Il conflitto nella storia economica dell`umanità

Transcripción

Il conflitto nella storia economica dell`umanità
Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto
(2006) CIAFIC Ediciones
Il conflitto nella storia economica
dell’umanità
Prof. Vera Zamagni∗
Il titolo della mia relazione è “Il conflitto nella storia
economica dell’umanità”, ma vi dirò più di preciso l’argomento
fra breve. Si è molto parlato finora dei conflitti dal punto di vista
delle loro cause, e delle loro potenzialità di superamento, un
superamento che si può ottenere cambiando mentalità,
utilizzando il dialogo, ponendo in essere strumenti giuridici
adeguati. Proverò ora, per aggiungere qualche idea, a prendere
un’altra prospettiva, anche perché la mia preparazione storica
mi porta a vedere i risultati del conflitto molto più che non le loro
cause.
In questa relazione cercherò di delineare l’evoluzione nella
storia delle implicazioni dei conflitti distruttivi, quando cioè il
conflitto è degenerato in violenza, come diceva Savagnone ieri.
Ho apprezzato molto la distinzione tra conflitto e violenza, che
non sono la stessa cosa, però si implicano: noi sappiamo che
esistono conflitti latenti, che quando degenerano, quando
usano la violenza, diventano aperti. Occorre distinguere tra due
livelli di conflitti aperti nelle società: primo livello, conflitti tra
entità politiche diverse e separate, siano esse tribù, città,
regioni, stati, è il conflitto che noi normalmente chiamiamo
guerra; secondo livello, conflitti all’interno di entità politiche tra
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Titular de Historia Económica de la Universidad de Bologna
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classi sociali, tra gruppi, tra partiti, che danno luogo, non tanto a
guerre, oppure, talora a guerre civili, ma piuttosto a rivolte,
rivoluzioni, colpi di stato, atti terroristici. Non sono, dunque, qui
interessata alle motivazioni per cui si genera il conflitto: essi
possono avere una radice solo economica, essere conflitti di
interesse, oppure identitari, oppure ideologici, o un insieme di
tutte queste cause, come succede spesso. Molto spesso le
guerre, i conflitti, le rivoluzioni, le rivolte, non hanno una sola
motivazione, ma ne mettono insieme una serie. Quello che mi
propongo in questa esposizione è di vedere com’è cambiato
nella storia l’impatto di questi conflitti aperti, limitandomi al
primo livello
Ci sono tre epoche nell’evoluzione dell’umanità. Tre
epoche che sono state definite così: la civiltà così detta silvopastorale, la civiltà agraria e la civiltà industriale. La civiltà silvopastorale è durata non si sa quanti anni, migliaia, decine dei
migliaia di anni, e ha una caratteristica importante ai nostri
scopi per capire come si determinano i conflitti. Spenderò
poche parole per questa civiltà così distante dalla nostra, però
un paio di osservazioni sono importanti. La civiltà silvopastorale è una civiltà non stanziale, la gente non può stare
ferma, perché non coltiva la terra e non alleva gli animali e
dunque, dovendo raccogliere i frutti della terra come e quando
vengono prodotti della terra stessa, deve continuamente
spostarsi. E’ la civiltà della tenda, nella Bibbia ce ne sono molti
esempi, o delle caverne, e dunque è una civiltà senza
accumulazione; non si può accumulare, perché non c’è
neanche la ruota per portarsi in giro qualche cosa su di una
carriola, non si accumula fisicamente ma poco anche
intellettualmente, perché in questa civiltà silvo-pastorale non c’è
la scrittura. Un’altra osservazione, c’è poca popolazione; infatti i
bassissimi livelli di conoscenza rendevano la mortalità
elevatissima, la speranza di vita alla nascita era di venticinque
anni in questa società, e dunque c’era una popolazione molto
limitata, pochi milioni di persone in tutto il mondo, ma sparsi,
per cui si scontravano raramente perché avevano immensi
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territori sui quali potevano muoversi senza incontrarsi. Se si
incontravano, naturalmente c’erano conflitti, perché gli altri
erano considerati per definizione nemici non conoscendosi
nulla di loro, dato che si era sempre vissuti distante. I conflitti
erano però abbastanza rari per il fatto che la popolazione era
sparsa.
Niente di più di questo si può dire perché abbiamo
conoscenze vaghissime di questo periodo di tempo, che arriva
fino al settimo millennio primo di Cristo (a.C.). Attorno al settimo
millennio prima di Cristo incomincia la civiltà agricola. Qui devo
subito ricordare una cosa importante, ossia che non tutti i
precedenti insediamenti umani passarono alla civiltà agricola. E
abbiamo qui una prima questione che riemergerà in tempi
successivi e cioè che incominciano a coesistere nel mondo
livelli di avanzamento intellettuale, economico, sociale diversi,
perché alcune società non passano allo stadio di sviluppo
successivo. La civiltà agricola dura dal settimo millennio primo
di Cristo fino a circa il XII-XIII secolo dopo Cristo, questo nelle
zone che passano oltre, perché in alcune zone si rimane alla
civiltà agricola e non si passa mai oltre. Avremo quindi in futuro
tanti livelli, quelli delle aree che sono rimaste alla civiltà silvopastorale, quelli che rimangono alla civiltà agricola e quelli che
passano oltre alla civiltà industriale. Questo è già un punto
importante sul quale rifletteremo.
Ma adesso torniamo alla civiltà agricola. Già è stato detto
che l’epoca pre-moderna, e noi possiamo interpretare il
concetto di pre-moderno come civiltà agricola, è un’epoca
altamente conflittuale. Cerchiamo di capire come mai è così
altamente conflittuale. La civiltà agricola aveva come
caratteristica la stanzialità, diversamente da quella silvopastorale in cui le persone si muovevano sempre; è la civiltà
dove la gente si ferma, perché coltiva e quindi deve stare sui
campi, perché alleva e quindi deve ricoverare gli animali e
tenerli in una certa zona ben delimitata. Dunque, la stanzialità
permise la costruzione delle città, e permise le prime forme
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d’accumulazione. Questo generò: 1) l’approfondirsi di differenze
culturali,
perché
i
diversi
ritmi
di
accumulazione
approfondiscono le differenze esistenti; gli alti costi di trasporto,
poi, tenevano queste società agricole ancora più ferme in un
posto, e dunque, anche dal punto di vista culturale esse
continuavano ad approfondire le loro differenze. Tanto è vero
che è proprio in questa civiltà che emerge il concetto di
sovranità politica, ossia un potere che si definiva, che si
determinava in un luogo, diventava sovrano, perché non
divideva questo potere con nessuno. La sovranità suggerisce
anche un concetto di separazione: devo essere separato, per
poter delimitare bene i confini del potere sovrano; 2) la seconda
implicazione della stanzialità è la produzione di eserciti e di
strumenti di guerra che supportavano un espansionismo. Se
uno di questi stati voleva, aveva intenzione - adesso vedremo i
motivi - di espandersi fuori del suo territorio d’elezione, lo
poteva fare meglio che non nel passato, perché la civiltà
agricola permetteva un piccolo sovrappiù, non grande ma
sufficiente per mantenere degli eserciti.
E dunque chiediamoci per quale motivo qualcuno di questi
stati volesse spingersi fuori dei propri confini, confini definiti,
come dicevamo prima, dalla sovranità sul territorio di elezione.
Il fatto è che in questo periodo storico che è sì più avanzato
rispetto alla civiltà silvo-pastorale, una volta raggiunto un certo
livello di produzione non si poteva andare oltre perché non
c’era una tecnologia dinamica, la tecnologia evolveva molto
lentamente. E dunque, la consistenza fisica, geografica di uno
Stato, di una città, di una entità politica ne segnavano i limiti di
ricchezza. Per crescere oltre il livello raggiunto, una società
agraria non aveva altra alternativa che acquisire altra terra da
sfruttare, e altri popoli da fare schiavi. Questo è il punto centrale
che spiega perché le società agrarie siano state così conflittuali.
Non c’era possibilità di diventare più ricchi stando sul
medesimo territorio; per diventare più ricchi occorreva acquisire
il territorio di un vicino e/o la popolazione di un vicino che
poteva essere utilizzata come schiavi dato che non c’erano le
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macchine, e quindi, tutto il lavoro manuale veniva fatto dagli
schiavi.
Si spiegano così molte delle guerre dell’epoca della civiltà
agricola. Ci sono, ovviamente, anche guerre di carattere
identitario, guerre di carattere ideologico; nella Bibbia per
esempio, è segnalato il contrasto di fondo tra gli egiziani e gli
ebrei, su problemi di principio. Ma sicuramente dal punto di
vista economico c’era il problema di fondo, che la guerra sì
“giustificava” nel momento in cui una entità statuale voleva
ingrandirsi, voleva diventare più potente, voleva diventare più
ricca. Ora, si può dire che, se il periodo della civiltà agricola è
durato così a lungo, ciò è anche dovuto agli effetti di questi
conflitti armati, che hanno distrutto intere civiltà, che si sono
dovute talora recuperare in seguito con molte fatiche. E quindi
era un periodo storico diverso da quello silvo-pastorale che non
aveva avanzamento, in cui c’erano sì degli avanzamenti, ma
anche dei declini pesantissimi. Conflitti armati distruggevano
intere civiltà, arrivavano i barbari e non si interessavano della
civiltà che c’era, la toglievano di mezzo perché volevano
ingrandirsi, volevano espandersi e si ritornava da capo.
Gli economisti pensano sempre che questo sia un periodo
non progressivo. Non è così; la tendenza al progresso c’era,
ma veniva bloccata fondamentalmente da questo continuo
ricorso alla violenza che interrompeva la possibilità di
accumulazione. I periodi di pace erano ovviamente i più positivi.
L’Impero Romano, che riuscì meglio di altri a mantenere la
pace per un lungo periodo storico, fiorì più di altri. La Cina, che
attraverso la Muraglia Cinese riuscì a mantenere la pace più a
lungo, avanzò più di altre aree. Quindi, anche in quel periodo
storico, i periodi di pace erano più positivi, però non si riusciva a
mantenerli.
Una nota sulla tecnologia bellica. Qualcuno ha suggerito
che le guerre siano stati utili per sviluppare tecnologie belliche,
le quali poi dopo avrebbero avuto ricadute positive a scopi civili.
Alcune influenze civili delle tecnologie belliche ci sono state, ma
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ormai la letteratura è chiara su questo punto: le più grandi
rivoluzioni tecnologiche di questo periodo storico non sono
collegate a motivi bellici, nemmeno la polvere da sparo. La
polvere da sparo fu inventata per i fuochi artificiali, per fare
festa. Possiamo dire che alcune costruzioni navali furono fatte
appositamente per motivi bellici, un po’ di lavorazione del
metallo, ma si tratta di evoluzioni piuttosto marginali. Nessuna
delle invenzioni moderne cruciali fu fatta a scopi bellici, come
l’orologio insegna.
Dunque questo periodo storico è durato molto a lungo
senza un duraturo avanzamento per i motivi detti. Tuttavia, a
partire dal XII-XIII secolo, usciamo fuori da questo periodo e
passiamo lentamente a quella che diventerà la civiltà
industriale. Ripeto quello che ho già detto prima: non tutte le
civiltà agricole sono passate alla civiltà industriale, solamente
poche, anzi, diciamo che una sola inizialmente passò. C’è
ormai una letteratura vastissima su come mai sia stata la civiltà
occidentale, la civiltà Europea, che è passata prima di tutte le
altre dalla civiltà agricola a quella industriale. Approfondiremo,
un po’ di più quest’epoca, che ci è più vicina e ci risulta più
interessante.
In quest’epoca, pian piano per vari motivi legati all’uso
della ricchezza -un uso d’investimento, un uso produttivo, un
uso legato alla conoscenza, perché c’era stato San Benedetto
che aveva detto “Ora, et labora”, e quindi chi pensava doveva
anche lavorare e perciò cercava di risolvere i problemi del
lavoro, cercava di diminuire la fatica, la pesantezza del lavoroc’è stata tutta una serie di innovazioni. Le innovazioni sono
state in primo luogo istituzionali: pensiamo alla “commenda”
che è l’anticipazione della società per azione, cioè, l’idea di
conferire capitale ad altri perché lo utilizzino in modo da fare un
investimento di grandi proporzioni (Venezia, dodicesimo
secolo); pensiamo alla nascita della banca (Firenze, Genova,
Venezia, XII-XIII secolo), e pensiamo alla partita doppia, quindi
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al modo di calcolare il risultato delle attività economiche, ecc.,
ecc.
Le innovazioni istituzionali e quelle tecniche aumentarono
la produttività in maniera sostanziale. Questo cominciò a
suggerire alla gente che per diventare ricchi non interessava
più la proprietà della terra e nemmeno la proprietà degli schiavi,
che vennero, in effetti, aboliti, sostituiti dalle macchine -la
famosa caldaia a vapore quando venne inventata nel corso del
diciottesimo secolo veniva vista come una meraviglia e molti
dicevano, “comprate una caldaia a vapore, avrete duecento
schiavi, trecento schiavi in un’unica caldaia a vapore, che
lavoreranno per voi”.
Quello che si verifica in quest’epoca di rilevante per il
presente discorso sono le seguenti cose. Primo, non
interessava più avere la proprietà di grandi estensioni di terra,
quanto avere il dominio dei mercati; secondo, non interessava
più avere gli schiavi, perché c’erano le macchine, ma anche
perché serviva capitale umano. Non si può avere uno schiavo
con capitale umano, perché il capitale umano è un investimento
nella educazione, creatività dell’individuo che richiede una
adesione da parte dell’individuo al progetto educativo, e
dunque, non può essere portato avanti in un sistema
schiavistico.
Per un lungo periodo di tempo certe risorse sono rimaste
ancora strategiche e, infatti, ci sono stati ancora problemi legati
all’individuazione e al controllo di risorse strategiche, però
tendenzialmente queste risorse strategiche vengono sostituite da
produzioni artificiali. Con il progresso tecnico si realizza la
tensione a sostituire risorse che in un periodo storico vengono
ritenute indispensabili con altre prodotte artificialmente. Oggi
siamo rimasti praticamente con un’unica risorsa strategica, il
petrolio, ma non so quanto a lungo, perché probabilmente verrà
sostituito anche quello; una volta era il carbone, ma è stato
largamente sostituito. E dunque la “terra” diventa sempre meno
importante come obiettivo per arricchirsi.
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I mercati diventano importanti; ecco dunque il vantaggio
delle aree di libero scambio. Cominciano a diventare importanti
le aree di libero scambio perché quello che interessa sono i
mercati, ma per fare aree di libero scambio, bisogna allargare le
aree di pace. Non si fa un’area di libero scambio con qualcuno
con cui si è in guerra. E dunque, ecco, il vantaggio per esempio
degli Stati Uniti, che per una congiuntura storica fin dall’origine,
fin dall’inizio, costituì stati che non si facevano la guerra. Per
loro fu un enorme vantaggio, perché riuscirono a costruire un
grande mercato con facilità, mentre altrove questo rimase un
problema che dovette essere risolto sull’arco di un lungo
periodo di tempo. Pensiamo al lungo processo di unificazione
tedesca, o all’unificazione italiana. Pensate che la Germania,
prima del Congresso di Vienna, era fatta di oltre quattrocento
stati. Con il Congresso di Vienna diventarono trentanove e
solamente nel 1871 la Germania si unificò. Dunque, pensate
quale lungo travaglio per creare questi mercati unificati. Uno dei
problemi importanti generato dalla rivoluzione industriale fu
quello di eliminare motivi di contrasto, di conflitto, di guerra
perché il mercato lo richiede. Il grande vantaggio oggi dell’Asia,
specie India e Cina, è che hanno mercati vastissimi, con
caratteristiche di pace, perché sono riusciti da tempo ad
eliminare condizioni di guerra. E’ questa una forte spinta a
moderare i motivi di conflitto tra nazioni sovrane.
Ma riflettiamo sul capitale umano. La principale risorsa del
progresso è diventata, come dicevo, il capitale umano. C’è
stato un unico caso famoso di acquisizione di capitale umano
con la guerra ed è la Russia dopo la Seconda Guerra Mondiale,
che acquisì una certa parte di scienziati tedeschi e li portò in
Russia. Ma altrimenti, è chiaro che il capitale umano si forma in
un clima di pace e si allarga, appunto, con la possibilità di girare
in pace da università ad università
Abbiamo, dunque, due motivi -mercati aperti e capitale
umano- per cui la guerra non è più considerata utile in una
civiltà industriale allo scopo di diventare più ricchi, allo scopo de
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allargare le proprie possibilità e il proprio potere da parte di
entità politiche. Resta un solo motivo di conflitto, quello sulle
risorse strategiche: petrolio, acqua, sbocchi al mare, in questo
caso la guerra può ancora essere uno strumento, ma la
tecnologia si propone sempre più l’obiettivo, come vi dicevo, di
trovare dei fattori sostitutivi.
La conclusione che ne emerge è che la civiltà industriale è
antitetica al conflitto armato. Si va verso livelli di cooperazione
internazionale sempre più estesi. Solo dopo la seconda guerra
mondiale viene in esistenza tutta una serie di organizzazioni
internazionali, che prima non erano mai esistite, e paesi come
quelli europei che avevano mantenuto in maniera rigida la loro
sovranità nazionale finalmente decidono di conferire una parte
di questa sovranità a qualche forma di coordinamento superiore
per diminuire o completamente eliminare la possibilità di guerre
fra di loro.
Si va verso livelli di cooperazione internazionale sempre più
estesi. Ma allora, qualcuno potrà chiedere, perché due guerre
mondiali in epoca industriale? Tutti gli studiosi concordano che si
è trattato di un malaugurato effetto di isteresi. L’unificazione della
Germania nel 1871 ha portato al potere gli Hohenzollern, una
famiglia prussiana che era legata ancora a vecchi schemi -la
Prussia era sempre stata molto legata a guerre-, era ancora
legata ai vecchi schemi secondo cui la potenza si allargava
facendo guerre, e dunque cercò qualsiasi occasione per
riproporre questo modello. Dopo di che la Pace di Versailles fu
tremenda e generò la sindrome della vendetta e questo si
trascinò dietro la seconda guerra mondiale. Ma, già durante la
prima guerra mondiale il primo ministro tedesco rilasciò una
dichiarazione che diceva, “noi stiamo qui a farci la guerra quando
in realtà dovremmo preoccuparci di misurarci sui mercati
internazionali con la grande potenza degli Stati Uniti il che ci
dovrebbe invece spingere, invece che a farci la guerra, a metterci
insieme”. Arrivo ad alcune note finali che propongo come
riflessione conclusiva rispetto alla cavalcata molto rapida che vi
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ho proposto attraverso la storia per capire come mai, più si arriva
verso civiltà attuali e meno la guerra è giustificabile, non solo dal
punto di vista ideologico, di principio, dei diritti umani, ecc., ma
nemmeno dal punto di vista della ricchezza e quindi della
potenza, perché con la accumulazione che, ovviamente, durante
il periodo industriale diventa sempre maggiore, quel pericolo di
declino, che già avevamo visto prodursi nell’epoca agricola con le
guerre, diventa ancora più serio.
Le mie osservazioni finali sono quattro. Prima osservazione.
Gli effetti di “spillover” della tecnologia bellica non sono stati
importanti nemmeno nell’epoca industriale. Qui c’è tutta una serie
di studiosi che ha approfondito questo punto; si può dire che in
qualche particolare caso c’è stato un impatto di tecnologie
belliche, vi farò un esempio per spiegarmi. Durante la Seconda
guerra mondiale venne molto approfondita la ricerca in campo
informatico, ma la IBM (International Business Machines), che
era stata fondata nell’anno 1890, in realtà lavorava per i
censimenti, e da lì era pronta a sviluppare qualche cosa che
potesse servire alla guerra, per la logistica militare e così andò
avanti, in effetti, a tal punto che dopo la Seconda Guerra
Mondiale nacquero i primi computer, quelle cose enormi che
stavano in due o tre stanze. Però l’IBM non era una impresa
messa su apposta per la guerra con una idea nuova, era una
impresa che era lì da tempo, lavorava per scopi civili e venne
utilizzata temporaneamente per la guerra. Nemmeno sapete la
bomba atomica fu cercata a scopi bellici; era uno studio che era lì
da molto tempo, già sviluppato da Fermi negli anni ‘30, e che si
cercò di utilizzare a scopi bellici. Non si va da nessuna parte
pensando che la guerra possa essere indispensabile per
l’avanzamento della tecnologia, non c’è evidenza storica su
questo.
La seconda conclusione è questa. Il paese leader può
diventare poliziotto del mondo, cioè diventare quello che è
responsabile degli equilibri mondiali, e in questo senso dover
investire di più in produzioni belliche, che non gli altri paesi.
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Questa è la famosa tesi di Paul Kennedy, del “overburdening”,
cioè del peso eccessivo che il leader ha sulle spalle a scopo di
mantenere l’equilibrio mondiale. Kennedy applica questa
categoria in vari casi storici, e particolarmente alla Gran
Bretagna del ‘900, e agli Stati Uniti di oggi e dice che questo
può essere un fattore addirittura di regresso economico. Si
finisce con lo spendere troppo per gli armamenti. Forse
l’Unione Sovietica è l’esempio migliore di questo; essendo gli
armamenti dal tutto improduttivi, soprattutto se non vengono
utilizzati, finiscono con l’esaurire l’economia che li produce.
Pensate a tutti i missili atomici che sono stati prodotti dalla
Russia e dagli Stati Uniti, e che poi sono stati distrutti, perché
sono rimasti superati dal punto di vista tecnologico, ma anche
perché non potevano essere utilizzati senza che l’intero mondo
fosse distrutto. Pensate, quindi, alla totale inutilità di quella
produzione bellica. Dunque chi lavora di più con la guerra ne ha
tendenzialmente un effetto negativo, invece di un effetto
positivo, in un contesto di economia industriale.
La terza osservazione è la seguente. L’elaborazione di
alcuni marxisti come Rosa Luxemburg, in base alla quale il
capitalismo maturo doveva per forza essere “guerrafondaio”,
cioè, portare guerre dappertutto, e colonialista, si è dimostrata
del tutto sbagliata. Il capitalismo preferisce di gran lunga l’arma
delle transnazionali, alle guerre. Il Vietnam è una eccezione che
conferma la regola, tanto è vero che gli americani si sono
ampiamente ritirati dal Vietnam. L’Iraq è un’altra eccezione.
Ricordo qui, dato che non mi sono soffermata prima su questo
tema, che il colonialismo è tutta una questione dell’epoca premoderna, non della civiltà industriale, ma della civiltà
precedente, che ha un trascinamento successivo, ma tutto il
colonialismo spagnolo, portoghese, inglese, olandese è preindustriale. Il fatto che la Germania o l’Italia abbiano tentato di
seguire questo modello coloniale in tempi recenti è interessante
perché sono due casi di totale insuccesso; la Germania e l’Italia
non hanno mai ottenuto nessun risultato dal loro colonialismo.
E’ strano che certo marxismo invece pensasse che il
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colonialismo fosse una fase matura del capitalismo. Non ho mai
capito bene come mai, forse anche questo è un effetto di
isteresi.
La mia ultima osservazione ha a che fare con un concetto
che è stato ampiamente spiegato da Sidney Pollard, che si
chiama “differenziale della contemporaneità”. Pollard è stato un
grande storico economico e ha scritto La conquista pacifica: bello
il titolo del suo libro, per lui è proprio l’industrializzazione che
porta a un mutamento sostanziale nei confronti dei rapporti
internazionali. Che cosa è il differenziale della contemporaneità?
Il differenziale della contemporaneità è questo: il mondo è
costituito da soggetti statuali, entità politiche a diversi livelli di
sviluppo, a diversi gradi di sviluppo. Nel mondo succedono però
delle cose che impattano su tutti. Pollard fa l’esempio famoso
delle ferrovie: vengono inventate le ferrovie; è la Gran Bretagna
che le inventa, un paese era già industrializzato, che applica la
caldaia a vapore già inventata per altri scopi, per muovere una
locomotiva. Tutto bene, naturalmente, in Gran Bretagna, perché
questa aveva già fatto la rivoluzione industriale e dunque aveva
cose da trasportare sulla ferrovia, aveva l’industria metallurgica
per costruire le rotaie e le locomotive, aveva le conoscenze, tutto
bene, non ci sono problemi. Stati Uniti e Germania erano già sulla
strada dell’industrializzazione, ma ancora non avevano l’industria
metallurgica: le ferrovie diventano l’occasione per andare avanti,
per industrializzarsi. Ma paesi ancora più indietro come l’Italia non
riescono a mettere in piedi l’industria metallurgica. Allora, cosa
fanno? Servendosi del commercio internazionale e della
specializzazione internazionale del lavoro, l’Italia produceva seta,
vendeva la seta e si comprava le locomotive e le rotaie; così
l’Italia ebbe le sue ferrovie, importate. Ma, la Turchia che era
ancora più indietro, non aveva niente da vendere all’estero. Allora
lo stato cosa fece? Una deuda, un debito, per comprarsi le
ferrovie, chiavi in mano dall’estero, e fallì perché non riuscì a
trovare una fonte sufficiente di tassazione per coprire le spese
delle ferrovie. Le ferrovie poi, non servivano a niente perché non
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c’era niente da trasportare, la gente era troppo povera, quindi
erano un gioco, un gingillo, qualche cosa d’inutile.
Ecco dunque il differenziale della contemporaneità: la
ferrovia, che è uguale per tutti, s’impatta su un livello diverso di
sviluppo e dunque dà risultati totalmente diversi, compreso un
fallimento
totale
in
Turchia.
Il
differenziale
della
contemporaneità spiega anche l’esistenza, nella fase
industriale, di molti paesi che sono ancora legati a forme di
conflitti del tipo di quelli che ho spiegato, cioè, conflitti
guerreggiati, che non hanno più senso nel mondo attuale, ma
che sono lì perché questi paesi, nonostante il mondo attuale dia
suggerimenti contrari, sono ancora legati a forme precedenti di
comportamento, di mentalità, di visione delle problematiche.
A questo punto, ed è l’ultimo pensiero che voglio offrirvi,
bisognerebbe passare dal differenziale della contemporaneità
ai vantaggi dell’arretratezza. E’ un altro studioso famoso che si
chiama Gershenkron, che ha voluto suggerire questo
paradosso: ma ci sarà mai un vantaggio nella arretratezza?
Alexander Gershenkron sosteneva che i paesi che vengono
dopo, quelli che hanno condizioni precedenti rispetto alla civiltà
industriale, possono avvantaggiarsi dell’esperienza dei paesi
più avanzati, saltando dei passaggi. Vedendo il punto di arrivo,
si può evitare di fare tutta la strada che è stata fatta, per
esempio, dalla civiltà inglese o francese o tedesca, che hanno
speso molto tempo in guerre inutili.
Uno dei migliori esempi di paese che è stato capace di
cogliere dei vantaggi della arretratezza è quello degli Stati Uniti.
Più arretrata della zona americana non c’era niente, perché gli
indiani locali erano veramente ancora al livello silvo-pastorale.
È vero che gli emigranti venivano dall’Inghilterra e dunque non
erano a quel livello, però è anche vero che venivano comunque
da una società agricola. Ebbene, gli stati americani sono riusciti
a fare un passo in avanti, introducendo subito la democrazia.
Uno degli aspetti che sempre colpisce degli Stati Uniti è che
sono nati democratici, sono riusciti a saltare la fase assolutista.
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E così nel rapporto fra gli stati americani c’è stata subito la
dichiarazione di federazione. In Europa abbiamo un unico
esempio che è la Svizzera, un esempio un po’ particolare,
mentre in generale noi europei abbiamo dovuto ricuperare
questa idea di federazione dopo immani e sanguinose guerre.
E dunque, i vantaggi dell’arretratezza ci potrebbero
suggerire una soluzione di questo genere: guardando
l’esperienza dei paesi più avanzati si possono predisporre le
condizioni per saltare dei passaggi, eliminando i motivi che
possono portare a guerre guerreggiate e trovando il modo
giusto di convivere pacificamente. Adesso, abbiamo anche
molti sviluppi in campo giuridico come in campo politico, che ci
possono aiutare ad andare in questa direzione; oggi ci sono dei
modelli, che originariamente si erano dovuti inventare.
Qualcuno potrà obiettare che è difficile realizzare i
vantaggi dell’arretratezza, perché se fosse facile non ci sarebbe
più una guerra nel mondo e nemmeno ci sarebbe il
sottosviluppo. Infatti, c’è tutta una letteratura storica che
conferma che questi vantaggi della arretratezza, alcuni sono
capaci di ottenerli e altri invece no. Ritorniamo, dunque, alla
responsabilità da parti dei singoli e degli stati che fa sì che certe
aree avanzino e altre invece rimangano arretrate, anzi,
addirittura scompaiano della circolazione. Con questo richiamo
all’uso corretto della libertà, ho terminato la mia esposizione.
DIÁLOGO
- Prof. Brenci: Vorrei fare qualche osservazione. Cominciamo con le
datazioni. L’arrivo del Homo Sapiens è databile secondo gli antropologi a
circa trentamila anni fa dopo un periodo di coabitazione sulla terra con
l’uomo di Neandertal che sparirà per selezione.
Una seconda nota è sulla successione dei periodi.
Spesso ragioniamo per grandi blocchi per esempio cacciatoriraccoglitori, pastori-agricoltori perdendo molti informazioni e rendendo
contigui periodi che non lo sono. Esiste una evoluzione della specie
umana difficilmente schematizzabile e che presenta posizioni dei periodi
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non rappresentabili con una successione. Per comodità noi dividiamo i
raccoglitori dai coltivatori.. Nella realtà abbiamo avuto lunghi periodi nei
quali i cosiddetti raccoglitori avendo scoperto alcune caratteristiche della
fertilità de la terra le utilizzarono per coltivare vicino ai punti nei quali si
fermavano alcune piante utili come accadeva e accade ai guaranti che
pur spostandosi nei luoghi delle diverse raccolte (banane, avocado,
ananas, ecc.) coltivando vicino alle capanne tribali piccoli campi di
mandioca.
Il discorso è analogo per la nascita dell’artigianato. Gli aglomerati
urbani nascono certamente per una stanzialità maggiore e quindi per
dimensioni maggiori ma nascono anche per la specializzazione e per la
diversificazione dell’attività produttiva. E questo l’inizio dell’accumulo
tramite la nascita dello scambio e del mercato. Vorrei aggiungere una
ulteriore nota su quanto affermato e cioè che la nascita delle convenzioni
e delle strutture internazionali risale non dopo la seconda guerra
mondiale. Penso che la società delle nazioni sia una struttura che è nata
ed ha operato tra le due guerre mondiali.
- Profssa. V. Zamagni: Ringrazio il professor Brenci per tutte queste
precisazioni, io ho scritto un libro su questi argomenti, naturalmente in
un’ora ho cercato di tagliare gli aspetti fondamentali, comunque
benissimi sono state delle aggiunte che mi trovano completamente
d’accordo.
- Prof. Viola: Il mio intervento è motivato dal desiderio di venire alle mani
con Vera.
- Profssa. V. Zamagni: Come sempre, già ci capitò due anni fa.
- Prof. Viola: Esatto. Si dice “venire alle mani”, ma è un’espressione
figurata. Io mi rendo conto che l’ambito del discorso che ha fatto Vera è
amplissimo, perché è una galoppata lungo i millenni, e quindi, non
possiamo sottilizzare in maniera precisa sulle distinzioni. Ma, la tesi di
fondo che è sostenuta è quella per cui la civiltà industriale sarebbe meno
guerresca delle altri civiltà. Ed è proprio questa tesi che mi lascia
perplesso. Una tesi simile è quella per cui gli stati democratici non
entrerebbero mai in guerra fra loro. Ma in realtà le cause delle guerre si
trovano nel desiderio umano di espandersi, ovvero anche di lottare per la
propria sopravvivenza, in quanto ci si sente minacciati. E queste ragioni
si trovano in tutta la storia dell’uomo, dall’inizio fino ai nostri tempi. In
questo senso io credo che anche la civiltà industriale ha dato
giustificazioni alla guerra, come le altre civiltà, anche se le giustificazioni
sono diverse dal punto di vista storico, ma tutte riposano su queste
ragioni di fondo che sono quelli dell’espansione e della difesa.
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Cos’è che non funziona allora? Il semplice fatto che ci sono guerre
anche all’interno della civiltà industriale; tu le giustifichi o con ricorso
all’isteresi, o con il ricorso alle eccezioni o alle deviazioni. Però,
insomma, tutto questo serve per far quadrare la tesi di fondo. Le guerre
ci sono state e ci sono anche all’interno della civiltà industriale, non so se
quantitativamente di più, ma sicuramente sono state le più sanguinarie
della storia del mondo. Pensiamo alla Seconda Guerra Mondiale,
pensiamo al numero dei morti. Noi abbiamo proprio nella civiltà
industriale gli esempi più gravi di guerra e di una guerra che tra l’altro
coinvolge i civili, cosa che prima avveniva in misura più limitata. S’è fatto
il calcolo che nel ‘900, la morte dei civili è stata più alta che nei secoli
precedenti.
- Profssa. V. Zamagni: Non ci sono dubbi su questo
- Prof. Viola; E quindi, tutto questo non può essere spiegato come
un’eccezione che conferma la regola. E poi ci sono altre cose che a mio
parere non quadrano in questo discorso. Una di queste, per esempio, è il
fatto che nell’epoca industriale proprio quella dimensione territoriale che
ha dato luogo alla sovranità, e che giustamente era originariamente
collegata alla civiltà agraria, invece ha conosciuto un’enfatizzazione,
attraverso l’elaborazione del concetto di Stato territoriale alla fine
dell’800, teorizzato tra l’altro anche da Carl Smith, uno Stato che è
basato sul territorio fondamentalmente, ma non soltanto per motivi
agricoli, ma per motivi industriali, perché l’industria, come tu stessa hai
dimostrato facendo degli ottimi esempi, come quello della Turchia, ha
bisogno di uno Stato forte. Il concetto di sovranità ha conosciuto proprio
nell’epoca industriale il suo apogeo.
E questa è una prima cosa. Un’altra cosa è la seguente. È vero,
l’economia di mercato, come in genere i mercanti, non accettano le
barriere. Noi abbiamo, per esempio, anche nel campo giuridico, il diritto
delle genti, che è tra l’altro la legge mercatoria nel Medioevo. Abbiamo la
necessità di superare le barriere doganali da parte del mercato. Però, c’è
stata anche l’esigenza di allargare i mercati, e ci sono le guerre per
allargare i mercati. Quindi una stessa ragione può servire ora come
motivo di pace, in un’altra situazione, può servire come giustificazione di
una guerra.
E poi, infine, alcune osservazioni per quanto riguarda lo “spillover”
della tecnologia bellica. Tu hai parlato della ricaduta della tecnologia
bellica sulla tecnologia civile. Ma c’è al contrario: “la ricaduta della
tecnologia civile nel campo della tecnologia bellica” e su questo non c’è
dubbio. Cioè il fatto che siano state utilizzati ritrovati tecnologici proprio
Il conflitto nella storia economica dell’umanità, Vera Zamagni, pp.225-258.
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per fare delle guerre ancora più sanguinose e ancora più violente del
passato. Ora, la civiltà industriale come tale, e qui non vorrei dire che è
più sanguinaria o più guerresca delle precedenti, lo è almeno quanto le
precedenti, io non vedo la possibilità di differenziarla significativamente a
questo riguardo. Diverso è il discorso, diverso non nel senso di dire che
ci troviamo oggi in una civiltà che potrebbe portare a un superamento
della guerra, diverso perché diversi possono essere i motivi di guerra;
oggi in una civiltà non più industriale, ma postfordista, oggi in cui la
situazione si pone in maniera completamente diversa, e ci siamo
svincolati dalla dimensione territoriale, questa volta sì veramente
appaiono fattori di differenziazione. Proprio dal punto di vista della guerra
la civiltà industriale, mi pare, più omogenea rispetto alla attività agraria,
la civiltà post-moderna è sicuramente in una situazione di rottura, per
quanto riguarda la territorialità, rispetto a queste epoche del passato.
Ma, oggi ci sono guerre giustificate dai diritti umani stessi che pure sono
sorti come una ragione di pace. Con questo voglio dire che non abbiamo
incontrato finora epoche in cui lo spettro della guerra si sia allontanato
almeno in linea di principio, perché anche nella situazione attuale noi
abbiamo pericoli di guerra che ci vengono proprio da motivi di pace.
Spero che tu sia abbastanza violenta nella tua risposta.
- Profssa. V. Zamagni: Benissimo, molto chiaro. Intanto vorrei cominciare
un attimo dall’ultima cosa che hai detto in questa struttura che
inevitabilmente doveva essere un po’ rigida e semplificatoria.
Io ho inglobato il post-industriale nell’industriale, cioè, non ho fatto
una distinzione su questo, come anche l’artigianale, perché altrimenti
bisognava fare troppe distinzioni e non arrivavo più a una conclusione.
Quindi, se volessimo effettivamente distinguere l’industriale dal
post-industriale, in effetti, ci sarebbero delle cose anche abbastanza
interessanti da dire, ma, io mi accontento qua di suggerire che il postindustriale è derivato dall’industriale, come dire, è un qualche cosa che
senza l’industriale non ci saremmo mai arrivati perché è stato attraverso
l’industria che la tecnologia ci ha promesso di arrivare a livelli tali da
liberarci da certi aspetti fisici importanti territoriali, ecc., ecc., Insomma,
senza l’informatica la territorialità ci sarebbe ancora, per esempio. Senza
i trasporti così avanzati come abbiamo, ci sarebbe ancora la territorialità,
senza la comunicazione che viaggia veloce…, non mi voglio, adesso
impantanare su questa discussione qua.
Ora, è evidente che ancora esistono le spinte all’espansione e alla
difesa, però ho cercato di dire che dal punto di vista delle giustificazioni
economiche una guerra guerreggiata non è più utile per espandersi e per
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difendersi, lottare per la sopravvivenza oggi, perché ci sono degli altri
strumenti per farlo, e che sono superiori, e dunque questa è la mia tesi.
È chiaro che non esistono solo queste motivazioni alle guerre, e tu
hai detto, si possono fare delle guerre per i diritti umani o per la
democrazia. Sì, vediamo che, in effetti, ci sono state cose, ormai si
profilano cose di questo genere.
Non lo so, qui forse qualcuno si potrà esprimere meglio di me a
questo proposito, però, io, se mai, la vedo come un caso “once for all”,
ossia, supponiamo se io ho successo a portare la democrazia in Irak
basta, in Irak non ci sarà più una guerra, da qui “for ever”, per sempre.
Quindi è una configurazione diversa. Non è una situazione di
“Welfare”, come invece era precedentemente. Per cui, secondo me,
scattano meccanismi diversi, può darsi che ci sia ancora, però nel
momento in cui questo passa dall’altra parte diventa democratico e
diventa così industriale, cioè post-agrario, non c’è più necessità della
guerra, forse si fa una volta sola se ha successo. Se non ha successo è
un altro discorso. Per cui è diverso un caso di questo genere, una guerra
per i diritti umani, perché questa guerra ci può essere una volta sola, se
ha successo.
Tu dici, nel periodo industriale si è rafforzato la concezione di stato
territoriale per motivi industriali, la industria ha bisogno di uno stato forte.
Chi l’ha detto? Ricardo era contrario a questo. Per esempio, già fin dal
1820, diceva chiaramente che era contrario a uno stato forte, anzi, e
progressivamente lì si sta dando ragione in questa direzione. Che poi
nella fine del ’800 ancora ci fossero dei pensatori che pensassero così,
sapete gli isteresi sono pesanti, io ci credo tanto, essendo una studiosa
di storia, so quanto pesano gli isteresi... e così via, quindi non mi
meraviglio di questo. Però restiamo chiari su questo fatto, che in realtà
quello che interessa una società industriale, post-industriale è un
mercato aperto e nessun vincolo ha la diffusione a livello assolutamente
mondiale.
Per cui stato forte. È paradossale, questo mi fa venire in mente che
già nell’epoca medioevale abbiamo avuto quest’idea della “lex
mercatoria”, ne parlava Stefano, che superava i confini, addirittura quasi
in maniera anticipatoria li superava questi confini territoriali, si vedeva già
d’allora. Poi altri secoli in cui le cose non sono emerse, ma questa è la
direzione, in realtà. E dirai che lo stato attuale del mondo lo spiega
assolutamente chiaramente. Chi è che si sta sviluppando? La Cina e
l’India. Bene. Vedo che ci siamo in questa direzione, e l’Europa batte il
passo, nonostante fa dei cosi tentativi. Chi può non dire che l’Europa è
stata bloccata dalle due guerre mondiali, di cui tu dicevi, nel suo sviluppo
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industriale? L’Europa che ha inventato la rivoluzione industriale, poi dopo
l’ha ceduta miseramente. Per quali motivi? Adesso si è imparato la
lezione, speriamo, ma non ci siamo ancora, perché siamo ancora lì con
la sovranità nazionale, la Francia e lì a insistere ancora in questa
direzione finché andiamo avanti così non ci siamo, l’Europa non si
riprenderà.
Dunque vediamo. Cioè, il fatto che ci siano state delle guerre non è
di per se la dimostrazione che una società industriale, proprio per sua
natura, meno portata alla guerra guerreggiata di altri che non... Dire il
conflitto, i conflitti restano, ma si esprimono con altri strumenti diversi di
quelli della guerra guerreggiata.
Guerre per allargare i mercati? Anche qui ritorno all’esempio delle
guerre per i diritti umani, può darsi che qualche guerra di questo genere
ci sia stata, però dopo quando il mercato è allargato, basta.
- Prof. Viola: Però, io non so dopo quante decine di guerre.
- Profssa. V. Zamagni: Sì, sì, decine di guerre, ma bisognerebbe
guardare e lì sarebbe un bello studio devo dire, qualche volta ho pensato
di fare uno studio di questo genere, le dinamiche di queste guerre, e chi
sono i soggetti e con quali obbiettivi e con quali risultati anche. Perché le
due guerre mondiale in Europa quali risultati positivi hanno portato per
l’Europa? Dimmelo. Hanno bloccato proprio la civiltà che l’Europa aveva
proposto al mondo. Se non ci fossero stato gli Stati Uniti dopo la
Seconda Guerra Mondiale, non ci saremo mai ripresi. Proprio con gli
Stati Uniti che invece hanno incarnato per primi il “credo”, il punto di vista
fondamentale di una civiltà industriale e che è quella di un’espansione
pacifica, che non esclude conflitti, potenza, politiche di potenza, ma, fatti
con altri strumenti diversi da quelli della guerra.
Infine, un’ultima risposta a quanto tu hai detto. Ricaduta della
tecnologia civile su quella bellica. Dubbi non ce ne sono, e diciamo che
forse questo può essere portato a un argomento a mio favore, piuttosto
che al tuo. In questo senso più la tecnologia della rivoluzione industriale
avanza, più le guerre diventano distruttive, e quindi, per altro verso
dimostrano che sono insostenibili e quindi non si può ricorrere alle
guerre. Cioè, è proprio vero e viceversa, è proprio questo che spiega
un’altra delle ragioni, quindi non solamente una ragione legata al
mercato.
- Prof. Viola: Sì, ma forse sorgono ragioni per fare guerre quanto più
lontano possibile da casa propria.
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- Profssa. V. Zamagni: Sai lontano da casa propria. Cosa vuol dire
lontano oggi? Per una trasnazionale che è presente come “Wall Mart” in
cinquanta paesi del mondo, cosa è lontano? Non ho capito.
- Prof. Zamagni: Lo scambio tra Brenci e Viola da una parte e Vera
d’altra è un esempio interessante che ci mostra come la storia, cioè i fatti
storici, non sempre sono decisivi per decidere della validità di una tesi
piuttosto che l’altra. Cioè, io ancora una volta sono per il primato della
teoria, perché questo scambio mostra ancora una volta, se ce ne fosse
stato bisogno, che sui fatti, Francesco, non riesci mai a trovare un
consenso, perché tu li puoi leggere secondo angolature diverse e non ce
ne sono mai abbastanza, questa è la lezione dell’epistemologia, uno dei
pochi vantaggi dell’epistemologia neopositivista, è che siano sufficienti a
confermare. Come già diceva Popper che nella storia dei cigni, basta ci
sia un cigno nero per falsificare la teoria.
Allora cosa bisogna fare secondo me in questi casi? Porsi in
quest’ottica, la tesi fondamentale che io ho colto dall’esposizione di Vera
è non tanto se durante la civiltà industriale ci sono state meno guerre di
prima. Non è questo il punto. Il punto è che mentre nella fase preindustriale l’unica forma d’acquisizione della ricchezza era la guerra,
nella civiltà industriale, non è più così. E questo è il gran messaggio, e
per cui se c’è la guerra nella società industriale questo aumenta
l’irresponsabilità e la colpa dei guerrafondai. In altre parole, se prima uno
poteva dire, ragioni di sopravvivenza del mio popolo, dovevo invadere
l’altrui popolo, e quindi, se deve morire qualcuno è meglio che muora
l’altro, oggi la guerra è ancora più disumana e irrazionale di prima perchè
non ha una legittimazione, una giustificazione. La giustificazione non c’è
l’ha mai, noi sappiamo che differenza che c’è tra giustificazione e
legittimazione, ma non ha neppure una legittimazione economica, questo
è il senso del discorso. Il che non vuol dire che non ci sia; si fanno,
perché quelli che fanno la guerra oggi andranno ancora più nel profondo
dell’inferno di prima, perché non hanno neppure la legittimazione di dire
devo sfamare il mio popolo, perché la società industriale, e tanto più,
quella post-industriale, sono oggi in grado di capire che il gioco
economico, è un gioco a somma positiva e non un gioco a somma nulla.
Questo è ciò che avrebbe dovuto dire la Vera. Se avesse detto
questo, allora, tutti gli equivoci sarebbero scomparsi, perché fino
all’avvento della società cittadina, che è quella che abbiamo inventato
noi italiani, e che abbiamo regalato al mondo, che era la domanda sua,
lui ha detto artigianato, ma alludeva alla civiltà cittadina che se sviluppa
tra la Toscana, l’Umbria, Assisi, Siena, Firenze nel ‘300, e di cui parla già
Dante con dei cenni molto intelligenti nella Divina Commedia.
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Ecco, qui il punto. Il punto è che questi uomini della civiltà cittadina
capiscano che ci si può arricchire senza necessariamente uccidere.
- Prof. Viola: Scusami, ma ho detto che questo sarebbe giustificabile se
si trattasse della civiltà post-industriale e non di quella industriale.
- Prof. Zamagni: No, no perché la civiltà industriale non ha bisogno della
guerra. Questo è un teorema, quindi non si può discutere perché si
dimostra. Si dimostra se tu parti dagli assunti della società industriale e
vedi il gioco economico, su questo sono d’accordo tutti, marxisti e non
marxisti, neoclassici e austriaci. Cioè dire la novità della società
industriale è che per la prima volta il processo produttivo è in grado di
generare un sovrappiù, prima non era così. Questo è un fatto oggettivo,
non puoi discuterlo.
Allora quando tu hai un sovrappiù, non hai bisogno di portar via la
sua parte per averne di più, perché attraverso il processo industrialecommerciale tutti, possiamo guadagnare. Infatti, per me, qual è l’errore
che fa Hobbes, il motivo per cui non mi piace.
- Prof. Viola: L’espansionismo delle grandi potenze non cominciò
certamente nel ‘800.
- Prof. Zamagni: Aspetta, aspetta, lascia stare la storia in questi casi. La
storia viene sempre dopo per verificare la verifica, ma prima enuncia la
tesi. Tu hai detto che la società industriale ha bisogno dello stato forte,
sì, ma forte non per far la guerra, ma forte per imporre istituzioni
economico-bancario e finanziarie adeguate alle scopo. Questo sì, perché
è chiaro che la industria ha bisogno che lo Stato stabilisca delle regole
del gioco che la favoriscono. Ma, questa non è la guerra guerreggiata, se
vuoi chiamarla conflitto è vero. E a volte, allora, quando lo Stato non
riesce a fare questo, allora scatena la guerra. Ma, quella è una
conseguenza. Quello che voglio dire è che la società industriale non ha
bisogno di fare la guerra. Non ho detto che non la fa e che non sia più
cruenta. D’altra parte il discorso tuo, che vogliono di più, questo è
tautologico, per forse perché con le bombe... Una volta per ammazzare
uno, bisognava infilzarlo con la spada e ci voleva del tempo, adesso con
la bomba…, quindi, questo qui è ovvio.
Quindi, non sto negando il fatto storico che ci siano anche più
guerre e più morti, sto dicendo che non ce n’era bisogno. Il famoso
radiomessaggio di Pio XII del 1940, è chiarificatore che è stato
malinterpretato, ecc., lui probabilmente, io non lo so, voleva dire
esattamente questo.
- Profssa. V. Zamagni: Inutile, inutile, tutto è perso con la guerra
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- Prof. Zamagni: Inutile. Quando il Papa dice, “è inutile”, non è che lui
dice è inutile per così dire… Non, aveva dietro un po’ come dice Hanna
Arendt nel suo libro, che “c’è un livello del male che è banale”. Tanto è
vero che Hanna Arendt ha avuto dei suoi guai con gli ebrei perché
avevano pensato che fosse passata dall’altra parte. E qui è la stessa
cosa. Cioè con la società industriale la guerra diventa in-utile, non utile,
prima invece era utile. Prima era diabolica, malefica, però almeno utile,
con il industrialismo diventa inutile, il che vuol dire che se la si fa è
ancora più irrazionale, quindi non ha neppure questa legittimazione, e
quindi i politici o le società che promuovono la guerra sono ancora
doppiamente colpevoli, e questo è il punto fondamentale, perché se noi
non capiamo questo anche come cristiani, in somma non andiamo molto
avanti perché allora vuol dire che livelliamo tutto. Invece no, la teologia
della Storia ci ha insegnato che c’è una freccia che va verso l’alto
nonostante gli alti e i bassi.
- Prof. Viola: Ma ho detto che la società industriale mette in mano degli
strumenti di morte più pericolosi
- Prof. Zamagni: È chiaro.
- Profssa. V. Zamagni: Ma, sì, scusa, non capisci che questo porta
l’acqua al nostro mulino invece che al tuo.
- Prof. Zamagni: Vuol dire che è lasciata alla libertà dell’uomo di usare gli
strumenti per il bene o per il male.
- Profssa. V. Zamagni: Appunto, apposta perché questi strumenti sono
un altro motivo per non fare la guerra
- Prof. Viola: Ma c’è la cultura morale dell’uomo.
- Prof. Zamagni: No, no, la cultura morale dell’uomo non è rimasta
perché c’è un progresso, perché senza un progresso morale, allora, non
ci siamo più
- Profssa. V. Zamagni: Ma ci mancherebbe questo, allora proprio non ci
siamo.
- Prof. Zamagni: Quando Hobbes dice “Mors tua vita mia”, dice una cosa
diabolica, e molti filosofi sono andati dietro perché ci sono cascati, e ti
tira fuori il contrattualismo. Il contrattualismo è inerentemente,
ontologicamente, sbagliato perché parte dall’assunto per cui nel mondo
non ci possono stare tutti, se ci stai tu, non ci sto io, e se hai più vuol dire
che ho meno io, e su questo Hobbes ha creato il contrattuale e tutto
quello che ne è derivato, con la schiera dei filosofi, che come degli
imitatori ingenui, li sono andati dietro e l’hanno razionalizzato, anzi che
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dire dal subito, come dirà Adam Smith. Perché Adam Smith a me piace?
Perché Adam Smith è stato il primo ad avere il coraggio di dire: “tu
Hobbes non hai capito niente”, e glielo ha detto, e ha ragione Smith. E
poi c’è gente che oggi mi mette Hobbes sopra Smith, ma vogliamo
scherzare. Allora, così non ci sarà mai progresso, né culturale, né
scientifico e né ovviamente morale. Perché se noi non capiamo che lo
scopo nostro è quello di capire quali sono le forze endogene che
portano, non a impedire il male, perché questo ci sarà sempre, ma a
capire che oggi l’uomo ha una possibilità di fare il bene che ieri aveva di
meno.
Io questo lo chiamo progresso morale.
- Prof. Viola: È un fatto che ha più possibilità di fare il male.
- Profssa. V. Zamagni: C’è l’ha però in un contesto diverso.
- Mons. Serrano: Quiero intervenir ligeramente. Creo que la guerra es
una recuperación retrasada de un instrumento que no sirve, es decir, el
hombre que antes se ha impuesto por su fuerza bruta o el animal que se
impone por su fuerza bruta, ahora encuentra su fuerza tecnológica, y
quiere utilizarlas para dominar. Entonces, me parece que el trabajo
nuestro y de todos, es la mentalidad y en ese caso la Iglesia tiene
mucho que decir. Decir esto que la guerra sea inútil es poco, la guerra
es mala, la guerra es injusta, la guerra es como la pena de muerte, yo
creo que en ningún código penal hoy está el canibalismo. No se pena el
delito del canibalismo porque la cultura del hombre ha llegado a un
estadio, a un nivel en el cual es inconcebible que un hombre se coma a
otro y no es necesario penarlo, no es necesario que nadie diga que el
canibalismo es malo o que el canibalismo merece la pena de muerte,
etc.. Pues así también como anteayer decía el profesor Viola, que lo que
lleva el hombre dentro luego lo manifiesta fuera, la guerra es
absolutamente obscena, es inconcebible, es algo que tiene que ser
superado a un nivel cultural, y lo que yo no sé si los medios materiales,
la tecnología, ayudan a esta mentalización del hombre.
- Dra. Archideo: Es que hoy hay un elemento totalmente distinto y es el
terrorismo, la guerra del terrorismo, que se da en todo el mundo, para
todo el mundo y en cada lugar. Lo que estoy totalmente de acuerdo es
que sólo la educación lo cambia, pero es una situación que supera todas
las guerras y frente a la cual no tenemos casi instrumentos del mismo
orden sino la educación.
- Profssa. V. Zamagni: Posso fare un piccolo commento sul terrorismo.
Allora, io non mi sono occupata dell’altro livello, perché il tempo non
Il conflitto nella storia economica dell’umanità, Vera Zamagni, pp.225-258.
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c’era. Ho detto guerre fra stati, poi ci sono invece le guerre guerreggiate
all’interno degli stati, le guerre civili, e il terrorismo si configura a mezzo
fra le due, perché in realtà spesso i terroristi non sono dello stesso stato,
però qualche volta sì, noi abbiamo avuto le brigate rosse che per
esempio è stato un terrorismo, un terrorismo, pero, nostro, quindi non un
terrorismo di fuori.
Allora, evidentemente, io concordo totalmente con Monsignore e
con Lila quando dice che c’è questo aspetto di fondo, di principio;
l’atteggiamento bellicoso deve essere superato mediante sicuramente
l’educazione, ecc., ecc., dico, pero, una cosa dal punto di vista invece
economico di cui mi sono sempre occupata nella mia attività
professionale. Ed è questo: tutti i paesi che hanno portato agli estremi
limiti, le guerre civili, il terrorismo ecc., sono tutti paesi che sono tagliati
fuori completamente oggi da qualunque speranza di progresso e di vita
adeguata alla tecnologia moderna. Cioè, oggi una situazione di quel
genere lì è una situazione che impedisce completamente il progresso. E
penso che questo non è chiarito. Tutti i paesi, per esempio, africani che
sono continuamente in guerra civile, non hanno futuro, anche il tentativo
da parte nostra di aiutarli con aiuti alimentari, con aiuti d’emergenza,
ecc., bisognerebbe cercare di intervenire, o comunque lavorare per
sradicare le motivazioni di queste guerre civili, perché, altrimenti, non
succede niente in questi paesi, non andranno mai a nessuna parte.
Quindi, attenzione a comprendere il messaggio che c’è sotto a questo
argomento. Cioè, il terrorismo è sicuramente pessimo dal punto di vista
di principio, ma anche si trascina dietro, guardiamo i palestinesi come
sono messi, si trascina dietro anche, una situazione insostenibile, poi dal
punto di vista meramente umano.
- Dra. Archideo: Dico che è rischioso oggi per ogni uomo.
- Dr. Moreno: Creo que el tema propuesto por Vera generó una polémica
muy rica, porque analizar el conflicto desde la economía significa abrir
una de las ventanas que posiblemente amplía el campo de la visión.
Pero considero de interés precisar algunas cuestiones.
Usted relacionó el tema con las eras, siguiendo en alguna medida
el devenir sintetizado con la secuencia: agraria, industrial y postindustrial. Ese planteo tiene su correlato en la estrategia. En el
nacimiento de su elaboración sistemático por Clausewitz la guerra era la
exclusiva forma por la cual se expresaban los conflictos. Luego con el
dato atómico se produce una revisión profunda de esa visión por los
niveles de destrucción disponibles por algunos hombres, generando el
principio de la “mutua destrucción asegurada”, en cual el costo dejó de
Il conflitto nella storia economica dell’umanità, Vera Zamagni, pp.225-258.
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ser medido en términos económicos sino en los del existir y, en
consecuencia, la inviabilidad de la guerra –al menos entre las
superpotencias-, sin que por ello desapareciera el conflicto en el
escenario humano, sino que se recreó multiplicando sus formas de
ejecución, en las cuales la violencia militar deja la exclusividad por
incorporarse a los medios económicos, políticos, psicológicos, etc., En
ese aspecto Beaufre fue el iniciador de su sistematización teórica.
También una nueva categorización es elaborada para evaluar los
conflictos con expresiones militares, para ello es empleado como unidad
de análisis a sus intensidades, calificándolas con los epítetos: altas,
medias y bajas.
Hoy, esas visiones se siguen ampliando con la denominación de
“nuevos desafíos”. En sus despliegues comprenden una vasta gama que
–entre otros- abarca: dilemas hídricos, migraciones masivas, terrorismo
internacional, diseminación de armas de destrucción masivas, crimen
organizado, biodiversidad y catástrofes ecológicas, que requieren un
urgente tratamiento político, jurídico y ético. Siguiendo la palabras de
Vera, en varias de esas amenazas con intensidades diferentes las
cuestiones económicas inciden y, en algunas, de manera decisoria, pero
para sus tratamientos en los temas en los que el conflicto conforma sus
objetos los datos de ese tipo que sean elaborados deben ser
considerados como interdependientes, condicionados y con relevancias
distintas según el caso en estudio y sus evoluciones dentro de las
dimensiones de tiempo y lugar.
Otro dato que me permito remarcar se concreta en las naturalezas
de los actores con capacidades para provocar y sostener conflictos,
porque hoy la estatal no es la exclusiva. Los corporizados por el
terrorismo y el crimen organizado sirven como ejemplos nítidos en ese
sentido. Como dijo Lila Archideo: el terrorismo internacional está
planteando un desafío a escala planetaria con la particularidad de que
no es un actor estatal y sin perjuicio de ello los riegos que presentan se
incrementan día a día por la posibilidad que acceda a armas de
destrucción masivas.
- Prof. Viola: Ma la pirateria ha avuto anche attori statali.
- Profssa. V. Zamagni: C’è ancora la piratería.
- Dr. Moreno: Sí, la piratería sirve de antecedente en esta materia. Pero
hoy el crimen organizado cuenta con las herramientas de la
globalización para potenciar sus capacidades, por ejemplo la red de
interconexión financiera que les permite movilizar y blanquear sus
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ingentes recursos –calculados en 200 mil millones de dólares anuales- a
escala mundial en tiempo real.
- Dr. Regúnaga: Creo que el aporte de Vera es importante como un
elemento para demostrar la irracionalidad de la guerra y, por lo tanto,
agregar un elemento más a una posición que un cristiano debe sostener
de todas maneras.
Pero yo me siento bastante cerca de las posiciones de Francesco
y de Julio, en el sentido de recordar que, aún en este contexto de la
irracionalidad de la guerra, debemos recordar, primero, que muchas
veces los actores no conocen sus verdaderos intereses y actúan
irracionalmente; en segundo lugar, que existen no solamente estos
actores especiales, que mencionaba Julio, en el sentido de criminales,
terroristas, sino también intereses especiales, intereses que
comprenden que, si bien la guerra no conviene al conjunto de la
comunidad, a ellos sí les conviene.
Por ejemplo, Julio nos ha explicado que podemos estar cerca de
una guerra civil o internacional, según las medidas que se tomen con
respecto al petróleo y el gas de Bolivia. Y, si bien desde el punto de vista
de Bolivia, e incluso de toda Sudamérica, seguramente las
consecuencias van a ser muy malas, puede haber intereses especiales
que se beneficien. Las consecuencias generales serán muy malas hasta
para sectores de la sociedad que no tengan nada que ver con el
petróleo ni con ese conflicto. El sólo hecho de que inversores
internacionales digan “en Sudamérica hay guerra”, seguramente hará
que una cantidad de inversiones se dirijan a otros mercados. Pero esas
consecuencias nocivas para la sociedad en general no impiden que
quizá las compañías petroleras y de gas que producen en otros
continentes se beneficien con el aumento de precios que la guerra
seguramente provocaría, Y, obviamente, para los fabricantes y
comerciantes en armas el conflicto es racional y conveniente.
Pero mi objeción fundamental es otra. No es a lo mejor una
objeción porque no creo que Vera sostenga lo que voy a objetar.
Simplemente me preocupa que quede la impresión de una conclusión
errónea.
Lo que me preocupa de la exposición de Vera es que, como ella es
una historiadora de la economía, explica todo desde el punto de vista
económico. Desde ya, yo no puedo aceptar una explicación puramente
económica de la historia. Así como el materialismo dialéctico marxista
era una explicación equivocada de la historia, cualquier otra explicación
exclusivamente económica de la historia también lo va a ser. Creo que
el conflicto existe porque el hombre tiene determinadas características
Il conflitto nella storia economica dell’umanità, Vera Zamagni, pp.225-258.
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Epistemología de las Ciencias Sociales. El Conflicto
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que lo impulsan al conflicto y, si no hay causas económicas, se inventan
otras causas; desgraciadamente, eso es lo que ocurre.
Yo creo que las explicaciones más amplias de la historia son más
fructíferas. A mi juicio, me inclino a pensar en que hay civilizaciones
cíclicas que nacen y crecen y después entran en decadencia por
factores que no son exclusivamente económicos, quizás, probablemente
ni siquiera principalmente económicos. El historiador inglés Arnold
Toynbee es, en este campo, el que considero más convincente.
Toynbee muestra como motor de la historia la marcha de civilizaciones
cíclicas. La caída de cada civilización se produce por la imposibilidad de
responder a desafíos que normalmente no son económicos. Los
desafíos económicos, que son los primeros que enfrenta una cultura
cuando empieza a desarrollarse, generalmente se resuelven bastante
bien. Son los conflictos de otra naturaleza los que llevan a la
decadencia. Toynbee ve, en cambio, una línea continua, no cíclica, en el
crecimiento de la conciencia religiosa. Es decir, por un lado tenemos los
ciclos de nacimiento, crecimiento, colapso y desintegración de las
civilizaciones y, por otro lado, una marcha lineal de la humanidad que
hacia estadios de mayor conciencia religiosa. Cada caída de civilización
crea un clima, una disposición psicológica del hombre, ante la desilusión
que generan precisamente los fracasos temporales, que permite dar un
salto en la conciencia espiritual. Abraham deja la civilización sumeria
cuando empieza su decadencia; el siguiente paso fundamental es
Moisés que abandona la civilización egipcíaca cuando esa civilización
entra en decadencia; Jesucristo nace cuando la civilización grecoromana entra en la etapa imperial, que es la última etapa de su
decadencia, de la decadencia de todas las civilizaciones. Cada uno de
ellos representó un salto en la conciencia religiosa. Quién sabe si no
estamos ahora, si nuestra civilización occidental no está ya en la etapa
imperial. Quizá el imperio de los Estados Unidos constituye el marco
para esta nueva etapa de nuestra la historia. Quizá, como consecuencia
de la decadencia de occidente, lo que nos espera es quizás con dolor un
nuevo salto en la conciencia religiosa.
Entonces, creer que porque el conflicto sea irracional no va a
existir es un concepto demasiado peligroso. Y, desde el punto de vista
conceptual, creer que la historia se puede explicar por factores
puramente racionales desde el punto de vista económico me parece un
error.
- Profssa. V. Zamagni: Ci sono stati due aspetti nella tua esposizione.
Prima dici che può darsi che un conflitto non convenga in generale, ma
ad alcuni attori conviene. E bene questo è vero, non ci sono dubbi che
Il conflitto nella storia economica dell’umanità, Vera Zamagni, pp.225-258.
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questo sia vero, e, infatti, il lavoro della società civile è di fare in modo
che questi gruppi che sono legati alla guerra diventino limitati, marginali,
marginalizzati, non siano quelli che conducono un paese. Quando
facevo l’esempio precedentemente della Germania, la Germania ha
avuto una tragedia enorme perché un paese che aveva un area molto
sviluppata, che era l’area dell’Ovest, che nella congiuntura storica si è
trovata ad essere governata, invece, purtroppo da prussiani che erano i
più arretrati, erano legati ancora, alla concezione territoriale, e così via, e
si sono purtroppo infilati in quella avventura bellica che poi ha rovinato
l’intero mondo. Quindi, è importante questo discorso, perché da una
responsabilità ovviamente alla società civile di emarginare, limitare, non
mettere al potere i gruppi che sono legati alla guerra. Questo è un punto
molto importante, fondamentale da ricordare. Quindi, ringrazio molto per
quest’osservazione perché ci fa ritornare su questo argomento.
Per esempio, è ben noto nel caso dell’Europa (la ripresa dopo la
Seconda Guerra mondiale ha progressivamente marginalizzato), la
CECA, la comunità europea del carbone e dell’acciaio, è stata uno
strumento fondamentale per impedire, magari ai tedeschi, di ritornare,
perché messi in un contesto internazionale legati da accordi reciproci,
non poteva più scattare quel meccanismo.
Sono stati i cattolici a farlo, per questo è molto importante questo
punto.
Sull’altro ho semplicemente da dire che, assolutamente, e
chiaramente non ho una interpretazione economica della società, della
civiltà, ecc., ecc., per questo che ho detto che mi limitavo a vedere gli
effetti, e non discutevo sulle cause, perché le cause sono legate, mentre
che gli effetti che sono effetti sulla gente, sulla popolazione, perché gli
effetti sono materiali delle guerre, ammazzano le persone, distruggono
gli edifici, sono materiali, oltre che morali, perché naturalmente rovinano
anche il tessuto relazionale della società, e io mi limitavo a guardare
questo, avevo un’ora di esposizione, non potevo fare più di questo, ma
concordo totalmente.
Per quanto l’idea dei cicli della civiltà, ecco, mi lascia un
momentino perplessa. Io sono “vichiana” non “toynbeeana”. Vico
pensava ai cicli, ma non pensava da una ripetizione sempre della stessa
cosa, ma, cioè, qualche cosa che comunque progrediva, sono Teilhard
de Chardiniana, se volete, ecco che se rifà in effetti a Vico, quindi, non
penso che si ripeta sempre la medesima cosa.
- Prof. Brenci: l’unica cosa che contesto è l’affermazione che la guerra
non abbia avuto ricadute positive sulla società civile. Vorrei sapere qual
è secondo lei il nome che darebbe al periodo che stiamo vivendo. Non è
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e per caso “periodo informatico” il nome più appropriato. Ebbene
l’informatica che noi usiamo nasce con il cosiddetto teorema di Shanon
che è stato messo a punto dall’autore durante la guerra per risolvere il
problema della ottimizzazione delle rotte di attacco alle batterie
contraeree tedesche.
La scienza ha fatto molti passi, ma la formula de Shanon è sempre
li all’inizio dei testi d’informatica.
- Profssa. V. Zamagni: Con i miei studenti abbiamo lavorato anche un
po’ nel campo informatico, bisogna andare indietro a Pascal, per
cominciare la storia, poi indietro al telaio Jackard. Era un uso delle
“punch card”, che non era una robba bellica, era una cosa civile; il primo
che ha utilizzato il concetto di 0,1 che è il concetto base dell’informatica.
- Dr. Videla: Vera, yo quiero volver al concepto teórico y contrastarlo con
una visión teórica que yo creo que es generalizada en la Argentina y que
de alguna manera se opone a la visión de la civilización industrial que
vos planteás. Es decir, la idea es -si yo no entendí mal-, el sistema o la
etapa de producción y comercio en la cual estamos, la guerra es inútil
porque a través del mercado nosotros logramos un juego que tiene
suma positiva, mejora a los dos sectores o áreas y por lo tanto se vuelve
inútil la guerra.
La visión local, que yo no comparto, pero voy a tratar de expresar
lo que está flotando en el pensamiento político argentino, que en estos
momentos está representado por tres mujeres: la política argentina está
dominada por las mujeres.
- Dra. Archideo: Discúlpame, pero yo niego que haya política en la
Argentina.
- Dr. Videla: Nuestras cabezas, nuestras tres figuras dominantes del
pensamiento son Cristina Fernández, Hilda González y Lilita Carrió.
El enfoque de estas personas es el siguiente. Es cierto que la
forma de juego económico va a un resultado positivo, pero es positivo
para el que domina, o sea, no está garantizado en ambas partes el
resultado positivo, porque la relación capitalista de mercado es una
relación de dominio y sometimiento. Es decir, el centro dominante
impone condiciones y busca aprovecharse fundamentalmente de los
recursos naturales que tienen los países más pobres, ente ellos
Argentina, que es un país muy dotado en recursos naturales y que
primero, como dijo Lilita Carrió, “primero fue expoliado, a través de la
deuda externa, de sus recursos naturales, se le quitó el dominio sobre el
petróleo, etc., etc., y ahora vienen por el agua”. Es decir, aparentemente
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el recurso natural escaso es el agua, y entonces, va a ser objeto de la
codicia del capitalismo de mercado.
El punto teórico acá es éste. En el enfoque de esta gente el
conflicto no aparece si hay una relación de dominación con juego
positivo para el dominante. Si esa relación no se puede dar en esos
términos, aparece la violencia y la guerra para forzar un cambio de
situación en esa línea.
Quisiera saber cuál es tu opinión frente a esta interpretación de
nuestra realidad de esas tres cabezas pensantes a las cuales hacía
referencia.
- Profssa. V. Zamagni: Allora, io devo dire che su una questione di
questo genere, ho avuto uno scambio molto pesante pubblico con degli
studiosi italiani i quali hanno sostenuto la stessa tesi nei confronti Nord e
Sud in Italia. Il Nord si è sviluppato e avanzato perché ha sottosviluppato
il Sud. Questa è l’idea di fondo.
- Prof. Viola: Esatto. Questa è la verità.
- Profssa. V. Zamagni: Io ho scritto contro questa tesi perché è una tesi
storicamente insostenibile, teoricamente insensata e, soprattutto, è una
tesi che giustifica la mancanza d’impegno da parte dei paesi
sottosviluppati delle regioni sottosviluppate a fare qualche cosa di
diverso che protestare, con le armi o senza le armi, dipende. In Italia,
generalmente, non con le armi, altrove invece con le armi, perché si
danno una giustificazione per non impegnarsi direttamente a cercare di
mettere in piedi le condizioni per togliersi della situazione, ma in tanto
non c’è niente da fare, l’unica cosa che possiamo fare è protestare o se
mai, fare un po’ di guerra, che chissà le cose cambino.
Naturalmente, dal punto di vista del paese in via di sviluppo fare la
guerra contro la potenza dominante -lasciatemelo dire- perché cioè, si
capisce che comunque non arriverà da nessuna parte in ogni caso.
Allora, perché ho detto che storicamente è infondato e
teoricamente inaccettabile, insensato. Storicamente infondato, perché
quello che ha mosso lo sviluppo economico dei paesi sviluppati è stato il
progresso tecnologico che non è stato prodotto dai paesi sottosviluppati
bensì dai paesi sviluppati stessi. Poi che questo progresso tecnologico
abbia utilizzato delle risorse, questo è vero. Ma, per esempio nella prima
rivoluzione industriale, la risorsa chiave, strategica, era il carbone, ma il
carbone esisteva nei paesi sviluppati, quindi hanno usate il loro carbone.
Voi me dirette importavano il te, importavano il cacao, mi direte
quale rilevanza dal punto di vista dello sviluppo può avere il te, il cacao, il
cafè, benissimo, avremo tenuto la gente allegra, ma, di sicuro non
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serviva, il pomodoro, la zucca, il mais, le arance, tutte cose bellissime,
però non era quello che...
- Prof. Brenci: E la marina più grande che esisteva dopo l’inglesa.
- Profssa. V.Zamagni: La marina più grande chi l’aveva, secondo lei?
- Prof. Brenci: Napoli! Sicuramente.
- Profssa. V. Zamagni: Napoli, giusto, giusto sí, sí, non ho dubbio,
certamente.
Questo dal punto di vista storico, ma dal punto di vista anche
teorico, dico, è impossibile che qualche cosa che non c’è, produca
qualche cosa che c’è. Cioè, è impossibile da un sottosviluppo produrre
uno sviluppo, proprio non segue razionalmente la cosa. Per cui il
problema è questo, bisogna prendere atto che tutta quella produzione,
soprattutto marxista, non di Marx, dei suoi epigoni, che lo sviluppo dei
paesi sviluppati è generato dal sottosviluppo dei paesi sottosviluppati
perché li portano via le rissorse è qualche cosa che bisognerebbe
proprio abbandonare al passato.
È certo che poi è evidente che il paese cha ha più mezzi tende a
sfruttare tutto quello che esiste al mondo, compreso anche qualche
rissorsa che esiste nei paesi sottosviluppati a proprio avantaggi... Però
dire che è stato questo a generare lo sviluppo proprio è veramente privo
di qualunque significato.
Sulla questione del rapporto Nord-Sud non c’esprimiamo qua,
facciamo una discussione privata.
- Dra. Rava: Tal vez ya ahora muchas cosas se dijeron, lo que quería
señalar es que el conflicto en realidad está en el corazón del hombre.
Entonces, más allá de las justificaciones y de la necesidad o de la
racionalidad, mientras el hombre sea hombre y lleve en el interior suyo
ese conflicto que en definitiva, es el conflicto de sus propias potencias,
el conflicto de su inteligencia que no se pone de acuerdo con el corazón,
el conflicto del poder y de la voluntad de poder, que no respeta los justos
límites de la propia naturaleza, el conflicto seguirá presente. A veces,
hablamos, en un sentido, del hombre como debería ser, pero que de
hecho, no es así. Todos somos violentos, todos buscamos poder, todos
queremos afirmar nuestra personalidad, todos queremos ocupar, no
solamente nuestro espacio sino el espacio que le corresponde al otro.
Por lo tanto, me parece, que mientras el hombre sea hombre, va a
buscar la guerra de un modo u otro porque es el modo como -pareciera
a sus ojos- afirma su propia persona.
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Entonces, yo acá simplemente abro la puerta a una mirada que va
más allá de lo racional y que se abre a la realidad del pecado, de la
libertad y de la gracia.
- Profssa. V. Zamagni: Ero partita dicendo che mi occupavo di quei
conflitti che usano violenza. Con il che non è che la violenza esaurisca,
ovviamente, l’espressione del conflitto, per amore del Cielo, il conflitto
c’è primo, perchè è dentro, e continua ad esserci anche quando non
fosse usata la violenza, quindi su questo concordiamo totalmente.
Però c’è un’osservazione che mi piace di fare ed è la seguente:
Non credo che qui nessuno discuta della differenza tra l’uomo primitivo e
l’uomo d’oggi. Voglio dire, c’è un’evoluzione nell’uomo, quindi noi
possiamo immaginare che con l’andare del tempo i conflitti tendono ad
usare sempre meno lo strumento della violenza, possono usare della
violenza fisica, voglio dire, possono usare altri strumenti, la violenza
psicologica o la guerra, come si diceva, economica, che però è improprio
chiamare guerra perché non usa le armi materiali.
Allora, voi mi direte Perché questa sottilizza? in fondo i conflitti
psicologici sono duri anche quelli, le guerre economiche sono dure,
indubbiamente non ho dubbi su questo. Però è importante capire che
quando l’uomo è distrutto fisicamente non c’è più speranza, invece se
non è distrutto fisicamente può darsi che qualche cosa ci si possa fare.
Quindi, io sono a favore della diminuzione delle guerre guerreggiate,
della violenza fisica perché permette le possibilità di risolvere i conflitti in
maniera più positiva perché da più tempo all’uomo, da più spazio, da più
possibilità, se lo ammazzate, è finito.
Allora, certe guerre economiche, attenzione, possono produrre
questo risultato e in quanto producono questo risultato, sono altrettanto
preoccupanti come le altre guerre, ma, solo in questo senso possono
essere viste altrettanto negativamente; perché, ripeto, dare una chance
all’uomo di vivere, qualche cosa può succedere; se tu lo ammazzi non
c’è più niente che si possa fare.
- Dra. Rava: Quisiera agregar una cosa simplemente, ¿cómo ves la
relación en el orden político en la relación entre los estados, a propósito
de lo que se dijo de la relación Norte-Sur? ¿Cuál es el papel del fuerte y
del débil?, pensando que así como en el orden humano hay personas
muy dotadas y con muchos instrumentos y personas poco dotadas,
también en el orden de los pueblos es así.
- Profssa. V. Zamagni: Allora, qui ho solo da rinviare a quello che ha
detto Stefano precedentemente, perché la economia capitalistica,
purtroppo tende a andare in favore dei forti, non c’è dubbio su questo;
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l’economia di mercato invece, dovrebbe contenere anche quel altro
aspetto che è la reciprocità che permetterebbe, attraverso una divisione
del lavoro, utilizzata in maniera corretta, anche di dare uno spazio a
quelli che non sono forti. Quindi, qui è tutta una riflessione, che, però non
poteva essere fatta, ovviamente, in questo contesto, che dovrebbe
andare in quella direzione, come mantenere una economia di mercato
che non produca risultati di questo genere attraverso la reciprocità.
- Dra. Corcuera: Simplemente quería cerrar con una cosa, todavía no
había terminado porque las conversaciones entre mujeres se suelen
ampliar.
Simplemente respondía un poco a la preocupación de Carlota,
cómo en el fondo los estados débiles frente a la situación mundial se
pueden hacer sentir.
Los estados débiles, según mi modesta opinión, se pueden hacer
sentir si tienen recursos y creatividad.
Recursos, veamos. Un ejemplo: en el 2005, el surgimiento del
Emirato de Dubai. Dubai, que tiene petróleo, recursos, está haciendo un
esfuerzo absolutamente inusitado para imponerse desde la arquitectura,
desde los servicios, etc., como una sociedad del siglo XXI, como
sucedió antes con el Extremo Oriente. El petróleo permitió ese
desarrollo.
La otra punta de una sociedad sumamente débil que apunta –
lástima que no esté Brenci- a la creatividad solamente, lo tenemos en
una población del centro de África, tal es el caso de Burkina Faso, allí el
producto bruto anual sería desesperante para Stefano, creo que casi
nada; la mayor parte de la población de Burkina es analfabeta. ¿Qué
hizo Burkina Faso? Tuvo dos o tres excelentes narradores visuales, es
decir, gente que podía expresarse con la imagen, y pasaron de la
narración oral a ser grandes cineastas, y hoy existe un festival
importantísimo a donde van todos los cineastas del mundo. Nadie sabía
ni dónde quedaba Burkina Fasso y la gente cuando va a su festival de
cine tiene que buscar en el mapa, queda abajo de Mali, zona que a su
pobreza material, la compensa su creatividad musical.
Ahora, en el caso de la Argentina. Tendríamos que hacer un
análisis y acá hay gente mucho más capacitada que yo para hacer un
análisis de qué se entiende por desarrollo.
Para nosotros una tecnología maravillosa en manos de gente
espiritualmente subdesarrollada no tiene ninguna posibilidad desde el
punto de vista cristiano, porque toda esa tecnología tiene que estar al
servicio del crecimiento del hombre, para que todo lo que sea para
aniquilación, sea por el hambre o sea por la guerra, no se radique en el
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corazón de un cristiano. O sea tengamos la esperanza, si bien hay
sombríos escenarios de guerra, de estar dotados de fuerza para lograr
cierto equilibrio. Nada más.
- Profssa. V. Zamagni: Solo una battuta per dire che questo è un
problema veramente tragico, perché la rivoluzione industriale ha
provocato questa grandissima divaricazione che prima non esisteva. Il
paese più avanzato, diciamo, nell’epoca agricola era due volte, forse tre
volte più avanti di quello meno avanzato. Oggi, sono quaranta volte,
cinquanta volte più, e quindi è oggi un problema veramente tragico. In
ogni caso i paesi che hanno una speranza di andare avanti sono i paesi
che danno istruzione a tutti quanti e soprattutto alle donne. Questo era
un punto che volevo ribadire, alle donne. Gli altri, l’unica è avere della
carità cristiana nei loro confronti, ma non c’è speranza.
- Dra. Archideo: Agradezco a la Profssa. Zamagni por su interesante
exposición. Gracias también a todos los que participaron en el diálogo.
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