono il testo45 o lo classificano in quanto genere letterario46. Ancora
più spesso si enfatizza la congruità del testo scelto alla celebrazione
liturgica in atto — di cui il sermone è parte — sì che irrompe nel qui-edora della situazione enunciativa il tempo sacralizzato della festa, quel
tempo-spazio in cui presente passato e futuro sono come disposti
sullo stesso piano, in un certo senso sono ‘sincronici’47. Non c’è iato
fra il presente, in cui predicatore e fedeli si radunano in assemblea
liturgica, e il passato dell’evento che essi celebrano: «And even bePeter MC CULLOUGH, (ed.), Lancelot Andrewes. Selected Essays, Oxford, Oxford
University Press, 2005; Introduction, pp. xxxi-xxxiv.
42
I sermoni che presentano il tema più lungo sono quello su Ger. VIII:4-7 (Ash
Wednesday 1602), su Mc. XVI:1-7 (Easter 1608), su At. II:16-21 (Whit-Sunday 1618)
e Gv. XX:11-17 (Easter 1620).
43
«I have here read you two verses out of this Psalm», Christmas 1616; «[…]
Seven verses I have read ye», Easter 1608; «[…] This I have read you was His text»,
Whit-Sunday 1617; «Among divers and sundry commissions granted in the Law for
the benefit and better order of God’s people, this which I have read is one», Christmas 1606.
44
«The words are out of Esay; and if we had not heard his name, might well
have been thought out of one of the Evangelists, as more like a story than a prophecy», Christmas 1606.
45
«this commandment», Upon the Third Commandment, 1592; «a commission»,
At Whitehall, 1600; «a calendar or roll of reports», Ash Wednesday 1598; «a remembrance», Lent 1596; «a promise», Whit-Sunday 1610; «this request, or counsel, or caution, or precept», Whit-Sunday 1613.
46
«sermon», Christmas 1618; «Christ’s first sermon», Whit Sunday 1617; «a sermon preached as this day», Whit Sunday 1618; «a Gospel, that is a message of good
tidings», Easter 1608; «the interview of Christ and His Disciples», Easter 1609; «a
benedictus», Easter 1616.
47
A.Ja. GUREVIý, Le categorie della cultura medievale (1972) Torino, Einaudi,
1983, p. 32.
380
Laura Sanna
cause this day He took not the angels’ nature upon him, but took our
nature in ‘the seed of Abraham’, therefore hold we this day as a high
feast» (Christmas 1605; corsivo mio). E’ un unico giorno — ed è this
day, un oggi — che salda l’azione situata dal verbo nel passato — He
took - al presente dell’enunciazione: hold we this day 48.
Assenti riferimenti al luogo in cui si tiene il sermone, che diventa
un generico “here”: lo spazio in cui si predica è irrilevante, ciò che lo
qualifica è l’assemblea «a holy assembly» (Christmas 1605) e di essa
il locutore si sente parte. Ripetutamente egli vi si assimila, come ad
un corpo vivente, attraverso l’uso della prima persona plurale: «for
this cause are we now here, to celebrate this exalting» (Easter 1614);
«We are this day, beside our weekly due of the Sabbath, to renew and
to celebrate the yearly memory» (Whit-Sunday 1606). Solo in casi
sporadici l’assemblea viene più specificatamente connotata, e solo
quando l’occasione del sermone è eccezionale49. Non un riferimento,
non una allusione a peculiarità architettoniche o ad arredi sacri. Ripeto: lo spazio che fa da sfondo al sermone è del tutto indifferente al
predicatore il quale in esso vede soltanto the holy assembly che vi si
riunisce. Un solo tempo, un solo spazio: la parola salda i singoli
componenti l’assemblea in un unico corpo vivente.
Locutore-allocutore, tempo, luogo: se in apertura si fa cenno agli
elementi del contesto, il sermone diventa poi esclusivamente esposizione, presenta, ossia, all’ascoltatore-lettore la minuziosa tessitura di
48
Si veda ancora: «There is a word in this text, and it is hodie, by virtue whereof
this day may seem to challenge a special property in this text, and this text in this
day. Christ was born, is true any day; but this day Christ was born, never but to-day
only», Christmas 1610.
49
Così succede per il sermone del 10 aprile 1588, dal pulpito all’aperto di St.
Mary’s Spital, dove tradizionalmente si predicava il mercoledì di Pasqua alla presenza dei maggiorenti della city e talvolta di illustri ospiti. La scelta del tema da 1
Tm. 6, 17-19 -«Charge them that are rich…»- viene giustificata da Andrewes in apertura del suo discorso con un elegante sillogismo: «if this be the Scripture for rich
men, this place is the place of rich men; and therefore, if this Scripture have his place,
no where so fitt as in this place». E la metonimia trasforma l’assemblea di potenti
riunita intorno al pulpito in uno spazio speciale: «For no where is there such store of
riches by the ‘harvest of the water’, which farre surpasseth the harvest of the ground;
no where are the like summes sealed, no where doe they ‘suck the abundance of the
sea and the treasures hid in the sand’ in like measures; nowhere are the merchants
noblemen’s fellowes, and able to lend the Princes of the earth, so much as heere».
Anche il sermone pronunciato in occasione dell’apertura del Parlamento nel 1621
presenta una sottolineatura della composizione peculiare del pubblico: «‘God standeth in the congregation of Princes’. Of a congregation of Princes is this Psalm, as
you have heard. And behold here such a congregation, and God, I trust, standing in it».
I sermoni di Lancelot Andrewes
381
significati del, o meglio nel brano proposto. Nessuna concessione agli
exempla che troviamo incastonati ancora nei sermoni di Latimer, né
alle divagazioni di tipo moralistico del sermone puritano: tutto si concentra sulla parola che costituisce il brano-tema. Ogni seppur minima
particella di esso ha un valore, è un segno, e come tale viene analizzata. Andrewes attinge all’insegnamento del maestro di oratoria sacra,
Agostino, sia la nozione “verba signa esse”, che quella della relazione
fra parola parlata e parola scritta (“illa audibilia sunt, haec visibilia”50),
rispettivamente segno e segno di segno. Nella parola scritta la vista
capta voci lontane nel tempo e nello spazio per trasmetterle all’ animo:
«Quid enim aliud litterae scriptae quam seipsas oculis, praeter se voces animo ostendunt?»51.
Il sermone, pertanto, attiva vista e udito in sinergia, e tuttavia non
ricorre, come nella prassi cattolica, ai codici contrapposti delle arti
visive e di parola, ma piuttosto spazializza la parola. Andrewes parla
portando la parola alla vista. Infatti, su ogni singolo elemento del branotema, evidenziato agli occhi dell’ascoltatore mediante tecniche retoriche di straniamento, si concentra l’immenso patrimonio del suo sapere, e ne deduce un complesso intreccio sinaptico di relazioni: linguistiche, logiche, grammaticali, letterarie. Come attraverso una lente d’
ingrandimento (in quegli stessi anni in cui Andrewes parlava dal pulpito, Galileo dirigeva le proprie lenti a esplorare i corpi celesti) emergono dal brano le trame, invisibili altrimenti, di un tessuto elaborato.
Ciò che vede la vista esteriore o fisica è un intreccio di segni verbali
nel libro. Ma passando per essi, come da una soglia, si penetra nell’universo di sapere rivelato. Il sermone diventa una sorta di estesa sinestesia in cui vista e udito si confondono, l’una attivata nell’altro, e l’una attivante l’altro, nella consapevolezza, ereditata dalla tradizione medievale, che «Erys muste haue Eyën clere/Taparceyvë, in thys matere».52
5. In tre sermoni in particolare la sinestesia vista-udito sembra
tematizzata e il percorso argomentativo si snoda tutto, caparbiamente,
fra i due poli dell’udire-vedere. Sono i sermoni del Venerdì Santo
degli anni 1597, 1604, 160553, una trilogia, o meglio, un trittico che fo50
AGOSTINO, De magistro, 2, 3; 4, 8. In AGOSTINO, Il maestro e la parola, ed.
Maria Bettetini, Milano, Rusconi, 1993, pp. 12, 22.
51
De dialectica, 5, in AGOSTINO, Il maestro e la parola, cit., p. 92.
52
John LYDGATE, The Pilgrimage of the Life of Man, (1426), ed. F.J. Furnivall,
With introduction, notes, glossary and indexes by Katharine B. Locock.
53
Tra il 1590 e il 1602 per 20 volte appare il nome di Andrewes nell’elenco di
382
Laura Sanna
calizza da diverse angolature uno stesso oggetto, impegnandosi non
tanto, o non soltanto a interpretarne il messaggio, ma soprattutto ad
analizzare il meccanismo empatico che l’oggetto suscita. Ne deriva
una sorta di compendio, non dottrinale ma metodologico, sul rapporto vista/parola.
I brani-tema sono rispettivamente prescelti da Zc. 12: 10 «And they
will look upon Me Whom they have pierced»; da Lam. 1:12 «Is it nothing to you, all ye that pass by? Behold and see if there be any sorrow
like unto my sorrow, which is done unto Me, wherewith the Lord hath
afflicted Me in the day of His fierce anger»; da Eb. 12:2 «Looking unto
Jesus, the Author and Finisher of our faith; Who, for the joy that was
set before Him, endured the cross, despising the shame, and is set
down at the right hand of the throne of God».
Al centro di ognuno il Crocifisso, non quello visibile nella solida
realtà materiale di un’immagine dipinta o scolpita, ma quello presente nella realtà verbale di testi ad esso riferiti. Andrewes non ‘dipinge’ con le parole, ma parole, non ecphrasis di oggetti, ma di discorsi.
Sono le singole unità linguistiche — lessemi, sintagmi, proposizioni —
ad acquistare presenza corporea: teatralizzate da un “behold”, o da un
implicito “ecce”54, si materializzano alla vista dell’ascoltatore, diventano “spettacolo”, nel doppio significato di oggetto di visione ma
anche strumento di visione.55
Non è forse troppo azzardare che l’enfasi sull’immagine verbalizzata del Crocifisso richiami, nel primo sermone, quello predicato a
corte nel 1597, la controversa questione del crocifisso che Elisabetta
si ostinava a preservare nella Cappella Reale a Whitehall56. L’assempredicatori convocati a corte dalla regina. I due sermoni del Venerdì Santo 1604 e
1605 sono invece i primi due sermoni che Andrewes pronunciò davanti al nuovo
sovrano Giacomo I. «During the twenty-two years of James’s reign, Andrewes preached or prepared seventeen surviving court sermons for Christmas, eight for Ash
Wednesday, six for Lent, three for Good Friday, nineteen for Easter, fifteen for Whitsunday, and nineteen for the Gowry and Gunpowder Anniversaries», in MCCULLOUGH,
Sermons at Court, cit., n. 180, p. 147.
54
Perché: «Ecce hath two powers. 1. One for the ear, to awake it to something
more than ordinary. 2. Another for the eye, to direct it by pointing to some certainty» (Christmas 1614).
55
Il termine “spectacle” appare, con tale doppia valenza, in quattordici occorrenze nei tre sermoni citati.
56
Il problema sollevato dal comportamento della regina, stigmatizzato ripetutamente dai puritani, fu ampiamente discusso nelle relazioni dei diplomatici stranieri. Nel 1565 l’ambasciatore spagnolo De Silva riferiva con evidente piacere la disgrazia in cui era incorso il Dean of St Paul’s, Alexander Nowell, che, predicando a
I sermoni di Lancelot Andrewes
383
blea, di cui pur dall’alto del ‘Royal Closet’, la ormai anziana regina
era parte, veniva da Andrewes chiamata a fissare lo sguardo non su
un oggetto materiale, ma sulle pagine del libro, nelle quali, e soltanto
in esse, è presente e visibile il crocifisso. La lezione sottintesa, rivolta
sia alla regina che agli ostili denigratori del suo crocifisso d’argento,
riguarda il valore dell’immagine in quanto, come per Agostino, segno.57
Il percorso delle argomentazioni porta da “hearing” a “sight”. In
apertura, le parole del brano-tema sono recepite ed esibite in un contesto di oralità. Il richiamo a un testo scritturale altro (At.8. 26-40) suggerisce il modello cui l’assemblea è invitata a rapportarsi. Assimilandosi al devoto Eunuco di Atti, essa deve ravvisarsi in una situazione di lettura che evolve in dialogo. Il testo che viene letto (Isaia in
Atti, Zaccaria nel sermone) suscita interrogativi, stimola al dialogo, e
come nel dialogo fra l’Eunuco e Filippo, al testo profetico risponde,
interpretandolo, un testo evangelico (il ‘kerygma’ apostolico in Atti,
Giovanni nel sermone) cui si affiancano altri passi biblici a corroborarlo. Il sistema di conoscenze attivato fa perno sulla concezione figurale delle Scritture: la parola del Nuovo Testamento si spiega con l’
Antico, e l’Antico trova la sua pienezza nel Nuovo. Il predicatore é,
così, spola che tesse connessioni fra luoghi scritturali apparentemente lontani e annoda di quando in quando in un’immagine i fili diversi
dell’ordito. Per esempio, a chiudere la parte introduttiva del sermone, inserisce quella del “cervo mattutino” (dal Sal. 22) in cui condensa il discorso in allegoria: Cristo crocifisso è il cervo che la ferocia del
Whitehall il Mercoledì delle Ceneri si permise un’allusione diretta al Crocifisso
presente nella Cappella, e venne aspramente interrotto da Elisabetta con un imperioso «Do not talk about that», ribadito da un ancora più alto ed esplicito «Leave
that, it has nothing to do with your subject, and the matter is now threadbare». Calendar of State Papers, PS 1558-1567, 405.
57
Non è forse neppure improprio pensare che anche i sermoni del 1604 e del 1605
volessero implicitamente ribadire al nuovo sovrano la stessa lezione di equilibrato
distacco dalla polemica sulle immagini. Bisogna infatti ricordare che tra il 14 e il 18
gennaio, quindi neanche tre mesi prima del Venerdì Santo 1604, si era tenuta a
Hampton Court la Conferenza cui erano stati convocati davanti al sovrano e al suo
Privy Council i vescovi della chiesa anglicana e i rappresentanti della confessione
puritana per discutere le richieste della cosiddetta Millenary Petition. Il primo dei
quattro punti in oggetto, relativo alla liturgia (“Church service”) chiedeva l’abolizione
del segno della croce: «that the cross in baptism, interrogatories ministered to infants,
confirmation, as superfluous, may be taken away». Andrewes, in qualità di Dean of
Westminster, aveva preso parte all’evento e conosceva pertanto molto bene le posizioni dei due partiti che si contrapponevano, quello dei vescovi e del sovrano, e quello
dei più accesi puritani.
384
Laura Sanna
peccato insegue sin dalla nascita. L’immagine, circolarmente, chiude
una sezione argomentativa e la successiva riconduce al brano-tema, e
al verbo chiave in esso, “look on/upon”: «There is no part of the whole
corse of our Saviour Christ’s life or death but it is well worthy our
looking on». La sequenza configurata (parola scritta-oralità-immagine)
ritorna in tutto il sermone: parola scritta-vista e parola letta-parlata
trascolorano di continuo l’una nell’altra e culminano sinteticamente
in un’immagine. Enucleo ad esempio un breve paragrafo, evidenziando i termini relativi a udito e vista.
That though on other days we employ our eyes otherwise, this day at
least we fix them on this object, ‘respicientes in eum’. This day, I say,
which is dedicated to no other end, but even to lift up the Son of
Man, as Moses did the serpent in the wilderness, that we may look
upon him and live; when every Scripture that is read sounds nothing
but this unto us; when by the office of preaching Jesus Christ is
lively described in our sight, and as the Apostle speaketh, is ‘visibly
crucified among us’, when in the memorial of the Holy Sacrament
‘His death is shewed forth until he come’ and the mystery of this
piercing so many ways so effectually represented before us. (p. 119)
Nel tempo della sacra celebrazione di cui il sermone è parte, gli
occhi (“our eyes”), che nel tempo altro della quotidianità possono sviarsi altrove (“otherwise”), sono chiamati a fissarsi su un unico oggetto
(“this object”), Cristo crocifisso. E’ il fine ultimo del discorso e dell’
azione liturgica nel suo complesso, quest’ultima costituita di parole
lette (“every Scripture that is read”), ascoltate (“the office of preaching”), agite nel mistero del sacramento eucaristico; in esse uno stesso oggetto, il crocifisso, appunto, si presenta (“is shewed forth”) e rappresenta (“[is]represented”). Ancora una volta, come nel caso del ‘cervo mattutino’, un’immagine biblica, tratta ora da Num. 21,8, fonde
vista e udito in percezione simultanea del messaggio: sulla croce è
innalzato «the Son of Man, as Moses did the serpent in the wilderness,
that we may look upon him and live». Il sincretismo di vista e udito
viene ribadito in sinestesia: la predicazione non è altro che Cristo crocifisso «lively described in our sight» e la liturgia eucaristica è Cristo
«visibly crucified among us». La formula che propone il movimento
dall’ascolto alla visione — o forse meglio l’ascolto per la visione —
per ritornare poi all’ascolto, come in questo passo, costruisce tutto il
sermone.
I sermoni di Lancelot Andrewes
385
Lo stesso iter si ripete nel sermone del 1604. Si tratta del primo
sermone predicato da Andrewes davanti al nuovo sovrano, il sovrano
che lo predilesse e ne promosse una sfolgorante carriera ecclesiastica
nominandolo vescovo di Chichester nel 1605, Elemosiniere Reale,
vescovo di Winchester e Decano della Cappella Reale nel 161858. Indubbiamente, data la circostanza, esso dovette esigere speciale attenzione, e da parte dell’ autore, al momento della sua preparazione, e
da parte di Giacomo che era un esperto estimatore e giudice dei suoi
predicatori. Infatti è considerato «in literary terms […] one of Andrewes’s best. […] In its verbal artistry, its word-painting, its involvement of the auditory as characters in a drama of salvation […] [it]
was distinct from anything preached at court by contemporary English preachers, and was no doubt unlike anything James had ever heard
in Scotland».59
Anche qui, come nel sermone del 1597, si parte da una situazione
di ascolto, questa volta in modo esplicito quella dell’assemblea. Le
prime parole rimandano infatti anaforicamente al brano-tema: «at the
very reading or hearing of which verse there is none but will presently conceive, it is the voice of a party in great extremity». Letta e
ascoltata, si punta innanzi tutto a identificarla, questa «voice of a party
in great extremity», tramite argomentazioni di tipo figurale: è la voce di
Cristo. Poi l’attenzione si sposta sul messaggio lanciato da quella voce:
Here is a complaint, and here is a request. A complaint that we have
not, a request that we would not have the pains and passions of our
Saviour Christ in some regard. For first He complaineth, and not
without cause, ‘Have you not regard?’ And then […] He falleth to entreat, ‘O consider and behold!’ And what is that we should consider?
The sorrow which He suffereth, and in it two things: the quality, and
the cause. 1. the quality, ‘Si fuerit sicut’ […] 2. the cause, that is God
[…] all which serve to ripen us to regard. These two then especially
we are moved to regard. Regard is the main point. But because therefore we regard but faintly, because either we consider not, or not
58
Il gradimento del sermone da parte del re è segnalato dalla pubblicazione a
stampa da lui voluta e ordinata alla stamperia reale (The Copie of the Sermon Preached on Good Friday, London, R. Barker, 1604). Tra il 1604 e il 1618 ne apparvero sei
edizioni in quarto, che ne fecero il sermone più ampiamente letto dell’età giacomiana.
59
MCCULLOUGH, Sermons at Court, cit., pp. 149-150. «James liked sermons more
than his predecessors: Elizabeth had tolerated them, James revelled in them […]
James’s interest in his preachers’ performances was not just religious dilettantism.
In addition to listening passively to sermons, he could actively deploy court preaching, even court sermon series, for political ends». Ivi, pp. 126, 127.
386
Laura Sanna
aright, we are called to consider seriously of them. As if he should
say, Regard you not? If you did consider, you would; if you considered
as you should, you would regard as you ought. (p. 139; corsivi miei).
I sostantivi “complaint” e “request” (e i loro correlativi verbali) intendono fermare l’attenzione dell’ascoltatore —“consider”— affinché
egli possa finalmente vedere —“behold”— e non solo vedere, ma inchiodare uno sguardo indagatore su «the sorrow which He suffereth,
and in it two things, the quality and the cause». E’notificata all’ascoltatore la parola chiave di tutto il sermone: «regard is the main point».
Il guardare dovrà infatti essere pensoso, un considerare che implica
non solo la percezione dell’ occhio corporeo, ma anche di quello della
mente, chiamati entrambi a scoprire la pregnanza di senso insita sia
nell’oggetto che reclama attenzione (“regard”) che nell’atto richiesto
(“to regard”). Perché in tale azione, “to regard”, si sommano il vedere
(“to look upon, to gaze”), ma anche il curarsi di (“to have care of”) e
di conseguenza il valutare (“to take notice of a thing as being of special value”), il coinvolgersi praticamente ed emotivamente (“to take
into account in regulating one’s actions”, “to look upon with some
feeling”), il con-patire (“to be concerned”)60.
Ascoltare per ri-guardare, percepire, recepire, con-prendere, conpatire, dunque. Come spesso accade nei sermoni di Andrewes, la conclusione è un richiamo alla sfera affettiva:
Truly, this so passionate a complaint may move us, it moved all but
us; for most strange of all it is, that all creatures in Heaven and earth
seemed to hear this, His mournful complaint, and in their kind to shew
their regard of it. The sun in Heaven shrinking in his light, the earth
trembling under it, the very stones cleaving in sunder, as they had
sense and sympathy of it, and sinful men only not moved with it.
And yet it was not for the creatures this was done to Him, to them it
pertaineth not; but for us it was, and to us it doth. And shall we not
yet regard? Shall the creatures and not we? Shall we not? (p. 154)
La sfera dei sentimenti è l’ultima tappa del percorso, perché essi,
commuovendo, muovono l’animo, a riconoscere il segno calvinista
della grazia. Soffermandosi a guardare la croce di Cristo si impara il
riguardo che essa merita e si converte la percezione sensoriale in
percezione spirituale che è la sola garanzia di salvezza.
60
Tutte le definizioni sono dall’Oxford English Dictionary.
I sermoni di Lancelot Andrewes
387
Il sermone del Venerdì Santo 1605 è il secondo predicato da Andrewes alla presenza di Giacomo. Egli era ovviamente anche in quell’
occasione consapevole e attento alle implicazioni del contesto cui si
rivolgeva, e in particolare alle attese del sovrano61 che aveva appena
dato alle stampe un trattatello in cui si affermava che «Monarchie is
the true patterne of Diuinitie» e che «Kings are called Gods by the
prophetical King Dauid because they sit vpon God his Throne in the
earth, and haue the count of their administration to giue vnto Him»62.
Per la seconda volta nel giro di dodici mesi Andrewes proponeva a
Giacomo la contemplazione della regalità del Crocefisso. E, inoltre,
per la seconda volta, portava il discorso sul problema, scottante nelle
diatribe puritane, del rapporto parola-immagine nell’uso liturgico.
Infatti, se l’anno precedente il fulcro del sermone era stato il termine
“regard”, e l’enfasi si era pertanto concentrata soprattutto sull’atteggiamento che l’oggetto di contemplazione esige dal contemplante, ora
è l’azione stessa del contemplare ad essere sviscerata e definita in
tutte le sue potenzialità e implicazioni.
Partendo dall’espressione greca șİȦȡȓĮȞ usata nel vangelo di Luca (23,48) a descrivere la Passione, Andrewes accompagna il suo ascoltatore in un percorso che, anche in questo caso, parte dalla vista
dei sensi per pervenire alla vista della mente, e trasfigura una ‘scena’
in ‘rappresentazione mentale’, in ‘theory’. Ciò che è descritto (= raccontato) dall’evangelista, “a theory or sight”, è la stessa scena o visione presentata nel brano-tema che «the Apostle [Paolo] here calleth us
to look unto» (p. 158). In successive trasfigurazioni, il termine che in
apertura del sermone era stato definito come “sight” si drammatizza,
assume la valenza di “spectacle” e, successivamente, rivelandosi spettacolo sistematicamente ordinato, insieme strutturato di idee, viene
rivelato essere metodo di conoscenza.
Il campo semantico del termine “theory” era, quando Andrewes
parlava, oscillante e includeva significati (quelli legati al percorso etimologico dal greco, “șİȦȡȓĮȞ =sight, spectacle” e dal latino “theoria
61
Come ogni esperto oratore, Andrewes conosceva l’importanza di un’attenta
considerazione delle attese dell’uditorio cui si rivolgeva. Ciò è testimoniato, seppur
obliquamente, dall’affermazione in una delle battute di apertura del sermone che
stiamo esaminando: «The occasion of speaking is ever the best key to every speech»
(p. 158).
62
The True Law of Free Monarchies: or the Reciprock and Mvtvall Duetie betwixt a Free King and His Naturall Subiects . Fatto circolare a Edinburgo nel 1598,
il trattato venne pubblicato a stampa a Londra nel 1603.
388
Laura Sanna
=mental view, contemplation”) che oggi sono obsoleti. Definito «the
contemplation or inward knowledge of any art», apparve nel 1604 in
una Table Alphabeticall di
hard words […] with the interpretation thereof by plaine English
words, gathered for the benefit & help of Ladies, Gentlewomen, or
any other vnskilfull persons. Whereby they may more easily and better vnderstand many hard English wordes, which they shall heare or
read in Scriptures, Sermons or elsewhere63.
Ciò significa che esso era allora compreso nel novero di “inkhorn
terms” che tanto infastidivano puristi come Edward Phillips e Thomas Wilson. Per questa ragione Andrewes si sente in dovere di glossarlo, quando lo usa per la prima volta nel sermone, adottando il significato del termine greco:“a theory or sight”. Egli non ama, in genere,
il linguaggio erudito e non si compiace di “hard words”: se nel sermone ne assume una e anzi la considera fondamentale, è perché la
sua poli-semanticità gli permette di enunciare una concezione complessa che intendeva trasmettere, pur se obliquamente, a un uditorio di
alto rango sociale e, almeno per quanto riguardava Giacomo I, anche
intellettuale. Fa pertanto uso di un termine dotto, focalizza su di esso
l’attenzione richiamandolo continuamente (il sermone ne è costellato:
ventitre occorrenze) e lo fa trasmigrare attraverso ciascuna delle varianti di significato presenti allora nel suo campo semantico, per raggiungere, in chiusura del sermone, il significato per lui più pregnante, e quello cui tende tutto il filo del discorso, il significato ossia di «a
conception or mental scheme of something to be done, or of the method of doing it»64. L’oscillazione delle valenze attribuite al termine permette di rilevare un discorso che nel suo svilupparsi trascende il
commento al brano-tema, e come in un palinsesto, si offre, scrittura
dentro la scrittura, a trasmettere informazioni e argomentazioni altre.
L’ascoltatore-lettore viene fatto partecipe di un metodo di rapportarsi con il testo sacro che lo guidi dalla vista dei sensi alla vista dell’
intelligenza e dell’anima, attraverso la trasfigurazione della parola scrit63
Robert CAWDREY, A Table Alphabeticall, conteyning and teaching the true
writing and vnderstanding of hard vsuall English wordes, borrowed from the Hebrew, Greeke, Latine, or French, &c., London, Edmund Weauer, 1604.
64
Ho attinto le definizioni all’OED. E’ una interessante coincidenza che in quello
stesso 1605, Francis Bacon abbia dedicato a Giacomo I The Advancement of Learning,
e in quest’opera appaia il termine ‘theory’ usato a definire un sistema organico di idee
(«Natural science or theory is divided into […]» The Advancement of Learning, Chicago, The University of Chicago Press, 1990, Book II, 5, p. 48.
I sermoni di Lancelot Andrewes
389
ta, letta, ascoltata in immagine interiore e l’ulteriore metamorfosi di
essa in modello cui configurare l’agire. Il percorso di fede porta dall’
esterno del mondo delle apparenze all’interno, in quello dello spirito,
secondo un itinerario che è quello stesso auspicato da John Donne
che vagheggiava una Chiesa dell’animo e nell’animo, «such a Church,
as every man may build in himself: for whensoever we present our
prayers, and devotions deliberately, and advisedly to God, there we
consacrate that place, there we build a Church»65, la stessa Chiesa
interiorizzata, The Temple, che George Herbert avrebbe eretto e arredato con i blocchi preziosi delle sue poesie66.
Il primo apparire del termine “theory” nel sermone è in un contesto
di visualità: «St Luke, though he recount at large our Saviour Christ’s
whole story, yet in plain and express terms he calleth the Passion ‘a
theory or sight’ which sight is it the Apostle here calleth us to look
unto» (p. 158). Nel passo di Luca, il termine è usato laddove si rimarca
la reazione degli spettatori alla morte di Cristo: «țĮȚ ʌĮȞIJİȢ ȠȚ ıȣμʌĮȡĮȖİȞȠμİȞȠȚ ȠȤȜȠȚ İʌȚ IJȘȞ șİȦȡȚĮȞ IJĮȣIJȘȞ șİȦȡȠȣȞIJİȢ IJĮ ȖİȞȠμİȞĮ
IJȣʌIJȠȞIJİȢ İĮȣIJȦȞ IJĮ ıIJȘșȘ ȣʌİıIJȡİijȠȞ» (Lc. 23,48)67. Ancora una
volta, come nei due sermoni precedenti, in un’immagine è riassunto
il messaggio che si vuole consegnare all’assemblea: l’oggetto proposto agli occhi, “a theory or sight,” viene raccomandato alla contemplazione perchè «well worthy our looking on» (p. 157), perché nel corso dei secoli «ever most commended to our view» (ibidem), perché è
«the chief theory. Nay, in this all; so that see this, and see all» (p. 158).
E il guardare non dovrà essere passivo, ma dovrà muovere l’animo
alla contrizione, come quello degli spettatori sul Golgota, dovrà suggerire un agire, «the praxis of this theory, what this sight is to work in
us» (p. 160). Si concentra pertanto il discorso su «the object or spectacle propounded», cioè sulle parole del brano-tema che lo introducono: «Jesus the Author and Finisher of our faith; Who, for the joy
65
John DONNE, «A Sermon Preached at Lincolns Inne, preparing them to build
their Chapell (1618)» in The Sermons of John Donne, eds. Evelyn M Simpson and
George R. Potter, (10 voll.) Berkeley and Los Angeles, University of California Press,
1953, vol 2, p. 222.
66
L’opera di George Herbert, The Temple, Sacred Poems and Private Ejaculations, apparve postuma nel 1633.
67
Il testo latino della Vulgata legge: «Et omnis turba eorum, qui simul aderant
ad spectaculum istud, et videbant quæ fiebant, percutientes pectora sua revertebantur». Nella versione inglese della Bibbia apparsa nel 1611, a cui Andrewes diede il
proprio apporto, il passo è tradotto: «And all the people that came together to that
sight, beholding the things which were done, smote their breasts, and returned».
390
Laura Sanna
that was set before Him, endured the cross, despising the shame, and
is set down at the right hand of throne of God». Quanto implicito
nelle due apposizioni, o “additions” (Gesù =«Author and Finisher») e
poi nelle due immagini, o “forms” che il brano propone (Gesù =«hanging on the cross / sitting on the throne» p. 164) viene alla luce: «the
love he hath to us in His Passion on the cross; the hope we have of
Him, in his session on the throne» (ibidem). La croce, ancora una volta, non è intesa e presentata nella sua fisicità, ma è un collettore di
significati, un segno da analizzare, una costruzione verbale da esplorare, e l’analisi ne percorre le direttrici (orizzontale/verticale), ma anche la collocazione (esterno/interno).
So have we now the cross, ȟȣȜȠȣ įȚįȣμȠȢ , 'the two main bars of it,'
1. Pain, 2. Shame; and either of these again, a cross of itself; and that
double, 1. outward, and 2. inward. Pain, bloody, cruel, dolorous, and
enduring - pain he endured. Shame, servile, scandal, opprobrium
odious - shame He despised. And beside these, an internal cross, the
passion of Gethsemane; and an internal shame, the curse itself of the
cross, maledictum crucis. Of these He endured the one, the other He
despised. (p. 173)
La contemplazione della croce è una scelta volontaria, un actum
elictum e a questo punto il termine “theory” subisce lo slittamento semantico fondamentale:
We must, in a sort, work force to our nature, and per actum elictum,
as they term it in schools, inhibit our eyes, and even wean them from
other more pleasing spectacles that better like them, or we shall do no
good here, never make a true 'theory' of it. (p. 177, sottolineato mio)
Non più oggetto proposto alla vista, né spettacolo, il termine assume la valenza di qualcosa che si costruisce, si realizza nell’azione,
si fa. Il vedere che la croce esige è un vedere pianificato, organizzato, e mutuando un esempio dalle arti figurative viene paragonato al
vedere ricercato nell’anamorfosi:
the Passion is a piece of perspective, and that we must set ourselves to
see it if we will see it well, and not look superficially on it; not on the
outside alone but ĮijȠȡȦȞIJİȢ İȚȢ, 'pierce into it', and enter even into the
inward workmanship of it, even of His internal Cross which He suffered, and of His entire affection wherewith He suffered it. (ibidem).
I sermoni di Lancelot Andrewes
391
Ciò che viene contemplato è un sistema concettuale che offre
all’osservatore conforto («There is a theory medicinal, like that of the
brazen serpent, and it serveth for comfort to the conscience, stung and
wounded with the remorse of sin») ma soprattutto insegnamento:
There is then another 'theory' besides, and that is exemplary for imitation. There He died, saith St. Paul, to lay down for us, ĮȞIJȚȜȣIJȡȠȞ,
our 'ransom;' that is the former. There He died, saith St. Peter, to
leave unto us ȣʌȠȖȡĮμμȠȞ, relinquens nobis exemplum, 'a pattern,'
an example to follow, and this is it, to this He calleth us; to have a
directory use of it, to make it our pattern, to view it as our idea. And
sure, as the Church under the Law needed not, so neither doth the
Church under the Gospel need any other precept than this one, Inspice et fac, 'see and do according to the theory shewed thee in the
mount,' to them in Mount Sinai, to us in Mount Calvary. (p. 178)
La “theory” cui l’ascoltatore deve pervenire è la conoscenza di ogni
conoscenza,
Were all philosophy lost, the theory of it might be found there […]
He [il Cristo crocefisso] being spread and laid wide open on the cross,
is Liber charitatis, wherein he that runneth by may read, Sic dilexit,
and Propter nimiam charitatem, and Ecce quantam charitatem; love
all over, from one end to the other. Every stripe as a letter, every nail
as a capital letter. His livores as black letters, His bleeding wounds as
so many rubrics, to show upon record His love towards us». (ibidem)
Il viaggio intorno e all’interno della parola si conclude con un
richiamo alla necessità di tradurre la conoscenza acquisita in pratica:
«And by this we may know, whether our theory be a true one; if this
praxis follow of it, it is; if not, a gaze it may be, a true Christian 'theory' it is not» (p. 180). L’immagine esclusivamente mentale, convogliata tramite la parola, diventa un sistema di idée, i principi e il metodo
di conoscenza della verità. «And in this is the praxis of our first theory or sight of our love» (p. 182).
La sterminata erudizione di Andrewes non doveva certo ignorare
il contesto entro il quale il termine “theoria” appare in San Gerolamo. Commentando Ezechiele 40, 4, l’antico studioso delinea i tratti del
buon predicatore, colui che il profeta «sapientem autem vocat architectum, ad distinctionem illius qui stultus est». Alla costruzione del
tempio, insegnava il patriarca latino, necessitano occhi che vedano e
orecchie che sentano, e «Nihil enim prodest vidisse et audisse, nisi ea
392
Laura Sanna
quae videris et audieris, in memoriam reposueris thesauro». Andrewes, ‘sapiente architetto’, sublima anch’egli in visione interiore quanto i suoi occhi recepiscono dal testo letto e la sua memoria tesorizza
nel tempo. E’ il tesoro di conoscenza che, introdotto e custodito nel
cuore, fa di quel cuore un tempio. Per lui come per Girolamo, «nihil
theoria et scientia dulcius».68
68
SAN GEROLAMO, Commentariorum in Ezechielem Prophetam libri quatordecim, in J-M. Migne, Patrologiae, Parigi, 1845; I serie, t. XXV, Lib.XII, cap. XL, p. 373.
393
N OTAS
SOBRE
O LIVARES
Y LA ICONOGRAFÍA DEL PODER
María A. Roca Mussons
Università di Firenze
Al terminar los preparativos del equipaje, el viajero queda suspendido en unas coordenadas espacio-temporales tan sutiles que, al
mirar a través de la ventana, se siente extraño a lo que ve afuera, a lo
que presiente dentro de sí. Queda extraviado en un momento de espera. Desconoce por unos instantes su pasado, su presente, su futuro.
Regresando del viaje, al cerrar la puerta a sus espaldas, sufre una turbación similar a la que había probado en el momento liminar de la partida. Estos instantes de extravío pueden ser interpretados como momentos de suspensión en los que se va reestructurando el proceso de
reapropiación del entorno y la conciencia del proprio yo. La extrañeza
despide y acoge al viajero. En medio, el impulso a ver, conocer, hacer.
Desde estas sugerencias, el modelo del viaje propone un esquema
de duplicación, al mismo tiempo que introduce de soslayo, a través
de quien parte y quien llega, el tema del doble. Aun a riesgo de trivializar el argumento, me es necesario proponer la asociación viajevida, y de ahí enfrentarme con los argumentos que sugieren, a través
de una experiencia como es la del viaje, las modificaciones del yo,
de los compañeros de camino y las diversas modalidades de relaciones que entre ellos se establecen.
Viaje en una España enormemente complicada: heterogénea en
sus territorios, corrupta e ineficaz en su administración, angustiada
en sus finanzas1. Felipe IV, su rey, podría definirse como un viajero
que tendía siempre a partir, a partir para dejar, relegar, alejarse de los
problemas. Partir para olvidar. ¿A partir de sí? Esta pregunta nace espontánea cuando se piensa en la desigual relación entre sus fuerzas,
sus intereses, sus capacidades y el peso de la carga que debía soportar y regir. (No es mi intención dejar de lado las teorías que desde
Francisco Tomás y Valiente, Jean Berénguer, Francesco Benigno2, has1
Sobre este argumento, cfr. La crisis de la monarquía de Felipe IV, al cuidado
de G. Parker, Barcelona, Crítica, 2006.
2
F. TOMÁS Y VALIENTE, Los validos en la Monarquía Española del siglo XVII,
Madrid, 1963; J. BÉRENGER, «Pour une enquête européenne: le problème du minis-
394
María A. Roca Mussons
ta los últimos estudios publicados de y por John Huxtable Elliott y
Laurence Brockliss3 dan una interpretación más compleja y funcional
de la incapacidad real). No es difícil imaginarse a Felipe IV suspendido en el tiempo de frontera faltándole las fuerzas y buscando un
apoyo para atravesar el umbral. Extraviado de sí, nadie como la figura
de un amigo solícito y fuerte debió de parecerle más adecuada por sus
cualidades liberadoras y gratificantes. Don Gaspar de Guzmán, condeduque de Olivares había previsto este momento y se hallaba preparado para el encuentro y el papel. Sería el compañero de viaje que, con
su ayuda, permitiría a su joven señor deslizarse por sus itinerarios
predilectos (el ocio que no la fatiga), llevando él la mayor parte de la
carga en el gobierno de la monarquía (la fatiga que no el ocio). Personalidad que vivía la partida como enfrentamiento a los problemas en
el intento de su resolución. Partir para realizar, partir para recordar.
El completo acceso a la persona del rey, en público y en privado,
facilitó la transformación del gran-duque en sombra4, en doble, en el
Privado del rey.
1.- El viaje paralelo de ambas personalidades durará 22 años (16221643). Los niveles entre sus relaciones van a mutar en el transcurso
del tiempo según dinámicas internas y externas al binomio.
Configurada sobre el modelo de axialidad vertical amo-criado, la
relación inicialmente establecida entre el rey y su privado va a ir
adquiriendo los matices y variantes que la caracterizará. Excelentes
historiadores y biógrafos han estudiado, elaborado y propuesto las características tipológicas de Felipe IV, de Olivares, así como las de la
España de aquella época5, lo que me permite moverme sobre planos
tériat au XVIII siècle», en Anales, 29 (1974), pp. 166-192; F. BENIGNO, L'ombra del
re. La lotta politica nella Spagna dei validos (1598-1643), Catania, C.U.E.C.M., 1990.
3
Me refiero a los trabajos presentados en el Coloquio del Magdalen College de
Oxford organizado por J.H. ELLIOTT y L. BROCKLISS en 1996 y ahora publicados a su
cuidado en el volumen, El mundo de los validos, trad. de J. Alborés y E. Rodríguez
Haffter, Madrid, Taurus, 1999.
4
Sombra no en el sentido que en japonés tiene el término kagemusha, pues el valido no es un sosias; es alguien que está tras el rey continuamente -que le persigue y le
es indispensable-, y que en algunas ocasiones se agranda hasta el punto que puede
oscurecer su figura.
5
Una reseña parcial y lo menos subjetiva posible podría ser: cfr. notas 1 y 2, a los
que pueden añadirse, M. FERNÁNDEZ ÁLVAREZ, España y los españoles en los tiempos modernos, Salamanca, Universidad de Salamanca, 1982; R.A. STRADLING, Felipe
IV y el gobierno de España. 1621-1665, Madrid, Cátedra, 1989; J.H. ELLIOTT, Richelieu y Olivares, trad. R. Sánchez Mantero, Barcelona, Crítica, 1984; El conde-duque
Olivares y la iconografía del poder
395
que rozan la psicología, detenerme en un breve pero significativo
reflejo literario que Vélez de Guevara inserta en su Diablo cojuelo y
seguir algunas notas sobre la mitología aplicada y su iconología en
una tríade de argumentos visuales.
Se puede partir afirmando que nos encontramos ante un caso donde
la relación amo-siervo presenta a este último como poseedor de una
personalidad fuerte, potente, volitiva, hecho que le permite ir absorbiendo parcelas del yo de su amo mediante el alivio de los aspectos
factuales que para éste representan un agobio. Se transforma así en un
compañero imprescindible y se va sustituyendo a él gradualmente hasta convertirse en su alter ego, en una parte de su personalidad (el yo
social) que se concretiza fuera del sujeto. A través de éste se completan sus funciones vitales y sociales: la de la acción relativa al ejercicio
del poder, la de las decisiones. Este proceso de sustitución y no de
anulación es el sostenido por Gregorio Marañón en su clásica biografía6. El punto de partida es el de la confianza, el de la amistad.
El binomio amo-siervo articula la relación de fuerzas de sus componentes en una interacción polivalente. En el caso concreto de Felipe IV y Olivares puede afirmarse que las características de los vectores precisan sus relaciones presentando una complejidad dinámica
peculiar, que bien pudiera definirse como necesidad mutua o, como
afirma Elliott7, de dependencia por parte real8. Nos encontramos ante
un tipo de correlación en la que el elemento “bajo” posee una fuerza
de la que el amo carece. En estos casos, el primero tiende y logra fagocitar al segundo, invirtiendo los papeles del modelo que representan.
Ahora bien, esta dinámica lineal no refleja la que se establece entre
Olivares y su rey.
Felipe pasa a ser discípulo de su Privado y éste, en calidad de tutor, intenta hacer de él, no sólo un delegante de sus propias funciones
y de sus propios poderes sino también (y aquí se manifiesta la variande Olivares, trad. T. de Lozoya, Barcelona, Crítica, 1991; Lengua e imperio en la
España de Felipe IV, Salamanca, Universidad de Salamanca, 1994; G. MARAÑÓN, El
Conde duque de Olivares. La pasión de mandar, Madrid, Espasa Calpe, 1999 [1933];
J.H. ELLIOTT, España en Europa. Estudios de historia comparada. Escritos seleccionados, al cuidado de R. Benítez Sánchez-Blanco, Valencia, Universidad de Valencia,
2003; Los validos, al cuidado de J.A. Escudero López, Madrid, Dykinson, 2004.
6
MARAÑÓN, El Conde duque, cit., p. 309.
7
«Conservar el poder: el conde-duque de Olivares», en El mundo de los validos,
cit., p. 170.
8
Yo creo que en estos fenómenos existe siempre, en mayor o menor medida, una
simbiosis entre el verdugo y la víctima aun tratándose de casos de mutua ayuda.
396
María A. Roca Mussons
te) acrecentar sus conocimientos, refinar su inteligencia, alejar el peso
de la administración del patronazgo real, y, sobre todo, aumentar su
poder dentro y fuera de España, proyectándolo como el monarca más
potente en la Europa de su tiempo.
La aspiración de Olivares no es la de reducir al estado larval a su
señor, como ocurre en ciertos casos donde la personalidad del siervo
es más vigorosa que la de su amo. Es cierto que al conde-duque le
interesa el poder del rey pero sus esfuerzos mayores van dirigidos a
revitalizar el poderío español a través de la plasmación de un monarca que reúna los grandes méritos del rey Fernando y de los emblemáticos representantes de la casa de Austria que fueron Carlos V y Felipe
II. Quiere ser el Primer Ministro de un rey poderoso y sabio, quiere que
sea también su reflejo, su orgullo y a ello va a dedicar pasión y vida.
2.- La máquina burocrática y el control de los dominios de la monarquía española habían crecido desmesuradamente y Felipe IV no
poseía las capacidades para hacerles frente él sólo. Tampoco supo
crear una organización que le ayudara desde fuera, sin dirigirlo, sin
sustituirse a él. La bóveda celeste de sus posesiones era demasiado
grande y compleja para las espaldas de un rey que se sabía inadecuado
para tamaña tarea, como lo eran también la mayoría de soberanos
europeos, baste pensar en Luis XIII y Richelieu, a Jacobo I o Carlos I
y Buckingham9. Olivares se propondrá ante el monarca como la parte
activa que a éste le falta, será su pararrayos10 ante el descontento producido por mercedes negadas o por medidas financieras necesariamente adoptadas y, con el pasar del tiempo, se convertirá en la figura
insustituible sin la cual la personalidad del rey se siente incompleta
y, la gestión del poder, incontrolable. J. Brown y J.H. Elliott afirman
que «El rey reinaba y Olivares mandaba» y que «llegaron con el tiempo a crear un auténtico compañerismo e incluso, quizás, cierto afecto
entre un rey agradecido y un ministro profundamente respetuoso».11
9
Cfr., como bibliografía más reciente los artículos de O. RANUM, «Palabras y riqueza en la Francia de Richelieu» y de L. LEVY PECK, «El monopolio del favor:
estructuras de poder en la corte inglesa de comienzos del siglo XVII», ambos en El
mundo de los validos, cit., pp. 181-204 y 81-104 respectivamente.
10
Eficaz imagen de F. TOMÁS Y VALIENTE en su ensayo, Los validos, cit., pp. 66-67.
11
A Palace for a King. The Buen Retiro and the Court of Philip IV, New Haven
y Londres, Yale University, 1980 (trad. esp. aquí consultada: Un palacio para el rey. El
Buen Retiro y la Corte de Felipe IV, Madrid, Alianza ed., Revista de Occidente, 1981,
p. 30).
Olivares y la iconografía del poder
397
El conde-duque crece como una energía que va tomando cuerpo y
fuerza a costa de las circunstancias particulares del período así como
de la imagen de su amo a través de las delegaciones que éste le va
haciendo. El siervo va cumpliendo las etapas de la sustitución tomando por partes el poder y la figura simbólica del rey. Al mismo tiempo
intenta, con su trabajo y tesón, acrecentar el poderío real. Se identifica como servidor y chivo expiatorio de la monarquía que él mismo
plasma, llegando a ser su gran sacerdote.
En su biografía, Marañón pone de relieve un aspecto de la personalidad de Olivares que creo merece la pena resaltar: la emulación
real12. Entre los signos de tal actitud, el estudioso señala el retrato
ecuestre de Velázquez, el grabado de Herrera de la pareja real y la de
los Guzmanes, trajes y galas, la naturalización del bastardo del condeduque realizada por las mismas fechas que la de Don Juan de Austria,
la construcción del monasterio de Loeches con la misma finalidad e
incluso con idéntica fachada que la de la Encarnación. Creo que puede
afirmarse que Olivares traspasa los límites de la emulación al hacer
que, por ejemplo, el Palacio del Buen Retiro nazca en sus posesiones,
bajo su voluntad y su programa arquitectónico e iconográfico, instaurando así un vínculo con el rey que refleja la compleja tipología
de la relación establecida.
3.- Como todo hombre potente, también en torno a Olivares se
desarrolló un programa celebrativo que glorificó su imagen. Para ello,
comme d'habitude, fueron empleadas las artes, sea las literarias sea
las plásticas. Como muestra del primer producto vamos a focalizar
un breve fragmento del texto veleciano citado supra, donde al condeduque se le propone identificado con el gigante Atlante. El fragmento
está ambientado en Sevilla (directa la estrategia del autor pues ésta
era la tierra de Olivares) y el Cojuelo explica y comenta a don Cleofás:
Pero salgamos della [de la catedral], que aun con las relaciones ni
los pensamientos no podemos los demonios pasealla, y vuelve los
ojos a aquel edificio que se llama la Lonja, cortada del pernil de San
Lorenzo el Real, diseño de don Felipe II, y a mano derecha della está
el Alcázar, posada real y antigua de los reyes de Castilla, fértil albergue de la primavera de quien es ilustrísimo Alcaide el Conde Duque de Sanlúcar la Mayor (gran Atlante del Hércules de España, cuya
prudentísima cabeza es el reloj del gobierno de su monarquía) que,
12
MARAÑÓN, El Conde duque, cit., pp. 143-144.
398
María A. Roca Mussons
a no estar labrado el Buen Retiro, fábrica de inimitable ejemplar por
el edificio, jardines y estanques, tuviera este palacio sevillano la
primacía de todas las casa reales del mundo, poniendo en primer lugar el real salón que la majestad del rey don Felipe IV el Grande ha
copiado de su divina idea, donde todas las admiraciones vienen cortas y las mayores grandezas enjaguadas. Más adelante está la Casa
de la Contratación, que tantas veces se ve enladrillada de barras de
oro y de plata.13
El tópico panegírico de ciudad sirve de marco a la exaltación de
su hijo ilustre14 que se designa con dos imágenes clásicas. La primera la había utilizado ya Vélez en un soneto15 (1635) y la repetirá en A
lo que obliga ser rey (1658), testimoniando su lealdad a Olivares pues
su elogio en tiempos de fortuna del favorito no cambia en los de la
declinación.16
Volvamos al texto. Como sabemos, la mitología presenta al cíclope
en su eterna tarea-castigo de sostener la bóveda celeste. Sus cualidades: la fuerza, la capacidad, la fiabilidad. Naturalmente, la atribución
de este apelativo no es privativa de Olivares ni original de Vélez pues
de ella habían sido objeto otros privados precedentes así como otros
autores lo habían o van a aplicarlo al valido de Felipe IV.17
13
L. VÉLEZ DE GUEVARA, El diablo cojuelo, ed. de R. Valdés, Barcelona, Crítica,
1999, tranco VII, p. 88. La cursiva es mía. Agradezco al amigo y estudioso Ramón
Valdés su generosa señalación de materiales que se han revelado indispensables en
la elaboración de este trabajo.
14
Cfr., M.G. PROFETTI, «Note critiche sull'opera di Vélez de Guevara», en Miscellanea di studi ispanici, al cuidado del Instituto di Lingua e Letteratura Spagnola
dell'Università di Pisa, Firenze, Tipografia Giuntina, pp. 65, 163-167.
15
«Esta es Casa del Sol: Filipo Cuarto/ Planeta de Austria, Atlante de Castilla,/
De su Alcides Guzmán templo divino», en Elogios/ al Palacio Real/ del Buen Retiro.
Escritos/ por algunos Ingenios de España./ Recogidos por Don Diego de Covarruvias
y Leyva…/ Dedicados al Ilustriss.mo Señor Don Gaspar de Gvzman…/ Conde Duque
de Olivares…/, Madrid: Imprenta del Reyno, 1635 (citado por F. Pérez y González, El
diablo Cojuelo. Notas y comentarios, Madrid, Est. Tipográfico Sucesores de Rivadeneyra, 1903, p. 69). También en su pieza teatral, A lo que obliga el ser rey, Vélez
escribe: «Es justo/ que tengan con quien los reyes/ descansen, con quien repartan/ el
grave peso que tienen/ en los hombros, pues Alcides/ de Júpiter descendiente,/ necesitó de un Adlante», en Nuevo / teatro de / comedias varias / de diferentes / autores./ Decima parte, Madrid: Imprenta Real (a costa de Francisco Serrano de Figueroa, Mercader de libros), ff. 125v - 143r.
16
Ya en la época del Cojuelo, las fuerzas de Olivares empezaban a vacilar ante
la contestación siempre más agresiva de la nobleza cortesana.
17
Véase, entre otros: L. DE VEGA, «Sobre sus hombros tiene, humilde Atlante,/
los imperios del sol y de la luna», epístola “A un privado”, en Colección escogida
de obras no dramáticas de Frey Lope Felix de Vega Carpio, vol. 38, ed. de C. Ro-
Olivares y la iconografía del poder
399
El fragmento de Vélez de Guevara nos interesa porque su formulación se presenta articulada en un núcleo semántico acumulativo
pues, al registro mitológico se le añade, reforzándolo, el emblemático,
representado por la atribución del emblema del reloj18, que no por
manido resulta menos eficaz, sobre todo propuesto en este juego de
duplicación.
Gran Atlante del Hércules de España: el rey, identificado con el
héroe, puede contar con el gigante que le asegura la estabilidad del
mundo que debe gobernar. Por traslación analógica, Olivares será su
Gran Atlante que traducirá asimismo, a través de la fuerza de la que
es símbolo, un alivio para los trabajos reales.
En la formulación de su propuesta celebrativa, Vélez señala su
devoción al Privado como compañero del rey y fiel servidor suyo y
de la monarquía. La subordinación intrínseca de Atlante así lo propone y se reitera con el emblema del reloj que señala el papel subalterno del privado como engranaje silenciosamente operante que permite a las manecillas, o sea al rey, indicar el curso del tiempo, de los
acontecimientos, de las decisiones. A tal propósito son significativas
algunas de las palabras que al tema dedica Diego de Saavedra Fajardo en una de sus Empresas políticas:
Obran en el relox las ruedas con tan mudo y oculto silencio que ni se
ven ni se oyen. Y, aunque dellas pende todo el artificio, no le atribusell, BAE, Madrid, Atlas, 1950, n. 327, p. 397; P. CALDERÓN DE LA BARCA, Casa de
dos puertas, mala es de guardar, en Obras completas II (Comedias), ed. de L. Astrana Marín, Madrid, Aguilar, 1956, pp. 271-307: «Seguí a la corte traído/ más de mi
afecto constante/ que de mi necesidad/ porque de ministros tales,/ hoy el rey se sirve,
que/ no es al mérito importante/ la asistencia, porque todos/ acudir a todos saben,/
gracias al celo de aquel/ con quien el peso reparte/ de tanta máquina, bien/ como
Alcides con Atlante»; B. GRACIÁN, «pero [los ojos] en los hombros ¿a qué propósito?/ - ¡Qué bien lo entiendes! - dixo Argos -. Éssos son más importantes, los que más
estimaba don Fadrique de Toledo./ - Pues ¿para qué valen?/ - Para mirar un hombre la
carga que se hecha a cuestas, y más si se casa o se arrasa, al acetar el cargo y entrar
en el empleo: ahí es el ver y tantear la carga, mirando y remirando, midiéndola con
sus fuerças, viendo lo que pueden sus hombros; que el que no es un Atlante, ¿para
qué se ha de meter a sostener las estrellas? Y el otro, que no es un Hércules, ¿para
qué se entremete a sustituto del peso de un mundo?, El Criticón, ed. de S. Alonso,
Madrid, Cátedra,1990, II, Crisi I, pp. 290-291; en la relación de un prisionero caído
en manos francesas en la desastrosa empresa del Marqués de Povar en la campaña
contra Cataluña, donde le denomina “principal Atlante de la monarquía” y en su
invectiva Política del Comte de Olivares. Contrapolitica de Cathaluña y Barcelona,
Çarroca le califica como “Mal Atlante”, ms. 2374, fol. 263 v.
18
Por cuanto concierne el estudio del reloj barroco, consúltese el estudio de J.M.
GONZÁLEZ GARCÍA, Metáforas del poder, Madrid, Alianza, 1998, pp. 143-170.
400
María A. Roca Mussons
yen a sí, antes consultan a la mano su movimiento, y ella sola distingue y señala las horas, mostrándose al pueblo autora de sus puntos.
Este concierto y correspondencia se ha de hallar entre el príncipe y
sus consejeros.19
Es posible individuar, en las modalidades de esta propuesta de 1646,
signos que reflejan la decadencia del poder de Olivares si tenemos en
cuenta algunas señales del programa iconográfico realizado entre 1626
y 1635 donde parece perfilarse, para el Privado, una imagen que aleja
la idea de sujeción inicial y final principiando a formular una coparticipación en la representación de la imagen real.
Una de las señales más connotativas del particular proceso de identificación es la identidad iconológica que pudo verificarse entre el
rey y su privado a través de la figura de Hércules.
4.- Hércules es el héroe mítico que, por su incesante viajar y por
el empeño, esfuerzo y valor con que realiza sus trabajos, es considerado el fundador olímpico de familias reales y nobles europeas20. Refleja la promesa de la conquista de la inmortalidad con la grandeza
de su propia obra.
El carácter itinerante, inherente al arquetipo de Hércules, hace
que éste sea tomado como antecesor real del pueblo que, en las varias elaboraciones del mito, el héroe atraviesa en su viaje a España
(se está aludiendo, por supuesto, al XII trabajo: las manzanas del jardín
de las Hespérides). Así surgirán el Hércules romano, el florentino, el
gálico (con su variante borgoñona) y el hispánico.
19
D. de SAAVEDRA FAJARDO, Empresas políticas, ed. intr. y notas de F.J. Díez de
Renga, empresa 57, Barcelona, Planeta, 1988, pp. 385-394.
20
Entre los muchos trabajos dedicados a la mudable fortuna del mito hercúleo,
pueden consultarse los siempre válidos estudios de D. ANGULO IÑÍGUEZ, «La mitología y el arte español del Renacimiento», en Boletín de la Real Academia de Historia, 130 (1952), pp. 53-209; F. GAETA, «L'avventura di Ercole», en Rinascimento:
Rivista dell'Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, (junio de 1954), pp. 227260, así como el ensayo de F. CHECA CREMADES, Carlos V y la imagen del héroe en
el Renacimiento, Madrid, Taurus, 1987. Aún no siendo ésta la sede idónea para
examinar la rica iconografía sobre Hércules que caracteriza el fundamental capítulo
del espectáculo de antiguo régimen de corte y académico, creo oportuno señalar: R.
STRONG, Arte e potere. Le feste del Rinascimento 1450-1650, Milano, il Saggiatore,
1987; S. MAZZONI, «Vincenzo Scamozzi e il teatro di Sabbioneta», en S. Mazzoni-O.
Guaita, Il teatro di Sabbioneta, Firenze, Olschki, 1985, en modo especial pp. 64-69; S.
MAZZONI, L'Olimpico di Vicenza: un teatro e la sua «perpetua memoria», Firenze, Le
Lettere, 1998; S. MAMONE, «Il terzo Seneca e l'Ercole rapito», en Studi di Filologia
medievale offerti a D'Arco Silvio Avalle, Milano-Napoli, Ricciardi, 1996, pp. 293-319.
Olivares y la iconografía del poder
401
La fortuna del Hércules hispánico a lo largo de la tradición historiográfica española, ha sido objeto del excelente estudio de Robert
Brian Tate21, que abarca desde la crónica de Ximénez de Rada, el Toledano (siglo XIII), hasta la de Florián de Ocampo (siglo XVI), terminando
con la Historia de España de Mariana (1592). Tate analiza la instrumentalización del mito según ideales, conveniencias, hegemonías de
las varias épocas que atraviesa. Su investigación se mueve «a través
de todo el ciclo de la creación, rechazo y redescubrimiento de la crónica medieval».22
La tradición hercúlea hispánica tendrá su máximo esplendor bajo
el reinado de Carlos V. Como afirma Rosa López Torrijos, «Carlos, al
aparecer como nuevo Hércules, promovió en los españoles el recuerdo
del héroe que formaba parte de su historia primitiva. Creemos que
aquí está, precisamente, el origen de la expansión del tema de Hércules en la España del siglo XVI y su posterior éxito en la del XVII»23. El
emperador reúne en su persona las distintas sucesiones heraclianas
mitológicas pues, además de la hispánica, heredará la del ducado de
Borgoña (donde, en sus crónicas, se cuenta cómo Hércules llegó allí y
se casó con Alise) así como la de los Habsburgo, quienes se denominan sucesores de los emperadores romanos. En su citado ensayo, Fernando Checa Cremades afirma: «Moral y política, moral en la política
es lo que significaba el mito de Hércules y que, en el caso de Carlos V
es el eje ideológico sobre el que gira la elaboración de su ideal mítico».24
En los programas iconográficos de todos los Habsburgo aparecerá
la figura de Hércules alegorizando y sacralizando, exclusivamente, la
figura del rey. Así lo afirma Manuel Fernández Álvarez asegurando
que «este aspecto no era trasladable a su valido».25
Atlante y Hércules son dos figuras míticas que se acomunan por
su simbología relativa a la fuerza. En el esfuerzo de sostener el mundo,
sus figuras se reflejan, se identifican. El uno es el otro, el uno se hace
doble del otro. Resultan figuras duplicadas, unificadas y, en último análisis, confundidas, sobrepuestas.
21
Aquí nos interesa señalar el capítulo «Mitología en la historiografía española
de la Edad Media y del Renacimiento», en Ensayos sobre la historiografía peninsular del siglo XV, trad. de J. Díaz, Madrid, Gredos, 1970, pp. 13-32.
22
Ivi, p. 14.
23
R. LÓPEZ TORRIJOS, La mitología en la pintura española del Siglo de Oro,
Madrid, Cátedra, 1985, p. 123.
24
CHECA CREMADES, Carlos V, cit., p. 117.
25
FERNÁNDEZ ÁLVAREZ, España y los españoles, cit., p. 145.
402
María A. Roca Mussons
En el caso de Felipe IV creo haber identificado una variante significativa: también a su valido, en algunas ocasiones y en modo más o
menos oblicuo, se le representó con los atributos hercúleos en el doble
juego interpretativo que la pareja Atlante-Hércules propone como mito
y como icono.
Fig. 1. Paul Pontius (de Rubens), Retrato del Conde-duque de Olivares,
1626, grab. (Madrid, Bibl. Nacional).
Fig. 2. El Conde-duque de Olivares como
Atlante y como Hércules, 1632,grab.(port.
de El Fernando de Juan Antonio de Vera
y Figueroa Conde de La Roca, Milán,
Henrico Estefano, 1632).
5.- Las tres representaciones iconográficas seleccionadas —el grabado con el retrato alegórico de Olivares dibujado por Rubens y ejecutado por Pontius (1626), la portada de El Fernando escrito por el
conde de la Roca (1632) y el cuadro de Maino, La alegoría de la
recuperación de Bahía de Todos los Santos (1635)— han sido objeto
de atención en múltiples ensayos sobre el conde-duque o sobre su
época (ver notas 1, 2, 4). Ninguno de los autores, salvo Elliott26 respecto
al retrato de Rubens, identifica como Hércules su representación simbólica. La mayoría atribuye el signo iconográfico a Atlante y, en algunos casos, los rasgos hercúleos de algunos elementos de la representación no se ponen en evidencia.
26
ELLIOTT, El conde-duque, cit., p. 257.
Olivares y la iconografía del poder
403
Fig. 3. Juan Bautista Maino, La alegoría de la recuperación de Bahía de
Todos los Santos, 1635, óleo sobre tela (Madrid, Museo del Prado).
5.1- De la primera imagen (fig. 1) me interesa destacar las dos figura aladas que se encuentran sentadas sobre el plinto que sostiene la
figura de Olivares. La de la izquierda es representada con los atributos de Minerva: el escudo con la cabeza de la Medusa, la lanza y la
lechuza. Manifiesta la sabiduría y la integridad. La segunda propone
los de Hércules: la clava y la piel del león de Nemea. Simboliza el
valor y la fuerza. Si bien la imagen del valido no contiene ningún
rasgo hercúleo, el hecho que ésta se encuentre acompañada por tales
signos iconográficos puede significar no sólo la cercanía de Olivares
al héroe, sino también su posible identificación con éste, aunque a un
nivel inferior al del monarca. Alusión sinecdótica que señala un proceso de identificación, en este caso probablemente adulatorio, pues
Rubens concibe y realiza la obra no por encargo del conde-duque
sino que se lo ofrece como presente. No creo que Rubens haya seleccionado ambas alegorías a caso sino que, consciente del papel desarrollado por los privados en las monarquías europeas, conoce o intuye
los símbolos que debían satisfacer al valido de Felipe IV.
5.2- El frontispicio del poema heroico (fig. 2), El Fernando o Sevilla restaurada del conde de la Roca, publicado en Milán en 1632 y
ofrecido a Felipe IV, propone en los dos espacios laterales que encua-
404
María A. Roca Mussons
dran la escritura de título, contenido, dedicatoria y autor, dos figuras
que representan a Olivares. Una, desnudo, en el papel de Atlante o
Hércules sosteniendo el globo terráqueo. La otra, en el de Hércules,
vestido con la piel de león soportando sobre sus espaldas la bóveda
celeste. Ambas han sido siempre identificadas con Atlante, cosa que me
sorprende pues bajo la figura desnuda se lee: DEINTERES mientras
que en la vestida se halla escrito: DE VALOR. En uno de los tratados de
mitología más populares y usados en el siglo XVI español, la Philosofia secreta de Juan Pérez de Moya, se indica que a Hércules «píntanle
desnudo para denotar virtud, porque la virtud la pintan desnuda, sin
ningún cuidado de riqueza»27. Según esta interpretación alegórica, Olivares desnudo tendría como referente a Hércules, lo mismo que la piel
de león lo volvería a identificar con el mítico héroe. Ahora bien, bajo las
dos estatuas corre un friso con la frase: «PARA SUSTENTAR MEJOR
EL GRAVE PESO QUE VES, LA LEALTAD YACE O LECTOR
DESNUDA AQUI DE INTERES, VESTIDA ALLI DE VALOR». Y
aquí nos encontramos con una ambigüedad, que probablemente no lo
era para los lectores de la época: la “lealdad”, ¿era atribuida a Hércules o a Atlante? Si éste sostenía el peso del mundo como castigo a su
lucha con los dioses es difícil creer que pudiera encarnar tal virtud
que, en cambio bien podía ser atribuida a Hércules. Es por ello que
hipotizo que la figura representada por el valido desnudo más bien
puede ser la del héroe que la del gigante. El panegirista y hechura de
Olivares, don Juan Antonio de la Vera, ofrecía su obra al rey pero al
mismo tiempo le señalaba, a través de la elección iconográfica del
frontespicio, el papel que el ministro cumplía en su ayuda y en el de
la monarquía identificando, por medio de la coincidencia simbólica, a
Olivares como el doble del rey.
5.3- El tercer texto iconográfico (fig. 3) propone, paradójicamente, con estrategias más ocultas pero con resultados más patentes, el
mensaje de participación del Valido en los atributos hercúleos inherentes a la figura real.
Nos encontramos ante el cuadro de Juan Bautista Maino, Alegoría
de la recuperación de Bahía de Todos los Santos (1635). Como es sabido, esta tela forma parte del programa iconográfico concebido y
27
J. PÉREZ DE MOYA, Philosofia Secreta. Donde debaxo se contiene mucha doctrina provechosa a todos estudios. Con el origen de los Idolos o Dioses de la Gentilidad. Es materia muy necesaria para entender Poetas e Historiadores, ed., de C.
Clavería, Madrid, Cátedra, 1995, p. 47.
Olivares y la iconografía del poder
405
realizado para ornar el Salón de Reinos del Buen Retiro. Sus responsables pueden ser individuados en Olivares, Velázquez, Maino y Francisco de Rioja28. Según López Torrijos es a este último «a quien se
debe la concreción en imágenes de la idea del conde duque y la elección de las fuentes históricas y literarias en que habían de basarse las
obras pictóricas del Salón de Reinos».29
El proyecto se organiza sobre dos planos: el mitológico y el histórico. Del primero es ejecutor Zurbarán con su ciclo sobre los Trabajos
de Hércules. El segundo lo componen retratos ecuestres de la familia
real y doce lienzos de contemporáneas (las más) victorias bélicas
españolas realizados por varios autores30. Dos ciclos que se reflejan
y donde el primero potencia y exalta, con su auréola mítica, el valor
y la gloria de la dinastía de los Austria, el gobierno de Felipe IV, al
mismo rey y, de consecuencia, a su valido.
El cuadro de Maino ha sido estudiado y reproducido en excelentes estudios sobre la iconografía española así como en los ensayos
sobre Felipe IV y Olivares31. El hilo conductor de mis pesquisas (atribuciones hercúleas a Olivares en el juego: el conde duque, doble del
rey) propone una complementaria lectura del cuadro que puede reforzar la hipótesis del programa adulatorio dirigido a Olivares o autocelebrativo, dirigido por él mismo.
Al mirar el lienzo podemos interpretar que su autor lo diseñó basándose en una dicotomía referencial histórica, vencidos y vencedores (holandeses y españoles). Ésta prelude su reflejo alegórico en la
representación del desenlace de una Psicomaquia, donde el Bien es
representado por un rey, una diosa y un valido, mientras que el mal
lo constituyen las figuras de la Herejía, la Traición y la Discordia.
En medio, don Fadrique de Toledo, comandante de las fuerzas expedicionarias enviadas al Brasil quien, con gesto admonitorio, señala a
los derrotados la esfera de la victoria. Pintura dentro la pintura, ésta
está representada por un tapiz en el que se encuentra Felipe IV aplastando la Herejía y la Traición y, a sus espaldas, Minerva y Olivares
28
Poeta sevillano, erudito, canónigo, consejero de la Inquisición, amigo íntino
de Conde Duque, bibliotecario del rey y de Olivares, redactor de los documentos de
éste último.
29
LÓPEZ TORRIJOS, La mitología, cit., p. 146.
30
Dos de Jusepe Leonardo, uno de Pereda, uno de Velázquez, uno de Maino, uno
de Zurbarán, dos de Cajés, tres de Vicente Carducho y uno de Castelo.
31
ELLIOTT, El conde-duque, cit., p. 249; BROWN y ELLIOTT, Un palacio, cit., pp.
193-200; J. BROWN, «Peut-on assez louer cet excellent ministre? Imágenes del privado en Inglaterra, Francia y España», en El mundo de los validos, cit., p. 329.
406
María A. Roca Mussons
que efectúan una doble acción: ambos coronan al rey con el laurel de
la victoria, mientras la diosa entrega al rey la palma del triunfo y el
conde-duque humilla la Discordia.
Diosa de la guerra y de la sabiduría, Minerva se presenta en la
mitología como protectora y aliada de Hércules. Proponiéndola en
idéntica posición y a la par con el valido laureando al monarca, Maino puede estar sugiriendo la asociación entre Olivares y el héroe griego. Además, su alianza con Minerva se hacía funcionar iconográficamente para representar dos de las cualidades que ligadas entre sí dotaban al ser excelente. Baste recordar su uso en el anteriormente analizado grabado de Rubens.
Una diosa y un héroe evemerista protegen y ensalzan a Felipe IV.
La celebración de la grandeza y gloria del monarca32 corresponde
perfectamente al programa iconográfico del Salón de Reinos. Pero en
el cuadro de Maino no se celebra solamente al rey. Si la coincidencia
entre Olivares y Hércules forma parte del proyecto, a quien se está
simultáneamente enalteciendo es al conde-duque, al que se le atribuye
una simbología real. Es posible que se intentase señalar, con la manipulación del código iconográfico, la identificación de ambas personalidades en el imaginario colectivo.
Cuando el poder se desdobla es precisamente el icono el que garantiza la sustancial identidad del papel. En este caso, la comparticipación del signo iconográfico señalaría la culminación del proceso
de participación o reconocimiento de la personalidad del privado con
la del compañero de viaje: su rey.
32
Cfr., G. LEDDA, «Estrategias y procedimientos comunicativos en la emblemática aplicada (fiestas y celebraciones, siglo XVII)», en Emblemata aurea: la emblemática en el arte en el arte y la literatura del siglo de oro, al cuidado de R. Zafra,
J.J. Aranza López, Madrid, Akal, 2000, pp. 251-262.
407
EL
GRAN DUQUE DE O SUNA Y LAS RELACIONES SOBRE
SU ACTUACIÓN EN EL M EDITERRÁNEO COMO
VIRREY DE S ICILIA Y N ÁPOLES
Sagrario López Poza1
Universidade da Coruña
El gran duque de Osuna, don Pedro Téllez Girón (tercero en ostentar el título), vivió entre 1574 y 16242 y ha pasado a la historia tanto
por sus hazañas como perseguidor de turcos en el Mediterráneo, ejerciendo con celo extremo sus funciones de virrey de Sicilia primero y
de Nápoles después (fig.1) —que le valieron para la historia el unir a su
nombre el epíteto “gran”—, como por su desdichada caída y muerte,
que mereció el famoso elogio de Quevedo en el soneto: “Faltar pudo
su Patria al grande Osuna”:
MEMORIA INMORTAL DE DON PEDRO GIRÓN,
DUQUE DE OSUNA, MUERTO EN LA PRISIÓN
Faltar pudo su Patria al grande Osuna,
Pero no a su defensa sus hazañas;
Diéronle Muerte y Cárcel las Españas,
De quien él hizo esclava la Fortuna.
Lloraron sus envidias una a una
Con las propias Naciones las Extrañas;
Su Tumba son de Flandes las Campañas,
Y su Epitafio la sangrienta Luna.
En sus exequias encendió al Vesubio
Parténope, y Trinacria al Mongibelo;
El llanto militar creció en diluvio.
1
Este trabajo se inscribe en el proyecto de investigación y desarrollo tecnológico cofinanciado por el Plan Nacional de Investigación Científica, Desarrollo e Innovación Tecnológica (I+D), Ministerio de Educación y Ciencia de España y el Fondo
Europeo de Desarrollo Regional (FEDER): “Biblioteca digital Siglo de Oro I: Emblemática, Relaciones de Sucesos y Misceláneas de erudición (catalogación, digitalización y difusión vía Internet)”, código: BFF2003-03945.
2
Aunque algunas biografías indican que nació en 1579 en Valladolid (Armiñán)
y otros sitúan su nacimiento en 1575, en Osuna se conserva, en el archivo de la colegiata, su partida de bautismo, donde se indica que nació en esa ciudad el 17 de Diciembre de 1574.
408
Sagrario López Poza
Diole el mejor lugar Marte en su Cielo;
La Mosa, el Rhin, el Tajo y el Danubio
Murmuran con dolor su desconsuelo.
(Francisco de Quevedo. El Parnaso español (1648) Clío. Musa I.
Tan sentidas palabras de Quevedo aluden a una trayectoria vital
paradigmática de muchos nobles españoles del Siglo de Oro, que conocieron las dos caras de la Fortuna. La vida del duque ha resultado
atractiva a historiadores, a estudiosos de la literatura y a creadores, y
ese interés ha creado varios acercamientos a su biografía (con mayor
o menor fidelidad) y también ha sido empleado como personaje de
ficción en alguna obra literaria3.
Quien se ha ocupado con más seriedad y rigor de la actividad de
don Pedro Téllez Girón en el Mediterráneo desde 1616 a 1621 ha sido
un ilustre marino, geógrafo e historiador del siglo XIX, miembro de la
Real Academia de la Historia: Cesáreo Fernández Duro (1830-1908)4.
La primera vez que este capitán de navío ilustrado se ocupó de la vida
del duque fue en su magna obra Armada española, desde la unión de
los reinos de Castilla y de Aragón, de nueve volúmenes (1895-1901).
Al duque le dedicó un capítulo, pero debió de resultarle tan interesante
3
La niñez y juventud están apuntadas en algunos papeles dispersos y datos regogidos en Fernández de NAVARRETE, Epítome de la vida de D. Pedro Girón, y en la
obra de Gregorio LETI, Vita di D. Pietro Girón, duca d'Osuna, Amsterdam, 1699,
obra principal entre todas, en la que se han inspirado gran parte de las biografías
que siguieron; son tres volúmenes en tamaño 12º y se incorporan una serie de grabados en talla dulce de los acontecimientos más importantes de la vida del duque, algunos de los cuales reproducimos en este trabajo [las láminas sólo aparecen en algunos
de los ejemplares consultados]. Otras biografías totales o parciales son las citadas en
bibliografía de ARMIÑÁN ODRIOZOLA (1948); FERNÁNDEZ DURO (1885). Son de utilidad también Documentos inéditos para la Historia de España, Madrid, 1842 (vols.
XLIV-XLVII). Sus desórdenes de juventud inspiraron una obra literaria a su contemporáneo Cristóbal de MONROY SILVA: Las mocedades del Duque de Osuna (en la
Biblioteca de la Real Academia Española se conserva una edición de Valencia, Imprenta de la Viuda de Joseph de Orga, 1762). Recientemente se ha publicado la monografía de Luis M. LINDE: Don Pedro Girón, duque de Osuna. La hegemonía española en Europa a comienzos del siglo XVII, Madrid, Ediciones Encuentro, 2005.
4
Miembro de numerosas academias y comisiones españolas e internacionales; a
sus estudios se debe, entre otras cosas, la reconstrucción histórica de la carabela Santa
María. Desempeñó cargos de responsabilidad en el gobierno y administración de La
Habana y en el Ministerio de Marina. Fue jefe de la comisión de arbitraje sobre los
límites entre Venezuela y Colombia y también formó parte de la Comisión nombrada
para determinar los límites entre las posesiones española y francesas del África occidental, entre otros destinos. En el Archivo del Museo Naval, en Madrid, se conserva
la Colección Fernández-Duro, generada en las tareas y los destinos que ocupó.
El gran duque de Osuna, relaciones sobre su actuación en el Mediterráneo 409
el personaje y sus actividades como para escribir inmediatamente un
libro sobre él en exclusiva: El Gran Duque de Osuna y su Marina. Jornadas contra turcos y venecianos, 1602-1624 (1885).
El duque era hijo de don Juan Téllez Girón y su prima Doña Ana
María Velasco, hija del Condestable de Castilla. De niño, acompañó a
Nápoles a su abuelo (el primer duque de Osuna) que desempeñaba allí
el cargo de virrey. Esa estancia en Italia debió de influirle de manera
determinante; cuando volvió dominaba el italiano y el latín, que le había
enseñado el humanista Andrés Savone.
En su juventud, cursó en la Universidad de Salamanca estudios de
Matemáticas, elementos de Arquitectura y Mecánica, Fortificaciones,
Humanidades, Geografía e Historia, sin dejar de ejercitarse en armas,
equitación y demás actividades propias de un noble. Participó en la
vida militar desde muy joven. Con sólo dieciséis años, asistió con las
tropas enviadas por Felipe II a sofocar la revuelta de Aragón de 1591.
Cuando terminó la represión, acompañó a París al Duque de Feria, que
iba como embajador extraordinario, y allí adquirió libros (principalmente de Historia) para su biblioteca. Poco después viajó también a Portugal. Contrajo matrimonio en 1593 (cuando tenía 19 años) con doña
Catalina Enríquez de Ribera, hija del duque de Alcalá de los Gazules y
nieta por parte de madre de Hernán Cortés, el conquistador de México.
Antes y después de su matrimonio, su vida alocada y disipada eran
bien conocidas en los círculos de la nobleza (en Sevilla protagonizó
escándalos por los que fue desterrado de esa ciudad), y sus excesos
llegaron a hacerle sufrir prisión en Arévalo y Peñafiel en 1600. Esta
lección debió de serle útil, porque el mismo año se alistó como simple
soldado en los Tercios de Flandes, hasta que, tras algunas acciones, el
marqués Ambrosio Spínola le dio el cargo de coronel general y le encomendó el mando de dos compañías de caballos que había de mantener a su costa. Su primera experiencia bélica conocida en el mar fue al
mando del hermano del marqués, Federico Spínola, general de la
escuadra que había de enfrentarse con los rebeldes holandeses y que
lamentablemente murió en un terrible enfrentamiento naval con ellos
(fue cañoneado su barco y sufrió la amputación de la mano derecha,
una herida en el estómago y varias en el rostro, que lo desfiguraron por
completo). Sucedió el 5 de mayo de 1603, y como consecuencia del enfrentamiento, se produjeron 414 muertos y muchos heridos españoles,
y los holandeses perdieron 720 hombres. También Quevedo fue sensible a este acontecimiento, y escribió un epitafio al almirante genovés
Federico Spínola que hace alusión a estos hechos (es el soneto que co-
410
Sagrario López Poza
mienza: “Blandamente descansan, caminante”). El duque de Osuna
actuó en la ocasión con serenidad y valor, y el archiduque Alberto
envió expresamente a un gentilhombre para felicitarlo.
Siguió participando en acciones militares con arrojo que era calificado de temerario, lo que si bien le proporcionó fama y gloria, también tuvo que sufrir una herida de mosquete en una pierna que le
molestaría de por vida y después sufrió amputación del dedo pulgar
de la mano derecha (mientras atacaba la plaza de Grool en 1606). Sus
acciones bélicas le hicieron merecedor del Toison de Oro, y regresó
a España después de que quedaran sentados los preliminares para la
tregua con Holanda. Antes había viajado a Londres en 1604 (aprovechando la paz con Inglaterra) y por diversas partes de Holanda, lo
que le dio un conocimiento in situ de las auténticas condiciones en que
se hallaban las naciones en conflicto con España que supo aprovechar
muy bien en el futuro.
Al llegar a Madrid, fue recibido por el rey en audiencia privada y
se le pidió que expusiera su personal opinión del estado de las cosas en
Flandes y las posibles consecuencias de la tregua ante el Consejo, que
quedó muy impresionado por la elocuencia y capacidad del duque (fig.2).
Esto le valió un nombramiento de Gentilhombre de Cámara del rey
con plaza en el Consejo de Portugal, y no mucho después, el 18 de septiembre de 1609 fue nombrado virrey de Sicilia.
El Mediterráneo sufría una amenaza constante de los turcos y berberiscos contra el comercio y posesiones españolas en el norte de
África. El problema era antiguo, pero en los últimos treinta años los
turcos habían efectuado más de ochenta desembarcos en puntos distintos de las costas sicilianas y realizado varios saqueos, asaltos e incendios de ciudades. El duque, que había presumido de arrojo, se veía enfrentado a un serio desafío. Demostró que lo aceptaba con todas sus
consecuencias en la manera en que se preparó para asumir el cargo.
Antes de viajar a Sicilia, se volcó en el estudio detenido de las memorias de los virreyes de los últimos veinte años y se informó a través
de tres personas que habían tenido importantes cargos de gobierno
en Sicilia antes, que vivían en Madrid y conocían bien la situación
administrativa de la isla. Se informó (mediante lectura o conversaciones) sobre todo lo relativo a Sicilia o sus gentes: costumbres, riquezas,
producción, puertos, fortificaciones... Consiguió poderes extraordinarios relativos a la revisión de causas criminales. Consiguió que se le
prometiera para la isla una buena escuadra de galeras, que él consideraba entre sus prioridades.
El gran duque de Osuna, relaciones sobre su actuación en el Mediterráneo 411
Desde su nombramiento hasta su toma de posesión, don Pedro Téllez Girón dedicó unos meses a estos menesteres preparatorios. Llegó finalmente a Milazzo el 9 de marzo de 1611, y a Mesina el 1 de
abril de 1611, pero sólo pasó allí tres días y se dirigió a Palermo, donde se le hizo el recibimiento acostumbrado a los virreyes con unas
espléndidas fiestas que duraron tres días.
Enseguida se hizo notar en la isla con un bando de ocho artículos
por los que dejaba claro su poder y decisión de mejorar la situación
de Sicilia. Anuncia que va a revisar las causas criminales y que va a
actuar con rigor con los que protejan a delincuentes. Se prohíbe el uso
de armas cortas blancas o de fuego, se anuncia que no se permitirá el
abuso del derecho de asilo en lugar sagrado y que será clemente con
los malhechores que se presenten voluntariamente a la autoridad en
ocho días.
Sicilia tenía fama de ser refugio de bandidos; el carácter de los isleños, sus leyes internas y su rechazo a la autoridad impuesta habían
proporcionado muchos quebraderos de cabeza a las autoridades. Los
grandes señores tenían bandas de rufianes a su servicio a quienes
amparaban de la justicia, y así campaban a sus anchas todo tipo de
malhechores contra los que la población no podía defenderse. El bando del duque no les intimidó en un principio, pero las cosas cambiaron súbitamente cuando mostró hasta qué punto estaba dispuesto a
que se acatara su autoridad mediante escarmientos sonados: mandó
ejecutar a dos nobles en la plaza pública por ocultar a unos homicidas,
fueron ahorcados siete asesinos, ladrones e incendiarios y doce convictos de delitos menores fueron enviados a galeras.
El duque de Osuna se ganó la confianza de los isleños al visitar
minuciosamente la isla e interesarse directamente por la situación de
las costas, escuchando a variedad de gentes y siendo duro con responsables de gobierno descuidados. En menos de un año se ganó el
respeto y confianza de la mayor parte de los sicilianos.
Desde el principio, una de sus principales preocupaciones fue la
defensa marítima de Sicilia. Creó fábricas y arsenales y se dedicó a
preparar las galeras para recibir a los turcos, que se decía que atacarían pronto. Contaba con nueve galeras, que llegaron de Barcelona a
Nápoles al mando del valeroso palermitano Ottavio de Aragón, hijo
del duque de Terranova, pero con poca tripulación y escasas de víveres y pertrechos. Tres de ellas no pudieron zarpar para Sicilia, lo que
le hizo tomar una determinación: preparar una buena escuadra, para
lo cual había de construir gradas y traer personal de maestranza de
412
Sagrario López Poza
Génova para sentar las quillas de galeras y galeones. También hubo
de buscar capitanes expertos, sin importarle mucho su nacionalidad ni
su sueldo.
Logró construir nueve excelentes galeras para unir a la escuadra.
Su popularidad se acrecentó muy pronto gracias a diversas actuaciones navales. Leyendo la documentación y las relaciones se advierte
que el duque adoptó una postura poco habitual en los últimos tiempos: de unas actuaciones tímidas defensivas de los gobernantes anteriores a su llegada a Sicilia, se pasó no sólo a una eficaz defensa,
sino a una actitud de ataque y ofensiva. Eso debió de desconcertar a
quienes estaban acostumbrados a otra forma de actuación en el Mediterráneo. Los éxitos de Osuna consiguieron que el Parlamento de
Mesina votara recursos extraordinarios para que zarpasen seis galeras
a sorprender a las que se encontraban en el puerto de Túnez, mandadas por un renegado inglés, y que eran número suficiente para saquear
las costas de las Indias occidentales. Las galeras fondearon sigilosamente en la boca del puerto en la madrugada del 23 de mayo de 1612,
y en medio de la noche, cien soldados entraron en el puerto a bordo
de chalupas, con las que se acercaron a las naves enemigas, a las que
lanzaron fuegos de artificio que aterraron a los moros, por lo inesperado del ataque. Siete de las naves enemigas se consumieron envueltas
en llamas, y sus tripulantes se echaron al agua. Los soldados del duque
apresaron en medio del tumulto un navío de mil toneladas y otros
dos buques más pequeños. Cuando ya se retiraban, se les unieron siete
galeras de Nápoles, que les reforzaron y protegieron. Viéndose con
fuerzas aumentadas, atacaron también de noche a Bizerta, donde los
tunecinos acaban de establecer una atarazana con grandes almacenes.
Todo lo abrasaron después de saquear; sus pérdidas no llegaron a diez
hombres, mientras que los tunecinos perdieron quinientos.
Terminado este acoso, las dos escuadras regresaban juntas y cerca
del cabo de Bona hallaron un bergantín al que apresaron. Desembarcado
los treinta y cinco moros que iban a bordo, quemaron la nao con una
bomba de fuego que le arrojaron desde la proa de una nave. Sólo lograron escapar tres tripulantes, que huyeron a nado por hallarse cerca de
tierra. La venganza de los de Túnez no se hizo esperar, e intentaron atacar por sorpresa el puerto de Mesina, pero no lograron más que perder
otras dos naos, dos galeras, tres galeotes y unos quinientos hombres.
Otra de las acciones sonadas se produjo a raíz de un aviso del virrey de Cerdeña al duque de Osuna de que había visto en sus costas
navegar unos bajeles corsarios. El duque ordenó al capitán general
El gran duque de Osuna, relaciones sobre su actuación en el Mediterráneo 413
de la escuadra de Sicilia, don Octavio de Aragón, que saliese en su
búsqueda, y si no los hallaba, pasara a Chicheri, en la costa argelina.
El capitán general partió de Palermo con ocho galeras bien pertrechadas y una tropa de ochocientos soldados. No hallando a los corsarios en las aguas cercanas a Cerdeña, las naves sicilianas se dirigieron a Chicheri, donde hicieron un ataque por sorpresa y lograron
tomar el castillo y apresar al gobernador turco.
Se dirigió la flota después al archipiélago griego en busca de Mahomet Bajá, que estaba por la zona con doce naves cobrando tributos. Don Octavio de Aragón atacó a los turcos, y consiguió que se
rindieran la capitana y otras seis naves, que condujeron a Mesina.
Otros marinos del duque lograron hazañas como la del alférez Jerónimo del Valle, que con una pequeña goleta, con sesenta y cinco
hombres de tripulación, abordó de noche un bajel de Trípoli y lo apresó, sorprendiendo a catorce de los ciento treinta moros que llevaba,
sin más pérdidas por su parte que tres muertos y cuatro heridos.
Todas estas acciones proporcionaron a Sicilia un aumento de la
flota como fruto de la captura de naves enemigas, pero había que dotarlas de armamento y tripulación.
Una misma circunstancia, curiosamente, fue la que granjeó al duque gran prestigio y popularidad y a la vez censuras de algunos hombres de gobierno en la corte. Sus campañas marítimas no eran sólo
defensivas, sino contra el comercio enemigo, siguiendo las leyes de
la guerra; es decir, sus naves salían en corso, perseguían a embarcaciones comerciales, a piratas y a cualquier nave de los turcos o berberiscos. Esta actividad de salir en corso la realizaban por lo general
buques mercantes con patentes de sus gobiernos para defender sus
costas de piratas, pero la particularidad de las naves del duque es que
iban bien dirigidas por un general, capitanes e infantería bien entrenada, lo que procuraba éxitos inusitados. Los comerciantes y hombres de negocios estaban encantados con la actuación del duque, y le
ofrecieron ayuda económica, pero los políticos veían un peligro en
esa actuación, y advertían al rey que no era conveniente que la infantería española se acostumbrara a piratear y que atacara a naves con
mercancías que iban a Levante.
Los éxitos logrados en Sicilia por don Pedro le hicieron acreedor
del ambicionado cargo de virrey de Nápoles, que recibió en 1616. Allí
llegó el duque con su escuadra el 20 de julio de 1616 donde le hicieron
un magnífico recibimiento con el ceremonial propio, arcos de triunfo, arquitectura efímera, emblemas encomiásticos, música, etc. Una
414
Sagrario López Poza
de las inscripciones pedía: «Justicia para nosotros y guerra al turco»,
a lo que el duque, desde la tribuna, respondió: «Tendréis una y otra».
Continuó con el mismo ímpetu la construcción naval, dando nueva vida al arsenal al emprender la construcción de cinco galeones. El
duque conseguía los fondos para la armada de multas, arbitrios o de
las riquezas captadas del enemigo para sufragar los gastos de la armada, de modo que no afectaran a las rentas que habían de entregarse a la corona. Eso le permitía trabajar sin la intervención de la farragosa y lenta administración real. Puede decirse, pues, que la armada
era suya, pues la realizó por su cuenta, sin el encargo ni consentimiento de la Junta de las Armadas de España. Puede imaginarse que eso
no gustaba a algunos nobles (que veían con envidia sus éxitos) ni a los
burócratas, que veían soslayada la maquinaria de la que vivían.
En ese mismo año 1616 inició la campaña poniendo la escuadra
de vela al mando de Francisco de Ribera, con cinco bajeles y mil mosqueteros españoles5. Su misión consistía en buscar a la armada turca
en el Mediterráneo, batirla y ocasionarle el mayor daño posible. Habiendo recalado sobre Chipre y dejándose ver de Famagusta y otros puertos, la escuadra de Ribera estableció crucero en el cabo de Celidonia,
y tres días después, el 14 de julio, se acercaron a sus naves cincuenta y
cinco galeras turcas con más de doce mil hombres dispuestas a desembarcar en Sicilia o Calabria si no se lo impedían. Se inició un
cañoneo a las cuatro de la mañana, y duró hasta la puesta del sol del
día siguiente, con la retirada de los otomanos, pero sin rendirse aún.
Al día siguiente siguió el intercambio de fuego, de que resultaron
muy averiadas otras diez galeras enemigas. Continuó el combate un
día más, y los turcos no lograron el abordaje a las naves españolas.
Finalmente se retiraron, tras ver hundida una nave6, dos desarboladas
y diecisiete bastante dañadas. Este combate del cabo Celidonia tuvo
mucha difusión y trascendencia sobre todo por la propaganda que se
le dio a través de las relaciones de sucesos impresas. Las noticias
iban aumentando y exagerando probablemente la verdad. Se decía
que habían muerto 1.200 jenízaros, y de marinería más de 2.000 hombres. Por parte de la escuadra del Duque hubo 34 muertos, 93 heridos
graves y muchos leves. Ribera fue levemente herido en la cara. Los
5
«Concepción», capitana de 52 cañones; «Almirante», de 34, al mando del alférez Serrano; nao «Carretina», de 34, por el alférez Valmaseda; «San Juan Bautista»,
de 30, por Juan de Cereceda y el patache «Santiago», de 14, por el alférez Garraza.
6
Al parecer, Ribera dio parte de que se echó al fondo una galera, pero algunas
relaciones dicen que fueron cinco, y en otras, que dos fueron voladas.
El gran duque de Osuna, relaciones sobre su actuación en el Mediterráneo 415
galeones quedaron destrozados. La capitana y el patache tuvieron
que ser remolcados. La flota maltrecha se dirigió a Candia, donde se
reparó lo imprescindible, y luego se dirigió a Nápoles, donde les esperaba el Duque. Este distinguió con premios a sus subordinados y el
Rey honró al toledano capitán Ribera con el hábito de Santiago y
título de almirante. Con esta acción la Marina del Duque de Osuna
adquirió gran reputación y prestigio moral.
De la batalla naval de Celidonia, se publicaron en España varios
relatos. El poeta y dramaturgo Luis Vélez de Guevara, se inspiró en ella
para escribir la comedia titulada El asombro de Turquía y el valiente
toledano. Con tono encomiástico, dice entre otras frases:
Ese que hiciste capitán famoso,
Ese que el mundo por edades nombre,
De cuyo aliento Marte está envidioso,
De cuyo nombre tiembla cualquier hombre
A quien se debe el triunfo victorioso,
A quien se le atribuye por renombre
Ser vencedor de aquesta acción primera,
Ya sabes que es el Capitán Ribera.
Los éxitos del duque, sabiamente difundidos con una campaña de
propaganda muy bien meditada, frenaban a sus enemigos en la corte.
Por entonces ya estaban terminados cinco nuevos galeones, a los que
llamó «Las cinco llagas» y que puso bajo la dirección de Jacques Pierre, excelente capitán cuyos servicios ya había utilizado antes. Durante cinco meses navegaron por el Mediterráneo, por el archipiélago
griego y cerca de las costas de Turquía.
En todas estas acciones era muy importante el espionaje, y gracias
a ello se supo que un renegado calabrés célebre, conocido como Azán,
había salido de Constantinopla con doce galeras. Las diez enviadas por
el duque (haciendo alarde de que con ellas bastaban) mantuvieron un
terrible combate con las turcas durante dos días; como consecuencia,
se apresaron cinco de las enemigas, se destruyeron cuatro, tres huyeron y se liberaron dos bajeles japoneses que llevaban apresados.
Otro acontecimiento que tuvo gran trascendencia fue la acción
contra Mahomad Asan, hijo del renegado vencido en el anterior combate, que había llegado a la costa de Calabria con ansias de venganza.
Realizó varios desembarcos en poblaciones pequeñas, donde tomó muchos esclavos, aprovechándose de las dificultades que entonces tenía
416
Sagrario López Poza
el duque para enviar socorro. Don Pedro Pimentel, que mandaba las
galeras de España, logró finalmente tomar la capitana turca, con otra
que se rindió; otra zozobró y dos más huyeron. Una bala de cañón le
arrancó una pierna a Mahomad Asan, que murió como consecuencia
de ello. Se hicieron 300 prisioneros y se liberaron a otros 300 cautivos
cristianos.
Pero las actividades del duque dieron un giro político que le hicieron atender no sólo a la defensa del Mediterráneo y la parte del Adriático que afectaba a las costas del reino de Nápoles, sino a la parte del
golfo de Venecia, celosamente defendida por esa república que mantenía una independencia con dificultades rodeada de posesiones de la
familia de los Austrias.
La arrogancia de Venecia, que deseaba dominar como dueña absoluta el Adriático era mal tolerada por los españoles, contra los que
actuaba siempre que podía, bien fuera siendo permisiva o incluso ayudando a los turcos, los holandeses o los berberiscos —enemigos de territorios españoles— o cobrando elevados impuestos de tráfico a bajeles
dependientes de la familia Habsburgo. Lo mismo hacía con súbditos
del papa, el duque de Urbino, los anconitanos, los raguseros... Sólo hallaba resistencia en los uscoques (dálmatas, croatas y albaneses) que
bajo la protección del rey de Hungría habitaban en el golfo Quarnaro, en las costas de Croacia y con frecuencia andaban al corso contra
turcos y de vez en cuando arremetían contra algún barco veneciano y
lo despojaban de sus mercancías.
En varias ocasiones, la Señoría de Venecia se enfrentó en guerra
contra los estados de Fernando, archiduque de Austria, que gobernaba
la provincia donde vivían los uscoques por mandato del emperador
Matías (su primo). Para España era importante asegurar una comuncación segura con las posesiones germanas de la familia Habsburgo
y dominar el norte de Italia significaba tener asegurado el paso alpino.
Se deseaba fervientemente reducir a Venecia al mismo estado de servidumbre que Génova, aunque no era nada fácil.
La ocasión se vio cuando coincidieron en la zona tres personalidades de un empuje similar: el duque de Osuna, virrey de Nápoles, D.
Pedro de Toledo, marqués de Villafranca, gobernador de Milán y el embajador español en Venecia, el duque de Bedmar (fig.3). Los tres, según se dijo, fraguaron una conspiración —sin duda alguna con conocimiento del rey de España— para derrocar a la Señoría de Venecia
el 14 de mayo de 1618. Aunque los acontecimientos aún no se han aclarado convenientemente, parece que por alguna razón el gobierno
El gran duque de Osuna, relaciones sobre su actuación en el Mediterráneo 417
español decidió que debía abortarse la actuación contra Venecia —al
parecer porque la seguridad veneciana lo había advertido—, pero
Osuna siguió adelante con un plan de un golpe de mano que fracasó
con la detención y ahorcamiento de varias decenas de extranjeros en
Venecia y el ataque a la casa del embajador español.
Súbitamente, los enemigos del duque de Osuna comenzaron a acusarlo no sólo de la “conjura de Venecia”, sino de intentar independizar
Nápoles de la corona española y autoproclamarse rey. A este tipo de acusaciones contribuyó sin duda algún acto de imprudencia del duque, como el que describe Leti en el tomo tercero de la biografía que hizo del
duque (fig.4): al parecer, don Pedro Téllez Girón había dado una espléndida comida a 30 príncipes y nobles principales de Nápoles y después se dirigió a una estancia donde se guardaba el tesoro de los reyes
de Nápoles, que tenía entre otras cosas tres coronas del último rey, Alfonso y los cetros. Cogió una de las coronas reales, llenas de pedrería y
un cetro y salió al balcón, donde el pueblo le vitoreó por un cuarto de
hora (era domingo, y cuando salía el virrey al balcón siempre procedían así). Luego, volviendo hacia los invitados, les preguntó cómo le quedaba en la cabeza la corona, y el príncipe di Bisignano, primer titulado
del reino, le dijo que en la cabeza del rey estaba bien, mas no en la suya.
Se quitó el virrey la corona enseguida y dijo: «Así lo entiendo yo también, y no de otra manera». El pueblo gritaba «¡Viva don Pedro, duque
de Osuna, nuestro rey!». Se dice que dos días antes había mandado
buscar gente para que le aplaudiera y vitoreara, y eso sentó muy mal a
los nobles. Se creyó que no fue un acto espontáneo, sino premeditado.
Se dice que el propio príncipe de Bisignano escribió al rey contando lo
sucedido. Según Leti esto fue lo que unido a otras actuaciones, precipitó
su caída, la expedición secreta y estratagema del cardenal Borgia para
sacarle de improviso del gobierno a Osuna y colocarse él mismo.7

Documentos relacionados