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Domenica La di DOMENICA 6 MARZO 2005 Repubblica l’inchiesta Gemelli, istruzioni per l’uso MARIA NOVELLA DE LUCA e JENNER MELETTI le storie Francia, il ritorno del lupo cattivo PIETRO DEL RE La nuova vita di Elián OMERO CIAI «C CÁRDENAS (Cuba) aro Comandante, desidero che si ristabilisca bene, che si curi molto il suo ginocchio malato. Mi è piaciuto assai il suo messaggio al popolo e l’aver saputo che sta meglio ha rallegratome,lamiafamigliaeimieifratellini».Oppure:«Desideroringraziarla per il tempo e l’impegno che dedica al successo della Rivoluzione, riceva un forte abbraccio da suo nipote che l’ama tanto». E ancora: «È stato davvero emozionante per me incontrarla nel giorno del compleanno, spero che abbia ancora tanto tempo da dedicare a tutti noi piccoli pionieri cubani». Le pagine del Granma, organo del Partito comunista di Cuba e insieme a Juventud Rebeldeanche l’unico giornale che si pubblica con regolarità nell’isola, riportano tutte le settimane queste letterine al Comandante en Jefeche il bambino Elián Gonzalez — undici anni lo scorso 6 dicembre — scriverebbe dal suo banchetto della scuola “Marcelo Salado” di Cárdenas. E, come fosse- ro quelli di un capo di Stato, gli auguri del ragazzino vengono letti anche in tv durante il telegiornale. Il piccolo ossequia tutti gli anniversari e benedice gli innumerevoli discorsi dell’anziano dittatore. Se è davvero la sua manina a vergare le pagine o se esse siano il frutto dei soliloqui mitomani di Fidel Castro, che le detta nottetempo al giornale del partito, è impossibile da sapere. Cinque anni dopo il suo ritorno a Cuba, Elián è ancora un bambino blindato. La sua maestra non è autorizzata a parlarne. I suoi compagni di classe neppure. Lui si muove soltanto scortato. Perfino nel breve tratto di strada da casa a scuola Elián non è mai solo. Un agente veglia intorno al collegio: non si possono fare foto, né aspettare sulla porta. A guardarlo da vicino, nella sua uniforme da pioniere, camicia a maniche corte bianca e fazzoletto rosso al collo, si nota che ha perso l’aria sbarazzina e innocente di quando giocava con Mickey Mouse a Disneyland. Ora è un ometto e siccome l’unico compito dei ragazzini cubani è quello di «assomigliare al Che Guevara», anche lui ha preso il ghigno serioso dell’adolescente che ha sulle spalle l’avvenire del mondo. (segue nella pagina successiva) cultura In viaggio con la musica di Dylan SAM SHEPARD spettacoli Cochi e Renato, amici da ridere PINO CORRIAS e ANTONIO DIPOLLINA l’incontro Erica Jong: la prossima sfida delle donne SILVANA MAZZOCCHI FOTO JOSE GOITIA / AP Cinque anni dopo, il bambino dei miracoli conteso tra Cuba e Stati Uniti è diventato il simbolo della rivoluzione dell’ultimo Fidel 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 MARZO 2005 la copertina Protagonisti dimenticati Cinque anni dopo il salvataggio in mare e il braccio di ferro tra Cuba e Stati Uniti che ne seguì, l’undicenne Elián Gonzalez è diventato un simbolo del lungo autunno del castrismo. Vive a Cárdenas una vita da ostaggio privilegiato e spesso accompagna il “líder maximo” nelle cerimonie ufficiali Il prigioniero della rivoluzione (segue dalla copertina) rotagonista inconsapevole di uno storico e brutale braccio di ferro tra il lìder maximo e la comunità dell’esilio anticastrista di Miami, Elián, il balserito, venne trovato nell’oceano da due pescatori americani, Sam Cianco e Donato Dalrympe. Era un Thanksgiving, giorno del Ringraziamento, 25 novembre 1999. Legato ad un copertone Michelin, da due giorni alla deriva, «miracolosamente vivo», Elián era ciò che restava di un ennesimo tentativo di fuga annegato nello Stretto della Florida. Sua madre, Elizabeth Broton, era morta insieme al suo compagno e altre 14 persone, nel naufragio della zattera sulla quale erano partiti da Cuba quattro giorni prima. A Miami, il bambino venne consegnato ai suoi zii, Lazaro e Delfin, e a sua cugina Marisleysis. Ma suo padre Juan Miguel era rimasto a Cárdenas con la nuova moglie e due figli. Il piatto per la rissa era servito. Marisleysis, Lazaro e Delfin chiesero la custodia legale del piccolo, sostenuti da tutta la comunità dell’esilio. Juan Miguel la restituzione, appoggiato da Fidel Castro e da tutto l’apparato di propaganda del regime. Narra la vulgata popolare, che furono i babalao, i sacerdoti della Santeria, a trasformarlo in un prodigio. Quell’anno, nell’oroscopo religioso che i santeri formulano ogni dicembre tirando a terra quattro pezzi di noce di cocco, Elián venne proclamato reincarnazione del dio Eleguà. Per questo doveva tornare a casa. Se restava a Miami, ossia in esilio, Fidel Castro sarebbe presto caduto. Se invece fosse tornato, il caballo dell’Avana sarebbe diventato eterno. Da una parte e dall’altra dello Stretto presero così sul serio la profezia dei babalao che Elián venne restituito al legittimo padre soltanto dopo sette mesi di scontri legali, manifestazioni, proteste, svenimenti e messe nere in una escalation di emozioni forti nel corso della quale tutti riuscirono a dare il peggio del bagaglio storico-culturale di due collettività separate da cinquant’anni di pubblica avversione. P Il museo dei cimeli Non lontano dalla scuola di Elián a Cárdenas c’è il suo museo. Una sala della vecchia caserma dei pompieri ospita i ricordi di quei mesi di battaglia nazionale. All’ingresso, una piccola statua di bronzo del ragazzino nell’atto di gettare a terra un bambolotto che sembra Superman, il suo banco di prima elementare, penna e quaderno dell’epoca, video. Sui muri foto, manifesti e lettere. Una, firmata da una bimba undicenne, dice: «Elián, conserva la fiducia nella tua patria, in noi che siamo qui, abbi fiducia nel tuo Comandante, non ti abbandoneremo là». Maria, l’unica persona che stamattina sembra aver voglia di parlare di questa storia, dice che in fondo tutti a Cárdenas sono contenti del ritorno di Elián. «Soprattutto gli altri bambini della scuola. È la più bella di tutta la zona, la ridipingono tutti gli anni. Eppoi la torta, l’immensa torta che porta Fidel Castro al compleanno di Elián». Il comandante viene a tutti i compleanni? «Oh certo — dice Maria — non se ne perde uno». Dopotutto Cárdenas è una cittadina fortunata perché è la porta di Varadero, la più bella e la più famosa delle spiagge di Cuba. Tutti quelli che ci abitano hanno a che fare col turismo e, dunque, con le mance in dollari. Lavorare negli alberghi e nei ristoranti di Varadero è il mestiere più diffuso a Cárdenas. Proibita ai comuni mortali cubani che non ci possono entrare per nessun motivo, quella spiaggia double face, con i due lati sul mare, è la mecca dei turisti e della nomenclatura del regime. Anche Juan Miguel, il padre di Elián, lavorava lì. Portiere d’albergo. Per questo era iscritto al partito. La tessera è la chiave per trovare un impiego sulla striscia di sabbia più vip dell’isola. Il museo Elián di Miami è meno ufficiale. Ci arriviamo inseguendo una vec- chietta che si ferma, si fa il segno della croce, e riparte. Qui il museo sta nella casa dove visse, dietro la calle Ocho, nella “piccola Avana”. Di certo apre soltanto la domenica, poi anche qualche pomeriggio non specificato, dipende dai volontari. Tra le reliquie: il letto, i giocattoli, gli orsetti di peluche. Una foto del bambino arrotolato nella bandiera Avevano detto GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ A Miami lo stanno rovinando A nessuno sembra importare a Miami il danno che stanno causando alla salute mentale di Elián con metodi di sradicamento culturale cui lo sottomettono. Nella festa per i suoi sei anni, compiuti lo scorso 6 dicembre nella “casa-prigione” degli zii in Florida, i suoi interessati anfitrioni lo hanno fotografato con un elmetto in testa, circondato di armi e avvolto nella bandiera degli Stati Uniti, poche ore prima che un bambino della sua età uccidesse con una pistola una compagna di classe in una scuola del Michigan. (da El Paìs, 19 marzo 2000) FOTO REUTERS OMERO CIAI MARIO VARGAS LLOSA Sarà il paggetto di Castro Quale sarà il destino di Elián a Cuba non è difficile da immaginare. Il bimbo prodigio sarà oggetto del fascino popolare, e diventerà il paggetto del regime. La sua fotografia, sorridente tra le braccia del Comandante deliziato, farà il giro del mondo... Nella sua bellissima casa con piscina, Elián avrà l’impressione che a Cuba si vive con più comodità e opulenza che a Miami e si divertirà moltissimo quando, durante le sfilate, dalla tribuna d’onore, i manifestanti lo saluteranno gridando il suo nome. (da El Paìs, 30 aprile 2000) CERIMONIE UFFICIALI A destra Elián Gonzalez insieme con Fidel Castro e il suo fratello minore Yani alla cerimonia del cinquantunesimo anniversario dell’attacco alla Moncada. In alto, un manifesto sui muri dell’Havana inneggia al ritorno in patria del “bambino dei miracoli” americana e un manifesto con il volto di sua madre e una scritta nera che dice: «I dittatori muoiono, le madri mai». Marisleysis, la giovane cugina che l’aveva scambiato per un figlio venuto dal cielo e che svenne davanti alle tv quel giorno d’aprile quando gli agenti inviati dal ministro della Giustizia Janet Reno irruppero all’alba nella casa per LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 IL NAUFRAGIO Il giorno di Thanksgiving del 1999, due pescatori trovano un bimbo di sei anni: sua madre è morta insieme a 11 profughi cubani LA BATTAGLIA LEGALE Il bimbo viene adottato a Miami dalla cugina Marisleysis ma suo padre da Cuba ne chiede la restituzione L’IRRUZIONE Il 22 aprile 2000 agenti inviati da Janet Reno entrano nella casa degli zii e prendono Elián per riconsegnarlo al padre IL RITORNO A CUBA Il 28 giugno 2000, dopo l’ultima sentenza in favore del padre del bambino, Elián torna a Cuba. Miami è in lutto prendere il bambino e riconsegnarlo al padre, oggi fa la parrucchiera. Giusto all’incrocio tra l’ottava e la settantottesima c’è il “Salon Marisleysis”, il locale dove lei pettina le signore della Miami cubana. Sull’affaire che la rese famosa ha timidezza e riserbo. «È passato. È finito — dice — , conservo i ricordi nel mio cuore ma guardo avanti». «L’im- portante — aggiunge — è che sia vivo. Un giorno ci incontreremo di nuovo. Magari andrò a trovarlo, sono certa che si ricorderà bene di me». Poi confessa che lo ha visto spesso in tv da quando è a Cuba. E che le sembra triste. «Con un’espressione sempre troppo seria». Suo padre Lazaro, che divenne un eroe di Miami quando si rifiutò di ri- spondere alle ingiunzioni di Janet Reno, ha finalmente trovato lavoro. Vende auto. Lo zio Delfin, invece, l’unico benestante in famiglia, è tornato all’azienda di pesce. Import export. Dopo averli osannati, Miami li ha presi un po’ per matti, tre sconfitti di cui meno si parla meglio è. Nella calle Cosio, quartiere della Marina, cinque anni dopo nulla sembra cambiato. Elián vive con il padre e i nonni in una casa abbastanza modesta. Solo l’agente al portone e la pittura fresca permette di individuarla a colpo d’occhio tra le altre. Qualche vicino invidioso dice che hanno anche il frigo nuovo e la tv più grande di quelle che di solito consegna lo Stato. D’altra parte Bimbo dei miracoli e padri-fantasma CARLOS FRANQUI lián galleggiava sulle acque dentro alla camera d’aria della ruota di un camion, a cui lo aveva legato sua madre prima di morire per salvarlo dal naufragio, con un pupazzetto e un giubbotto salvagente. Il bambino stava giocando con i delfini, che avevano allontanato gli squali, quando, dopo due giorni sotto un sole impietoso, fu trovato da un peschereccio americano, senza le bruciature e le piaghe tipiche di quelli che fuggono da Castro. L’incredibile apparizione di Elián lo trasformò nel niño de los milagros, il bambino dei miracoli. Riuniti all’Avana, i santeros cubani affermarono che se Elián, l’Elegúa, il dio che apre le porte e le strade nelle religioni afrocubane, fosse rimasto a Miami, Castro sarebbe caduto. Castro, un tiranno superstizioso a dispetto del suo “marxismo”, stabilì che Elián doveva essere recuperato e diede il via alla contesa legale, in nome della patria potestà del bambino dei miracoli. A nulla valsero il sacrificio della madre martire, né i validi argomenti dei suoi parenti di Miami, che facevano notare che a Cuba la patria potestà non esiste, che tutti i bambini sono sotto il controllo dello Stato e vengono trattenuti come ostaggi quando i genitori viaggiano all’estero per missioni ufficiali. O che esistono norme giuridiche internazionali secondo cui un giudice, se non c’è un genitore che possa garantire la patria potestà, ha la facoltà di nominare un tutore anche in un altro paese. Nel 1960, la fuga di notizie su un decreto di Castro che sopprimeva la patria potestà provocò un tale sconcerto che fu ritirato. La reazione di Castro fu quella di sostituire i magnifici Jardines de infancia con i Cìrculos infantiles, nonché di organizzare un gigantesco piano di borse di studio nelle case abbandonate dai ricchi, compresi i bambini contadini dell’isola, strappati all’ambito familiare e mandati a studiare nella capitale, e di fondare i circoli dei Pionieri comunisti. Questi provvedimenti segnarono la fine della patria potestà e dei nuclei familiari. Chi si incaricò di rappresentare il governo cubano nel caso Elián? L’avvocato Gregory B. Craig, dell’influente studio legale Connolly, di Washington. Craig era stato assistente legale del Dipartimento della giustizia, di quello di Stato e di quello del Tesoro, del direttore della Cia e di Edward Kennedy. Nel 1988, Craig riuscì a far assolvere il presidente Clinton dall’accusa di aver mentito sulla sua relazione sessuale con Monica Lewinski, un caso che mise in pericolo la sua presidenza. La nomina di questo avvocato clintoniano, in ottimi rapporti con l’establishment statunitense, fu decisiva per il rinvio di Elián a Cuba. In molte occasioni, Clinton aveva teso una mano amica a Castro: al tempo della ribellione giovanile del 1994, il cosiddetto Maleconazo che provocò una fuga collettiva, le navi da guerra Usa raccolsero in mare oltre centomila profughi alloggiandoli nelle prigioni di Guantánamo e rimandandone molti da Castro; poi ci fu il prezioso regalo dei 25mila permessi di residenza annuali, che alimentano la speranza di milioni di Cubani di andarsene da Cuba; infine permise, senza muovere un dito, che l’aviazione castrista abbattesse in acque internazionali i pacifici piloti con cittadinanza yankee di Hermanos al rescate, che si occupavano di salvare dalle acque i cubani in fuga da Castro. L’assalto della polizia alla casa della famiglia di Elián, disonore della giustizia americana, fu immortalato in una foto drammatica che mostra un gendarme con la mitragliatrice in mano, puntata sul bambino terrorizzato. Il padre di Elián, che non andò a Miami a vedere suo figlio, da buon fariseo ha avuto da Castro il suo premio burocratico, mentre Elián, dopo quattro anni di indottrinamento e lavaggio del cervello, compare di tanto in tanto insieme al Comandante — lo accompagnava in occasione della sua recente caduta — e in altri casi legge testi ufficiali. Gli capiterà di avere incubi in cui compare sua madre che lo salva prima di scomparire nelle acque turbolente della corrente del Golfo? (L’autore è ex direttore di Revolución. Traduzione di Fabio Galimberti) E FOTO CRISTOBAL HERRERA/AP DA SINISTRA: FOTO AP, ANGELO M. RUMBAUT/NOTIMEX, CORBIS/CONTRASTO DOMENICA 6 MARZO 2005 Juan Miguel è un parlamentare. Dopo il ritorno di Elián, suo padre è stato nominato deputato — le elezioni a Cuba sono per liste uniche e chiuse presentate dal governo — e ha ricevuto premi e medaglie. Lui e il bambino sono presenti, accanto a Fidel, in tutti gli appuntamenti importanti, salgono e scendono dalle tribune d’onore. Juan Miguel dice che Elián ha dimenticato sua madre e tutta l’avventura che fu costretto a vivere. Che è un bimbo normale e felice. Che è scortato perché «la Mafia di Miami potrebbe cercare di sequestrarlo un’altra volta». Sempre in prima fila I vicini sono più scettici. Dicono che non esce mai di casa. O meglio esce, ma oltre che per recarsi a scuola o in palestra a lezione di karatè, esce solo quando arriva il corteo delle tre Mercedes nere. Quelle che portano Castro o sua moglie. La signora Dalia, sposa del Comandante, è diventata una intima del piccolo. E, come suo marito, che lo vezzeggia come un giocattolo portafortuna, se lo porta dietro dappertutto. Infatti il bimbo non si perde una inaugurazione né una festa patriottica. Sempre in prima fila, con la bandierina cubana in mano, sopporta stoicamente le asfissianti recite ufficiali. Osservandola con la distanza del tempo, sostiene lo scrittore Norberto Fuentes, un ex agente dei servizi segreti castristi, la vicenda del bambino conteso ha provocato due fenomeni opposti all’Avana e a Miami. In Florida, la sconfitta ha spazzato via la leadership pura e dura dell’esilio, tanto che oggi l’82 per cento dei cubani rifugiati considera l’atteggiamento prevalente tenuto nel “caso Elián” una catastrofe politica. Mentre all’Avana ha fatto emergere una nuova generazione di fedelissimi del Comandante — li chiamano «i talebani» — che, intransigente e messianica, ha fatto polpette dei dirigenti riformisti, da Roberto Robaina a Carlos Lage, ormai definitivamente nell’ombra. Quando i tribunali americani, com’era inevitabile sulla base delle leggi internazionali, diedero ragione al padre del balserito, Fidel Castro promise che non l’avrebbe trasformato in un «bottino di guerra». Evidentemente non è andata così. E non solo per il libro, Elián in patria, 32 pagine, costo un peso, che venne stampato in tempo record per festeggiare la vittoria legale. D’altronde è pur vero che la vita quotidiana a Cuba è dura per tutti i bambini, una corsa ad ostacoli nel bombardamento ideologico. Non solo debbono «assomigliare al Che» (“Pionieros por el comunismo, seremos como el Che”, è la preghiera mattutina di tutti gli scolari), sono costretti anche, almeno una volta all’anno, a sceneggiare l’assalto alla Caserma Moncada — il primo atto fallito dell’avventura castrista nel ’53 —, l’invasione della Baia dei Porci o la guerriglia nella Sierra. Così il culto della personalità, praticamente assente nella propaganda ufficiale dell’isola, esplode nei libri di testo per i ragazzini. Una poesiola che tutti gli alunni imparano a memoria si intitola «Fidel barbuto arriva sempre per primo», e dice così: «Fidel leggero nei suoi stivali da guerrigliero. Così a Oriente come a Occidente, nelle ore buone o in quelle cattive: Fidel è presente, nel lavoro come in mezzo ai proiettili». «Ero terrorizzato — racconta adesso Mario Garcia Joya, direttore della fotografia del miglior film cubano degli anni Novanta, Fragole e cioccolato, in esilio da qualche anno — quando mia figlia tornava a casa canticchiando quei ritornelli apologetici. Non potevo fare nulla perché a Cuba la patria potestà non esiste. L’educazione dei bambini appartiene allo Stato e alla Rivoluzione. Poi, per fortuna, quando sono riuscito a scappare e l’ho portata a scuola in Messico, mi sono accorto che quell’apparato ideologico è talmente banale e inutile che scompare in un attimo dal cervello dei bambini. E oggi mia figlia tredicenne non si sognerebbe neppure per un attimo di chiamare Fidel Castro “Papà”, come fanno sempre tutti i bimbi di Cuba». 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 MARZO 2005 l’inchiesta Per i genitori l’arrivo di due o più figli in contemporanea “è come percorrere una strada in salita, si arranca subito, ma il panorama è bellissimo”. A Torino, un progetto dell’Università e un’associazione di mamme e papà lavorano per aiutare quelli che affrontano questa stupenda fatica Consigli utili Gemelli, istruzioni per l’uso E JENNER MELETTI TORINO ccoli qui, al quarto piano del distretto Asl 8, i “genitori speciali”. Facendo i salti mortali (nelle loro case sono stati precettati nonne e nonni, zie o baby sitter) riescono a trovarsi per discutere del “problema” che li accomuna: i figli gemelli. Basta guardare in faccia la signora Luisa, che i gemelli (un maschio e una femmina) li ha ancora nella pancia ed è venuta all’Asl per sapere cosa le succederà fra un paio di mesi, per capire che la questione è davvero seria. «I mie due tsunami, cioè Marco e Mario, hanno due anni e si picchiano da mattina a sera. Si strappano i capelli, si mordono… Che posso fare?». «Per i primi sei mesi sono impazzita. Tutto il giorno ad allattare con il seno e con il biberon, e non ricordavo più a chi avevo dato il latte mio o quello artificiale. Ho dovuto mettere un taccuino vicino al letto e prendere appunti». «Anche noi abbiamo un diario. Giulio ha mangiato e ha dormito due ore, Massimo non ha mangiato. Se non fai questo, quando Massimo piange non puoi sapere cosa può avere». La signo- ra Luisa si stringe la pancia e osserva. Gli altri cercano di farle coraggio. «Non si spaventi. Avere due gemelli è comunque una cosa bellissima. Le raccontiamo cosa succede così è pronta a tutto». Vita da gemelli, dall’utero all’asilo, dalla materna all’università. L’inglese sir Francis Galton, cugino di Charles Darwin, già nel 1875 definiva i gemelli monozigoti «lo stesso essere in due». Il francese Renè Zazzo ha studiato a lungo il “paradosso dei gemelli”, secondo il quale «due monozigoti cresciuti insieme, e pertanto con Dna e ambiente condiviso, hanno tratti di personalità molto differenti, mentre se vengono cresciuti in ambienti diversi tendono a sviluppare aspetti simili». Qui a Torino – caso unico in Italia – si fanno convegni per studiare Galton e Zazzo, e soprattutto si mettono forze in campo per «prevenire – questo il Progetto Gemelli della Regione e dell’Università – eventuali disagi psicologici attraverso percorsi formativi e informativi». Il linguaggio è burocratico, ma la sostanza è chiara: dare risposte alla signora Luisa e alle altre come lei che, durante la prima ecografia di controllo della gravidanza, hanno visto che il medico faceva una faccia strana e poi chiedeva: «Per caso, signora, nella sua famiglia ci sono dei gemelli?». Il panico dei primi mesi Anche la signora Patrizia Rossini, cinque anni fa, ha visto «il dottore che girava sulla mia pancia con la sonda, muto come un pesce e con l’aria preoccupata». La signora oggi è presidente dell’associazione “Il mondo dei gemelli” che ha un motto che è tutto un programma: «Essere genitori di gemelli è come percorrere una strada in salita; si comincia ad arrancare da quando vengono al mondo… e anche prima, ma il panorama è bellissimo». I suoi Michele e Tommaso hanno compiuto quattro anni e la signora comincia a respirare. «Sono riuscita ad allattarli entrambi, ma devo dire che è stato abbastanza faticoso: 6 – 8 ore di poppate al giorno, e lì nessuno ti può sostituire. E poi ci sono i ruttini, i rigurgiti, i singhiozzi, i bagnetti, i cambi di pannolini – 3.500 euro per i primi due anni – le lavatrici, le ninne nanne, le “gite” con il passeggino doppio che costa 650 euro. Non hai certo il problema di pensare al tempo libero. Dopo la fatica, il panico. Tutti e due cominciano a camminare e ne trovi uno che si arrampica sulla libreria e l’altro che scappa verso le scale? Ma in qualche modo, con marito, nonne e nonni te la cavi. I problemi seri sono altri. Ci vuole qualcuno che ti insegni come tirare su questi bambini speciali, che ti dica se debbono essere man- dati all’asilo assieme o divisi, se debbono essere vestiti allo stesso modo, se debbano o no fare coppia fissa. Noi abbiamo trovato queste risposte nel dipartimento di psicologia dell’università, e l’anno scorso abbiamo costruito questa associazione di genitori che attraverso un sito Internet (www.ilmondodeigemelli.it) vuole diffondere queste informazioni. Per guardarci in faccia, e per discutere, ci troveremo dal 23 aprile, per tre giorni, a Montaione di Firenze». Cristina Cannone e Ivano Bosi sono i genitori di Rebecca e Davide, cinque anni, e di Ludovica, 12 anni. «Avere due gemelli – raccontano – non è come avere due figli: è qualcosa in più. Tutto succede in simultanea. Quando Ludovica piangeva, ti occupavi di lei, l’abbracciavi e la consolavi. Con Davide e Rebecca vai in crisi perché se ti occupi dell’uno ti senti in colpa con l’altro. L’associazione ci ha dato un aiuto importante: noi non abbiamo mai chiamato “i gemelli” i nostri figli e, salvo qualche tutina nei primi mesi, non li abbiamo mai vestiti uno uguale all’altra». Non solo i genitori hanno bisogno di suggerimenti. «Alice e Gaia, le mie bambine – scrive Silvia nel sito dell’associazione – sono eterozigote e inoltre io le pettino e le vesto in modo diverso. Nonostante questo a scuola nessuno è in grado di distinguerle. Loro FILIPPO E GREGORIO hanno quattordici mesi ELENA ED EDOARDO sono nati il 26 gennaio. Qui sono in braccio alla mamma Ilenia DAVIDE E REBECCA hanno cinque anni TOMMASO E MICHELE hanno quattro anni L’esperta.Rispettate la loro unione speciale ma fateli sentire unici MARIA NOVELLA DE LUCA icordo due fratellini gemelli che ho seguito dai cinque ai sette anni. La loro complicità arrivava al punto che spesso prima di addormentarsi cercavano di “mettersi d’accordo” sui sogni. Sceglievano una storia, un personaggio dei fumetti, e speravano di sognare la stessa cosa. Ricordo anche che quando uno dei due si ruppe una gamba, l’altro giocando faceva finta di zoppicare. I gemelli hanno un’intimità speciale, un’intesa speciale che li rende praticamente autosufficienti. Ai genitori tocca il difficile compito di rispettare questa intesa impedendo che diventi una chiusura verso il resto del mondo». Alla “gemellarità” Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dello sviluppo alla Sapienza di Roma, ha dedicato anni di studi e ricerche». Iniziamo dai “primi giorni”: due neonati da accudire in simultanea. «R «Questa è la fase più faticosa ma non la più difficile. Il consiglio, il più banale, è quello di farsi aiutare. La solitudine è la peggior nemica delle donne che hanno appena partorito, alle prese con mille nuove ansie e mille nuovi problemi, che di fronte ai gemelli vengono moltiplicati per due. Fin dai primi giorni è fondamentale però dividere l’affetto. Faccio un esempio: se la madre decide di allattare, è bene che mentre ne allatta uno tenga l’altro vicino, accarezzandolo, facendolo partecipare comunque all’evento». I gemelli, si dice spesso, si sentono una “coppia speciale”. Ma considerarli sempre un’unica entità non è uno degli errori più frequenti? «Sì, è uno dei problemi più comuni. Quante volte sentiamo dei genitori definire i propri figli “i gemelli” invece che chiamarli con i loro nomi? No, i bambini devono essere differenziati. È im- DOMENICA 6 MARZO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 10 Sono dieci i gemelli nati in Spagna nel 1924, in Cina nel ’26 e in Brasile nel ’46, ma non ci sono conferme. Il record ufficiale spetta invece a una donna australiana che nel ’71 ha avuto 9 gemelli 5.600 Secondo l’Istat, ogni anno in Italia ci sono circa 5.600 gravidanze gemellari e 280 trigemine. Molti di questi gemelli non sono identici, perché a differenza dei monozigoti nascono dalla fecondazione di ovuli distinti vengono chiamate “le gemelle” ed io ovviamente sono “la mamma delle gemelle”. Nessuno dice: “Alice vieni qui”, ma “gemella vieni qui”. E se chiedo alla maestra se Alice ha mangiato o Gaia è andata in bagno, la risposta è: “una sì, l’altra no”». Questi sono gli anni in cui gli errori possono provocare, nella formazione della personalità, danni gravissimi. «Per entrare nel mondo dei gemelli – spiegano la professoressa Liana Valente Torre e le sue assistenti Susanna Cameriere e Barbara Barettini, del dipartimento di psicologia – occorrono delicatezza e tanta conoscenza. Si dice: i gemelli si somigliano come due gocce d’acqua, e questo è vero solo perché nessuna goccia d’acqua è uguale all’altra. Certo, fra di loro c’è una relazione di coppia davvero speciale. Nessuno di noi, nati da soli, può trovare una persona che ci capisca subito, completamente, intimamente. A loro basta uno sguardo, oppure un gesto, una parola o un silenzio che noi non comprendiamo e che chiamiamo “criptofasia”, una sorta di linguaggio segreto fra gemelli». Il sostegno alle famiglie Le psicologhe insegnano – nei consultori del Sant’Anna e del Regina Margherita, nelle riunioni alle Asl, negli incontri dell’associazione genitori – che la coppia di gemelli è speciale, ma non è «sacra». «La tensione alta è un segnale di allarme. Meglio dividere la coppia, almeno in qualche momento. Uno dei bambini, qualche notte, può dormire dai nonni. La separazione a scuola aiuta a rafforzare la propria identità. Cari genitori, non abbiate timore. I gemelli non potranno stare assieme per sempre. A 15 anni ognuno cercherà strade diverse, alla ricerca di una professione o di un amore. E per loro tutto sarà più difficile, se fino ad allora saranno vissuti in simbiosi. La coppia chiusa può portare all’infelicità». G. e S. sono gemelle di 12 anni che hanno girato tutta l’Europa e non ricordano nemmeno il nome della capitale francese. «Le abbiamo incontrate ed abbiamo capito perché. Le ragazzine, a Parigi o a Londra, pensano soltanto a sorvegliarsi reciprocamente, a guardare se stesse specchiandosi nell’altra. Non si accorgono nemmeno di essere in un museo». La separazione, quando non è collaudata, provoca drammi. B., 20 anni, si interroga con angoscia. «Ho cercato di fare le cose che mia sorella non faceva, per essere diversa da lei, perché avevo bisogno di essere percepita dagli altri diversa da mia sorella, non confusa con lei. Ma cosa sono oggi? Solo un insieme di negazioni?». D., 24 anni, ha vissuto assieme alla gemella G. fino ai 19 anni. «Quando arrivavo a Torino in treno, i primi giorni, avevo spesso la sensazione di avere dimenticato qualcosa a casa, anche se poi mi accorgevo che non era così. Camminando da Porta Nuova all’università mi succedeva, ogni tanto, di voltarmi al mio fianco, istintivamente, come per cercare con lo sguardo la figura di G., e nel trovare il vuoto provavo delusione e solitudine». «Fra i gemelli – dicono al dipartimento di psicologia – ci sono sistemi di comunicazione che ancora non abbiamo compreso. Una signora in attesa di partorire ha detto alla gemella che comunque mancavano almeno dieci giorni. L’altra, la notte, ha sentito un dolore simile alle doglie. Ha chiamato la gemella ed ha saputo che era in sala parto all’ospedale. C’è chi fa gli stessi sogni. Per capire cosa succede davvero, dovremo studiare meglio la genetica». A volte i gemelli prendono strade diverse ma la “coppia speciale” non si spezza. Margherita ed Elisa Bottero, 26 anni, si sono laureate la prima in psicologia e l’altra al Dams. «Siamo state a scuola assieme – dice Margherita – dall’asilo alle ele- mentari. Poi abbiamo scelto scuole diverse. Non siamo monozigote e questo ci ha aiutato. Ma siamo comunque gemelle. E fra noi, quando ci incontriamo, c’è un legame che è difficile spiegare. Siamo diverse, io sono introversa, lei estroversa. Io amo la logica e la matematica, lei l’arte e il teatro. Ma abbiamo bisogno di stare assieme spesso con l’unico scopo di stare assieme, anche in silenzio. Ho preparato la tesi confrontando l’intelligenza dei bambini nati singoli ed i gemelli. Anch’io penso che le coppie di bambini debbano avere momenti di separazione. Solo così possono crescere senza preoccuparsi soltanto di essere diversi dal co – gemello». Nessuno riesce a dimenticare di essere venuto al mondo come «lo stesso essere in due». «E allora – dice la professoressa Liana Valente Torre – c’è chi è felice perché l’altro è riuscito a fare quelle cose che lui non è riuscito a realizzare e che sono l’altro aspetto di sé. Rita Levi Montalcini era felice perché la gemella Paola aveva successo nel mondo dell’arte e Paola era felice perché Rita aveva scelto la biologia ed aveva ricevuto il Nobel. In loro la “coppia” ha resistito fino alla fine. “Io sono morta - mi ha detto Rita Levi Montalcini – quando è morta mia sorella”». FOTO ALESSANDRO TOSATTO/CONTRASTO SARA ED ENRICO hanno otto anni ALESSIO E STEFANO hanno due anni e mezzo. Nella foto sono con il papà MARGHERITA ED ELISA (26 anni), hanno un hobby in comune: cucinare dolci LORENZO E FABRIZIO amano ascoltare la musica e suonare l’armonica. Hanno cinque anni portante non vestirli nello stesso modo, regalargli giocattoli diversi, non dargli nomi che evochino assonanze, tipo Pietro e Paolo, Marina e Martina, se sono omozigoti e veramente uguali i genitori devono sforzarsi di trovare delle particolarità per non confonderli troppo spesso. È importante che ogni tanto la madre o il padre escano a turno con uno dei due, facendolo cioè sentire “unico” almeno per quel momento. A scuola l’ideale è che frequentino classi diverse, o che almeno siano seduti in banchi diversi. Sempre rispettando però la loro gemellarità». In che senso? «Rispettando quell’intesa speciale che li porta ad essere fronte comune a scuola, in famiglia, tra gli amici. Una grande forza che gli adulti non devono cercare di spezzare. Tra i gemelli ci sono naturalmente anche rivalità, invidie, gelosie. Nella mia esperienza ho visto che osservazioni banali dei genitori, tipo “tu sei nato prima, tu sei nato dopo”, possono essere deflagranti nella coppia dei gemelli». Poi arriva l’adolescenza... «Età difficile per tutti e per i gemelli in particolare, perché in questa fase inizia l’inevitabile degemellizzazione». Proviamo a spiegare di che si tratta. «In ognuno dei due nasce il bisogno di affermare la propria individualità, iniziano i primi innamoramenti. Durante l’adolescenza, e nella prima giovinezza, spesso il co-gemello viene sentito come ingombrante. Uno degli esempi più comuni quando i gemelli sono dello stesso sesso è che si innamorino della stessa ragazza o ragazzo. È un momento in cui i genitori possono osservare se la fusione che caratterizza la vita di questi bambini assume le caratteristiche di forza o è invece un freno alle vite di ognuno dei due. Bisogna ricordare infatti che fin da piccolissimi il vero oggetto di attaccamento che per tutti i bambini di solito è la madre, per i gemelli è il co-gemello. Quindi il meccanismo di distacco in realtà non avviene mai». Lei vuol dire che i gemelli crescendo non arrivano mai ad avere una identità del tutto autonoma? «In un certo senso è così. Voglio dire che pur facendo percorsi diversi c’è una parte che resta sempre in comune. Nella mia esperienza ho visto che quando i genitori riescono a procedere per gradi, spingendo alla differenziazione senza però spezzare la loro complicità, avere un gemello o una gemella si trasforma in una condizione speciale che ti rende più sicuro di fronte alla vita». 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA le storie/1 Islam a fumetti ENRICO FRANCESCHINI “K LONDRA rash! Bammh! Zhot! Aaargh!”: i soliti rumori onomatopeici. Più la grafica inconfondibile dei supereroi a fumetti. Più una trama firmata da un collaudato autore di Batman, Superman, X-Men. Eppure il cartoon arrivato nei giorni scorsi nelle edicole di Londra e New York contiene qualcosa di mai visto, perlomeno nella cultura popolare di massa occidentale: un protagonista musulmano. Un giovane musulmano, figlio di un droghiere pachistano, residente a Bradford, nord dell’Inghilterra, roccaforte dell’immigrazione islamica nel Regno Unito. Un ragazzo armato di una bicicletta e di un martello, raccolto per caso nella bottega di famiglia, e preoccupato soltanto di una cosa: il misericordioso Allah lo ama o lo odia? Perché se lo odia, Allah potrebbe inviargli una moglie brutta, antipatica, noiosa. Sicché Alì, nel dubbio, tiene in tasca un cappio già annodato: se Sofia, la promessa sposa che non ha ancora incontrato, la consorte affibbiatagli dai genitori in un matrimonio combinato come esige la tradizione, non sarà simpatica e carina, lui ha deciso di infilare il collo nel cappio e suicidarsi. Per sua fortuna, Sofia è bella. E per fortuna dei lettori, la storia cominciata con uno scenario piuttosto banale e decisamente fuori dalla norma si avvita improvvisamente in una fantasia a metà strada tra Indiana Jones e le Mille e una notte: nella bottega del droghiere cade una cassa, la cassa sfonda il pavimento aprendo una larga falla, nella falla s’infila il fratellino poppante di Alì, Alì si tuffa dentro per ripescarlo, così facendo scivola in un tunnel, che lo conduce a una specie di ascensore supersonico, che lo porta a una città sotterranea, dove si aggirano fantascientifici robot, mostruosi insetti, divinità a tre teste, e dove fa conoscenza con un’affascinante ragazza musulmana. Chi è? Guarda caso è la sua promessa sposa, Sofia. Tutto esaurito Di Vimanarama, questo il titolo dell’inconsueta striscia a fumetti, per ora è uscito soltanto il primo capitolo: uno smilzo magazine patinato a colori di quaranta pagine, in vendita a due sterline nelle edicole londinesi, andato esaurito nello spazio di pochi giorni. La caccia al secondo e al terzo numero sarà probabilmente ancora più accanita. Nonostante la stravaganza della vicenda, o forse anche per questo, infatti, le avventure dell’islamico Alì in un fantasmagorico paese delle meraviglie hanno ottenuto uno straordinario successo di pubblico e di critica. Il Guar- DOMENICA 6 MARZO 2005 Vimanarama è il “cartoon” che sta facendo impazzire la Gran Bretagna. Grazie a una trovata geniale: per la prima volta il protagonista è un ragazzo di origine pachistana. Così dalla matita di un disegnatore inglese nasce il personaggio destinato a far sognare i figli di una società sempre più multiculturale Londra, il supereroe benedetto da Allah dian a Londra e il Village Voice a New York ne parlano come di un segnale politico: il primo eroe musulmano in grado di fare breccia nel cuore dei lettori d’Occidente, nel clima surriscaldato del mondo post-11 settembre. Gli esperti di cartoon lo lodano per la trama, il disegno, il guizzo creativo. La gente, i giovani che costituiscono la maggior parte del mercato di questo genere di fumetti, lo apprezza per ciò che è: una novità, una corsa indiavolata fuori dagli stereotipi, una boccata d’aria fresca. Ne è testimone il fatto che, per trovarne un paio di copie, il vostro cronista ha dovuto fare il giro delle librerie specializzate in fumetti di Londra, luoghi chiamati Forbidden Planet, Gosh, Where the wild things are, sentendosi ripetere la stessa frase dai commessi di turno, “Vimanarama? Niente da fare, non ne ho più neanche una copia”, prima di riuscire a strapparne un paio, a peso d’oro, a un appassionato collezionista. E non si tratta di edicole o librerie disseminate nei quartieri musulmani della metropoli: macché, il fumetto del musulmano Alì dalla pelle scura va a ruba a Piccadilly e a Bloomsbury, a Kensington e a Chelsea, tra lettori dalla pelle bianca, di religione cristiana o più probabilmente atei, gli stessi che il mese scorso divoravano l’Uomo Ragno, Batman, Superman. Paradossalmente, ciò succede negli stessi giorni in cui il settimanale americano Time pubblica una cover-story sulla “crisi d’identità” dell’Europa, sulla “fine del multiculturalismo”, sul rifiuto aggressivo e talvolta violento dell’immigrazione, specie musulmana, nel vecchio continente. Il conto non torna. Qualcosa non quadra. I due fenomeni sembrano contraddirsi. Per provare a capire dove sta il trucco, se c’è, interpelliamo il creatore del giovane Alì, l’autore di Vimanarama: che musulmano non è, nemmeno è indiano o pachistano, è di tematiche religiose o razziali sapeva poco e nulla fino a qualche tempo fa. Grant Morrison è un inglese LE AVVENTURE DI ALÌ Nell’immagine qui sopra, la copertina del primo numero di “Vimanarama”, il nuovo fumetto della Dc Comics andato a ruba a Londra e a New York. Sotto, una scena tratta dal primo episodio delle avventure del giovane Alì che vive a Glasgow, in Scozia, e scrive sceneggiature per fumetti da un quarto di secolo. È uno dei narratori preferiti della Marvel Comics, la casa editrice americana che pubblica X-Men, Batman, Superman, l’Uomo Ragno e tante altre storie a fumetti di supereroi, una cui sussidiaria, DC (come District of Columbia, il distretto in cui è situata Washington) Comics, ha pubblicato ora Vimanarama. L’idea, racconta, gli è venuta dopo l’attacco terroristico all’America dell’11 settembre 2001, quando è iniziato il grande dibattito sui rapporti tra Islam e Occidente, sul presunto “scontro tra civiltà”, sulle “guerre sante” e le “guerre di liberazione”, con tutto quel che ne segue. «Non sono un politologo», dice l’autore, «ma la vasta comunità musulmana di Gran Bretagna mi è sembrata perfetta per rappresentare l’Islam come lo vediamo nella vita di tutti i giorni. Nella mia storia ci sono devoti musulmani che pregano dall’alba al tramonto e musulmani a cui non frega un accidente dell’Islam, ci sono donne musulmane con il velo e donne musulmane in jeans e a braccia scoperte. Cosicché ognuno ha modo di dire la propria». Ignorante della materia, Morrison si è messo a studiarla da zero, immergendosi in tomi di storia, teologia, letteratura islamica, senza perdere di vista il cuore universale del suo plot, «una commedia romantica e un’avventura fantastica, gli elementi che attraggono i teenagers di ogni razza, cultura, religione». Alì, in fondo, è il figlio del droghiere pachistano che esiste all’angolo di casa del suo autore, come ce n’è uno quasi ad ogni angolo di ogni quartiere di ogni città del Regno Unito. Un ragazzo musulmano come tanti a Bradford o a Londra, uno a cui interessa l’amore più di Osama bin Laden, rispettoso della famiglia ma stufo delle vecchie tradizioni, consapevole delle proprie origini ma interessato a scoprire nuove realtà. Un segno dei tempi Non è certamente un caso che la storia di questo “eroe per caso” abbia fatto centro a Londra e a New York, i due melting pot del pianeta, “capitali” multirazziali d’Europa e d’America, dove tutti si sentono immigrati e non escludono di emigrare di nuovo prima o poi da qualche altra parte. Con i suoi otto milioni di abitanti, che diventano ventidue milioni calcolando gli sterminati sobborghi dell’area metropolitana, Londra è il polmone della Gran Bretagna, ci vive praticamente più di un terzo della popolazione nazionale: ed è una città di immigrati, il 26 per cento dei suoi residenti sono nati al di fuori del Regno Unito, percentuale che crescerebbe di molto se fosse possibile contare tutti gli immigrati clandestini. I disordini razziali, ogni tanto, scoppiano anche qui; ma non si sente aria di crisi d’identità o fine del multiculturalismo. «Un fumetto è soltanto un fumetto», ammonisce Morrison, e la Marvel Comics presenta Vimanarama come una versione cartacea di “Bollywood”, il cinema del sub-continente indiano, tutto balli, canti, colori sgargianti, lacrime e pistolettate. Ma se anche le telenovelas e le “soap opera” riflettono la realtà, perché non dovrebbe poter fare altrettanto un cartoon? Quando Alì confida allo zio Omar, devoto musulmano, che se Sofia è brutta, stupida o noiosa significa che Dio ha voluto punirlo e lo odia, questi gli risponde serafico: «Dio ama tutti, Alì, perfino te, e se la tua promessa sposa è brutta significa che è tuo padre che ti odia, perché è lui che l’ha scelta». 1-Continua: il seguito, del fumetto e dello scontro/incontro tra civiltà, alla prossima puntata. DOMENICA 6 MARZO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 le storie/2 Battaglie antiche Il primo è arrivato nel ’92 dalle alte valli piemontesi. Oggi sono ottanta e l’anno scorso nelle Alpi francesi hanno ucciso duemila pecore. Facendo insorgere gli allevatori e riportando alla memoria una lotta tra l’uomo e il predatore cominciata con Carlo Magno e conclusa nell’Ottocento. Fino a che Parigi è stata costretta a intervenire Il ritorno del lupo cattivo FOTO CORBIS/CONTRASTO U BARCELLONNETTE na pecorella immobile nella sua gora di sangue, un’altra decapitata, una terza ancora viva ma con il dorso orrendamente sbocconcellato. «Quest’ultima si è trascinata fino all’ovile dove è morta dopo ore di agonia; le altre due sono state invece sbranate in montagna», racconta Françoise Bonopera, che conserva gelosamente le foto dell’ecatombe in un album rilegato. Il ricordo della strage tuttora la commuove. Era il 23 settembre scorso. Prima di attaccare, il lupo aspettò che infoltisse la notte. Non c’erano cani a proteggere l’ovile: quando il pastore vide le prime pecore correre all’impazzata era già troppo tardi. «Da quel giorno la mia vita è cambiata», dice la Bonopera. «Per sempre». Decimato nel corso dei secoli con professionale crudeltà, in Francia il lupo è scomparso alla metà dell’Ottocento. Il suo ritorno ha perciò sorpreso gli allevatori che, come la signora Bonopera, hanno perduto la consuetudine di difendere i loro armenti. Si sono allora rivolti ai politici i quali, dopo aver ordinato un’inchiesta parlamentare, hanno decretato l’abbattimento «controllato» di un certo numero di esemplari fino al 2008. «È vergognoso che il governo di un paese evoluto come il nostro ordini l’uccisione di una specie protetta dalle convenzioni internazionali», dice Florence Englebert, ambientalista in una cittadina nel parco nazionale del Mercantour, Barcelonnette, dove, nel 1992, il primo lupo proveniente dalle vicine alte valli piemontesi tornò a turbare il sonno degli allevatori francesi. Condannati a morte Lo scorso anno, furono quattro i lupi condannati a morte da Parigi. Ma nonostante l’impressionante dispiegamento di forze, soltanto due caddero sotto il fuoco dei guardiacaccia. «Negli ultimi mesi, visto che non riuscivano a raggiungere l’obiettivo stabilito, decine di uomini sono stati distaccati tra queste montagne. Risultato? Uno spaventoso aumento di casi di bracconaggio in altre regioni di Francia», racconta la Englebert. Dicevamo del secolare sterminio del lupo d’Oltralpe. Il primo a pianificarne l’eccidio fu Carlo Magno: nell’805, ordinò che in ogni contea vi fossero «due luparii armati e abili nella caccia al lupo». Nel 1520 Francesco I creò il corpo della louveterie che con le sue guardie e le sue mute di cani aveva il compito di controllare l’intero territorio. Tre secoli dopo, a dare nuovo impulso alle stragi fu Napoleone, che istituì il luogotenente della louveterie, una carica tuttora in vigore, il cui compito oggi consiste essenzialmente nel fornire consulenze venatorie. Stupisce la ferocia dei metodi usati per far fuori il lupo selvatico. Un editto dell’Ottocento suggeriva di usare polpette avvelenate di cane infarcite di spilli per provocare lesioni intestinali e far sì che la stricnina fosse assorbita più in fretta. C’erano poi le taglie, che variavano in base al sesso e all’età dell’animale ucciso. Una femmina gravida, per esempio, era pagata profumatamente, molto di più di quanto guadagnasse un contadino in un mese. «Tuttavia, nelle Alpi francesi non bastarono né i luparii né le loro micidiali tagliole. Per questo i nostri antenati non esitarono a bruciare le foreste di larici e abeti che ricoprivano queste valli. Se lo Stato non interverrà con più decisione, siamo pronti a fare lo stesso», minaccia la signora Bonopera. Secondo Henriette Martinez, paladina degli allevatori e deputato nelle Hautes-Alpes dell’Ump, il partito di centrodestra del presidente Jacques Chirac, sarebbe proprio l’asprezza delle battaglie di una volta a spiegare la rabbia degli allevatori. Dice la Martinez: «Oltre che un rischio per i loro guadagni, il ritorno del lupo è visto come un oltraggio al passato, un’offesa alla dura lotta combattuta dai loro avi. Quanto agli ambientalisti di città che dicono di voler proteggere il lupo propongo di trapiantarlo nel parigino Bois de Boulogne. Vorrei proprio vedere che cosa direbbero se trovassero sgozzati i loro barboncini». Sulle montagne che circondano Barcelonnette, d’estate sessantamila pecore pascolano brade. Sono pecore da carne, quindi nessuno le fa rientrare la sera all’ovile per la mungitura. Rimangono sulle alture anche di notte, custodite soltanto da un pastore. In altre parole, a disposizione del lupo. Negli ultimi anni, con l’aumento della popolazione dei predatori (una quarantina secondo i biologi, più del doppio secondo gli allevatori) gli attacchi si sono moltiplicati, fino a diventare quotidiani. «Ma lo Stato risarcisce l’allevatore versando fino a 150 euro per ogni pecora uccisa», dice l’ambientalista Englebert. «È vero: nel 2004 i lupi hanno ucciso circa duemila pecore. Tornano paure ataviche che qualcuno cerca di esorcizzare con rituali che sanno di medioevo: un animale è stato impiccato nella piazza del paese di Allevard Ma mi chiedo perché nessuno si è lamentato delle venticinquemila ammazzate dai cani?». A queste cifre, gli allevatori replicano che dopo ogni attacco vanno messe in conto le cosiddette perdite indirette, e che dunque l’indennizzo statale è molto al di sotto del dovuto. Spiega Joseph Jouffrey, che presiede il sindacato degli allevatori di ovini: «Quando arriva un branco di lupi molte pecore gravide abortiscono, altre perdono il latte, altre ancora diventano sterili. Una catastrofe. Senza contare il trauma profondo che vive l’allevatore dopo ogni strage di innocenti». Con i pochi esemplari riapparsi su queste alture, è tornata anche la paura atavica del lupo, che alcuni cercano di esorcizzare con rituali che sanno di Medioevo. Nel 2000, ad Allevard, un paesino nel nord delle Alpi, un lupo fu impiccato all’albero più alto della piazza. L’anno dopo, un altro esemplare fu affogato in un torrente con una pietra legata al collo. L’estate scorsa, la testa di un bell’esemplare adulto fu recapitata a casa di un guardiano del parco del Mercantour. Gesti isolati, compiuti da pochi allevatori esasperati? Può darsi, ma quando uno di loro fu processato e condannato (un mese con la condizionale) per aver illegalmente ucciso un Canis lupus, di fronte al tribunale dove veniva letta la sentenza centinaia di persone sfilarono per portargli solidarietà. Anche in Italia, dove la popolazione di lupi avrebbe ormai raggiunto i mille esemplari, vengono attaccate le greggi. Racconta il professor Bernardino Ragni, zoologo dell’Università di Perugia: «Nell’agosto del 2002, nella piana di Castelluccio di Norcia, in Umbria, un branco di una mezza dozzina di lupi sgozzò in poche ore quasi duecento pecore. Mi recai sul posto e mi accorsi che quella notte il recinto era rimasto incustodito perché i cani erano stati portati a valle due giorni prima. Se ci fossero stati i molossi dell’Appennino, i lupi non si sarebbero neanche avvicinati. Vede, nelle nostre montagne esiste un sistema collaudato da più di duemila anni. E che ancora funziona». Ma allora perché i francesi non si voFOTO ROGER VIOLLET PIETRO DEL RE IERI E OGGI Nell’immagine qui sopra, un branco di lupi all’attacco in una miniatura francese del XV secolo. In alto, la silhouette di un lupo grigio gliono dotare anche loro di pastori maremmani o di patous dei Pirenei, già vantaggiosamente sperimentati contro gli orsi? Qui, solo un terzo delle greggi è protetto dai cani. E ciò per via di un problema legato anzitutto al tipo di allevamento, estensivo, a differenza di quanto accade in Italia. «Lo sa quanto mangiano i cani da difesa? Fino a un chilo di cibo al giorno. Si rende conto dei costi aggiuntivi, considerando che serve un cane per ogni cento pecore? Poi, da noi nessuno accetta di assicurarli. Se dovessero mordere un turista, chi pagherebbe?», si chiede la Bonopera. «Vede, troppe cose dovrebbero cambiare per permettere al lupo di tornare tra noi. Da quando abbiamo posto il problema i politici sembrano farsi in quattro per aiutarci. Perfino il Partito comunista, anche se credo solo per motivi elettorali, ha cominciato a farci la corte. Ma di risultati ancora non se ne vedono». Quest’anno, il numero di lupi da abbattere non è stato ancora deciso. Verosimilmente saranno otto, il doppio che nel 2004. Tuttavia, l’espediente partorito da Parigi non soddisfa nessuno. «Un gesto simbolico, per far vedere che siamo vicini agli allevatori», si giustifica l’onorevole Martinez. «Un inutile massacro di cui Parigi dovrà rispondere anche di fronte alla Commissione europea, interpellata dalle associazioni per la difesa della natura», ribatte la Englebert. Pastori armati Per risolvere il problema ci sarebbe ovviamente una soluzione radicale: quella che propongono gli allevatori, propensi a un nuovo piano di sterminio. «Da noi il lupo è incompatibile con la pastorizia, quindi o noi o lui», sostiene Joseph Jouffrey, secondo il quale oltre a un programma di abbattimento più energico, sarebbe necessario armare i pastori e autorizzarli a sparare in caso di attacco. C’è poi una soluzione vagamente più blanda, sebbene difficilmente realizzabile, avanzata dal deputato dell’Umc. Impedire l’accesso al lupo nelle valli ma dedicargli un ampio spazio recintato: l’ideale, salvo che il lupo in una notte può percorrere anche cento chilometri. L’ecologista Englebert ha calcolato che dal 1997 al 2003 gli aiuti erogati alla pastorizia minacciata dal lupo nell’insieme dei departements alpini ammontano a quattro milioni di euro. Nello stesso periodo la cura di una malattia che aveva colpito le pecore della regione è costata alla collettività quaranta milioni di euro, dieci volte tanto. «Proteggere il lupo, aumentando gli indennizzi per tacitare gli allevatori, costerebbe al contribuente francese l’equivalente di 0,01 centesimi l’anno: una cifra che i cittadini del quarto o quinto paese più ricco del pianeta dovrebbero potersi tranquillamente permettere». Difficile darle torto. 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA i luoghi DOMENICA 6 MARZO 2005 Cambia San Pietroburgo Miliardi di investimenti per ridisegnare il volto della città di Pietro il Grande. Qui infatti Vladimir Putin e i suoi alleati vogliono costruire un nuovo centro di potere economico: sulle rive della Neva arriveranno banche, imprese e poli industriali. E si costruiranno altre case per portare da sette a otto milioni il numero degli abitanti Risorge l’antica GIAMPAOLO VISETTI V SAN PIETROBURGO ladimir Putin ha deciso che per la sua grande Russia una capitale non basta più. Dopo mesi di analisi dei costi, mediazioni politiche e colloqui con i più influenti imprenditori del Paese, il presidente si appresta a dare il via libera all’operazione San Pietroburgo. Il piano prevede miliardi di rubli di investimenti per recuperare la città fondata da Pietro il Grande al ruolo di seconda capitale. Sulle 42 isole collegate sopra il delta della Neva non finiranno solo simboliche istituzioni culturali. L’idea di rilanciare l’ex Leningrado esclusivamente quale glorioso epicentro dell’identità russa, è tramontata. La metropoli-museo, concepita per il trecentesimo anniversario dalla fondazione, nel 2003, è stata bocciata dallo stesso Putin a fronte di un sostanziale disinteresse degli investitori. Sulla nobile imbalsamazione ha prevalso così la lobby promossa dalla governatrice Valentina Matvienko, astro nascente della politica post-eltsiniana e ormai tra i personaggi più popolari della federazione. Temuta per l’instancabile insistenza, per resistenza a trasferte e anticamere, la prima donna di San Pietroburgo ha convinto Putin a trasformare la città natale di entrambi nella capitale economica e finanziaria della Russia. L’accordo è stato raggiunto a inizio anno nel corso di un incontro riservato nella residenza presidenziale di Novo-Ogarjovo. Prevede lo spostamento dalle rive della Moscova a quelle del golfo di Finlandia di banche, imprese, grandi compagnie energetiche, sedi centrali di istituzioni pubbliche, autorithy, organismi governativi della giustizia. Stoppata per ora la pretesa, giudicata troppo costosa e poco efficiente, di trasferire anche alcuni ministeri smembrando il governo per decentrare il potere. L’idea di Putin, già al governo della capitale del nord ai tempi del sindaco Sobcjak, è di far confluire sull’ex fortezza dei Romanov il fiume d’oro derivante dal gettito fiscale delle sedi legali dei colossi dell’economia. I miliardi, arricchiti da annuali e private donazioni “spontanee”, suggerite dal Cremlino, serviranno a ultimare i colossali restauri di strade, palazzi, complessi industriali e commerciali. Le opere sono state anticipate dallo stesso Putin, intervenuto a inaugurare un nuovo e spettacolare ponte sulla Neva: è il primo a sospensione, non dovrà essere alzato la notte come tutti gli altri per lasciar passare le navi e ha ‘‘ Fedor Dostoevskij Era una notte meravigliosa, una di quelle notti che ci capitano soltanto quando siamo giovani, caro lettore. Il cielo era così stellato, così luminoso che, dopo averlo guardato, ci si doveva chiedere: “Può vivere sotto un simile cielo gente iraconda e bizzosa?” LE CHIESE E I PALAZZI Nella foto di apertura, la facciata principale del Palazzo d’inverno, sede dell’Hermitage. Qui a sinistra, un’immagine della chiesa della resurrezione di Cristo, nota come chiesa del Salvatore sul sangue versato, edificata sul luogo dell’uccisione dell’imperatore Alessandro II. In alto, una giovane pittrice dipinge sul ponte di un canale e a destra, la cattedrale di Sant’Isacco Da LE NOTTI BIANCHE una capacità di 120 mila vetture al giorno. A questi lavori si aggiungerà il business edilizio per portare la popolazione da 7 a 8 milioni di abitanti, innestando una nuova classe dirigente formata per reggere l’urto della concorrenza sul mercato del lavoro. In cinque anni, secondo il piano che sarà varato nelle prossime settimane e che Putin ha presentato in occasione delle celebrazioni per i dieci anni del parlamento cittadino, sorgeranno uffici e abitazioni di standard occidentali, infrastrutture d’avanguardia pensate per abbattere i costi di produzione. Entro il 2008 il budget municipale risulterà raddoppiato. La privatizzazione di palazzi e monumenti trasformerà la città nel paradiso europeo degli investimenti immobiliari. Un occhio ai mercati globali Dall’enorme cantiere risorge così la versione moderna dell’antica capitale degli zar, a riequilibrare la leadership moscovita imposta dalla rivoluzione bolscevica. All’illuminismo aristrocratico di Caterina succede il capitalismo borghese di petrolieri e “siloviki”. Il patto Putin-Matvienko, di cui sono trapelate le prime indiscrezioni, è sostenuto anche dagli altri pietroburghesi di governo: i potenti ministri Gref e Kudrin, il presidente della Duma Gryzlov, il presidente Miller che re- gna sul gigante dell’energia pubblica Gazprom. Sono tutti convinti che senza un potere forte, il Paese non sarà in grado di riemergere dal fallimento sovietico ad una democrazia competitiva. Ma la modernizzazione russa — è il pensiero del Cremlino — mostra di essere frenata dal fragile centralismo burocratico di Mosca, concentrato nel riassumere il controllo pubblico delle risorse naturali. Essa passa piuttosto dalla rinascita degli interessi a San Pietroburgo. Dividere, dunque, per riunire e consolidare. Mosca, come Berlino, Roma e Washington, resterà la capitale politica e amministrativa: più conservatrice, ortodossa, russocentrica se pure sotto l’influenza asiatica. San Pietroburgo, come Francoforte, Milano e New York, avrà il ruolo di motore per economia e finanza: più riformista, laica, democratica e reattiva ai mercati globali. Il Cremlino guarderà a Oriente, verso Cina, India e Giappone, e penserà a stabilizzare il focolaio caucasico riprendendo le redini dello Stato. Palazzo Smolnyj volgerà lo sguardo a Occidente, verso Unione europea, repubbliche baltiche e mondo scandinavo, acquisendo il passo delle Borse e dell’innovazione digitale. Lo schema di una Russia moderna che riassume l’aspetto antico dell’aquila a due teste, simbolo degli zar, si DOMENICA 6 MARZO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 LA CITTÀ DELLE RIVOLUZIONI Fondata da Pietro il Grande (foto) nel 1703 sul delta del fiume Neva, è stata una delle più importanti capitali d’Europa tra il 1700 e il 1800. Sotto lo zar Nicola I, la Venezia del Nord diventa il centro del capitalismo industriale russo. Focolaio di scioperi e violenze politiche, è il fulcro della rivoluzione del 1905. Durante la prima guerra mondiale, le viene cambiato il nome in Pietrogrado Affamata, scossa ancora da scioperi e dimostrazioni insorge nuovamente dando vita alla grande rivoluzione che porta al potere i bolscevichi. Alla morte di Lenin, viene ribattezzata Leningrado: assediata dai nazisti dal ’41 al ’44 e distrutta dai bombardamenti viene ricostruita dopo la guerra. Dal ’91 torna al nome antico (Ilaria Zaffino) presenta come il cardine del secondo mandato di Putin. Il presidente, per non fallire prima del 2008, vuol far crescere l’economia reale e restituire allo Stato il controllo su risorse naturali, regioni e repubbliche autonome. A tal fine il “potere verticale” del Cremlino deve essere prossimo all’assoluto, libero pure da distrazioni spicciole di concorrenza politica. Anche per questo — confermano gli analisti — Putin si è infine deciso a sgonfiare un po’ Mosca e ad irrobustire sempre di più la sua San Pietroburgo. La sfida tra i sindaci Ciò significa ridimensionare le aspirazioni dell’incontrollabile sindaco della capitale, Yuri Luzkhov, il solo politico popolare e noto nel Paese oltre al presidente, deciso a giocarsi la carte delle Olimpiadi 2012 a Mosca. In contrapposizione crescono le azioni della Matvienko, concreta e fedelissima. Ma soprattutto governatrice periferica, troppo lontana dal resto della nazione e troppo pietroburghese per rappresentare nell’immediato un potenziale concorrente nella lotta per la successione: ma pure esponente di quella classe politica, governatori e sindaci, a cui Putin ha appena tolto d’imperio la prerogativa di un’investitura elettorale, assumendo personalmente il potere di nomina. Il «Piano San Pietroburgo» tre anni fa era nato con velleità culturali, per saldare il conto con il sostegno dei “pitertsi”, gli amici d’infanzia che il nuovo zar ha proiettato sulle poltrone che contano. Attraverso esso, assurto nel frattempo a progetto di potere e a visione della società, passa invece ora il destino del Cremlino e del Paese: e la possibilità di Putin di far passare un terzo mandato per sé, cambiando la Costituzione o estendendo la durata dell’incarico. La posta in gioco nella città delle “notti bianche” spiega la riservatezza attorno al rilancio della capitale imperiale e il riserbo del mondo economico sulle agevolazioni fiscali offerte. A decisione presa, gli imprenditori hanno però rotto il silenzio. La “Vneshtorgbank”, il secondo gruppo finanziario della Russia, ha annunciato il trasferimento della sede legale da Mosca a San Pietroburgo. Qui risiederà anche la presidenza, o il Cda: e la banca si presenterà alla città acquistando la locale “Psb”, il maggior istituto di credito regionale del Paese. Lo stesso faranno il colosso della navigazione “Sovkomflot”, le compagnie petrolifere “Tansneft” e “Rosneft”, il monopolista elettrico “Rao — Ees” del magnate Ciubajs, il colosso delle telecomunicazioni “Svjazinvest” (venduto da Soros), decine di altri gruppi industriali ‘‘ Nikolaj Gogol Non c'è niente di meglio della Prospettiva Nevskij, almeno a Pietroburgo, dove essa è tutto. Di che cosa non brilla questa strada, meraviglia della nostra capitale. So con certezza che non uno dei suoi pallidi e impiegatizi abitanti cambierebbe la Prospettiva Nevskij con tutti i beni della terra Da I RACCONTI DI PIETROBURGO FOTO CORBIS FOTO GETTY/RONCHI capitale degli zar IL FIUME E I SOLDATI A sinistra, i palazzi dell’isola di Vasilevsky al tramonto. In alto, allievi della scuola navale di San Pietroburgo. A destra il particolare di una cupola della chiesa della resurrezione di Cristo e, qui di lato, l’interno del magnifico Teatro Mariinsky attivi nel mercato della vodka, dei metalli e della trasformazione alimentare. Tra canali e giardini all’italiana, dove Dostoevski e Puskin hanno scritto i capolavori della letteratura russa, approderanno anche il registro marittimo federale, la sede dell’araldica di Stato, la Zecca, altri enti pubblici e molto probabilmente anche la Corte costituzionale. Il rilancio della squadra di calcio Verrà poi, a pagamenti tributari e affari consolidati, il turno della Borsa. A questo si sta preparando in particolare la “Gazprom”. L’amministratore delegato Aleksei Miller ha confermato il trasloco nella sua città natale di alcune controllate, tra cui la ricchissima “Gazpromregiongaz” (patrimonio da 20 miliardi di rubli) che gestisce la distribuzione del gas in tutta la Russia. Dalla Neva, grazie al fascino mondiale esercitato dai ristrutturati palazzi d’Inverno e d’Estate dei Romanov, Miller intende aprirsi il mercato di Usa e Canada, aumentando quello europeo. Il sostegno politico sarà ripagato: “Gazprom” donerà a San Pietroburgo un business-center, finanzierà un nuovo stadio da 100 milioni di dollari e il rilancio della squadra calcistica Zenit. La “Tnk-Bp”, gruppo del petrolio vicino al Cremlino, in due anni ha già versato 100 milioni di dol- lari per il restauro di monumenti. Secondo il quotidiano economico “Vedomosti” l’incremento fiscale annuale per la città sarà di 5 miliardi di dollari. Parte di questi serviranno a finanziare università, scuole di specializzazione economica, biblioteche, musei e teatri. «San Pietroburgo — spiega Valentina Matvienko — sta riscoprendo il suo fisico e la sua testa di capitale continentale. La prospettiva Nevskij ritrova i negozi di lusso e i locali alla moda, gli alberghi dove è stata scritta la storia europea sono in via di ristrutturazione, sale da concerto e teatri presentano le anteprime destinate poi alle tournée mondiali, le facciate dei palazzi ancora segnate dall’assedio nazista cedono all’originario aspetto disegnato dai grandi architetti italiani e francesi. La basiliche ortodosse e la Fortezza di Pietro hanno riacquisito colori e materiali di un tempo, restituendo una luce magica alla notte. Sta nascendo una metropoli finanziaria, accogliente e remunerativa per l’élite degli affari e della cultura europei. Efficiente, stabile, sicura: e con un futuro strategico». Pietro il Grande diceva: «L’Europa ci serve per qualche anno, poi dobbiamo voltarle il sedere». Vladimir Putin ritiene che quel momento, nonostante la beffa Ucraina e gli attriti con Bruxelles, non sia ancora arrivato. 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 MARZO 2005 Tra il ’75 e il ’76 alcuni grandi artisti iniziano un tour molto speciale, durante il quale si esibiscono a sorpresa nei locali, senza annunciare chi salirà sul palco. A capo della band c’è il “menestrello” . È il Rolling Thunder Revue: un incredibile circo di vagabondi, poeti, e musicisti come Roger McGuinn, Joni Mitchell, Joan Baez, che attraversa la provincia degli Stati Uniti per celebrare il rock ’n’roll. Un viaggio magico, che qui rivive nel racconto del drammaturgo americano Shepard racconta SAM SHEPARD A Dylan ON THE ROAD Bob Dylan e la sua chitarra on the road Sotto; la locandina del tour; a destra il biglietto del concerto quando suona i suoi eccezionali riff con la slide-guitar assieme alla band, la sua espressione resta la stessa. È un’espressione di ascolto. Un ascolto attento al contenuto interno della sua musica. È un asso della musica, questo è certo. Poi viene il pezzo forte. Dylan sale sul podio e va verso lo sgangherato pianoforte verticale usato per anni solo per produrre elementari suoni da grande orchestra stile anni ‘30 e ‘40. Si siede, appoggia le dita nodose sull’avorio e comincia una martellante versione di Simple Twist of Fate. Qui lui è nella sua pasta. Il Grande Incendiario. Nel giro di cinque minuti il posto sta fumando. Le signore saltano e si contorcono nella profondità dei loro corsetti. Il pianoforte balla tutto e sembra sul punto di saltare fuori dalle piattaforme di legno. Il tacco dello stivale da cowboy di Dylan sta proprio scavando un buco nel legno delle piattaforme. Roger McGuinn spunta fuori con una chitarra, anche Neuwirth, e tutta la band si unisce finché ogni molecola dell’aria di questo posto esplode. Questa è la vera magia di Dylan. Lasciate da parte il suo genio lirico e osservate soltanto questa trasformazione dell’energia che lui porta in sé. Qualche minuto fa qui si poteva tagliare l’aria tanta era la tensione e l’imbarazzo e ora lui ha fatto saltare il tappo, ha riempito la stanza di una pervadente sensazione di eccitazione vitale. Non è l’energia che porta le persone a fare cose strane, ma quel tipo di energia che dà coraggio e speranza e che, soprattutto, fa passare in primo piano la vita che pulsa con forza. Se è capace di farlo qui, nella morte dell’Inver- Lui suona brani strumentali con la schiena verso il pubblico formando un cerchio con le altre chitarre come in una danza della pioggia no, in una località balneare fuori stagione piena di menopausa, non c’è da stupirsi che possa scuotere il paese intero. *** La band sta lavorando alla pigra melodia di una spersa zona rurale. Non la si potrebbe chiamare una prova, perché tutti si stanno divertendo molto. Dylan sta seduto su una vecchia sedia a dondolo masticando un sandwich ripieno di una specie di paté e li guarda da una certa distanza. Muove la testa affermativamente quando passano da un accordo all’altro. Altri se ne stanno seduti in giro mangiucchiando e giocando a ping pong elettronico e scommettendo forte. Gary sta facendo piazza pulita, migliora in abilità e tecnica delle dita, usa le due mani e fa rimbalzare le palline fuori dal campo, sfidando persino le leggi del computer. Di colpo Dylan si alza, ingoia il sandwich e si lancia verso la slide-guitar che nessuno sta suonando. Si siede a cavallo sulla sedia, si passa la lingua sui denti, afferra il pesante manico cromato e comincia a tentare di individuare le note e le scale giuste per la melodia. Qualcuno si volta, ma nessuno sembra veramente aspettarsi molto. La chitarra hawaiana non è precisamente il suo forte. La band continua a suonare e Dylan tiene il suo volume basso per non disturbare il percorso musicale degli altri. Dylan si china sempre di più sulle corde di acciaio, come se volesse guardare proprio dentro all’affare, tra delle fessure, come un meccanico che sta per togliere l’intero blocco del motore da una piccola automobile straniera. Continua diligentemente così per circa dieci minuti; ogni momento sembra essere quello in cui repentinamente troverà la cosa giusta con un colpo di genio ispirato. Sospira invece facendo rumore, si stende indietro, alza il volume e FOTO CORBIS l nostro arrivo al Seacrest Hotel di Falmouth, nel Massachusetts, vi troviamo, risolutamente trincerate, centinaia di signore ebree vestite di tutto punto. Sono totalmente immerse in una strana partita (per un figlio di irlandesi almeno) di una specie di domino cinese che si chiama Mah-Jongg. In effetti, la si può paragonare all’incontro di un Campionato mondiale in cui si scommettono dei soldi. Il fatto che delle superstar siano arrivate a condividere con loro il «territorio» è per queste signore soltanto un’attrattiva secondaria. Sono ossessionate dal gioco. Immaginate quindi la sorpresa, quando una sera tardi, nel bel mezzo della febbre del torneo, il gestore dell’hotel annuncia che avrà luogo una speciale sessione di lettura di poesie da parte di «uno dei più importanti poeti degli Stati Uniti, Allen Ginsberg!» Un giro di calorosi e grassocci applausi. Anche lui, dopotutto, appartiene alla loro stessa fede. Allen si avvicina al podio, vestito marrone, alcune carte in mano, è identico in tutto e per tutto al tardo Whitman, salvo che per gli accessori che sono neri invece di grigi. Si arrampica su un alto sgabello e si china sul microfono. Le signore fanno un sorriso di circostanza e Allen comincia la sua lettura. Il suo lungo, terrificante, doloroso inno alla madre. Anche queste sono madri, ma l’ago è troppo vicino alla vena. Mentre Allen inarrestabile recita loro i suoi versi, le madri passano da una attenzione paziente a degli imbarazzati sorrisini, a un evidente disgusto. Il suono delle vocali nel suo mormorare uniforme rende il tutto sempre più simile a un infinito lamento funebre. Dylan, seduto in fondo alla stanza, la schiena appoggiata alla parete, il capello calato sugli occhi, ascolta tranquillo. Dato che io sono cresciuto protestante, c’è qualcosa nell’aria che non afferro bene, ma la sensazione è che sia un che di quasi vulcanico. Qualcosa che ha a che fare con generazioni, con madri, con l’essere ebreo, con l’essere cresciuti ebrei, con il Kaddish, con la preghiera, con l’America persino, con i poeti e con la lingua, e meno di tutto con Dylan, che ha creato per sé stesso una personalità che in qualche modo sta fuori dalla religione in cui è nato. Che ha creato dentro alla sua pelle un musicista vagabondo, e che ora se ne sta seduto a osservare le sue stesse origini. La sua eredità. E Ginsberg che abbraccia queste origini tanto in profondità da trapassarle e da uscire dall’altra parte in uno strano miscuglio di misticismo occidentale, meditazione Hell’s Angel, acidi, politica e musica delle parole. Le signore se ne stanno lì sedute. Catturate nella loro stessa località balneare. Un posto nel quale sono fuggite e nel quale ora si trovano prigioniere. Allen va avanti indefesso. I cameramen si aggirano tra i tavoli, salgono sui tavoli, scrutano i volti matronali. Dave Myers, il capo cameraman, comincia a mostrarsi un po’ a disagio e disgustato dall’atmosfera. Non fa parte del suo stile che il contenuto emozionale di una scena sia così artificiale. Le donne si agitano quando implacabili i versi sul “cancro” guidano il poema verso il finale. Poi la lettura finisce e a sorpresa scoppiano gli applausi. Allen ringrazia loro, scende dal podio e si allontana. Joan Baez è presentata ed è accolta da un sollevato saluto di benvenuto. Canta «a cappella» Swing low, sweet chariot e fa impazzire le donne. Dave Mansfield, il ragazzo genio, sale sul podio con il suo violino, assomiglia a Il Piccolo LordFauntleroy e stupisce tutti con la sua tecnica classica. La sua espressione non cambia mai. Anche ‘‘ Trent’anni fa il drammaturgo, vincitore del Premio Pulitzer, Sam Shepard attraversò l’America con Bob Dylan e altri amici con il tour Rolling Thunder Revue. Ecco alcuni brani in esclusiva del suo diario di viaggio A NEW YORK Nella foto; da sinistra Joan Baez, Jack Elliott e Bob Dylan nel 1975 in concerto al Madison Square Garden si scatena in una serie di suoni a caso tipo John Cage. La band non fa una grinza e va avanti per la sua strada. La mano di Dylan scorre su e giù e per tutta la lunghezza delle corde, mentre l’altra le pizzica come se si trattasse di una ciotola di stufato cinese freddo che sta troppo lontana. Il ping pong elettronico continua sullo sfondo dell’assordante boato di questo rock’n’roll’n, un po’ jazz, un po’ creolo del New England. *** Il Maine è l’ambiente ideale per il tour Rolling Thunder Revue. Tutto sembra adeguarsi ai propositi di questo tour, eccetto gli antiquati tuguri nei quali ci fanno alloggiare. Una volta fuori, però, la sensazione della realtà di questa terra ci travolge e persino le persone che vivono qui rientrano nel quadro. Un uomo cieco sta seduto a un estremo del banco bevendo rumorosamente del brandy, mentre Dylan è seduto all’altro. Lentamente si presentano e accade una cosa veramente incredibile. Ecco una persona che non ha alcuna intenzione di assalire Dylan, che non ha mai visto una sua fotografia, ma che ha soltanto sentito la sua musica. Sta là rivolto verso la spalla di Dylan un po’ inclinato, ai lati dei suoi occhi vuoti si vanno formando le rughe di un sorriso. È un musicista. Lo sguardo di Dylan va verso di lui in continuazione. Parlano di scambiarsi le camicie da cowboy. Parlano del vedere e del sentire. Non ci sono smargiassate perché mancano un paio di occhi. La sera seguente, Dylan dal palco dedica una canzone a quell’uomo. Il pubblico nel Maine è rigorosamente country. Ragazzoni che sono corsi al concerto da fattorie dove si produce latte, che hanno appena finito di mungere e hanno gli stivali ancora imbrattati di merda di vacca. Queste sono le prime città in cui si sente chiaramente che la presenza di Dylan è un dono. Nel concerto ad Augusta si percepisce un tipo di energia che non ho visto ancora. La band vola. Dylan suona i brani strumentali con la schiena rivolta verso il pubblico formando un cerchio DOMENICA 6 MARZO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49 ‘‘ Il regalino Piccola, viaggio su un treno per la posta Non posso comprare un regalino Sono stato in piedi tutta la notte, piccola Appoggiato al davanzale della finestra FOTO ELLIOT LANDY/MAGNUM Con Bob sulle strade d’America FOTO BLANK ARCHIVES/GETTY IMAGES Da IT TAKES A LOT TO LAUGH, IT TAKES A TRAIN TO CRY [1975] beneficenza per l’uragano al Garden, queste piccole sale perse nella profondità di uno stato che il governo definisce «area depressa». Il che vuol dire che non hanno soldi. *** Roger McGuinn spiega che soltanto l’anno scorso è riuscito a superare la paura di essere assassinato sul palcoscenico. Dice che di solito, in ogni sala in cui suonava, temeva che lo sparo arrivasse più che altro dal gabbiotto delle luci. Cantava, per esempio, con The Byrds e durante tutta la canzone immaginava le mani del killer mentre puliva il tamburo con una pelle di camoscio, e poi vedeva la nera canna del fucile spostarsi sul palcoscenico cer- Il concerto è in qualche città. Poi via su macchine anonime lungo stradine scure per ritrovarci in un altro motel prefabbricato ‘‘ con le altre chitarre, come in una danza della pioggia arapaho. Dall’alto delle gradinate laterali, la madre lo sta guardando con i ragazzi. Anche la signora Baez è seduta lassù. Tutto ciò sta veramente accadendo. Una riunione di famiglia in città insulse con l’originale superstar mondiale che batte i tacchi davanti a un pubblico di ragazzoni venuti dalle fattorie. Quando ha finito, Dylan gronda sudore in maniera torrenziale. Barry Imhoff aspetta fiducioso subito al lato del palcoscenico con una pila di asciugamani puliti. Dylan bacia la madre sulla guancia, afferra un asciugamano e si avvia verso il camerino, il manico della chitarra rivolto verso il basso. Il posto è super carico. Non hanno niente da invidiare al concerto di cando l’angolazione migliore. Anche le pistole erano parte della sua fantasia. Lo sparo di una pistola con il manico d’argento che repentinamente trapassava la massa di corpi senza volto e trovava il suo obiettivo. A volte la pallottola lo colpiva e lui cadeva, ma la folla pensava che lui fosse svenuto, perché non poteva sentire il rumore dello sparo. Oppure la pallottola rimbalzava sulla chitarra e colpiva un altro membro della band. O talvolta la pallottola lo mancava del tutto. In ogni caso, è ancora vivo e vegeto. *** Relegato in un angolo di questo anonimo buco dell’inferno (l’Hospitality Inn) c’è una piccola stanza con un cartello sul- la porta con su scritto Sala giochi. Tutti sono migrati qui dentro come in un rifugio. Joni Mitchell è seduta a gambe incrociate sul pavimento, è scalza e sta scrivendo qualcosa su un quaderno. Si morde le labbra e guarda Rick Danko, che sta facendo a pezzi un flipper prima con le due ginocchia, poi colpendo i lati con i pugni. Partite folli di hockey in cui il disco vola per aria, dischi lanciati attraverso la stanza che finiscono sui tavoli da gioco. Lo spirito forte della competizione si è impossessato di tutti noi. Continuiamo a essere bloccati in questi motel distanti miglia da qualsiasi luogo. Totalmente isolati, senza mezzi di trasporto e nemmeno una drogheria che si possa raggiungere a piedi. Le ragioni di tutto ciò sembrano essere principalmente di sicurezza, ma dopo un po’ questo «essere tagliati fuori da tutto» comincia a creare dei problemi. Il concerto è in una qualche città. Il pubblico è stravolto di energia e così caricato si lancia sulle strade della notte. Poi noi sgusciamo fuori e via su macchine anonime, stile agenti segreti, lungo stradine scure e strette per ritrovarci in un altro favoloso motel prefabbricato a Sessanta miglia dal luogo del concerto. Questo continuo «colpisci e ritirati» comincia dopo un po’ a lavorarti davvero psicologicamente. Il «mondo esterno» assume una strana irrealtà, come se tutto si svolgesse in un altro campo da gioco, in un’altra lega. O ti senti sopra o ti senti sotto o molto distante di lato, ma mai parte di esso. I titoli sui giornali sembrano messaggi che arrivano da fuori le mura. Anche i titoli che parlano dei componenti del tour. Non c’è niente che riveli il mito totale del mondo del giornalismo quanto il trovarsi all’interno del mondo del soggetto del quale si sta scrivendo. È una sensazione di separatezza che si insinua ovunque. Anche ordinare il cibo in un ristorante assume un suono diverso dal solito, perché si è in compagnia di qualcosa che è così famosa che persino i camerieri la riconoscono. Ti trovi a gonfiarti nell’odore del potere arrogante e a sgonfiarti fino alla più totale depressione. Cominci a desiderare di poter seguire in cucina il cameriere e di lavare qualche piatto, o addirittura di poterlo seguire a casa sua e guardare la tivù a colori con sua nonna. Qualsiasi cosa pur di recuperare il sapore della «vita normale di tutti i giorni». Nella Sala giochi sono tutti come impazziti. I biglietti da venti dollari passano da un lato all’altro dei tavoli da gioco. Palline di ping pong che si schiantano sui muri. Guardie del corpo che affrontano delle superstar in spietate partite a flipper. Ai lati si raccolgono scommesse. In un angolo si gioca a poker scoperto. Poi tutto filtra verso gli ascensori. Verso la musica. Verso un’altra maratona notturna fino al sorgere del giorno. C 1974, 2004 by Sam Shepard, C 2004 by Da Capo Press, a member of Perseus Book Inc. Published by arrangement with Agenzia Letteraria Roberto Santachiara (traduzione di Guiomar Parada) 50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 MARZO 2005 Gli esordi al Derby, le gag surreali e le canzoni con il doppio senso, il successo in televisione. Poi le strade si dividono, per venticinque lunghi anni e senza una vera lite: Pozzetto sfonda nel cinema, Ponzoni punta sul teatro e per il grande pubblico scompare. Ora i due sono di nuovo insieme, adorati dai fan di Zelig, ammirati dai colleghi più giovani: “Li vediamo sulle sedie, che scrivono le battute al computer portatile. È un’altra storia ma la scommessa è sempre la stessa” Cochi&Renato FOTO ARCHIVIO ALINARI “Ecco perché siamo tornati gli amici di una vita” D ice Cochi: «Capimmo che era successo qualcosa un lunedì, di pomeriggio in viale Umbria a Milano. Noi passavamo in macchina, c’era una scuola e c’erano i bambini che uscivano. Ne vedemmo due che sul marciapiede mimavano la nostra danza, quella della gambetta che va di lato. Oggi sembra una cosa normale, ma allora non c’era mica questa percezione del successo, di quanto poteva essere forte la televisione. Il giorno prima, la domenica, avevamo debuttato nel programma del pomeriggio». Dice Renato: «Il contratto era a settimana. Il lunedì ci presentavamo e loro ci dicevano se era andata bene: siccome è andata sempre bene, ogni lunedì abbiamo firmato per la puntata successiva. Sempre per una soltanto, però». Era il 1968. Trentasette anni dopo Cochi e Renato sono lì, il venerdì in tv a Zelig. Gino e Michele li hanno voluti su quel palco, in mezzo a comici che sparano battute a raffica e hanno l’obbligo di far ridere ogni venti secondi. Cochi e Renato hanno girato la sigla, poi nella prima puntata si sono esibiti tra un numero di Ale e Franz e uno dei Pali e Dispari. Alla fine il loro numero è stato il più visto dell’intera puntata, dieci milioni e passa, lo share che schizza oltre il 44 per cento. Mostruoso. Gino e Michele hanno visto giusto e l’impressione è che non siano stati né strumentali né opportunisti, soprattutto in questo caso: alla vecchia scuola del cabaret milanese (Jannacci, Beppe Viola ecc.) Gino e Michele sono cresciuti e ne hanno un rispetto superiore. Su quel palco, Cochi e Renato hanno rifatto (e hanno continuato nelle puntate successive) i numeri di una volta, aggiornandoli il giusto, portando una suggestione che è impossibile spiegare. Ma era il 1968 e la tv aveva solo due canali. Se c’era qualcuno illuminato, che scorgeva il nuovo e magari il geniale e ti portava in tv, ti vedevano quasi tutti. E se piacevi, era fatta. Andò così, ma di chi fu il merito? Dice Cochi: «Al Derby, nel tempio del COCHI Aurelio Ponzoni nasce a Milano l’11 marzo 1941. Esordisce al Cab ’64 nel 1964, in coppia col suo amico d’infanzia Renato Pozzetto 1968 Arriva il grande successo televisivo. Cochi e Renato, dopo gli spettacoli di cabaret al Derby Club di Milano, partecipano alla trasmissione “Gli amici della domenica”, con Paolo Villaggio 1975 Dopo la consacrazione definitiva con Canzonissima condotta da Raffaella Carrà la coppia si divide: anche Cochi tenta la strada del cinema e gira: “Cuore di cane” con Lattuada FOTO OMEGA/GAROFALO ANTONIO DIPOLLINA 1979 Comincia la carriera teatrale. Il debutto è con “Ivan il Terribile” di Ugo Gregoretti. L’ultimo spettacolo è “Gioann Brera” (foto sopra), messo in scena nel 2002 1992 Cochi Ponzoni torna in televisione. L’occasione è “Su la testa”, condotto da Paolo Rossi. Accanto a loro, Antonio Albanese e Aldo, Giovanni e Giacomo 2000 La coppia si riavvicina per girare la fiction “Nebbia in Val Padana”. Poi ci sarà una tournée in teatro, preludio della nuova unione consacrata quest’anno con Zelig cabaret, eravamo di moda. C’era la fila per venirci a vedere, tutte le sere. E tanti erano intellettuali, veniva Luciano Bianciardi, Tinin e Velia Mantegazza, Umberto Eco, Dario Fo, tanti. Qualcuno collaborava con la televisione, ma la mossa giusta la fece Jannacci convincendo qualche dirigente». Dice Renato: «Eravamo surreali, ma alla fine si capiva quasi tutto: il numero che ci identificava di più era quello con il poeta e il contadino, io ero ovviamente il contadino che faceva ammattire con la praticità Cochi, poeta etereo e insopportabile nella sua petulanza». L’estate successiva c’è un disco a suo modo storico, ripubblicato oggi, così come vengono pubblicati ex novo libri per bambini con i testi di quelle cose assurde e bellissime che si chiamavano La canzone intelligente o La gallina. Quel disco va in classifica e piace a tutti. La tv adesso li cerca e firmano contratti più lunghi: alle spalle il giro milanese storico, Jannacci e Beppe Viola soprattutto, che presidiano il Bar Gattullo di Porta Lodovica dove nasce tutto e prosegue tutto. In tv li cercano, il cabaret prosegue a livelli importanti, le caratterizzazioni sono precise. Capire come due tipi così diversi possano coesistere non è del tutto semplice. Dice Renato: «Eravamo perfettamente complementari, praticamente lo siamo ancora». Dice Cochi: «Eravamo amici fin da ragazzini, tutto si basava su quello e faceva superare tutto. Almeno fino a un certo punto». Ma la diversità da cosa nasceva? Dice Cochi: «Renato era lombardo dentro, comicità popolare e importante, decisiva. Io avevo vissuto in Inghilterra, mi piacevano i Monty Python, impazzivo per Peter Sellers, trasferivo quei modelli nella coppia e ci integravamo». L’apoteosi e il massimo del successo risale a sei anni dopo, nel senso che a quel punto i due sono parte integrante del sabato sera in tv, Canzonissima. Significa spettatori a palate, cifre che oggi farebbero gridare al miracolo, anche venti milioni ed era in fondo una cosa normale. Ma quel sabato sera è anche l’inizio della fine, nel senso della coppia. Perché Cochi scende a Roma per le prove, registra, lavora ed è impeccabile. Lo è anche Renato, s’intende, si presenta puntuale, prova, registra impeccabile, ma arriva sempre un po’ di corsa, in quanto durante la settimana prende un aereo e va in Spagna sul set di un film: lo sta girando Flavio Mogherini e si chiama Per amare Ofelia. Renato ci tiene, tanto. Al punto che lo hanno ingaggiato per una cifra simbolica e i soldi per i viaggi li mette a lui. Alla fine va in perdita, ha speso molto di più di quanto ha guadagnato, ma lì, succede tutto. Per amare Ofelia è un successo clamoroso, la gente fa la coda, il film incassa uno sproposito e lì, per forza di cose, cambia tutto. Dice Cochi: «Per quanto si siano sforzati in tanti di immaginare litigi e incomprensioni, alla fine fu un di- stacco normale, due persone diverse che se ne vanno per strade diverse, di comunissimo accordo. Rimpianti oggi? E perché? Ho fatto le cose che volevo fare, Renato uguale». Cochi va a girare con Lattuada Cuore di cane, poi prende la via del teatro, si trasferisce a Roma, coltiva interessi, recita. Renato fa incassi al cinema. Quindi bisogna tornare su quel momento della separazione, anche perché a frugare nella memoria tornano righe scritte da Beppe Viola. Diceva che alla proiezione del primo film, l’intero bar Gattullo si presentò compatto e ne uscì a pezzi, chiedendosi come fosse possibile, chiedendosi se davvero Renato dovesse infilarsi in una strada così. Dice Renato: «Ma no, Beppe scrisse quelle cose per prendermi un po’ in giro». Però: «Jannacci ci rimase male, lui SANREMO COME NON LO HAI ANCORA VISTO. 120 Menabò, il programma che ti porta nella redazione di TV Sorrisi e Canzoni per scoprire i segreti del numero dedicato al Festival della canzone italiana, da domani in edicola. QUESTA SERA ALLE 22.00 CANALE 120 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51 FOTO TADDEI/FOTOSTORE WEBPHOTO DOMENICA 6 MARZO 2005 GLI AMICI DELLA DOMENICA NEBBIA IN VAL PADANA ZELIG È il 1968 quando Cochi e Renato appaiono per la prima volta sugli schermi televisivi. La loro presenza alla trasmissione con Paolo Villaggio è un successo: “Il contratto era settimanale e veniva rinnovato ogni lunedì” Il ritorno della coppia sui teleschermi arriva nel 2000, quando Cochi e Renato lavorano a una fiction che racconta appunto la storia di due amici che si incontrano dopo diciotto anni di vita separata Sono Gino e Michele, autori della trasmissione, a volere Cochi e Renato nel più popolare fra gli show comici. È un ritorno da protagonisti: i picchi di ascolto del programma coincidono con le loro apparizioni Gli anni della Milano da ridere PINO CORRIAS ‘‘ le canzoni Nebbia in Val Padana come una sottana sotto tanti affari calmi gli altri mari Nebbia in Val Padana sposta la sottana un po’ di posto anche per me Nebbia in Val Padana togli sta sottana voglio far l’amore con te NEBBIA IN VAL PADANA Cosa ci vuole chissà per far successo con la gente si prende un filo logico importante la casa discografica adiacente veste il cantante come un deficiente lo lancia sul mercato sottostante FOTOGRAMMA CANZONE INTELLIGENTE RENATO Renato Pozzetto nasce a Laveno,in provincia di Varese, il 14 luglio 1940. La prima apparizione pubblica risale al ’64, accanto a Cochi Ponzoni 1968 Il debutto in televisione di Cochi e Renato avviene grazie al forte interessamento di Enzo Jannacci, che li aveva già lanciati come cabarettisti al celebre Derby Club di Milano 1974 Renato gira il suo primo film: “Per amare Ofelia” di Flavio Mogherini. La pellicola avrà un enorme successo e sarà alla base della separazione artistica da Cochi Ponzoni WEBPHOTO sì. Mi fece un lungo discorso, rimasi molto stordito. Non sapevo che fare. Ma poi feci quello che mi sentivo: andai a Roma fuori dal cinema dove proiettavano il film, c’era sempre la coda degli spettatori e decisi che pazienza, doveva andare così. Enzo aveva le sue ragioni, ma io in pratica me n’ero già andato». Strade diverse, per venticinque anni, non uno scherzo. I primi tempi, però, qualche fugace compattamento per qualche film (Sturmtruppen). Ne gira anche Cochi, di film alla Renato. Per ragioni alimentari, proprio nel senso degli alimenti da pagare dopo il divorzio (dalla moglie, non da Renato). Nel suo curriculum figurano gran cose in teatro, ma anche, al cinema, Io zombo, tu zombi, egli zomba, parodia horror-godereccia all’italiana, Cochi ci ride su, ma poi dice: «Grande rispetto, per carità. Ad esempio c’era quel grandissimo personaggio di Renzo Montagnani». E poi? «E poi c’era Nadia Cassini che, beh…». Lo dica. «Il più bel culo del mondo». Sì, eh? «Sì». Renato infila un successone comico dietro l’altro al cinema. Per curiosità, dopo Per amare Ofelia, quanto aumentò l’ingaggio per il secondo film? Dice Renato: «Se ricordo bene, venti volte tanto». Strade che non si incrociano per un sacco di tempo. Mentre Renato inizia serie miliardarie come I pompieri insieme a Paolo Villaggio, Cochi ha un colpo d’ala notevolissimo, e torna al pubblico in tv. È il ‘92, lui si presenta duro e puro in quel programma d’epoca, in ogni senso, che è Su la testa, Raitre dell’era Guglielmi, Paolo Rossi, Albanese, Aldo, Giovanni e Giacomo. A Milano, sotto un tendone in periferia, è appena passata Tangentopoli. Cochi canta Lo sputtanamento e mette nel mazzo politici e comportamenti ipocriti di massa: «Il ritorno migliore che potessi aspettarmi», dice. Giusto, ma la politica con Renato, uno che non si pronuncia ma viene dato come sicuramente in zona governativa, tra Lega e berlusconiani? Dice Cochi: «È molto semplice. Ognuno sa come la pensa l’altro, e 1981 Gira “Mia moglie è una strega” (nella foto). Ma la sua carriera cinematografica va a gonfie vele già da anni: i suoi film comici sbancano sistematicamente il botteghino 1990 È l’anno delle “Comiche” (di cui l’anno dopo arriverà il seguito) con Paolo Villaggio per la regia di Neri Parenti. Renato si conferma uno dei più popolari attori comici italiani 2000 Con “Nebbia in Val Padana” si apre una nuova fase della sua carriera. La coppia Cochi e Renato torna insieme. E sarà rilanciata in tv da Gino e Michele, autori di Zelig non ne abbiamo mai parlato. Mai accennato alla politica, mai discusso. Che senso avrebbe?». Già. Il ricongiungimento è del Duemila. È che intanto era successo altro. Spiega Renato: «A un certo punto la deriva dei film che mi chiedevano di fare era diventata un po’ forte». Significa, spiega, che sì, i film più ambiziosi girati, come Da grande sono stati quelli che hanno incassato di meno, e allora d’accordo, bisogna fare la commedia, ma a un certo punto uno diventa quasi anziano, e i registi delle commediacce chiedono sempre di più: «Quando si arriva a dover girare scene con il pannolone frignando e fingendo arrapamenti, allora è ora di chiudere». Anche perché intanto, spiega Renato, ha investito i guadagni, ha una casa di produzioni cinetv, tra poco se si sblocca un finanziamento produrrà un film tratto da un romanzo di Vittorino Andreoli, lo psichiatra. La strada, alla fine, torna una per entrambi, come un ricompattamento naturale dopo le tortuosità della vita. Nel 2000 arriva una fiction tv che, in teoria, è un evento: Nebbia in Val padana. Parte forte — la curiosità è tanta — poi l’audience cala via via. Dice Renato: «Una storia impossibile. Firmiamo il contratto e dopo, solo dopo, scopriamo che il regista è un altro e non è quello scelto da noi, che tre attori sono piombati da chissà dove, anzi lo sapevamo benissimo da dove. È andata così». Tanto è vero che tornano in teatro. Debutto ad Ascoli, nel 2001. Fanno i vecchi numeri, li riadattano, ne scrivono nuovi. Girano abbastanza, finiscono il tour si fermano ancora. Ne parlano. Finché arrivano Gino e Michele. I giovani comici di Zelig rilasciano dichiarazioni adoranti, oggi, ai giornali: «Mi do dei pizzicotti — dice uno — Cochi e Renato hanno detto che ci considerano colleghi, è bellissimo». I due salgono sul palco e fanno il picco d’ascolto, qualunque cosa sia. Guardano gli altri che corrono intorno e dice Cochi, e dice Renato: «Li vediamo sulle sedie, che scrivono le battute al computer portatile. È un’altra storia, ma la scommessa è la stessa, sempre». Ciao! A chi sbaglia a fare le striSSie a chi invece avvelena le biSSie Uno tira soltanto di destro l’altro invece ci ha avuto un sinistro e c’è sempre qualcuno che parte ma dove arriva se parte? E LA VITA LA VITA La gallina non è un animale intelligente lo si capisce, lo si capisce da come guarda la gente Infatti all’inizio del mondo essa veniva chiamata volpe Perché volpe? Ma volpe per le sue belle piume LA GALLINA Come porti i capelli bella bionda tu li porti alla bella marinara tu li porti come l’onda tu li porti come l’onda ma come porti i capelli bella bionda tu li porti alla bella marinara tu li porti come l’onda come l’onda in mezzo al mar COME PORTI I CAPELLI BELLA BIONDA n po’ di mala, un po’ di coca, le risate, le bionde, molte bottiglie di champagne agli esordi del Derby Club, anno 1959, con Milva e Millì sul palcoscenico, Enrico Intra al pianoforte, le storielline di Pupo De Luca, Trottaneve e i Pettenari, le canzoni da due righe di Augusto Mazzotti, Giorgio Strehler che fuma al tavolo con Ornella Vanoni, e la signora Rosa Abatantuono, madre di Diego, al guardaroba che agli spacconi dice: «Te se’ incavalla’?», sei armato?, e il bullo che nicchia, «G’ho qualcosin, cicci», ho qualcosina, bimba, sfilando da sotto il giaccone col pelo, la Berta cromata a sei colpi. Malinconia, nebbia, fabbriche e tram sullo sfondo, quando Milano scodella la migliore e forse unica stagione del cabaret italiano — Boldi, Teocoli, Cochi e Renato, il grande Salvi — incorporandola al Miracolo e a un ventennio di notti notturne che, dopo i fasti anteguerra di Petrolini, ma molto prima di tutti i Drive in televisivi, trasformeranno la vita in sketch, l’avanspettacolo in monologo, Felice Andreasi in un poeta lunare e il giovane chirurgo Enzo Jannacci in un pianista capovolto che canta in scarpe da tennis, dando le spalle al pubblico. Mappa remota di locali, isole di luce nella città calvinista del lavoro e della nanna. Il Santa Tecla del Tinin Mantegazza, e l’Arethusa, prime note di jazz e poi il rock ‘n’ roll di un tale Adriano Celentano, con l’ossuto Giorgio Gabershic chitarrista e Luigi Tenco al sax. Poi la Cassina de’ Pom di Gino Negri, pianista sopraffino, autore di un piccolo capolavoro come T’ha detto niente la tua mamma. Poi il Refettoriodi via San Maurilio, con il padrone morto sparato, e il Sette Più, che si diceva fosse del duro Renato Vallanzasca, detto René, quando ancora faceva le rapine. Poi il Due, il Patuscino e il Ragno, nella Brera di Scerbanenco e dei pittori. Il Derby Club è il capostipite della nidiata, il primo che ogni sera, dalle due all’alba, fa il cartellone di comici e il pieno ai tavoli. Nasce dalle macerie di certe case di appuntamento che su via Larga, zona Missori e Duomo, alimentano spiccioli, amori e almeno un ristorantino che tale Bongiovanni si ritrova dismesso dalla inflessibile Merlin. Preparando l’esodo, Bongiovanni passeggia dalle parti dei pratoni di piazzale Lotto, lungo la via Monterosa, scovando, al numero 84, una palazzina risparmiata dalla guerra, ma non dalla pioggia. Il Bongiovanni ha un figlio che si chiama Gianni. Gianni è un ragazzo sveglio. Frequenta il teatro di rivista a caccia di ballerine e intanto impara a memoria il repertorio dei grandi: Totò, Macario, Walter Chiari, Carlo Campanini. «Gli venne la passione e l’istinto per il comico», raccontò un giorno Walter Valdi, re di tutti i cabaret, autore di cento canzoni (e dell’indimenticabile Faceva il palo nella banda dell’Ortica), piccolo, simpatico, insonne, morto un paio di anni fa: «Il padre comprò la palazzina. Due piani per l’albergo, il ristorante, la cantina. La cantina era vuota. Gianni pensò: qui mi installo io». E così fu. Dieci gradini per scendere. Cinquemila lire per entrare. Insegna luminosa. Il nome Derby Club per via dell’ippodromo di San Siro a due passi. Palcoscenico nero, lungo e stretto. Arredi neri. Trenta tavoli. Pubblico subito di una qualche eleganza e mistero, pellicce e soubrette tipo le giovani gemelle Kessler, ma anche Joe Adonis, il boss, o Francis Turatello con guardaspalle e pupe, e artisti con vita alcolica o narratori di cattiverie padane, ma anche scommettitori di cavalli, nullafacenti ricchi o spiantati, bambole in cerca di avventura. Esordio sulle note del fuoriclasse Enrico Intra, con i monologhi d’artista di Buazzelli e Duilio Del Prete. Poi il jazz di Franco Nebbia. Le canzoni di ballatoio di Liliana Zoboli e di Maria Monti. Franca Valeri che racconta le milanesi al telefono. E I Gufi di Nanni Svampa con le bombette, la calzamaglia nera, il dialetto. È Jannacci a battezzare il gruppo La pattuglia azzurra, con Massimo Boldi alla batteria, il fratello Fabio alla chitarra, Teo Teocoli che fa il bello e Claudio Lippi cantante. Racconterà Boldi: «Suonando, facevamo anche gli scemi, con le facce, i versi, le gag». Una sera Bongiovanni, che pesa sempre le risate del pubblico, lo chiama e gli dice: «Uè, Massimo, metti insieme tutte le tue pirlate e raccontale al pubblico. Funzionerà”. Storia che fa il paio con l’esordio di Diego Abatantuono, al seguito di mamma e guardaroba: gag nate a forza di ascoltare gli altri, fino all’idea del terruncello, che diventerà apoteosi tv, poi cinema e fama. Come gli stralunati Cochi e Renato, scesi al Derby che erano sì e no divi del Lorenteggioe del Santa Tecla, poi raccontati da Beppe Viola, giornalista sportivo, grande scrittore di quasi nulla, a parte canzoni come Quelli che di Jannacci e memorabili racconti. L’apoteosi dura un po’ più di un decennio: metà grazie ai comici in scena, metà per via del pubblico tra i tavoli. Una sera scintilla persino il Duca d’Aosta, vestito, secondo la testimonianza di Walter Valdi «come un pistola che fa la prima comunione». Cento altre notti passano attori e registi, come Dario Fo, Carlo Lizzani, Cesare Zavattini, stelle come Marcello Mastroianni e giovanissime esordienti tipo Maria Grazia Buccella e Veronica Lario. Scendono Epaminonda, il re delle bische, l’ex pugile Giancarlo Garbelli e il suo amico Luciano Lutring. E insieme gli architetti, i pubblicitari, un po’ di finanza e un po’ di politica, tutti a friggere di impazienza e sete e allegria. Con gli Anni Ottanta, arriva la nuova ondata di comici,PaoloRossi,ClaudioBisio,AntonioCatania,Giorgio Faletti. Si moltiplicano le luci di Milano, specialmente sui Navigli. Gino e Michele fondano Zelig che è l’inizio di una nuova storia e di un nuovo pubblico. Gianni Bongiovanni spegne la sua ultima sigaretta nel 1981. Il Derbygli sopravvive quattro anni. Poi l’ultimo a uscire, spegne la luce. U 52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 MARZO 2005 i sapori Ricette quotidiane Versatili ed economiche, coltivate in mille varietà si prestano da sempre a preparazioni semplici o raffinate e riescono da sole a risolvere il menu. Adesso però hanno conquistato il rango di specialità gourmet tanto che a loro è stata dedicata una giornata di celebrazioni e un concorso in cui si sfideranno settanta cuochi Patate Le alleate perfette di tutti gli chef LICIA GRANELLO QUARANTINA BIANCA È una varietà semiprecoce, coltivata soprattutto in montagna. Buccia e pasta sono chiare, compatte. Perfetta per gnocchi con pochissima farina PATATA PRUGNONA Ha forma irregolare e buccia bicolore, rosso violaceo e crema. La polpa è bianca e fine È indicata in insalata, al forno e arrosto PATATA NOVELLA Raccolta entro giugno, prima del completo indurimento della buccia e non conservata in frigo. Ideale per “Frites” e Chips CANNELLINA NERA È un tubero di montagna, dalla buccia color cuoio, di pasta bianca, piuttosto resistente alla cottura Si accompagna bene sia con carni rosse arrosto che con pesci in umido na patata per amica. Nel senso letterale del termine. Alzi la mano l’addetto ai fornelli, da Bocuse alla casalinga di Voghera, che non consideri la patata un ingrediente imprescindibile della propria cucina. Un’alleata preziosa, un aggiusta-piatti senza pari, piena di virtù — nutriente, poco calorica, digeribile — e perfino supereconomica. Tanto facile, trasversale, ecumenica, pronta a tutti gli usi e golosa per tutti i palati, da essere considerata un alimento di serie B, condannato in quanto orfano del fascino maledetto della trasgressione gourmand, del lusso peccatore, del brivido ipercalorico. Così, i francesi, che hanno — come dire — patate da vendere, ma anche da apprezzare e glorificare, hanno scelto uno tra i nostri più grandi chef di nuova generazione, il bergamasco Chicco Cerea, e gli hanno affidato il compito di testimonial della Patata di Francia. Che mercoledì verrà celebrata — insieme a qualche esemplare italiano, bontà loro — in una giornata monodedicata presso la sede della Saps, associazione no profit e centro sperimentale dedicato agli strumenti di cottura, ideato e gestito dalla famiglia di Baldassarre Agnelli, una delle aziende di pentole professionali più famose del mondo. Di più, il 12 aprile sarà annunciato il vincitore del concorso “Patate di Francia”, promosso con l’ausilio di Italcuochi e Unione Italiana Ristoratori, con oltre 70 chef impegnati a ideare e “scalettare” una ricetta originale con la patata protagonista. Dicono i giurati che le proposte arrivate — salate ma anche dolci — sono di incredibile varietà, originalità, sapore. Perché aggiungendo virtù a virtù, la patata vanta un utilizzo pressochè infinito, in beata solitudine — mai provato ad addentare una buona patata bollita o al forno solo con una presa di sale, magari grosso, meglio se “fior di sale”? — o con gli ingredienti più disparati. Eppure, in Italia ne consumiamo metà della media europea. Certo, Regno Unito e Grecia sono inarrivabili con il loro quintale scarso procapite. Ma i nostri miseri 40,6 kg a testa dicono molto della nostra ondivaga cultura alimentare. Malissimo ha fatto a noi tutti il battage falsamente dietistico degli ultimi dieci anni, che ha inchiodato la patata all’elenco degli alimenti nemici, in quanto carboidrato, e quindi ingrassante. Errore! La patata ingrassa semplicemente perché la inondiamo di grassi, che sia fritta, condita in insalata, farcita di panna acida (al forno), crogiolata insieme all’arrosto o sugosissima con carni e pesci in umido. Viceversa, proprio i più avvertiti tra i dannati della dieta hanno imparato ad amarla e cucinarla senza pregiudizi, semplicemente con qualche attenzione in più. Il resto, ce lo raccontano ogni giorno i grandi chef nei loro menù, dove le patate, grazie alla loro versatilità, rappresentano immancabilmente la base-principe: dalle storiche spume di Ferran Adrià al francese “aligot” (un purée mantecato con la celebre toma dell’Aubrac) proposto in maniera sontuosa da Michel Bras, giù giù fino alla sfogliatina con caviale di Vittorio Fusari e alle tagliatelle di patate (senza farina) di Carlo Cracco. Altrettanto importanti, la scelta della varietà, la conservazione, la cottura adeguata. Perché se sbagliamo, gli gnocchi appena messi in acqua bollente si sfarinano, o viceversa diventano una pappetta collosa, le patate fritte si abbrunano senza cuocersi, il purée assume un insopportabile sapore dolciastro. Il guaio è che quasi mai sappiamo come fare, e poco ci aiutano quelli che dovrebbero supportare le nostre performance culinarie, ovvero produttori e negozianti. Fino a pochissimo tempo fa, infatti, non si riusciva andare al di là del canonico “vecchie o nuove”, che di per sé è un ottimo spartiacque — le patate vecchie hanno meno amido, e se ne giovano gnocchi e purée — ma non sufficiente. Grazie alla globalizzazione virtuosa, e rinunciando per qualche tempo alle patate nostrane, abbiamo imparato usi e costumi della patata leggendo i sacchetti di vendita dei prodotti d’importazione, per fortuna mutuati, negli ultimi tempi, anche da alcuni nostri consorzi. Destreggiarci tra paste gialle e bianche, polpe sode e fini, è diventato un gioco da ragazzi: patatine fritte, crocchè e gattò sono ormai senza segreti. Roba da fare invidia al più popolare dei fast food. U Fritte Arrosto Purée Le migliori sono fatte con patate a polpa farinosa, perché assorbono poco olio e hanno un elevato tasso di materia secca. Prima di friggerle, vanno tagliate e lasciate a bagno in acqua salata e ben fredda, poi asciugate e cotte in extravergine leggero a 170 gradi Le patate ideali sono quelle a polpa tenera (dette fondenti) Rispetto alle altre, sono meno sode, pur vantando comunque un elevato tasso di materia secca. Questo permette ai tocchetti tagliati di cuocere rapidamente a fuoco lento e restare croccanti ma col cuore morbido Come per quelle fritte, le patate ideali sono poco “umide” e ricche, invece di materia secca In questo modo, si sfarinano lentamente durante la cottura, che deve essere realizzata con la buccia e a bassa temperatura (bollitura leggera) in acqua salata per trattenere fibre e vitamine DOMENICA 6 MARZO 2005 itinerari Chicco Cerea, chef di uno dei migliori ristoranti, “Da Vittorio”, è stato scelto dalla Sopexa (la società che promuove gli alimenti francesi) come testimonial delle Patate di Francia LA DOMENICA DI REPUBBLICA 53 Bergamo Viterbo Avellino Incastonata tra la bellissima cittadella alta e la parta pianeggiante, moderna, vanta una scelta agricola di prim’ordine, grazie all’alternarsi di campagna e montagna. Tra le coltivazioni, viti, ulivi, patate e i formaggi-culto delle valli intorno. La città di origine etrusca, circondata dai laghi, raccoglie la parte sud della Maremma ed è famosa per le sue terme. Nella campagna intorno, molto fertile, primeggiano le coltivazioni di ulivi (dop Canino), viti (Est! Est!! Est!!!), patate, lenticchie e nocciole. Capitale della Campania “montana”, ha intorno a sé ben 119 comuni, dislocati nella conca, appoggiati sull’altopiano o arrampicati sui monti dell’Irpinia. In ascesa le coltivazione di cereali, patate e vigneti e l’allevamento di ovini e suini DOVE DORMIRE AGNELLO D’ORO Via Gombito, 22 Tel. 035-249883 Camera doppia da 104 euro, colazione inclusa DOVE DORMIRE HOTEL NIBBIO Piazzale Gramsci Tel. 0761-326514 Camera doppia da 95 euro, colazione inclusa DOVE DORMIRE HOTEL CIVITA Via Manfredi, 124 - Atripalda (2 km da Avellino) Tel. 0825-610471 Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa DOVE MANGIARE DA VITTORIO Via Giovanni XXIII 21 Tel. 035-213266 Chiuso mercoledì, menù da 100 euro DOVE MANGIARE LA TORRE Via della Torre 5 Tel. 0761-226467 Chiuso la domenica, menù da 30 euro DOVE MANGIARE LA MASCHERA Rampa San Modestino 1 Tel. 0825-37603 Chiuso domenica sera e lunedì, menù da 30 euro DOVE COMPRARE PRIMIZIE BRESCIANI Via Masone 5 Tel. 035-214200 DOVE COMPRARE ARVALIA Via Montello 18 Tel. 0761-344051 DOVE COMPRARE LICCHIELLO Frutta e verdura Via Amabile 27/a Tel.0825-22319 Consumato in Europa da metà del 1500 Quel tubero ci salvò dalle carestie storiche MASSIMO MONTANARI N PATATA AMERICANA Detta patata dolce o batata, in cucina viene utilizzata negli agrodolci, ma anche per la produzione di fecola e di alcol Gnocchi È importante che le patate siano “vecchie”, ovvero lasciate al buio e al fresco (non in frigo, perché sotto i 6 gradi l’amido si trasforma in zucchero) durante i mesi invernali, così da far perdere parte dell’amido ed evitare che restino collose durante la cottura FOTO ZEFA FOTO STOCKFOOD MORELLA Caratteristica per la sua buccia viola, a volte screziata con venature chiare, che contrasta con la polpa bianca, accompagna bene con gli stufati Insalata Ancora patate a polpa soda, ma con un tasso di umidità più alta. Devono restare dolci, non sfarinarsi durante la cottura, risultare compatte al momento di essere affettate. In quanto solanacee, tendono a diventare tossiche (poco digeribili) il giorno dopo la cottura on è stato facile, per la patata, conquistarsi il ruolo di specialità gastronomica. Quando giunse in Europa, negli anni quaranta del Cinquecento, fu trattata con molto distacco. Gli spagnoli, che l’avevano scoperta in Perù, la fecero conoscere in Francia, in Italia, in Germania. In Inghilterra arrivò direttamente dall’America, sul finire del secolo. Ma non pareva un cibo da uomini: piuttosto da animali. I contadini europei per un paio di secoli non vollero saperne di coltivarla nei propri campi. Solo nella seconda metà del Settecento si rassegnarono, più per necessità che per scelta. La coincidenza è impressionante: in tutte le regioni d’Europa, la coltivazione della patata inizia sempre in coincidenza con anni di carestia e di fame. In Germania, ad esempio, la diffusione del nuovo prodotto avvenne durante le crisi alimentari che afflissero il paese durante la guerra dei Sette anni (1756-63) e durante la carestia del 1770-72. In Prussia, dove era stato prigioniero, incontrò la patata Augustin Parmentier, che ne divenne entusiasta sostenitore una volta tornato in Francia, tanto da essere chiamato “l’apostolo della patata” (a lui fu dedicato, poi, la famosa crema a base di patate). Parmentier sosteneva che con la farina di patate, opportuna- Federico il Grande mente mescolata al grano, si poteva fare il pane: anche con questo argomento cercò di convincere i contadini francesi a introdurla nella loro dieta, come per rassicurarli che il nuovo prodotto non avrebbe modificato le loro tradizioni, anzi le avrebbe consolidate. La paura del nuovo, assieme alla curiosità, è un atteggiamento ricorrente nella storia dell’alimentazione. Questa storia del pane — che poi fu abbandonata — torna anche negli scritti degli agronomi italiani. La sostiene, fra gli altri, il riminese Giovanni Battarra, che nel 1778 canta le virtù del bianco tubero (in Italia, a quel tempo, chiamato anche “tartufo bianco”) che meravigliosamente consentirà ai contadini di vincere la fame: «Felici noi, se ne potremo introdur de’ buoni piantamenti; perché non soffriremo mai più carestia». Se le patate erano ancora ritenute un cibo da animali, Battarra ne raccomandava l’uso anche ai contadini, perché «sono un ottimo cibo per gli uomini non meno che per le bestie». Le autorità politiche si impegnarono molto in quest’opera di propaganda: Federico Guglielmo I di Prussia e suo figlio Federico il Grande istituirono cattedre ambulanti di agronomia, per illustrare ai contadini le qualità delle patate e il modo di coltivarle. In Italia si ricorse perfino alla collaborazione dei parroci, riconosciuti dai pubblici poteri — in quanto «depositari della confidenza de’ villici» — come «uno degli stromenti più efficaci per insinuare e diffondere nel popolo le utili verità e le pratiche più vantaggiose alla società e allo Stato»: con queste parole si esprime, nel 1816, una circolare del Regio Delegato della provincia del Friuli, indirizzata a tutti i parroci assieme a un manualetto sulla coltivazione delle patate, da illustrare e divulgare fra i fedeli. Non mancarono forme di coercizione giuridica, come l’inserimento nei patti agrari di una clausola che obbligava il nuovo conduttore di un fondo a riservare una parte del terreno alla coltivazione delle patate. Questa immagine di “cibo per affamati” durò a lungo, come pure la destinazione popolare della patata. Ma a poco a poco anch’essa entrò in una dimensione più francamente gastronomica. Nella prima metà dell’Ottocento il prodotto fa la sua comparsa nei ricettari di cucina borghese e i suoi impieghi si diversificano, per la preparazione di vivande vecchie e nuove: gnocchi, creme, torte, timballi… Oggi, chi immaginerebbe un’Europa senza patate? L’autore è docente di Storia Medioevale all’università di Bologna DOMENICA 6 MARZO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 55 Gioielli hi-tech Oltre la voce la rivoluzione del cellulare ANDREA TARQUINI R HANNOVER icordate ancora la rivoluzione del costume e del vivere quotidiano che fu l’arrivo del telefonino per tutti, uno o due decenni fa, o siete troppo giovani? Non importa. Adesso arriva la seconda rivoluzione del telefono tascabile. Il cellulare miniformato-ultramoderno-al-megliodel-design non sarà più solo lo strumento per telefonare o essere raggiunti ovunque. Sarà altro, di più: diverrà il mezzo per connettersi da ovunque alla tv e a Internet, per scaricare musica dai portali Mp3 o per parlarsi tra amici a costo minimo come con un walkie-talkie dell’esercito americano. Sarà il minigadget per l’Internet surfing, ti allaccerà al World wide web da ogni angolo del mondo. E insieme sarà un oggetto del desiderio sempre più bello, trendy e raffinato, progettato dai grandi del design e dell’alta moda. Non ci credete? Venite allora dal 10 al 16 marzo al Cebit che come ogni anno apre i battenti a Hannover, venite qui alla più grande fiera mondiale dell’elettronica, delle telecomunicazioni, delle meraviglie e dei sogni proibiti internettiani. Qui nella fredda, neoclassica capitale del Land di Bassa Sassonia, qui nella città a metà strada tra Berlino e il confine francese dove la Prussia cominciò a diventare nazione tedesca, qui dove un certo Gerhard Schroeder cominciò da giovane governatore la carriera di leader politico, il mondo del virtuale e del futuro s’incontra e si racconta esperienze e sfide. La seconda rivoluzione dei cellulari non sarà meno importante della prima, per la nostra vita quotidiana. Allora imparammo a parlarci mentre guidavamo (sfidando i divieti) o viaggiavamo in autobus. Allora le prime audaci pubblicità di Telecom Italia ci gettavano nella frustrazione: alla fine della vacanza romana, l’amichetta americana chiedeva al bel giovanotto romano salutandolo a Fiumicino: «Dammi il numero del tuo cellulare. Cosa? Non hai un telefonino? Allora addio». Adesso il telefonino ci aprirà più strade, ci porterà ad altri approdi e incontri. Con le nuove linee senza cavo potete usare il cellulare per collegarvi a Internet alla massima velocità: la telefonia via cavo, vista qui dal Cebit, diventa superflua come una tecnologia invecchiata. Benvenuti nel futuro. Il mondo virtuale entra nel quotidiano grazie al telefo- Navigano in Internet, scaricano musica in Mp3, scattano fotografie e girano filmati: i telefonini stanno vivendo una seconda giovinezza, grazie alle tecnologie digitali che terranno banco da giovedì prossimo al Cebit, la grande fiera dell’elettronica di Hannover. Ecco i modelli dell’ultima generazione: piccoli e potenti ma senza rinunciare al design FOTO CORBIS le tendenze CUORE DI COMPUTER Il PalmOne Treo 650 appartiene alla famiglia degli smartphone, via di mezzo tra un telefono cellulare e un palmare. Possiede tutte le funzioni caratteristiche di un piccolo computer CHIAMARE COL PC Anche l’Asus p505 appartiene alla nuova categoria dei “telefoni intelligenti” ed è un vero e proprio computer palmare che pesa appena 165 grammi ALTA RISOLUZIONE Il Motorola E1120 è dotato di una videocamera a tre megapixel e permette di trasmettere e ricevere foto ma anche filmati. Audio di qualità grazie a due altoparlanti polifonici DISPLAY GIREVOLE Il Samsung SGH-Z130 è dotato di uno schermo ruotabile fino a 90 gradi (per essere visto come se fosse un televisore tascabile) e di una telecamera digitale da 1 megapixel SUPERVELOCE Il SonyEricsson K600i è il telefonino di terza generazione in grado di scaricare da Internet musica e filmati ad alta velocità. Può anche ricevere le trasmissioni della radio nino dell’ultima generazione. Benvenuti nel domani che è già oggi, sperimentato in Giappone, Usa e in angoli del Regno Unito. Navighiamo in rete, con i nuovi telefonini di Nokia e SonyEricsson, di Siemens o Samsung. Anche in viaggio per lavoro o dalla vacanza cerchiamo online qualsiasi cosa ci serva, dal necessario al gradito. Usiamo le memorie estese dei nuovi minicellulari per vedere online i programmi tv preferiti, sul minischermo a cristalli liquidi del telefonino che estraiamo dalla tasca. Non importa se telegiornali o talk show, spettacoli musicali o documentari. Seguiamo la Cnn, o i notiziari Rai o Mediaset, dal display a colori che si apre a croce sul telefonino che quindi possiamo posare sul tavolo. O tenere nel palmo della sinistra mentre viaggiamo su un affollato metrò. Cambiamo canale sui minitasti. Non è finita: con i telefonini della nuova generazione possiamo divertirci a scaricare e ascoltare musica in formato Mp3. Al massimo livello di qualità del suono. Immagazziniamo centinaia o migliaia di motivi sul cellulare. Niente pirateria telematica, niente riedizioni di Napster: il downloading si fa legalmente attraverso i portali dei grandi provider, da Vodafone agli olandesi di Kpn, da Deutsche Telekom ai giapponesi di Ntt DoCoMo. Musica a un euro a motivo o poco più. Resta sulla memoria del telefonino, poi potete sentirla quando volete. Anche con l’auricolare mentre fate jogging. È il nuovo trend dei manager berlinesi. Il nuovo telefonino sostituisce il walkman per chi ama la musica sempre e ovunque. Ma compete anche con il Game Boy o la Playstation portatile: collegatevi online col cellulare a ogni sito, scaricate o giocate in diretta qualsiasi videogame. Oppure divertitevi con l’ultima trovata di Deutsche Telekom: il telefonino che diventa walkie-talkie a tariffa minima, diciotto euro al mese. Non dovete più comporre questo o quel numero. Chiamate con un tasto gruppi di numeri di amici, e parlate in diretta. Anche dal mercato: «Cosa serve per la festa di questa sera?». E, infine ma non ultimo, il cellulare diventa videotelefono portatile. Non scatta più soltanto fotografie ma anche filmati a 3 milioni di pixel. Trasmette il tuo volto alla persona con cui parli. A cui puoi inviare video come un sms: la comunicazione audiovisiva entra in tasca o nella borsa, non è più relegata in casa. VIDEO DA PASSEGGIO Il 6230i è uno degli ultimi nati in casa Nokia: il display ad alta risoluzione è particolarmente adatto per vedere contenuti multimediali. Ha un riproduttore stereo compatibile con l’Mp3 OCCHIO AL FLASH TELEFONATE DI GRUPPO Display che si apre a croce, tastiera completa come quella di un pc. E una funzione speciale per parlare con un gruppo di persone schiacciando un solo tasto: è il Siemens SK 65 Il Sagem MyX-8 possiede una fotocamera da 1,3 megapixel con flash incorporato e zoom digitale 8x. La memoria interna è di 40 megabyte: anche le suonerie polifoniche sono compatibili con il formato Mp3 56 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 MARZO 2005 il corpo Estetica e salute Le creme anti-età con formule all’avanguardia fanno ormai concorrenza al bisturi nella lotta ai segni del tempo che per le donne diventano spesso un’ossessione. Per tutelare i consumatori tra cinque giorni entra in vigore una nuova normativa europea che obbliga i produttori a indicare sempre gli ingredienti e la data di scadenza le novità BEAUTY VIAGRA CARTA MAGNETICA Un trattamento cosmetico hi-tech che ristruttura la pelle secondo gli stessi meccanismi alla base del funzionamento del Viagra, con l’utilizzo dell’ossido nitrico. Già in vendita in Giappone, verrà lanciato in altri 165 paesi Un carta magnetica personale, con dati clinici, racchiude in un chip la storia clinico-estetica del proprietario. Con essa è possibile accedere a una catena di istituti estetici nel mondo, avvalendosi di servizi di specialisti e di trattamenti mirati NATA PER SBAGLIO USO SINERGICO Non è la prima volta che capita: come per i farmaci anche per i cosmetici. E così una crema messa in commercio contro le smagliature, testata da numerose consumatrici per errore sul viso, si è dimostrato un valido trattamento antietà grazie ai principi attivi ricchi in oligo-peptidi Sono basati sull’uso sinergico di apposite creme e trattamenti topici combinati con integratori da assumere per via orale. Nei nutricosmeceutici il binomio crema e pillola apre le porta a un nuovo concetto di cura estetica: quella che agisce esternamente e internamente SU MISURA RAGGI BENEFICI Come i profumi, si diffondono anche le creme personalizzate, studiate sul tipo di pelle e sul grado di danni da riparare. Già ora sono in commercio creme di serie che fanno distinzione fra visi di forma tonda e quelli invece di conformazione triangolare Viene dall’Inghilterra e costa 110 sterline il gadget a infrarossi anti-età. Va passato sulle rughe ogni giorno minimo per un quarto d’ora massimo mezz’ora. Dovrebbe stimolare la produzione di elastina coprendo i segni del tempo. Ma mancano dati clinici sufficienti Bellezza Battaglia all’ultima ruga LAURA LAURENZI Q uale termine è più odioso? Il vecchio e polveroso zampe di gallina o l’offensivo e nuovissimo codice a barre, utilizzato per descrivere le rughe della bocca? Sempre più presto, già a 30 anni, ci si rifugia nelle creme anti-età. D’accordo, i miracoli non esistono, e l’effetto placebo fa effetto fino a un certo punto. Però è vero: una pelle trattata regolarmente ha un aspetto migliore, più curato e più fresco, di una pelle abbandonata a se stessa, ma anche di un pelle cosiddetta acqua e sapone, che prima o poi grida aiuto. Difficile orientarsi nella babele dei messaggi pubblicitari che promettono prodigi mirabolanti, concentrati di vita con bio-linfa, il siero che ridefinisce-ringiovanisce-rassoda, l’anti-età che capovolge la legge di gravità, la crema alle microperle vegetali effetto riempimento, quella col bio-vettore esclusivo, quella che riduce lo stress ossidativo, quella all’acido lattobionico, quella che ristruttura l’architettura del viso agendo come un tirante su 25 mila punti strategici, quella che la mia età? ci sono bugie più interessanti da raccontare. Da supermercato o da cassaforte, la crema antirughe è oggetto di desiderio e insieme di uso comune da parte di donne sempre più giovani. Le prime rughe, anche se sono solo rughe di espressione, insorgono attorno ai venticinque anni. Dunque non stupisce che a trent’anni, quando comincia a rallentare il metabolismo a diminuire la produzione di collagene, una donna sia già psicologicamente pronta a investire tempo e denaro nel miraggio di ringiovanire — o quantomeno di preservare — la propria pelle. Miraggio? L’Autorità ha ritenuto ingannevole più di un’inserzione pubblicitaria di antirughe che vantavano effetti semi-miracolosi: i test infatti non sono stati in grado di dimostrare un’efficacia superiore a quella di una normale crema Adesso il problema degli esperti è come far assorbire vitamine, bio-vettori, microperle, trattamenti collagene, in profondità senza ricorrere al chirurgo idratante. Un passo avanti importante nei confronti del consumatore è l’obbligo — una normativa europea che entrerà in vigore l’11 marzo in tutti gli Stati dell’Unione — di indicare sulle confezioni la data di scadenza. La misura riguarderà i prodotti con una durata superiore ai trenta mesi: sull’etichetta si dovrà specificare per quanto tempo potrà essere utilizzata una determinata crema una volta aperto il vasetto. La nuova normativa obbligherà i produttori a segnalare anche l’elenco degli ingredienti nonché la presenza di elementi che possono provocare allergie. La battaglia alle rughe si combatte oggi con preparati che vorrebbero fare concorrenza al bisturi: cosmetici e creme che copiano tecniche e materiali della chirurgia estetica mimandone gli effetti, ammesso che ci riescano, riempiendo le rughe come farebbe un filler, spianando i segni del tempo con un effetto lifting. E così creme e sieri di nuovissima generazione — denominati cosmeceutici — vantano componenti come l’acido jalu- DOMENICA 6 MARZO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 57 70% acqua 25% proteine 2% grassi 25 anni 30 anni E’ la percentuale d’acqua presente nella pelle L’età in cui insorgono mediamente le prime rughe La nostra pelle è composta per un quarto da proteine E’ tempo di cominciare i primi trattamenti antietà Soltanto il 2 per cento i grassi nella pelle umana 70% Delle rughe è provocato da smog, fumo, stress e sole PRODOTTI IL PLANCTON TERMALE Grazie ai micro-cristalli di silicio che captano la luce, le imperfezioni e le rughe appaiono sfumate Antirughe Line Peel di Biotherm al plancton termale favorisce l’esfoliazione naturale PIÙ COLLAGENE Rinnova le fibre elastiche della pelle, stimolando la produzione di collagene e di elastina, la crema Litactiv Pro di Vichy, risultato di 10 anni di ricerca e cinque brevetti scientifici depositati CHE PENNA! L’ultimo ritrovato contro le rughe verticali attorno alla bocca è una speciale penna che riempie i segni d’invecchiamento con microperle sferiche all’acido ialuronico Perfectionist Lip Pen di Estée Lauder favorisce la tenuta del rossetto LE GRAZIE Il volto de “Le Grazie” di Antonio Canova. L’opera è conservata all’Ermitage di San Pietroburgo ronico, l’acido glicolico, l’acido salicilico, il collagene, e anche frazioni di tossina botulinica: tutte sostanze adoperate, con ben altra concentrazione, in medicina estetica. Il problema è come fare arrivare questi principi attivi in profondità. Ecco la lotta all’ultimo carrier, alla molecola il più efficace nel far penetrare le sostanze benefiche veicolandole fino al derma: ecco i nuovi liposomi, fitosomi, oleosomi. Tutti novelli Faust, imprigioniamo il nostro sogno di eterna giovinezza nel vasetto di una crema. In realtà il modo in cui invecchieremo è inciso nel nostro codice genetico. Ci sono però molte cose che possiamo fare, se è vero che il 70 per cento dei segni che portiamo in faccia dipende da fattori esterni: adottare uno stile di vita salutista, mangiare in modo sano, non fumare, bere molta acqua e niente superalcolici, e soprattutto proteggerci dal sole. «Le creme? Sono carezze, un rito di autoindulgenza. D’altra parte la pelle parla di noi, è l’espressione delle nostre emo- zioni, della nostra salute, sia fisica che psichica», commenta la psicoterapeuta Maria Rita Parsi. «Può sembrare una questione futile e superficiale, e invece in questa lotta c’è un grosso carico di angoscia. In realtà bisognerebbe distinguere fra ruga e ruga. Non sono tutte uguali. Ognuna ha la sua storia. Quando il tempo passa senza un significato profondo, allora lascia dei segni che tu non vuoi vedere, perché sono rughe di solitudine. Una ruga deve tenere compagnia per avere valore, deve essere come una medaglia al merito. Flaiano diceva: “La felicità è nel transito e nella trasformazione”. Io aggiungo che bisogna avere grande forza di carattere per accettare questo transito e questa trasformazione. Esserne felici è una fortuna di pochi». Ma lei, professoressa Parsi, fa qualcosa per le sue rughe? «Certo. Uso le creme, e ho anche fatto qualche iniezione di acido ialuronico. Le dirò di più: se a sessant’anni mi scopro un mostro, non escludo di andare dal chirurgo plastico». SPREMUTA D’UVA E’ al retinolo combinato in tre diverse modalità di rilascio la crema Lancaster Ultimate anti-age Perfection. All’estratto di uva bianca con azione antiossidante e pigmenti perlescenti EFFETTO LEVIGANTE Stimola la produzione della decorina, molecola gluco-peptica, nei punti in cui le rughe sono più profonde la crema Lisse Expert di Yves Saint Laurent con effetto levigante SALVA-COLLO Trattamento lifting per il collo e il decolleté di Collistar combatte il doppio mento con effetto rassodante I liposomi agli estratti di edera e caffeina favoriscono la tonicità cutanea Il conformismo delle facce da tv MICHELE SERRA ulla bellezza delle rughe si può fare letteratura, e facile retorica. Ma il bruto computo degli anni, del tempo che passa, del volto che si segna, non è poi così leggero da digerire, e non credo esista una sola persona, femmina o maschio, che non sarebbe felice di ritrovare allo specchio il proprio volto dei venti o dei trent’anni, ancora libero da segni, ancora da scrivere. Se dunque vogliamo essere schietti, a proposito di lifting, belletti, tecnologie e mitologie pro-juventute, dobbiamo prima di tutto ammettere che la tentazione è forte e la posta è seria, tutt’altro che futile (chi dice “faustiana” non dimentichi che il patto con il diavolo è attraente e decisivo, altrimenti che diavolo sarebbe…). La posta non è tale, comunque, da poter essere liquidata con uno sberleffo “morale”, che declassi nella categoria della pura vanità la necessità di sopravvivere bene al tempo e alle fatiche. La vera questione, allora, non è maledire perché “immorali” i rifacimenti dei connotati e la censura delle rughe. La vera questione è domandarsi se gli scopi (comprensibili e giusti) dell’estetismo contemporaneo ottengono, alla fine, i risultati che dicono: se cioè il tiraggio delle facce, la cancellazione delle espressioni, lo stiramento delle sgualciture producono uomini e donne davvero più “belli”, che a guardarli ci si sente contenti e rassicurati. E non, piuttosto, maschere inquietanti, che nello sforzo vano di alludere alla giovinezza indicano, all’opposto, l’invincibilità del tempo, risultano patetiche e irrisolte, denunciando una frustrazione, un fallimento e non certo un successo. In questo senso sì, eccome, ci sono facce da vecchio, da vecchia, che ci parlano bene della vita, la racchiudono, la raccontano, hanno la luce pacificante del tramonto: ma quei tramonti estivi lunghi, socievoli, tiepidi, che portano a uscire di casa e godersi la sera. E ci sono facce rifatte, anzi tumefatte dal tiraggio, che raccontano piuttosto la morte, il terrore della morte come motore perverso che impedisce di rilassarsi e godere il cambiamento (non sempre così indegno) che gli anni inducono. Tra estetismo ed estetica, evidentemente, corre la stessa differenza che separa salutismo e salute. Da una parte (estetismo e salutismo) c’è l’insania di un’ossessione, di un obbligo sociale che comprime la vita, costringe ad atteggiarsi per ben figurare, per non disturbare, per compiacere. Dall’altro (estetica e salute) c’è spesso il naturale, rasserenante accettarsi e farsi accettare, e quello sì che diffonde benessere anche negli altri, minimizza l’angoscia del tempo e il presagio della morte perché è la dimostrazione incarnata di come si possano affrontare le stagioni senza dannarsi e smaniare, senza perdersi d’animo. Naturalmente questo discrimine tra cura di sé e accanimento su di sé è affidato all’intelligenza e al talento individuali. Diciamo che la tendenza, ahimè, sembra essere la seconda, a partire da dettagli come la nevrosi cosmetica che dilaga (vedasi la desolante tendenza maschile a rifilarsi le sopracciglia, tutte uguali e leccate, sopracciglia standard), o come l’abolizione del naso forte, di tradizione greco-latina, piallato dal chirurgo sul modello dei nasetti anglosassoni. Conformità a certi canoni e dunque conformismo, questo è il più preoccupante effetto di molta estetica non solo chirurgica, l’abolizione del dettaglio caratteristico, dell’imperfezione, della diversità in favore di un mutamento che è nascondimento: confondersi, sparire nell’irriconoscibilità di una folla senza più età né connotati, come certi pubblici televisivi delle trasmissioni del mattino, già inverosimilmente in ghingheri, uguali su tutti i canali, come se avessero lasciato la faccia in guardaroba prima di entrare in studio… Mantenere la faccia o perdere la faccia? S 58 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6 MARZO 2005 l’incontro Postfemministe Trent’anni dopo “Paura di volare”, 10 milioni di copie vendute, la guerriera dell’emancipazione torna in campo per combattere la nuova battaglia, “per spostare di un altro passo il confine”: conquistare il diritto della donna matura ai piaceri della vita. Sesso compreso. La sfida è cambiare la morale, abbattere i pregiudizi sulla vecchiaia. Perché, come ci racconta la scrittrice, anche “una nonna come me” ha ancora voglia di provare emozioni Erica Jong D tradizioni e i suoi valori sconvolti. Dice Erica Jong: «Penso a mia nonna, che è stata per me una figura molto importante. Ne ho scritto in older bolder women. Con l’età, per lei che era stata fino ad allora soprattutto una madre, i nipoti diventarono tutto, il centro della sua esistenza, l’interesse principale, che non lasciava né spazio né voglia per occuparsi d’altro. E a mia nonna tutto questo sembrava naturale, tanto da esserne pienamente soddisfatta». Erica la ricorda composta, con le perle (vere) e a doppio filo al collo e il cappellino in testa, secondo i canoni bon ton dell’epoca. Dolce, calma, morigerata e prevedibile. E appagata di essere nonna. Come tante altre donne mature di mezzo secolo fa. Ora quella cartolina non esiste più. È più accettabile, anche da anziani, pretendere l’impossibile e parlare di desiderio. Le donne grandi seguono la moda, scelgono come vestirsi senza essere ingabbiate negli schemi e vogliono ancora piacere e piacersi. È un nuovo atteggiamento, l’inevitabile corollario a una vita completa. «Pren- Il prossimo libro, che sta scrivendo ora, è il seguito ideale del suo best seller e forse la protagonista sarà ancora una volta Isadora Wing, sempre in lotta per le sue libertà FOTO CORBIS onne, attenzione, la “paura di volare” è ancora un tabù temibile e granitico. Almeno dopo i sessant’anni. E il diritto al sesso in età declinante è la nuova frontiera da conquistare. Parola di Erica Jong, l’icona della letteratura ero-femminista che nei primi anni Settanta, con il suo best seller da dieci milioni di copie, esportò in mezzo mondo le gesta di Isadora Wing, impudente eroina della “scopata senza cerniera”. La giovanotta di quella “paura di volare” ha ormai fatto il suo tempo e adesso la nuova guerriera dell’emancipazione sessuale è la donna grande, la donna matura. Non più solo nonna tutta casa, ricette e nipotini, ma donna a trecentosessanta gradi, spregiudicata alfiera del diritto a vivere pienamente la propria esistenza fino all’ultimo istante, senza rimpianti e senza rinunce. «Sarà l’argomento del mio prossimo libro», rivela Erica Jong da New York. «È il tema più importante di oggi. Urgente e intrigante. La vita si è ormai molto allungata, è migliorata la qualità della vecchiaia e chi oggi ha più di sessant’anni ne ha davanti a sé magari ancora una trentina. E allora perché non pretendere il meglio e gioire di tutto ciò che offre lo stare al mondo, sesso compreso?». Chissà se la protagonista della nuova bibbia erotica firmata Jong e dedicata alla terza età al femminile sarà la stessa Isadora Wing del lontano ’73 e ormai sul viale del tramonto: «Ho appena cominciato a scrivere e non lo so ancora». Chissà se il titolo del libro che verrà sarà altrettanto fortunato: «Non ho ancora deciso niente e anche il solo parlarne mi rende nervosa». Chissà se la nuova moda che impone di rima- nere seducenti a uso e consumo di amori e amorazzi tardivi, convincerà le signore in età avanzata ad adeguarsi al nuovo modello. Loro, che sono già super indaffarate a far fronte alle tante aspettative imposte dall’èra moderna: sport, brillantezza sociale, eleganza e disponibilità illimitata «per tutto ciò che fa cultura e che dunque tiene agile la mente». «Non faccio previsioni, per ora scrivo e basta». Erica Jong ne è convinta: «È questa la prossima tappa nel cammino per la liberazione delle donne. Una frontiera impegnativa ma necessaria e inevitabile. E, se all’epoca di “paura di volare”, Isadora Wing infrangeva il tabù della repressione sessuale dei giovani, oggi il muro da far cadere è rappresentato da una donna che invecchia senza sacrificare nulla al tempo che passa, neanche il diritto al sesso». Già con il suo precedente libro Il salto di Saffo, l’ardita rilettura della poetessa di Lesbo che mise in versi l’amore bisessuale, la scrittrice che ha sempre fatto del femminismo una bandiera aveva spostato l’attenzione verso le donne non più ragazzine. «Il sesso è un potente motore della nostra vita, fa provare emozioni e regala speranze. Nutre il cervello e nutre i sensi e allora perché farne a meno solo perchè si è avanti con gli anni?» aveva scritto appena un anno fa in Older bolder women, “Donne più grandi e più audaci”, articolo choc pubblicato sul supplemento domenicale del Times di Londra in cui Jong spaziava sull’argomento tra passato e presente. Aveva molto apprezzato Mother, il film di Roger Michell in cui una donna ultrasessantenne e già nonna, rimasta vedova e non ancora «pronta alla vecchiaia», rilancia la sua vita e sfila alla figlia il fidanzato Darrel, un inaffidabile giovanotto appena sopra la trentina, poco colto ma parecchio aitante. E lo ripete: «È un film bellissimo e davvero serio». Quanto agli uomini, ne ridimensiona l’importanza e dice che, seppure utili e indispensabili «non sono certo la cosa più importante». «Non sono la portata principale, piuttosto sono solo il dessert», aveva sferzato sempre sul Times. Insomma arrivano in coda «mentre ai primi posti ci sono il lavoro, l’affetto per le amiche e la cura dei figli». Osserva e si corregge: «È che la vita deve essere piena di tutto. E dunque, anche a una certa età quando si è nonne come me, con un bel nipotino di otto anni, si ha diritto a una vita emozionante e completa. Di questo, soprattutto, parlerò nel mio prossimo libro. E non solo di sesso». Essere anziani oggi fa vivere una condizione lontana anni luce dalla vita “da vecchi” di prima. E questo vale sia per gli uomini sia per le donne. Ma, se nel recente passato una qualche rivoluzione c’è stata, riguarda soprattutto l’universo femminile con le sue dete me» riprende Erica «ho la scrittura, i libri, il lavoro e tante attività personali. E non ho alcuna intenzione di chiudermi in casa e ritirarmi. Non sono pronta». Non che in passato, rispetto alla morale corrente, la trasgressione non ci fosse. Erica Jong cita Colette, la scrittrice francese tanto amata che in Cheri, con la sua Lea , signora impudica e audace, frantumò il tabù della donna grande e antisensuale. Lea che, a 49 anni s’immerge senza rimpianti in una storia d’amore con un diciannovenne che chiama per l’appunto “Cheri” e che vive il suo amore prevedendone l’inevitabile fine, senza limiti e senza pregiudizi. Un caso all’epoca, neanche troppo isolato negli ambienti letterari francesi, ma pur sempre un’eccezione. «Oggi i tempi sono cambiati, sebbene non di molto. Di sesso al massimo si può parlare, discuterne non è più così disdicevole. Ma, se si tratta di ultrasessantenni, si ha ancora molta paura ad affrontare l’argomento e le difficoltà aumentano se in ballo ci sono le donne». Ci sono film, commedie e libri che hanno rotto il silenzio e che dovrebbero tranquillizzare sull’evoluzione dei costumi, «ma nella realtà si procede ancora lentamente lungo un cammino cosparso di ostacoli». Tutto sembra cambiare e niente cambia davvero. «Abbiamo un forte pregiudizio sulla vecchiaia delle donne. Per questo sono ancora così poche le scrittrici che osano affrontare l’argomento. Anche se hai molta esperienza con il sesso, ma sei una donna grande, non ne puoi facilmente scrivere, a meno che tu non sia disposta a rischiare di apparire patetica. O ridicola». Le donne e gli uomini vivono più a lungo, sono più attente/i a se stessi e alle loro esigenze e dunque sono diventate/i prede appetibili soprattutto per i mercati occidentali. Eppure il pregiudizio che avvolge la sensualità è ancora duro a morire. «È opinione comune che le donne dopo la menopausa» insiste Erica «debbano occuparsi soltanto di figli e nipoti. Del resto da sempre i figli trovano disdicevole che i loro genitori facciano sesso. Non piace, non sta bene, li mette in imbarazzo. Soprattutto non lo deve fare la mamma. Li farebbe soffrire». Infrange il mito della madre, sempre più santa che donna. E l’elenco dei tabù, quanto al sesso, non finisce mai. I figli (e anche le figlie, le eredi di un femminismo che segna il passo) a volte sono accondiscendenti con il padre, perfino quando entra in scena un’amante. Magari temono di essere privati dell’affetto e di perdere la sicurezza della famiglia, magari stigmatizzano le menzogne e le finzioni, ma non lo condannano per l’atto sessuale. Non tutti almeno. Con la donna è diverso. Lei è la madre. E non può essere sensuale. Mai. «È necessario intervenire ed è urgen- te cambiare le cose. Bisogna trasformare la morale corrente e anche le abitudini culturali dominanti». Dice Erica: «Pensiamo alla paura di mostrare il proprio corpo nudo da anziani. Tutti abbiamo paura di farlo. La carne nuda e invecchiata non piace, ricorda la vulnerabilità umana. La mortalità. Per questo nessuno vuole vedere i vecchi nudi. Dà fastidio, crea disagio». Eppure non è raro, (anzi), che gli uomini si accompagnino a partner giovanissime: «Attraverso di loro cercano di esorcizzare la morte». Loro gli uomini superano la vergogna, si sentono accettabili, ma non è la stessa cosa per le donne. «Non penso che dipenda dalla paura di mostrare il proprio corpo e basta, anche se il rapporto con la bellezza è complicato e anche questo conta». A impedire la naturalezza e la possibilità di osare è piuttosto l’archetipo culturale della donna-madre. «Credo che evochi ancestrali timori di incesto». Ancestrali e insuperabili. Mentre scrive il nuovo libro ancora senza titolo, come sempre Erica Jong legge quel che più apprezza. Adesso è alle prese con Amoz Oz e il suo Tale of love and darkness, “Una storia d’amore e di tenebra”, descrizione epica della vita a Gerusalemme e a Tel Aviv negli anni Trenta. Osserva: «Avere qualcosa di buono sul comodino mentre lavoro è per me indispensabile. Mi fa bene all’anima». Tra i tanti libri che ha scritto, a sorpresa rivela che non è il fortunatissimo Paura di volare il libro più amato tra quelli di sua produzione, ma è Fanny, il suo secondo romanzo. «Mi è piaciuto usare quel linguaggio antico. Mi ha divertito». Quanto ai contenuti, invece, molto le piace Il salto di Saffo. «È con Saffo che ho cominciato a raccontare di una donna, che pur diventata grande, vuole vivere ancora tutto ciò che offre l’esistenza. E continuerò su questa strada». ‘‘ SILVANA MAZZOCCHI