Torre Misiligiafari

Transcripción

Torre Misiligiafari
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ALBERTO BARBATA
La Torre di Misiligiafari
(Cenni storici su un manzil arabo,
i suoi sviluppi e il suo territorio)
Prefazione di
Dino Grammatico
ISSPE
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Barbata, Alberto <1944>
La Torre di Misiligiafari : cenni storici su un manzil arabo, i suoi
sviluppi e il suo territorio / Alberto Barbata : prefazione di Dino
Grammatico. - Palermo : Istituto siciliano di studi politici ed economici, 2005.
(Sicilia nuova e antica ; 29)
1. Paceco - Torre di Misiligiafari
I. Grammatico, Dino <1924>.
728.81094582422 CDD-20
CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace
4
Collana
«Sicilia nuova e antica»
diretta da
DINO D’ERICE
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Pubblicazione realizzata con il contributo dell’Assessorato dei
Beni Culturali, Ambientali e della P.I. della Regione Siciliana
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Ringraziamenti
Nel dare alle stampe “La torre di Misiligiafari”, mi è gradito ringraziare alcuni amici che mi hanno sostenuto nel lungo lavoro di ricerca di
archivio e di documentazione.
In primo luogo desidero ricordare il Marchese di Torrearsa, Don Enrico Fardella, Giangaspare e Paola Fardella di Torrearsa, Vincenzo Fardella
di Torrearsa che mi onorano della loro amicizia da diversi lustri e che hanno
sempre creduto in me e nel mio desiderio di ricerca delle radici della storia
di questo territorio.
Un ringraziamento sentito al Direttore dell’Archivio di Stato di Trapani, Dott.ssa Santina Sambito e agli amici Sergio Dara e Salvatore
Giacomazzi per il loro ausilio costante.
Al Direttore della Biblioteca Fardelliana, Dott.ssa Margherita
Giacalone e al personale tutto, il più vivo grazie per l’assistenza prestatami.
Un particolare ringraziamento alla Sig.ra Marisa Canino Blazic,
che mi ha coadiuvato nel lavoro di stesura di questa ricerca sull’antico
manzil arabo.
Al Presidente dell’ISSPE On. Dino Grammatico e al Dott. Umberto
Balistreri, la mia stima e il mio più sentito grazie, per avermi dato la possibilità di non far dimenticare la memoria storica del territorio dell’antica
città falcata.
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Prefazione
A pag. 17 si può leggere : «Sui manzil la storiografia ci
è stata avara, così come sui toponimi arabi dell’estrema punta
della Sicilia Occidentale non esiste alcuno studio specifico,
all’infuori di ricerche locali lodevoli, ma incomplete».
Ebbene: è da questo rilievo obiettivo che emerge l’importanza del saggio che Alberto Barbata propone alla nostra
attenzione. La storia della Torre di Misiligiafari e del suo
territorio, pur non colmando la lacuna, certamente offre elementi preziosi sui manzil arabi sorti nella Sicilia Occidentale. Il direttore della Biblioteca comunale di Paceco, infatti,
non trascura alcun particolare per l’individuazione delle origini, delle modificazioni intervenute nel tempo e per l’illustrazione degli sviluppi del territorio di quella che chiama
“la Torre rusticana di Misiligiafari”.
E così veniamo a conoscenza che “Il Manzil-al-Giafar”
sorgeva appena dietro la cintura di espansione urbana di
Paceco, e che probabilmente la struttura, “luogo di sosta dove
si scende da cavallo”, rimanda all’emiro Giafar II (989 - 1035
circa), indicato dagli storici come il “ Lorenzo il Magnifico”
della rinascenza araba in Sicilia; e ancora: delle vicissitudini della zona, del succedersi dei vari proprietari, dai Bandino
agli Abrignano, ai Tipa, ai Fardella.
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Il primo documento riguardante la Torre, comunemente denominata Torrazza, risale invece al 1571 ed è costituito
da un testamento in cui il nobile Tommaso Lo Valvo istituisce eredi il figlio o i figli che sarebbero nati dalla moglie
Vincenziella, che (all’atto della redazione del testamento)
era in stato di gravidanza. Ma avverte il Barbata che la data
di costruzione potrebbe essere anteriore anche di molto, come
fanno intravederre alcuni studi del Trasselli dedicati al Vice
Ammiraglio Antonio Fardella, personaggio chiave della storia trapanese del Quattrocento. Solo che la individuazione
esatta non è per niente facile, in quanto sono numerose le
torri non solo marittime, ma anche di campagna, che in tali
studi appaiono. E Barbata coglie la palla al balzo per darci
una panoramica dell’intero territorio che si estende sia attorno alla Torrazza e, quindi, all’esterno dell’abitato di Paceco,
che in contiguo con le saline e, perciò, all’esterno della città
di Trapani.
La panoramica presenta anche le famiglie illustri che
su tale territorio, attraverso i secoli, hanno operato. E su tutte emergono quelle della casata dei Fardella le quali fin dal
secolo XVI ebbero rapporti di enfiteusi e in seguito di proprietà dei fondi terrieri attorno alla città di Paceco e alle distese delle saline. Gaspare Fardella di Torrearsa, che fu anche capitano della Real Marina e del Porto di Trapani, abitò
la Torre per lungo tempo e – scrive il Barbata – «sicuramente adattandola ad abitazione, a modo di “casina di campagna” per le ore di riposo e gli ozi estivi».
Tra i pregi del saggio, a parte la serietà della ricerca, va
poi rilevata l’ampiezza della bibliografia che, alla fine di
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ciascun capitolo, accompagna la trattazione e soprattutto, la
bontà della fattura letteraria. La narrazione infatti è sintetica, ma puntuale e scorrevole.
L’Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici, pubblicando il lavoro, ritiene di fare opera meritoria per l’approfondimento dei Manzil arabi disposti strategicamente lungo le vie di comunicazione dell’Isola e delle Torri di campagna che ebbero funzioni importanti anche sul piano della
difesa del territorio. Ringrazia pertanto Alberto Barbata che
gliene ha dato la possibilità.
Dalla Casa della Roccia, febbraio 2005
DINO GRAMMATICO
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ABBREVIAZIONI
A.S.P. = ARCHIVIO DI STATO - PALERMO
A.S.T. = ARCHIVIO DI STATO - TRAPANI
A.N.D. - TRAPANI = ARCHIVIO NOTARILE DISTRETTUALE
- TRAPANI
B.F. = BIBLIOTECA FARDELLIANA
B.C.P. = BIBLIOTECA COMUNALE DI PALERMO
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Il Manzil di Giafar
Prima di arrivare ai feudi, intesi come la grande campagna siciliana, un tempo brulla o divisa in pascoli e coltivazioni aride, il nuovo borgo rurale, Paceco, fondato nel 1607
dai Fardella di San Lorenzo, lambiva il limite di grandi proprietà allodiali, un tempo “tenimenti” di origine araba e prima ancora bizantina.
Di essi oggi rimangono esili tracce ed esotici toponimi:
due, in particolar modo, possono attirare l’attenzione del
viaggiatore o del ricercatore a caccia di frammenti di civiltà
stratificate nel tempo, di cui il territorio è ricco, dalla preistoria all’età medievale.
Tra i giardini, le vigne, i boschi d’ulivo, risaltano piccole emergenze architettoniche e naturali, antichi pozzi e case
con muri a secco, bronzate.
Ma agli occhi vigili non possono sfuggire la vecchia
torre di Misiligiafari ed il timpone del Castellaccio,
centoventi metri, dominatore della pianura e del mare, a guardia della città di Trapani, fin dal Medioevo.
La ricerca storica sulla torre rusticana di Misiligiafari,
posta un tempo nel territorio del Comune di Trapani ed oggi,
dopo le modifiche territoriali degli anni settanta, all’interno
del Comune di Paceco, da cui d’altronde dista appena un
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chilometro, ha richiesto un notevole studio sul territorio antico della città di Trapani nel periodo del basso medioevo e
dell’età moderna.
Il sito è posto all’interno di un grande “tenimentum” di
origine araba, “Misiligiafari”.
Il toponimo ci rimanda a quella fitta serie di “manzil”
di cui era punteggiata la Sicilia durante il periodo Arabo.
Trattasi in vero, letteralmente, di “luoghi di sosta dove
si scende da cavallo”, probabilmente casali abitati da poche
famiglie (1).
Il “Manzil-al-Giafar” sorge appena dietro la cintura di
espansione urbana della antica Itrabinis araba e probabilmente rimanda a quell’Emiro Giafar, stimato dagli storici,
quali il francese J.F.Michaud, come il “Lorenzo il Magnifico” della rinascenza araba in Sicilia (2).
Le biografie di questo splendido e potente sovrano della dinastia Kalbita di Sicilia, Giafar II, parlano di un uomo
stravagante e tortuoso ed il suo periodo, insieme a quello del
padre Yusuf e di suo fratello Ahmad II, dal 989 al 1035 circa, costituisce il grande tramonto della civiltà e cultura araba in Sicilia.
La sua famiglia, venuta in Sicilia al tempo della prima
conquista, fu ricca feudataria e molti suoi componenti furono ministri della corte degli Aghlabiti di Tunisi, raggiungendo grande prestigio e il grado di Vicerè ereditario di Sicilia.
La loro politica fu accorta e sensibile ai ceti più indifesi,
contro le sette musulmane più estremiste e i clan nobili
(1) Pellegrini, G.B., Gli Arabismi nelle lingue neolatine Brescia, 1972.
Scaturro, I., Storia della città di Sciacca, Palermo 1983, ristampa.
(2) Palermo Patera, G., Palermo Araba, Palermo, 1991.
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berberi che avevano reso turbolenta la vita della Sicilia Araba, rallentando la conquista dell’isola.
Giafar Ibn Yusuf successe giovanissimo al padre Yusuf
I detto “padre della vittoria”, uomo d’equilibrio, saggio e
valoroso, e regnò dal 998 al 1024 d.c.
Di vasta cultura, oratore e poeta, costruì fastosi palazzi
come il Qasr al-Giafar (Castello di Giafar o Maredolce), acquedotti (Danisinni) e il famoso parco di Altofonte.
I suoi interventi intesi a modificare il sistema fondiario,
amministrativo e finanziario, al fine di proteggere i ceti più
umili contro i grandi potentati familiari, portarono ad una
politica di riequilibrio fiscale, urtando l’opposizione nutrita
degli Sharraf e poi degli Ulema per le sue idee di tolleranza
anche in fatto di religione, dovendo altresì fronteggiare diverse ribellioni delle milizie berbere, aggravando la sua posizione nel regno contro il parere del vecchio padre.
Una rivolta di nobili, e la ricerca del padre di salvare il
salvabile, lo condusse presto in disgrazia.
Dopo un pacifico colpo di stato del padre Yusuf, abolito il sistema fiscale di Giafar, la famiglia fu costretta all’esilio a Tunisi, dove ben presto in maniera oscura scomparve
dalla scena del potere.
Osannato dai poeti, mecenate di artisti, di lui si può
ricordare la riattivazione del tribunale dei sorprusi “diwan
al-mazalin”, la ristrutturazione della fitta serie di manzil
(mansiones, casales) e di riahal (stazioni di posta) in cui era
articolata la campagna siciliana e sue residenze preferite furono Misilmeri e Cefalà Diana.
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I Manzil e i “Castellazzi”
Sui “Manzil” la storiografia ci è stata avara, così come
sui toponimi arabi dell’estrema punta della Sicilia occidentale non esiste alcun studio specifico, all’infuori di ricerche
locali lodevoli, ma incomplete (3).
Rosario Gregorio, nel suo “De Rerum Arabicarum
quae ad historiam siculam spectant ampla collectio ...”,
pubblicato a Palermo nel 1790, dice espressamente, nel
capitolo sulla “Siciliae Geographia sub arabibus” e dopo
aver parlato dei Rahal: “in idem ferme recidit vox Menzil.
Licet enim ejus etymologica habita ratione, mansionem
aliquam, et proprie hospitium quoddam significet, attamen
e sensu apud Arabes recepto constat Menzil oppidulum
pagumve indigitare”. Il Caruso prosegue citando alcuni
geografi antichi e meno antichi e poi afferma che “Hic
vero commemorari non abs re est, quod Geographus
Nubiensis aliquot Siciliae loca describens Hesn et Kalaath
dicta, quam verba Castellum, Arcem munitam significant,
ait de quodam Castello, esse illud tamquam parvum
(3) Corso, S., Sul territorio di Trapani: approccio di identità, in la
“Fardelliana”, anno V, 1986, n. 1-2, pp. 37-64.
Lilibeo – Marsala, la città come bene culturale, Marsala 1988.
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Menzil. Huius modi ergo oppidula habebantur ut majora
Castellis” (4).
Giuseppe Palermo Patera, nella sua “Palermo araba”,
parlando della conquista e delle felici intuizioni culturali e
amministrative di quel periodo, cita, tra le altre cose, la rete
di Manzil (mansiones, casali) e Rakhal (sia stazione di posta
sia centri di acclimatamento agricolo) che copriva la Sicilia
ed era indice di un elevato sviluppo civile (5).
Illuminato Peri, descrivendo i tipi e la distribuzione degli
abitati dall’XI al XIII secolo, dice con molta chiarezza che
essi “si distinguevano non agevolmente da castelli o rocche
presidiate da contingenti armati o da discendenti da non
conspicui gruppi familiari o tribali nei cui pressi si estendevano abitati modici con i quali dividevano il nome e nel cui
territorio rientravano rahal o menzil (casalia nella terminologia romanza) nei quali risiedevano poche famiglie” (6).
Sul numero dei casali, Peri ipotizza che nulla autorizza
una densità di popolazione sviluppata, nè che il paesaggio
siciliano fosse movimentato da un reticolo di minuti stabilimenti rurali.
La torre di “Misiligiafari”, chiamata anche “Torrearsa
vecchia” perchè appartenente da oltre due secoli ininterrottamente alla famiglia Fardella dei Marchesi di Torrearsa, si
inserisce bene nel contesto dell’economia di questo territorio nel periodo arabo, come si può dedurre da un esame analitico del sito.
(4) Gregorio, R., Rerum Arabicarum quae ad historiam siculam spectant ampla
collectio..., Palermo, 1790.
(5) Palermo Patera, G., op. cit.
(6) Peri, I., Uomini, città e campagne in Sicilia dall’XI al XIII secolo, Bari,
1978.
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La Torre, geograficamente, è posta sulla strada provinciale Paceco-Castelvetrano, ad appena un chilometro dal
centro abitato di Paceco, fondato agli inizi del XVII secolo,
ed a circa sei chilometri dalla città capoluogo.
Uscendo dall’abitato di Paceco (36 mt. s.l.m), la strada
provinciale s’inerpica gradualmente su per una collina, già
nei secoli scorsi luogo di residenza di famiglie signorili, densamente coltivata a vigna e uliveto.
Al culmine della salita, si profila, a sinistra della strada, un timpone denominato “Castellazzo” (toponimo di chiara origine tipologica romanza), alto 120 metri, che da il nome
a tutta la contrada rusticana di quel versante che si estende,
dalle ultime case (contrade Piano e Israele) in parallelo con
l’altra strada comunale detta di Sapone (strada che conduce
da Paceco a Dattilo e si collega al passo Baiata con la strada
provinciale Trapani-Salemi) fino alle antiche contrade di
Gambacorta e Carestia, in pratica quasi fino al vallone del
feudo di Fontanasalsa, ovvero il canale detto di Quasarano.
Invece, a destra della via Castelvetrano, degradando verso la pianura, si estende il “tenimentum” di Misiligiafari che
dalle ultime case di Paceco (contrade Comuni e Seniazza) in
parallelo con la odierna strada statale n.115 Trapani-Marsala
(comprendendo anche tutto il territorio comunale da Cantello
in poi) conduce fino a Balatella, Carminello, Pezzalonga, ovvero fino al vallone di Fontanasalsa, al Quasarano.
Il confine di Fontanasalsa (nel periodo arabo “Manzil
al-Kharari” ovvero Misilcharari (7), toponimo oggi rimasto
(7) Barberi, G.L., I capibrevi, vol. 3°, p.149, Palermo, 1985, r.a.
San Martino De Spucches, F., La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di
Sicilia, Palermo, 1924-1933.
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al “Pozzo Karari”) è antico e serve oggi a ricostruire la storia di questo territorio, dove fortissima è stata l’influenza
della civiltà e della cultura araba.
A tal proposito basta pensare che solamente sul versante sud-ovest del territorio degli odierni comuni di Trapani e
Paceco, si estendono ben otto territori, di cui tre autentici
“manzil”.
I “manzil” sono Misiligiafari e Misilcharari
(Fontanasalsa poi nel tardo medioevo) e Misiliscemi (Manzil
al-escemmu ovvero “luogo posto in alto dove scorre l’acqua”), mentre gli altri luoghi di rilevante importanza storica
sono Kinisia (“chiesa”) che comprende anche il toponimo
tardo di Rilievo, Ballotta (“quercia”), Marausa (“pascolo
povero”), Nubia (“terra d’oro”) e Xitta (“luogo sabbioso o
paludoso”) (8).
Ma occorre tener presente, come ben fa rilevare il
Maurici, che “dal punto di vista topografico ed archeologico
le conoscenze sul casale siciliano dei secoli XI-XIII, sono
ancora molto limitate, anche perchè i pochissimi scavi medievali fino ad ora intrapresi hanno interessato soprattutto
insediamenti o edifici fortificati. Non possediamo in effetti
nessun esempio chiaro di evoluzione e passaggio dal rahal
pienamente musulmano al casale di età normanna”(9).
Certamente è verosimile per molti casi una continuità
topografica e strutturale immediata e priva di rotture, sostiene Maurici, e per altri casi si può pensare ad uno scadimento
(8) Barberi, G.L., I capibrevi, vol. 3°, p. 152, Palermo, 1985, r.a.
Pellegrini, G.B., op. cit.
Arezzo, F.G.,Sicilia (Miscellanea), Palermo, 1950.
(9) Maurici, F.- Castelli medievali in Sicilia – Dai Bizantini ai Normanni,
Palermo, 1992.
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e ad una sottoqualificazione di abitati musulmani muniti nella
categoria inferiore dei casali, forse anche attraverso lo smantellamento di eventuali opere difensive.
Effettivamente il Maurici, riprendendo la tesi di H. Bresc
al convegno di Cuneo del 1981, fa rilevare, sulla base di
alcuni esempi, una probabile ipotesi che “altri abitati forti,
almeno per sito, d’età musulmana, declassati nel successivo
ordine normanno, abbiano però mantenuto la loro posizione
eminente e naturalmente protetta; e di fatto ad alcuni
“castellucci” o “castellazzi” della toponomastica corrispondono insediamenti identificabili con rihal o manazil documentati dalle fonti” (10).
Il timpone Castellaccio, di cui si ritrovano documenti
notarili già fin dal secolo XV (11), e citazioni storiche molto
piu’ antiche fin dal periodo aragonese (12), è un colle di origine fluviale, appartenuto da piu’ di due secoli alla famiglia
Staiti e poi dalla seconda metà del secolo scorso alla famiglia Alestra-Staiti.
Rimboschito a pineta, nel secolo attuale, oggi si presenta abbandonato e incolto, chiuso nella sua vegetazione
mediterranea di olivastri selvaggi e ampelodesmi e altre piante endemiche.
(10) Terre e Castelli: le fortificazioni della Sicilia araba e normanna in Castelli.
Storia ed archeologia, Relazioni e comunicazioni al Convegno di Cuneo,
6-8 dicembre 1981, a c. di R. Comba e A.A. Settia, Torino 1984, pp. 7387.
(11) A.S.T., not. G. Castiglione, atto del 06.02.1499 cfr. tesi di laurea di G.
Lisma (1970-71), Il Registro notarile di G. Castiglione (1499), doc. n.
17, p.39 (Il nobile Nicola di Gregoli, cittadino di Trapani, concede a
Simone la Turri della stessa città, la sua vigna in c.da “di lu castillazzu”
con il patto di farvi i lavori necessari).
(12) Pugnatore, Istoria di Trapani, ms. 256 in B.F. edizione a cura di S.
Costanza, Trapani, 1984, p. 2°, pp.62 e 119.
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Un tempo vi cresceva il frutto dell’abacis, pianta importata dagli arabi, come racconta il Pugnatore (13).
Durante la seconda guerra mondiale, fu utilizzato dalla
milizia territoriale e dalla Wermacht che sulla sua cima istallò
una batteria antiaerea, costruendovi anche una comoda strada d’accesso, oggi in rovina.
Dalla radura, in alto sulla cima, si gode un panorama
completo del territorio dei dintorni di Trapani.
L’occhio spazia su tutta la pianura che va da Trapani a
Marsala e fino alle falde dell’Erice, comprendendo larga parte
del territorio dell’antica città di Monte San Giuliano.
Dal Castellaccio si possono controllare tutte le strade
di accesso a Trapani, tutte le contrade poste nel suo territorio extraurbano, comprese le antiche torri marittime e
rusticane (Xitta, Nubia, Marausa, Ponte Salemi, Misiligiafari,
Torrebianca etc...).
Un importanza strategica notevole, piu’ volte utilizzata
nel corso dei secoli, a cui furono molto interessati certamente gli arabi.
(13) Pugnatore, op.cit. pp.66-68 e 223.
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Il Castellaccio e il Pugnatore
Il Pugnatore, nella sua “Istoria di Trapani”, scritta verso la fine del secolo XVI, scrive che gli arabi fondarono
due casali nei dintorni di Trapani: “mentre costoro furono
di Sicilia signori non pur gran numero dè suoi in molte
parti l’abitarono, i cui nomi in fin ora vi durano; e però
l’istesso fecero in Trapani, nel cui territorio fondarono dui
casali: uno presso quattro miglia a questa città, le cui rovine sono oggi il Castellaccio chiamate, e l’altro circa sei
altri più oltre di quello, Misilichemi sarracenamente
nomato; i quali da poi rimasero al tempo degli aragonesi
distrutti” (14).
Più avanti, nella sua “Istoria”, il Pugnatore , descrivendo il periodo aragonese in Trapani, narra come “l’armata
del Re Roberto fè gran danno attorno di Trapani; e vi distrusse due casali di fuori” (15).
Il Pugnatore, rifacendosi al cronista Giovanni Villani (16),
racconta come nell’anno 1317 il Re Roberto d’Angiò avesse
(14) Pugnatore, op.cit., p.62
(15) Pugnatore, op. cit., pp. 119 e 222.
(16) Villani, G., Chronica, lib. IX, cap. 61, Firenze,1587
Fazello, T., De Rebus Siculis (deca II, lib. VIII, cap. 3).
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compiuto una spedizione contro la Sicilia inviandovi sessanta galere, mettendo a ferro e fuoco parte del Val di Mazara,
dopo aver sbarcato a Castellammare ed afferma espressamente: “Nè fia forse fuor di ragione di credere che all’ora
(se per avventura ciò in prima stato non era) i due casali
che nel territorio di Trapani (come già si ha detto) dà
Sarraceni edificati fosser da questa gente del re Roberto
destrutti; senza poi mai essere stati riedificati. Laonde l’uno
di loro è infin oggi, per cagione delle sue ruvine, chiamato
propriamente il Castellaccio”.
È verosimile che l’azione militare di Roberto D’Angiò
contro i due casali non sia stato altro che un’azione preventiva
prima di attaccare la città, con l’intento preciso e netto di voler
distruggere le difese e i presidi posti attorno ad essa e a cui
stavano a guardia i fedelissimi aragonesi, come i Ventimiglia e
i Sigerio, padroni delle terre e dei feudi suburbani.
E’ doveroso ora chiedersi cosa rimanga oggi delle rovine del “Castellaccio”, sicuramente conosciute dal Pugnatore,
e del casale di Misiligiafari.
Il casale può verosimilmente essere individuato in un
gruppo di vecchie case, poste proprio di fronte al Timpone,
a poche centinaia di metri, a destra, alla fine di un leggero
pendio della strada provinciale, dopo la salita già citata.
Tra le vecchie case contadine risaltano due costruzioni notevoli, poco distanti l’una dall’altra, quali la Torre, denominata
nei documenti pubblici e notarili dal secolo XVII in poi come “la
Torrazza” (17), e il “Casino” ovvero luogo di residenza estiva dei
(17) A.S.P., Deputazione del Regno, Riveli, Paceco, 1747, (Rivelo di G. Alestra
ed altri).
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marchesi di Torrearsa, costruzione a forma di baglio con torre
centrale, costruita nel tardo ‘800 dal Marchese Vincenzo Fardella,
notissimo uomo politico del Risorgimento italiano.
Nelle parti basse della Villa Torrearsa, oggi restaurata
secondo metodologie avanzate, sono state riportate alla luce
resti notevoli di una costruzione poderosa in conci massicci
di tufo, probabilmente del periodo arabo, se non addirittura
dell’ultimo periodo bizantino.
Che il luogo ed i resti antichissimi di questa casa-castello siano legati alla storia più antica del basso medioevo
siciliano e trapanese in particolar modo, viene evidenziato
inoltre da antiche cronache e atti notarili, ritrovati recentemente nell’archivio di stato di Trapani.
Nel secolo XIV, la città di Trapani aveva perso ormai il
suo legame con il Maghreb che era stato forte al tempo dei
primi Abbate, nel periodo normanno-svevo, e si trovò tutta
rivolta verso la Spagna, venendo presto invasa dai cavalieri
e mercanti catalani.
Solo due antiche famiglie resisteranno a questa ondata,
i Fardella e i Sigerio de Pepoli.
In questo contesto le cronache, gli atti, gli araldisti antichi riferiscono l’appartenenza di Misiligiàfari, come
baronia, a Francesco II Junior Ventimiglia, regio cavaliere e
familiare di Re Ludovico e di Federico III.
Federico III aveva impiegato Francesco nella sedizione dei tumulti del regno, nel triste periodo chiaramontano, e
gli aveva affidato il governo di Cefalù, nel 1364, dove risiedeva la corte e lo aveva premiato, per la sua fedeltà, con la
baronia di Misiligiàfari di Trapani.
A Trapani risiedeva lo zio di Francesco, Guidone, regio
consigliere, governatore della città e gonfaloniere del regno.
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E nel 1361, Guidone concluse a Trapani le trattative
del matrimonio di Francesco con Matilde Sigerio de Pepoli,
figlia di Covino II, regio consigliere e Signore di
Misiliscemi.
Questa è una testimonianza della grande importanza,
assunta dalle alleanze matrimoniali tra le famiglie che avevano il potere e larghi interessi sulla città di Trapani.
Eredi delle fortune normanne e sveve, le famiglie più
importanti della città (Abbate, Chiaramonte, Ventimiglia,
Passaneto, Sigerio, Emanuele, Fisaula e Fardella) sono fra
di loro strettamente imparentate e si tramanderanno titoli e
feudi, torri, palazzi e memorie.
Alcuni atti notarili del secolo XIV, riferentesi a legati o
donazioni religiose, ci trasmettono ancora il nome del feudo
di Misiligiàfari.
Il primo documento riguarda la fondazione di una cappella di famiglia, fatta da Riccardo de Sigerio, maestro razionale del regno, nella chiesa di San Domenico (cappella
dei Santi Apostoli).
La cappella venne ridotata da Matilde de Sigerio, moglie di Francesco Ventimiglia, Governatore della città di
Cefalù, con l’espressa ipoteca del territorio di Misiligiafari,
di cui quest’ultimo era barone (17a).
Nella stessa chiesa di San Domenico, Riccadonna de
Sigerio, vedova del nobile Filippo Emanuele dei baroni del
(17a) Atti notaio Nicolo Ligolio a 2 marzo 1360 e notaio Giovanni Sapienti a
13 ottobre 1369. I riferimenti notarili sono inseriti nel contesto dell’Albero
Genealogico della famiglia Sieri Pepoli, a sua volta contenuto in un
transunto, ad istanza di Fra Taddeo Sieri Pepoli Cav. Gerosolimitano di
Trapani, del notaio Vincenzo Spalla in A.S.T. - Not. Def. - vol. 11.362
minute - anno 1700-1701, atto del 14.12.1700, 9a ediz..
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Burgetto, Millusio e Culchasi, eresse e dotò un’altra cappella sotto il titolo di Santa Venera.
Riccadonna era sorella ed erede di Matilde e si obbligò
ugualmente a pagare il legato fatto da quest’ultima in favore
del convento di San Domenico (17b).
Lo storiografo barone Fogalli, nelle sue “Memorie Biografiche”, riporta, fra i beni posseduti dalla famiglia Sigerio,
anche il feudo di Misiligiàfari, che nel breve giro di pochi
decenni, nella seconda metà del secolo XIV, passerà, per
dote di paraggio o acquisto, dalla famiglia Ventimiglia alla
famiglia Passaneto ed infine ai Sigerio de Pepoli.
E’ Berardo Passaneto, barone di Bajda, erede tramite il
padre Filippo, del conte Ruggero sposato a Giacopina
Ventimiglia (figlia di Francesco) che vende il 23 dicembre
del 1372 a Salvatore de Sigerio, anche il “tenimentum” di
Misilixarari (Fontanasalsa).
Probabilmente Salvatore de Sigerio aveva comprato per
conto della sua famiglia, perchè, nel 1379 (14 giugno), in un
atto del notaio Francesco de Janca di Trapani, avviene l’assegnazione definitiva anche delle terre denominate
“Onfridica, Michilisafar, Recaldarari et Baiata”, a favore del
milite Francesco de Sigerio (figlio di Riccardo ed Elisabetta
Abbate), fattagli dai suoi fratelli Salvatore e Nicolò.
Si può arguire, dall’esame dei citati documenti, che i
tenimenti, sopra citati, luoghi di chiara origine araba, erano
(17b) Gli atti sono del notaio Giovanni Sapienti, datati 25 aprile 1362, a sua
volta transuntati presso il notaio Alemanno Zuccalà nel maggio del 1416,
il notaio Milo 14-7-1440, transuntati in notaio Cosenza in data 18-121692 - in A.S.T. - Not. Def. - Notaio Vincenzo Spalla - vol. 11362 - Anno
1700.
27
stati smembrati più volte tra i diversi componenti della famiglia dei Sigerio e affini (17c).
Il milite Francesco si era sposato due volte, con Antonia
Emanuele, figlia di Riccardo, barone del Culcaso (alias feudo
di Mangiadaini, passato poi ai Sigerio) ed in secondo luogo
con Perna Passaneto, figlia del barone Riccardo, famoso
personaggio della guerra del Vespro.
Una storia familiare complessa, fatta di alleanze, di ribellioni e fedeltà alla Corona, con passaggi notevoli dei beni
patrimoniali.
Infine il territorio di Misiligiàfari arriverà, per dote di
paraggio, ai Bandini, con il matrimonio di Antonio, governatore e capitano di giustizia del monte Erice (1397) e Senatore della città di Trapani, con Graziosa de Sigerio, figlia di
Covino III.
Dopo due secoli, verso la metà del ‘500, Misiligiàfari
passerà ai ravennati Abrignano, con il matrimonio di
Filippella de Bandino ed il Magnifico Don Giuseppe.
Un territorio con una storia infinita di famiglie, patrizie
e borghesi, che hanno segnato con grande evidenza gli
accadimenti della città falcata, fino all’età moderna, quando, con il crescere dell’istituto dell’enfiteusi, venne frammentato ancor di più, con il mutare dell’economia e delle
mode.
(17c) Atti rogati presso il not. Giovanni Sapienti di Trapani, a sua volta
transuntati in not. B. Cusenza - in A.S.T. - Not. Def. - vol. 11861 - Anno
1703-1704 minute
28
La Torrazza
È stata verificata, con un restauro adeguato, la consistenza antica della “Torrazza”, più volte modificata nel corso dei secoli, ad uso anch’essa di residenza, dapprima per
“usi campestri “e poi come “casa per villeggiare”.
Il panorama dei luoghi è ancora intatto, immerso in una
ordinata campagna, non degradata da abusivismi edilizi o
da coltivazioni improprie alle vocazioni naturali, contornata
nei pressi della Torre da due enormi e antiche cave, dette
“perriere di pietra Tipa”, trasformate, nel tempo, dopo vasta
utilizzazione, ad uso di giardini e da cui è stata estratta, nei
secoli XVII e XVIII, larga parte di quel tufo compatto, usato
per la costruzione delle facciate di chiese e palazzi nobiliari
del barocco trapanese.
Il microclima delle cave protegge dall’azione eolica una
flora endemica notevole, utile come sussidio allo studio della botanica del territorio.
Esaminando, conseguentemente, il “Castellaccio”, alla
ricerca delle sue rovine, conosciute dal Pugnatore, dopo
un’indagine accurata delle sue pendici, si riesce ancora oggi
ad individuare, sulla sua cima, all’interno di una radura di
forma rettangolare, di circa mille metri quadri, il basamento
massiccio, in parte coperto da terriccio, di una costruzione o
29
fortilizio molto antico, contornato, almeno su di un versante, da una gradinata di tufo.
I quattro lati del rettangolo terminano in quattro crateri, ripieni di pietre arrotondate “del Monte”, alla maniera di
quattro torrette angolari, distrutte e precipitate lungo il pendio della collina.
Sono queste le rovine del Castellaccio o fortilizio arabo, ipotizzato dallo storico Pugnatore?
Sembrerebbe di si.
La sua probabile conformazione strutturale potrebbe
essere similare al fortino quadrangolare, attribuito agli Arabi, in tutto simile ad un castrum bizantino, del Carboi, presso Sambuca di Sicilia, nella conca del lago Arancio (18).
In realtà è anche tipologicamente affine ai qsr e biribat
arabi della Ifryqia.
La differenza tra le due fortificazioni sta nel fatto che il
Castellaccio trovasi su di un colle, alto oltre cento metri, da
cui si domina un vasto territorio, mentre il fortino o il recinto del Carboi trovasi dislocato in un fondo valle.
Invero motivi di ordine storico portano gli studiosi a
sostenere che gli arabi non abbiano prodotto una grande
quantità di opere difensive e che si siano limitati, come
sostiene il Santoro (19), a rimettere in sesto le fortezze
ereditate dall’Impero bizantino, di cui è invece ampiamente documentata la notevole capacità difensiva, apprestata infatti dai “romaioi” prima e durante l’invasione araba in Sicilia.
(18) Santoro, R., La Sicilia dei Castelli. La difesa dell’ Isola dal VI° al XVIII°
sec. storia ed architettura, Palermo, 1985.
(19) Santoro, R., op. cit., pp. 13-18.
30
Non occorre dimenticare la vicinanza estrema tra i due
siti, tra il Castellaccio e il Manzil di Giafar, la cui concomitanza parrebbe giustificare la tipologia abitativa, già sostenuta dal Caruso e poi dal Peri.
Noi non conosciamo le fonti del Pugnatore, probabilmente cronache antiche, ormai scomparse, o storie popolari
tramandate oralmente attraverso i secoli; ma sembra assodato
che lo storico abbia almeno visto più consistenti rovine rispetto al tempo attuale.
Ormai, infatti, ben poca cosa rimane del fortino detto
“Castellaccio” e solo una accurata indagine archeologica
potrebbe portare nuova luce al fine di potere applicare con
sicurezza distinzioni e classificazioni degli impianti rimasti
sul luogo.
Come d’altronde è avvenuto altrove che antiche
fortificazioni sono scomparse quasi totalmente in
ristrutturazioni di opere successive o i materiali da costruzione siano stati utilizzati nelle vicinanze per opere successive, case di abitazione, masserie, non è improbabile che ciò
sia pure avvenuto sul Castellaccio, dove esistono, attorno
alla sua cintura, ville e residenze, databili tra i secoli XVII e
XVIII, come villa Alestra-Staiti, villa Martorana e casa
Munna, le cui parti inferiori sono molto antiche.
E’ certo anche che negli atti notarili i due toponimi
Castellaccio e Misiligiafari, spesso dagli ufficiali pubblici
vengono utilizzati indistintamente o travasati, l’un dall’altro e viceversa.
Sulle basi comuni etnologiche dei due luoghi, ci
sovviene non inaspettatamente il mondo delle leggende popolari, ricco di fantasie, storie tramandate oralmente attraverso il tempo.
31
Da sempre i vecchi del luogo raccontano storie di
camminamenti sotterranei, tra il pozzo detto “Dragonara”
(antico e profondo pozzo arabo, vicinissimo alla “Torre”), la
Torrazza ed il Castellaccio (20).
Spedizioni speleologiche improvvisate sono naufragate nel nulla. Rimangono dubbi, interrogativi sospesi nel gioco della memoria tradita dal tempo che tende a cancellare
tracce del passaggio degli uomini.
Una leggenda popolare sul Castellaccio sopravvive
ancora oggi, quella della “truvatura incantata”, del tesoro
nascosto sulla cima del colle.
Chi si presenterà, a mezzanotte in punto, sulla radura
delle rovine del Castellaccio, recita la leggenda, e sarà riuscito a fare la conta, senza averne perduto alcuno, dei chicchi di
una melagrana, avrà il piacere di vedere apparire il saraceno,
posto a guardia, che aprirà il tesoro al fortunato esploratore.
Una leggenda antica che da sempre, a Paceco, ha trovato riscontro tra la popolazione che la tramanda, di generazione in generazione.
Ambientata nel periodo arabo, come la storia del pozzo
“ Dragonara” il cui nome ci fa riflettere sulla persistenza
notevole di quasi tutti i toponimi arabi della zona, la leggenda della “truvatura” è similare, almeno nella parte finale ad
una di quelle raccontate dal letterato ericino Ugo Antonio
Amico (21), ovvero “Chianamusta e Sant’Elia o il tesoro
nascosto e la Bellina”.
(20) Il pozzo è detto “Dragonara”, perchè, secondo gli antichi contadini, era
stato scavato, incidentalmente, da una tromba d’aria ciclonica che aveva
colpito quel punto del territorio di Misiligiafari.
(21) Amico, U.A., Leggende popolari ericine, Palermo,1886.
32
Trattasi di una leggenda ericina sul tesoro dei
Chiaramonte, a sua volta recentemente e ampiamente
rielaborata da Vincenzo Adragna (22).
Erice, la Gebel Hamid degli arabi è ricca di storie e
leggende e quella testè citata presenta qualche affinità con la
“truvatura” del Castellaccio, quasi una trasposizione nella
pianura del patrimonio etnologico dell’antica civiltà ericina.
La risultante è che i luoghi descritti, Misiligiafari e
Castellaccio, sono contigui, non solo geograficamente ma
anche nel patrimonio dell’immaginario collettivo, tramandato, attraverso i secoli, sulla base di una comune origine
storica e antropologica.
(22) Adragna, V., La messa del prete morto. Leggende, fantasie ericine e mimi,
Palermo, 1980.
33
34
Delle Torri rusticane o extraurbane
La torre di “Misiligiàfari”, denominata la “Torrazza”
in molti documenti notarili e pubblici, con la sua mole severa, senza decorazioni architettoniche manieristiche o barocche, si staglia dominatrice su larga parte della pianura di
Trapani e la si può accomunare a certe costruzioni quattrocentesche, pur nelle superfetazioni successive che ne hanno
leggermente modificato l’aspetto originario.
La sua datazione non è un problema semplice, come
d’altronde anche quello di molte altre torri rusticane e costiere o demaniali.
La letteratura storiografica sulle torri siciliane si rifà
principalmente ad alcuni studi o relazioni antiche sulle torri
marittime demaniali (23).
Molto poco invece è stato scritto sulle torri di campagna o feudali (24).
(23) Mazzarella,S.-Zanca,R., Il libro delle Torri, Palermo, 1985.
Maurici,F., Le torri costiere della Sicilia, Palermo, 1985.
La Duca,R., Torri delle coste di Sicilia, in “Vie Mediterranee”, 26, 1960.
Guida,C., Trapani durante il governo del Vicerè G.de Vega, Trapani, 1930.
(24) Trasselli,C., Da Ferdinando il Cattolico a Carlo V, Soveria Mannelli (CZ),
1982, vol.I, pp.270-274.
35
Della torre di Misiligiafari non rimane traccia presso
gli storici e annalisti trapanesi, nè vi sono cenni sulla sua
esistenza nelle celebri relazioni di Tiburzio Spannocchi
(1578), dell’architetto fiorentino Camillo Camilliani sulle
Torri marittime del Regno (1583) nè nel trattato sulle Torri
di guardia del Marchese di Villabianca (25).
Una prima ipotesi sulla sua datazione e sulla sua appartenenza, porta il ricercatore a ricondurre e a legare la storia
della torre a quella ben più vasta della famiglia Fardella che
da oltre due secoli la possiede ininterrottamente.
La ricerca, dedicata dal Trasselli (26) ad uno dei personaggi chiave della storia trapanese del ‘400, Antonio Fardella
Vice Ammiraglio, fa rilevare un primo legame della famiglia con la storia delle Torri marittime nel trapanese.
Re Martino, in un suo decreto del 1405 per contrastare
l’assalto continuo di navi corsare, provenienti dalla Barberia,
decise di armare alcune navi a difesa delle Sicilia e di costruire alcune case e torri di guardia, “in capite de pulcellis,
in cala sancti Viti et in capite de Cofano”, nella vicinanze
della città.
Avrebbero contribuito alla spesa diverse terre e città
del regno, proporzionalmente, e furono incaricati di recarsi
a riscuotere proprio Antonio Fardella e il nobile Covino Riccio, con l’autorizzazione per altro, se necessario, di imporre
una speciale tassa.
(25) Camilliani,C., Descrittione delle Torri Maritime del Regno, ms. in B.C.P.
ai segni Qq.D.188 e Descrizione della Sicilia in “Bibl. St. e Lett. di Sicilia”,
serie II, vol.VII, Palermo, 1877.
Emanuele e Gaetani, F.M., Torri di guardia per li fani o sian fuochi di
avviso nè littorali della Sicilia, 1797, Ms. in B.C.P. ai segni Qq. E.97.
(26) Trasselli,C., Antonio Fardella vice Ammiraglio di Trapani, Tp., 1951.
36
Ciò dimostra quanto il personaggio e la sua famiglia
fossero stimati e tenuti in alta considerazione presso la
corte.
D’altronde non è l’unico episodio nel quale i Fardella
compaiono legati a costruzioni o compravendite di torri urbane e rusticane.
Già in un atto notarile, datato 27 marzo 1399, del notaio
Francesco de Ianca (27), l’unico notaio trapanese del secolo
XIV di cui rimangono alcuni quinternioni presso l’Archivio
di Stato di Trapani, è registrata una “venditio pro nobile Nicolao
de Naso cum nobile et egregio viro Antonio Fardella”.
Antonio Fardella, il futuro vice almirante di Trapani,
vende “in nomine proprio” ed anche come tutore dei figli
del defunto fratello Giacomo, un luogo di terre con giardino
in rovina, vigna ed una “torricula sic dicta di misser Lanzuni
Fardella”, posta nel territorio della terra di Trapani ed in
contrada “plantearum” ovvero sia delle “vigne”.
La torre confina con le terre del nobile genovese
Palmerio Spinola, della sorella Costanza Fardella, sposata
ad Antonio Thalac, catalano, nipote di Ugone di Thalac, gran
siniscalco del Regno, e con la vigna dell’ammiraglio genovese Piscator.
L’atto conferma le strategie familiari e le alleanze matrimoniali di casa Fardella, nel secolo XIV, tanto più se si
considera che Antonio è sposato a Perna Ventimiglia (28),
figlia del conte Francesco Jr., celebre personaggio della nobiltà siciliana ed uomo di stato.
(27) A.S.T., vol.12246, 1703-04, transunto not.Domizio Montalto.
(28) A.S.T., not. Domizio Montalto, vol.12246, 1703-04, “Fides copiae
originalis Privilegij” tratta dal not.Bartolomeo Cusenza.
37
D’altronde Francesco Ventimiglia, attraverso il matrimonio con Elisabetta di Lauria, è nipote di Ruggero di Lauria,
l’ammiraglio della guerra del Vespro, e genero di Albertina
degli Abbate, cugina del Santo, da cui eredita il palazzo della famiglia ad Erice, sul quale fonderà il convento e la chiesa di San Francesco, oggi sede del Centro internazionale di
Fisica “ E. Maiorana” (29).
La descrizione della vendita della torre o meglio del
sito sul quale è posta, è notevolmente simile a quello delle
future descrizioni della torre di Misiligiafari.
Il dubbio rimane e l’incertezza della sua identificazione con quella citata nel documento, forse è da addebitarsi ad
una errata decodificazione paleografica dell’atto notarile
transuntato, con imperizia, nel 1703, dal notaio trapanese
Domizio Montalto.
E’ certo, comunque, come sostengono Henri Bresc
e Lucia Sorrenti, che hanno analizzato il territorio e la
proprietà fondiaria trapanese dal ‘300 al ‘400, che una
parte della cintura periferica della città e delle sue campagne, era già largamente coltivata a vigneto nel secolo
XIV (30).
L’individuazione della torre di Misiligiafari con la torretta di Misser Lanzuni (Lancellotto) è piena di fascino e
non da scartare a priori.
(29) Castronovo,G., I conventi di Erice, Palermo, 1872.
Mugnos,F., Teatro genologico, Palermo, 1647-70, ad vocem.
Motta,G., Strategie familiari e alleanze matrimoniali in Sicilia nell’età
della transizione (secoli XIV-XVII), Firenze, 1983.
(30) Bresc,H., Un Monde Méditerranée-économie et société en Sicile 13001450, Rome, 1986.
Sorrenti,L., Il patrimonio fondiario in Sicilia. Gestione delle terre e
contratti agrari nei secoli XII-XV., Milano, 1984.
38
Lanzone, regio cavaliere, è il primo dei Fardella che arriva a Trapani da Messina, con la famiglia, verso il 1335/40.
Re Pietro gli aveva concesso una pensione di onze 20
annuali e di re Ludovico, si dice, fosse familiare.
La venuta a Trapani è da collegare, in quanto regio funzionario, alla riparazione delle fortificazioni della città, cui
era stato destinato insieme a Berengario Buccardo (31).
Delle torri antiche extraurbane, in Sicilia, si è occupato, incidentalmente, ma con una documentazione accurata,
il Trasselli (32), il quale sostiene che dal secolo XIV era
vietato costruire torri che potevano diventare fortilizi e centri di guerriglia.
Poi, sotto re Martino, le cose cambiarono.
Una prammatica, in origine paragrafo di un privilegio
concesso a Catania, mutò la situazione e s’incominciarono a
costruire palazzi in città e torri nelle campagne.
La torre o la fortificazione costituiscono, nel secolo XV,
un centro organizzato per resistere a brevi assedi, non un
centro di partenza per battaglie in campo aperto.
Ma le torri, conclude il Trasselli, svolgono una funzione
anche di magazzino per la raccolta dei prodotti dell’agricoltura.
Lo storico cita molti esempi di costruzione di torri e di
collocazione di merli.
Sono per lo più torri a difesa di vigne, per la sicurezza
dei lavoratori in campagna, oppure torri a decoro di architetture urbane.
(31) Fardella,G., Annali della Città di Trapani, 1810, Mms. 193 e 266 in B.F.
e Brogliaccio originale conservato nella Biblioteca di famiglia del
Marchese Enrico Fardella di Torrearsa.
(32) Trasselli,C., op.cit.
39
La documentazione, tratta dai registri della
Conservatoria dell’Archivio di Stato di Palermo, è interessante, anche se non completa, e pone interrogativi e quesiti
sulla nascita dei ceti medi e sulla feudalità minore in Sicilia.
Un esame a fondo del territorio suburbano della città di
Trapani, ci porta a tenere in considerazione le vestigia
architettoniche rusticane del basso medioevo, sopravvissute, e ad alcune documentazioni rimaste in atti notarili.
La torre del Ponte Salemi, sulla omonima strada provinciale, a circa un chilometro dalla città, è una di queste
vestigia.
La sua forma strutturale é antica, ma reca chiari segni
manieristici, almeno della metà del secolo XVI, forse aggiunti più tardi, che inequivocabilmente ne hanno segnato
l’aspetto.
Appartenne, insieme ad un vasto vigneto, fin dalla fine
del sec.XVI, alla famiglia Fardella dei Marchesi di San Lorenzo e nel 1623 fu lasciata in eredità al figlio Diego, dal
principe di Paceco, Placido I (33).
La torre di Marausa, posta nei pressi del centro abitato
dell’omonima frazione, oggi ridotta ad un misero moncone,
dopo il suo assurdo abbattimento, avvenuto pochi anni or
sono, è sicuramente almeno quattrocentesca.
Appartenne, insieme al territorio circostante, nel basso
medioevo, alla famiglia De Simone, successivamente ai De
Vincenzo, signori di Marausa ed infine all’Ordine
francescano che vi aveva eretto attorno una chiesa campestre, anch’essa ridotta oggi in stato fatiscente (34).
(33) A.S.T., Not. Pietro Cannizzaro, anno 1623.
(34) Fardella,G., op.cit.
40
Nel 1461 il nobile cavalier Pietro del Bosco cedeva in
affitto, ad Aloisio de Furistero di Trapani, una parecchiata e
mezzo di terre nei pressi della torre di Dattilo che doveva
essere riparata (35).
Della torre apparentemente non rimane traccia, al meno
che non sia rimasta inglobata nel baglio cosiddetto “vecchio”
della contrada o sia da cercare in simili costruzioni nei pressi
dell’attuale abitato, trasformata più volte, nei secoli, tanto da
sembrare oggi molto più tarda nell’aspetto esteriore.
Infine occorre ricordare una torre rusticana, a pochi
chilometri da Paceco, collocata su di una piccola altura, nel
cuore del “tenimentum” di origine araba, Misiliscemi.
La torre appartenne quasi ininterrottamente all’antica e
nobile famiglia trapanese, trecentesca, dei Sigerio, più tardi
denominati Sieri Pepoli (36).
La torre è l’unica ad essere rimasta pressoché intatta,
attraverso i secoli, con la sua forma quadrata, i suoi merli
guelfi, le sue finestre piccole, a forma ogivale ovverosia ad
arco inflesso.
A dimostrare la sua antichità, come per quella di
Misiligiafari, basta osservarne la struttura in pietra mista,
con gli angoli ben squadrati in conci di tufo locale.
Nella ricerca ci viene in aiuto uno studioso di araldica, Giuseppe Monroy di Pandolfina, che nella sua “Storia di un borgo feudale del ‘600- Paceco” (37), scriven-
(35) A.S.T., Not. F.Formica, 1461 e cfr. tesi di laurea di G.Barraco (1969-70)
su Reg. Not. di F.Formica (1461), doc. n.31, p.77.
(36) Barberi,G.Luca, I Capibrevi, vol.III, I Feudi della Val di Mazzara, Pa,
rist. an. 1985.
(37) Monroy,G., Storia di un borgo feudale del ‘600 Paceco, Tp., 1929.
41
do del territorio, accenna al casale arabo di Misiligiafari
e alla torre.
Sostiene il Monroy che la torre esisteva al tempo dei
disordini trapanesi del 1516/17, periodo in cui rimase anche
danneggiata e fu posteriormente rifatta.
Apparteneva, secondo Monroy, al nobile trapanese
Lanzone Fardella.
La notizia non è suffragata da documenti, ma certamente
va tenuta in considerazione, in quanto l’araldista si rifaceva
sicuramente al suo Archivio personale, il Monroy-Derix, da
lui stesso spesso citato, vasta documentazione storico-familiare sui Fardella, da cui discendeva, per linea femminile,
l’autore.
L’archivio scomparve in maniera misteriosa, alla morte dell’autore.
Il Monroy si riferisce ai tumulti, avvenuti in diverse
città siciliane, subito dopo la morte di Ferdinando il Cattolico, al tempo del Vicerè Moncada.
I disordini di Trapani erano dovuti, sostiene Trasselli (38),
agli attacchi che altre famiglie tentavano di portare contro le
posizioni conquistate dai Fardella che già, nel secolo precedente, aspiravano ad una signoria di fatto su Trapani, come ha
anche evidenziato lo storico francese H.Bresc (39).
Le torri, nel contesto di queste lotte interne e dei disordini che costellarono la prima metà del secolo XVI, a Trapani, ebbero un’importanza notevole per quanto riguarda le
comunicazioni tra le parti avverse.
(38) Trasselli,C., op.cit., p.679.
(39) Bresc,H., op.cit., p.731.
42
Misiligiafari comunicava, attraverso i fuochi, i cosiddetti “fani”, con la torre costiera di Nubia, che apparteneva
anch’essa alla famiglia Fardella (40).
E’ certo che, nella seconda metà del secolo XVI, già quasi
tutto il territorio a sud-ovest di Trapani, compresa larga parte
delle saline, apparteneva alla famiglia Fardella di San Lorenzo.
La sola baronia di San Lorenzo la Xitta era compresa
entro i seguenti confini: “item baroniam et terram santi
Laurentij la Citta cum eius castro stantijs domibus loherijs
territorijs marcatis terris xaribus iuribus et pertinentijs suis
universis cum suo integro statu iurisditionibus ad eam
spettantibus et pertinentibus, existentem in Valle Mazarie et
in Contrata sic ditta di la Xitta confinatam cum littore maris
cum via per qua itur ad civitatem Salem cum baronia fontis
salsae cum marcatis di li petri tagliati cum vinealibus di
Misiligiafari et di lo Castillazzo et aliis confinibus”.
Anche il marcato di terre, denominato di Santa Margherita, appartenente anche alla famiglia Fardella, confinava dalla parte di occidente, con le terre “di lo Castillazzo” e
dalla parte di oriente con le vigne “di la Baiata” (41).
L’esame dei confini delle terre dei Fardella è utile per
delimitare e determinare l’esatta posizione topografica e l’appartenenza della proprietà, del territorio di Misiligiafari in
cui è posta la torre.
Infatti le vigne di Misiligiafari e di Castellazzo, prima
di passare definitivamente ai Fardella di Moxharta e agli
(40) Monroy,G., op.cit., p.36, cfr. anche Gregorio,R., Dei segni che si danno
in Sicilia per mezzo del fuoco, detti volgarmente fani, Ms. in B.C.P. ai
segni Qq.F.64.
(41) A.S.T., Not. G.V.Vitale, vol.9903 bis, anno 1595.
43
Staiti, rimasero in possesso, per tutto il periodo dal basso
medioevo fino alla metà del secolo XVIII, della famiglia
Bandino e poi dei baroni Abrignano e loro eredi (Ciambra,
Algaria e Gambacorta, Cadelo) (42).
Alcune vendite intermedie e concessioni enfiteutiche
“cum pacto reddimendi”, portarono larga parte di
Misiligiafari e la sua torre, dalla metà del secolo XVI fino
alla metà del ‘700, nelle mani di altre famiglie, come i nobili di origine dalmata, Lo Valvo, ed i senatori Tipa, ricchissimi imprenditori di origine napoletana, arrendatari di
fondaci di sale, imparentati con i Moxharta e i Torrearsa, e
che utilizzarono la terra e soprattutto le cave di pietra
tufacea, vicine alla torre, per estrarne i conci di tufo che
servirono a tutta la città di Trapani per edificare magnifici
edifici civili e religiosi.
(42) A.S.T., Not. F.De Ianca, vol.8524, anni 1391-1398.
A.S.P. - Tribunale del Regio Patrimonio, Riveli, Tp, vol.764, anno 1623
(Rivelo di C. Abrigrano).
Fardella.G., Annali, Brogliaccio orig. della Biblioteca del Marchese
Fardella, ad annum indiz.1392-93.
44
La Torre e i Lo Valvo.
Il 12 gennaio del 1571, quindicesima indizione, moriva nella città di Trapani il nobile Tommaso Lo Valvo (43).
Due giorni dopo la sua morte, veniva pubblicato, presso
la regia Curia Capitaniale, il suo testamento in cui istituiva
erede o eredi universali il figlio o i figli che sarebbero nati
dalla moglie Vincenziella, in quel momento in stato di gravidanza.
Istituiva tutori e curatori dei suoi interessi, il fratello
Luca Lo Valvo ed il suocero Bernardo Bertoluccio, incaricandoli di procedere al debito inventario dei suoi beni.
I due tutori “in dicta haereditate dixerunt invenisse
bona infrascripta” e precisamente: “in primis certas terras
ad summam miliarum octo in circa cum alijs miliarijs tribus
plantarum et terris scapulis ad summam salmarum trium
in circa cum loco viridario turri et amagazeno coniuncto
cum dicta turri ex parte occidentis cum alia domo comuni
cum haeredibus quomdam Antonii Lo Valvo, existentes in
territorio huius universitatis drepani et in contrata di
(43) A.S.T., Not. G.V.Vitale, atti del 14 e 15 gennaio dell’anno 1571, vol 9897
(1571/72).
45
Misiligiafari confinantes cum loco vineis et terris dicti
nobilis lucae ex parte meridiei cum via Mazariae ex parte
occidentis cum terris spectabilis Iacobi Fardella baronis
ex parte septentrionis et cum terris magnifici Antonii
Morana Barlotta et haeredum quomdam Antonii Lo Valvo
ex parte orientis”.
Questo è il primo documento notarile certo in cui compare la torre di Misiligiafari.
Seguono poi gli altri beni, tra i quali la metà di un palazzo signorile nella contrada della “ruga nova”, dove abita
pure il fratello Luca.
I beni, viene sottolineato da parte del notaio, sono gravati “cum omnibus illis oneribus ad que dicta bona sunto
obligata iuxta formam scripturarum” e ciò fa pensare ad una
proprietà acquisita mediante l’istituzione del censo
enfiteutico.
Infatti la nuda proprietà di Misiligiafari e della sua torre apparteneva, in questo periodo, alla famiglia del Magnifico Don Giuseppe de Abrignano, erede, per via matrimoniale, delle fortune dei Bandino e del titolo di barone dell’Isola
e Salina di San Giuliano, di cui era stato investito nel 1550
da Carlo V (44).
L’inventario di Tommaso Lo Valvo prosegue con la
descrizione minuziosa di tutti gli altri beni, rinvenuti nella
(44) Fardella,G., Annali, ad vocem Abrignano.
Benigno (Padre) da S.Caterina, Trapani profana, 1810, Ms. 199 in B.F.,
ad vocem Abrignano.
A.S.P., Conserv. di Reg. Invest., vol.1132, f.373 (1550).
A.S.T., Not.G.Lopes, vol.10503, anni 1630/32, transunto di una Fede
del Not. Scichili conserv. Actorum del Not. G.Crivaglia.
A.S.P. - Trib. del Real Patrimonio, Riveli, Tp, vol.746, anno 1593 (Luca
Lo Valvo).
46
torre, tra i quali, gli animali da lavoro ed il bestiame, una
serie interminabile di strumenti da lavoro agricolo, il
palmento con le sue botti per il vino, trentotto faxselli di api,
perfino “uno arcabuxio alantica curto”.
Interessante è l’inventario dei beni nella casa di città,
con un elenco notevole di fine biancheria e coperte, mobili,
gioielli e coralli, e perfino un corredo per il neonato atteso
ed è da segnalare “uno cannistro di figliari con tri faxaturi”
che getta una luce di tenerezza e tristezza in una prospettiva
di una casa senza padre, morto improvvisamente e inaspettatamente.
Il testamento di Tommaso Lo Valvo, che precede l’inventario dei beni, viene aperto il 14 gennaio 1571 ed è siglato da testimoni che fanno parte della migliore nobiltà
trapanese.
Dall’atto si evince che Tommaso è di una famiglia
agiata, in quanto lascia legati alle più importanti istituzioni religiose della città e viene sepolto nella chiesa di
S.Agostino.
Non è stato facile determinare le origini della famiglia
trapanese Lo Valvo, ascesa, secondo il Fardella, ai gradi nobili della città nell’anno indizionale 1711/12 (45).
Poche sono le notizie rinvenute presso gli analisti e storici locali.
Sembra assodato che i primi Valvo o Lo Valvo, o meglio Lo Balbo, come appare da alcuni documenti, ad arrivare nella città, nella prima metà del secolo XVI, furono i fra-
(45) Fardella,G., Annali, Ms. in copia datt.,p.145 (Lo stemma dei Lo Valvo è
costituito da un campo verde con una cerva bianca).
47
telli Battista e Luca, capitano di galera della Squadra Reale
di Sicilia.
Probabilmente venivano da Napoli, in quanto al servizio del Re, come militari, ma la loro origine è certamente
dalmata, o per dir meglio ragusea.
Balbo è cognome, dice De Felice (46), diffuso in tutto
il nord, a Genova e a Trieste soprattutto, con la variante fonetica Lo Valvo nel napoletano.
Alla base del cognome, sta il soprannome Balbo che
continua il cognome neolatino dell’età repubblicana Balbus,
formato dall’aggettivo balbus “balbuziente”.
A conforto delle tesi sopracitate, possiamo affermare che nell’anno indizionale 1547/48 Luca Lo Valvo divenne Vice Almirante di Trapani e Console delli Ragusei,
in sostituzione del fratello Battista, forse morto in quell’anno.
Il 10 dicembre 1555 Luca compra la salina della Calcara
dal nobile Francesco di Alfonso ed un secolo dopo, un suo
nipote Antonio, nel 1651, compra da Don Gaspare Fardella,
il territorio di Borromia.
Il nipote del Vice Almirante, Luca, diverrà giudice
di appellazione nel 1597-98 e giudice del magistrato nel
1622-23.
Altri, come Tommaso, saranno giudici del magistrato
municipale, più volte intorno alla metà del secolo XVII, ed
infine Francesco Lo Valvo sarà Senatore della città dal 1711
al 1714 (47).
(46) De Felice.E., Dizionario dei cognomi italiani, Milano, 1978.
(47) Fardella,G., op.cit., ad Annum indiz.
48
A conferma della presenza dei Lo Valvo nel territorio
di Misiligiafari, ci vengono in soccorso i Riveli del Regno
di Sicilia.
Nel Rivelo del primo maggio 1593, Luca Lo Valvo, fratello di Tommaso, morto nel 1571, ed ambedue figli di
Bartolomeo, dichiara una vigna nel territorio della città ed
in contrada di Misiligiafari.
Il valore della vigna è di trecento onze ed essa confina
con le terre di Gaspano Fardella e con le vigne di Jacobo
Morana.
Sulla vigna, Luca Lo Valvo, paga annualmente onza
una e tarì quindici al barone Onofrio de Abrignano, jure
proprietatis, a ragione di censo come dagli atti di notar Masi
Lo Crasto (48).
Una donna Giacoma Lo Valvo, sposò verso la fine del
‘600, Don Rosario Fardella, sindaco di Trapani nel 1698-99,
padre di Giuseppe, I° Marchese di Torrearsa.
Sarebbe riduttivo datare al 1571 la costruzione della
torre di Misiligiafari e legarla solamente alla storia della famiglia Lo Valvo, in quanto altri elementi interessanti riportano indietro nel tempo questo monumento che, attraverso
un restauro cautelativo, è rinato a nuova vita.
Uno scudo araldico, scolpito in pietra tufacea, è rimasto su di una parete esterna della torre, quella rivolta verso il
Castellaccio, a testimoniare la presenza degli antichi padroni, gli Abrignano.
Lo stemma reca le armi della famiglia: “un castel d’oro
con tre torri sopra, in campo rosso”.
(48) A.S.P. -Trib. del Real Patrimonio, Riveli, Tp, vol. 746, anno 1593.
49
Quando fu collocato lo stemma sulla parete della torre? E perchè in quel punto?
Si può ipotizzare che, da quella parte della torre, si apriva
l’antica porta d’accesso, in direzione della vecchia scala interna, in pietra tufacea, ora riportata alla luce, che conduceva ai piani superiori.
Usualmente gli stemmi araldici venivano collocati sopra i portoni d’accesso ai palazzi o alle torri.
Perchè non in questo caso? E gli Abrignano quando
entrarono in possesso della torre?
Sicuramente fin dagli inizi del 1548, quando Giuseppe
de Abrignano sposa la magnifica Filippella, figlia dell’ultimo dei Bandino, il prefetto Martino.
Lo si deduce dall’atto di investitura, del 1556, dello
stesso Giuseppe, del titolo di barone, riportato in un transunto
del notaio Giovanni Lopes del 1630.
Purtroppo il contratto matrimoniale del 13 febbraio
1548, tra Giuseppe e Filippella, registrato dal notaio trapanese
Giacomo Crivaglia, è andato perduto, perchè, nel caso contrario, conosceremmo oggi altre preziose notizie.
La torre ricompare in un documento del 1623 (49), un
rivelo di beni e anime di Don Cristoforo de Abrignano.
Cristoforo è uno degli ultimi Abrignano di Trapani e il 1623 è una data in cui la famiglia si avvierà inesorabilmente verso la decadenza economica e sociale,
dalla quale non riuscirà più ad uscire, fino alla totale
estinzione.
(49) A.S.P. - Trib. del Real Patrimonio, Riveli, Tp, vol. 764, anno 1623 (Rivelo
di C.Abrignano).
50
Le cause di questa decadenza sono soprattutto da individuare nelle doti di paraggio non soddisfatte in pieno alle
figlie e sorelle dagli ultimi baroni Onofrio e Cristoforo.
Le doti di paraggio furono argomento di diatriba e causa
di rovina economica per molte famiglie nobili siciliane (50).
Tra i suoi beni stabili, Cristoforo dichiara “una vigna
di migliara vinti cinco di chianti di anni tri infruttiferi in
contrata dello Castillazzu confinante con li vigni del don
Gioseppi di Vincencio con li vigni del quomdam Jacono
Fardella di luna et laltra parti con sua turri et fabrici valutando detti terri et fabrici alla somma di onze seicento”.
Ancora una volta i toponimi di Castellaccio e Misiligiafari,
estremamente contigui, vengono travisati e travasati.
Nel Rivelo il dichiarante prosegue evidenziando i suoi
“censi proprietari” con due elenchi di nomi, uno per le terre
di Misiligiafari ed uno per le terre di Castellaccio.
Misiligiafari, o almeno la parte rimasta agli Abrignano,
comprendeva ventitré censisti per un totale di oltre trentasei
salme dell’antica corda del Monte S.Giuliano, mentre
Castellaccio comprendeva quarantaquattro censisti per un
totale notevole di ben trecentotrentuno salme di terra, che si
estendeva allora fino a “Margherita”.
Le gravezze stabili e mobili ascendevano, però, a oltre
tremilanovecento onze e la problematica investe uno studio di
natura economica e sociale molto ampio; qui occorre rilevare
ancora una volta l’importanza di questi antichi Riveli, similari
per certi versi alle moderne dichiarazioni del reddito (51).
(50) Davies,Timothy, Famiglie feudali siciliane. Patrimoni redditi investimenti
tra ‘500 e ‘600, Cl-Roma, 1985.
(51) Ercole,F., I Riveli di beni e di anime del Regno di Sicilia, Roma, 1931.
Titone,V., Riveli e Platee del regno di Sicilia, Milano, 1961.
51
52
I Tipa e le cave di pietra
Attraverso una lunga relazione del notaio F.Paolo Lo
Meo di Palermo, contenuta in un atto di transazione e concordia del 29 settembre 1807, conosciamo le vicende giuridiche ed economiche dei beni ereditari della famiglia
Abrignano (52).
Una soggiogazione “vigore capitulorum matrimonia
lium inhitorum et firmatorum” (contratto matrimoniale tra
donna Girolama Abrignano, sorella dell’ultimo barone, e
Giacomo Fardella della Moxharta del 1606), aveva creato
una diatriba interminabile presso il tribunale della Magna
Regia Curia, tra i vari eredi e successori nelle proprietà, costituite anche dai censi su Misiligiafari (53).
Infatti Misiligiafari e la sua torre erano state acquisite,
presso la metà del ‘600, dall’avvocato Diego Ciambra, cognato di Cristoforo Abrignano, ultimo barone della famiglia,
e successivamente dagli eredi di Don Diego, ovvero sia dalla famiglia dei Baroni Gambacorta e Algaria di Palermo (54).
(52) A.S.P, Not. Lo Meo, F.P., atto del 29.9.1807 e sua ratifica in Trapani in
A.S.T., Not. G.Montalbano, vol.15414, atto del 16.10.1807.
(53) A.S.T., Not. Melchiorre Castiglione, vol.10007, anno 1606.
(54) San Martino De Spucches,F., La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di
Sicilia, Palermo, 1924-1933, IV, quadro 493, p.258.
53
I Gambacorta e Algaria vendettero nel 1671 ad Antonio Tipa, celebre armatore e arrendatore di sale, il luogo denominato la “Torrazza”, per un capitale di 600 onze “cum
facultate tamen reddimendi” (55).
I Tipa appartenevano ad una famiglia di imprenditori
rampanti, una nuova classe sociale, la borghesia, poi divenuta nel secolo XVIII piccola nobiltà, subentrante nel possesso della proprietà fondiaria e immobiliare alla vecchia
classe di potere, costituita dagli eredi dei regi milites
normanno-svevi e aragonesi-catalani.
Porteranno sangue nuovo nella nobiltà locale, tramite
matrimoni e parentele, ma porteranno soprattutto ingenti somme di denaro, una grande liquidità economica necessaria.
I Tipa ascenderanno in grande prestigio nella città di Trapani, imparentandosi dapprima con i Brignone, genovesi, ricchi armatori e gabelloti di saline e tonnare, successivamente
con i Fardella di Moxharta e poi con gli Staiti delle Chiuse.
Arrivarono in città, molto probabilmente, agli inizi del
secolo XVII, da Napoli (56), per motivi commerciali, attratti dai traffici del porto da dove si caricavano per vie lontane
ingenti quantità di sale e di tonno, non tralasciando di tenere
contatti stabili e proficui con la città partenopea, dove tenevano palazzo e fondaci (57).
(55) A.S.P., Not. F. La Bella, atto del 5.5.1671 e A.S.T., Not. G.Di Blasi,
vol.11238, atto del 21.5.1680.
(56) Burgio,N., La discendenza di Achmet, Trapani, 1786, p.82
Benigno (Padre) da S.Caterina, Trapani profana, 1810, Ms.199 in B.F.,
ad vocem.
(57) De Rosa,L., Studi sugli arrendamenti del regno di Napoli, Na, 1958.
De Stefano, R., Il sale siciliano e l’arrendamento dei Quattro Fondaci
nella seconda metà del XVII secolo in Studi dedicati a Carmelo Trasselli,
a cura di Giovanna Motta, Soveria Mannelli (Cz), 1983.
54
Tra i primi della famiglia, si possono riscontrare tre fratelli, Antonino, Giuseppe e Simone, uniti da legami fortissimi di interessi commerciali e affettivi.
Simone è citato da Padre Fardella, nell’anno 1653,
come mercante e padrone di navi. Sposerà Cristina
Brignone, figlia di un ricco mercante di sale, console della
Repubblica di Genova nella città di Trapani, mentre Giuseppe con i figli ed Antonino risiederanno a Napoli, tenendo i rapporti commerciali con la Sicilia, tramite la loro linea di navigazione.
La loro ricchezza si fa sentire subito nella città e presto
stringeranno parentele importanti con la nobiltà locale.
Il loro palazzo, vicino a quello dei Brignone, era posto
nell’Isola urbana di S.Giuseppe, presso la Chiesa di
S.Agostino e tanta era la loro ricchezza e fama che nel 1667
“li padri dell’Annunciata concedono la cappella di S.Alberto
nella loro chiesa extramoenia a Giuseppe, Antonio e Simone
Tipa” (58).
La cappella venne decorata di splendidi marmi mischi,
così come si può ammirarla ancora oggi, con le armi gentilizie
della famiglia, un folto albero sradicato e piegato con ai fianchi due leoni.
Ai piedi dell’altare, sul pavimento, una lapide ricorda i
tre fratelli e spiega i motivi araldici dello stemma: “Arbor
nobilis gentilitia-duos inter leones ambigua si ab uno Lethi
leone-ad humum usque decutitur-ad vim resurget alteriusde tribu Juda leonis-non amplius deci dua-Joseph Antoninus
Simon Tipa fratres MDCLXXVI”.
(58) Fardella,G., Annali di Trapani, 1810.
55
La traduzione, ad opera del padre Gabriele Monaco,
così recita: “Il nobile albero genealogico-dubbioso tra due
leoni-se da un leone di morte-è scosso sino a terra- risorgerà per la forza dell’altro-leone della tribù di Giuda-per non
cader mai più-Giuseppe-Antonino-Simone Tipa fratelli nel
1676" (59).
Le motivazioni araldiche dei Tipa sembrano un programma ben preciso e definito della politica della famiglia e
della loro non frenabile ascesa nella città ed è similare a quello
dei Brignone, conservato nell’atrio del museo Pepoli, con la
sola differenza dell’albero che in questo caso è diritto e non
tende a piegarsi verso terra.
Alla morte di Antonino, avvenuta nel 1678 a Napoli,
appena un anno dopo la scomparsa in Trapani di Simone
(60), l’eredità cospicua finirà nelle mani dei nipoti napoletani, Diego, Domenico Salvatore e Antonio, e soprattutto in
quelle del nipote Diego di Trapani, figlio di Simone.
Diego, nato nel 1655, sposerà Teresa Fardella, figlia
del barone Michele Martino di Moxharta, mentre la sorella
Caterina sposerà due Staiti, dapprima Annibale e poi
Gerolamo, settimo Barone delle Chiuse, la cui figlia Cristina sposerà poi Giuseppe Fardella, primo marchese di
Torrearsa.
I figli di Diego diventeranno personaggi importanti nella
città, come Marcello che sarà Provinciale dei Gesuiti e
Simone, Senatore dal 1709 al 1712, sposato ad una Homodei.
I figli del senatore saranno anch’essi legati a doppio
(59) Monaco,G., La Madonna di Trapani, Napoli, 1981.
(60) A.S.T., Not. G.Di Blasi, vol.11235, atto del 18.8.1677 (testamento di
Simone Tipa).
56
filo con la nobiltà di Trapani, con i Rivalora, gli Staiti-Burgio,
i Fardella e saranno anche sacerdoti e rettori del Collegio,
come Giuseppe.
Teresa sposerà Don Giovanni Battista Fardella della
Moxharta e non si lascerà scappare, insieme al marito, le
terre di Misiligiafari e Castellaccio, che doneranno alle figlie
Teodora (1741-1801), moglie del marchese Vincenzo di
Torrearsa, e Giuseppa, moglie di Girolamo Staiti delle Chiuse.
Se si esamina, solamente, un solo Rivelo di Don Diego
Tipa, quello del 1681, ci accorgiamo subito, dalle voci del
dichiarante, dell’agiatezza della famiglia nel periodo degli
ultimi decenni del secolo XVII (61).
I beni stabili e mobili ascendono a oltre 15000 onze,
mentre le gravezze solamente a onze 2780, con una differenza di limpio di ben 12000 onze; le cifre sono alte e sono
da paragonare con quelle dichiarate da famiglie di grande
nobiltà o con personaggi di rilievo, almeno per quanto riguarda la città di Trapani ed anche Palermo.
Diego dichiara, oltre ai palazzi, una vigna, in contrada
“di petri tagliati”, confinante con lo loco di Don Vito
Fardella, di 80000 vigne, con giardino e “diversi sorti d’alberi domestici e silvestri”.
Infine dichiara le salme 54 di terre che costituiscono il
luogo della Torrazza, confinante con “lo territorio nominato
di Margarita”.
Segue un lungo elenco dei cereali conservati nell’azienda agricola, il bestiame cospicuo (75 buoi lavorativi, 28 vac-
(61) A.S.P., Deputazione del Regno, Riveli, Tp., anno 1681, vol.1282 (Diego
Tipa).
57
che di pastura, 10 vacche stirpe, un toro, 10 genizze, 7
vitellozzi, diversi muli, giumente e cavalli).
Poi si prosegue, nel Rivelo, con l’elencazione dei prodotti
legati all’attività delle tonnare (S.Giuliano e Boeo che aveva
preso in affitto dal principe di Paceco, Don Carlo Sanseverino e
Fardella) e delle saline (Paceco e Paceco la Vecchia).
Don Diego dichiara 306 barili di “sorra”, 1286 barili
di “tonnina netta”, 416 barili di “grossame” e salme 11.100
di sale.
Infine vengono dichiarate le navi da trasporto, le tartane,
gli schifazzi latini e tutto il legname conservato nei magazzini al porto.
E certamente altre attività commerciali o industriali dei
Tipa sfuggono, per il momento, a questo breve esame.
Non bisogna dimenticare che con la pietra tufacea,
estratta dalle cave di Misiligiafari, presso la torre, i Tipa
dovettero ricavare ingenti somme di denaro.
Ancora oggi resiste, a Paceco, il mito della “pietra tipa”,
con la quale si costruiva di tutto, soprattutto facciate di palazzi e chiese, perfino parte dei grandi magazzini delle saline.
Per la sua durezza e resistenza, con “pezzi della perriera
di Tipa al Castellazzo”, che si estraevano ad una onza e 15
tarì la canna, si lastricò, a metà del’700, l’area attorno ai
fabbricati della salina di Reda, quando questa venne trasformata e rinnovata da Blandano Fardella e Dich barone di Reda
e da suo fratello Enrico Omodei e Dich, su progetto dell’Ing.
Luciano Gambino (62).
(62) D’Alì Solina,A., Per la storia di una salina in Bufalino,G., Saline di Sicilia,
Palermo, 1988.
58
Ed ormai tanta era la celebrità della famiglia, che la
torre di Misiligiafari veniva denominata volgarmente “la
Torrazza nominata di Tipa”.
Lo si desume da un Rivelo del 1747, in cui Giuseppe
Alestra di Vincenzo, della terra di Paceco, dichiara di possedere salme due di terre nella contrada di Misiligiafari, confinanti con la “Torrazza nominata di Tipa” da parte di mezzogiorno (63).
A proposito dell’ascesa della famiglia Tipa, il Benigno ha analizzato la ripresa dei traffici trapanesi, dopo le
annate di depressione dovute alla carestia che aveva dato
origine ad una celebre rivolta della fame (1672), in cui era
stato coinvolto tragicamente un nobile giurista della città,
il dottor Girolamo Fardella e Calvello, Giudice per lunghi
anni della città, che si era schierato a favore dei ceti popolari contro gli esponenti della nobiltà, amministratori della
deputazione frumentaria. L’evoluzione delle esportazioni
(prodotti delle tonnare, corallo, sale) in senso positivo, avviene con l’intensificarsi dei collegamenti con Genova (prodotti di tonnara e corallo) e con il consolidarsi del commercio del sale verso Napoli, di cui protagonisti furono i
Tipa di Trapani. Nell’anno 1675-76, l’incremento delle
esportazioni di sale sarà notevole, passerà addirittura dalle
7.790 salme ad oltre 20.000 (64).
I Tipa si erano legati ad un gruppo di commercianti
genovesi, fra i quali i Grimaldi e i Lomellino, ed avevano
(63) A.S.P, Deputazione del Regno, Riveli, Paceco, anno 1747, vol.4020
(G.Alestra).
(64) Benigno, Francesco, Il porto di Trapani nel Settecento Rotte, traffici,
esportazioni (1674-1800) Trapani, 1986.
59
esteso, intanto, la loro attività commerciale verso quel grande porto, seguiti nell’esempio da altri mercanti della città.
Simone che già è citato da Padre Fardella, nell’anno 1653,
come mercante e padrone di navi, era magazziniere e
depositario delle somme della deputazione frumentaria nella fase acuta della carestia ed organizzava da Trapani le spedizioni, mentre il fratello Antonino, residente a Napoli, teneva i contatti col mercato.
60
Isio Greco e la Torre.
Già verso la metà del secolo XVIII, tutto il territorio di
Misiligiafari e Castellaccio è censito in piccoli e medi lotti di
terra, coltivato soprattutto a vigna e giardino ed abitato largamente da famiglie borghesi e signorili di Trapani e Paceco.
E’ nata la passione “goldoniana” per il villeggiare, d’estate il patriziato e i “burgisi” locali si rifugiano nelle casine di
campagna, riposando ed attendendo la vendemmia.
Infatti dagli ultimi riveli rusticani, effettuati dai Borboni
nel 1811, si può notare l’estremo frazionamento della
contrada e l’elenco dei piccoli proprietari è lungo e comprende medici, avvocati, borghesi, sacerdoti etc. come il
dottore in utroque iure Simone Siracusa, Don Nicolò Tesoro, il parroco dr.Antonino Omodei e poi il canonico Don
Alberto, il dott. Don Giovanni Munna, il dott. Don Alessandro Isio Greco, il cavalier Don Ignazio e Nobile, Don Giovan
Battista e Don Giacomo Occhipinti, il dott. Don Giuseppe
Ximenes e Artale, Don Stefano Martorana, Don Francesco
Inia, i Tolomei, i Basiricò (Gaspare, Antonino, Carlo, Vincenzo), i Valenti, gli Alestra (65).
(65) A.S.T., Riveli rusticani, Trapani, anno 1811-1816.
61
E’ chiaro che il censo enfiteutico, un’istituzione antica,
risalente al medioevo, si era diffuso largamente in Sicilia e
nell’età moderna costituiva anche una soluzione di grande
rilevanza economica, al fine di possedere un sicuro reddito
annuale per provvedere alle ingenti spese delle famiglie nobili del tempo, in larga parte trasferitesi ormai nella capitale
o a Napoli.
All’enfiteuticazione del territorio avevano contribuito
ampiamente i Fardella di tutti i rami e altre famiglie nobili
di Trapani.
Ed è proprio, dall’esame dei riveli del 1748, che riappare
la torre di Misiligiafari.
La dichiara un giovane di 14 anni, chierico beneficiale,
Don Niccolò Isio Greco, figlio dell’avvocato Don Alessandro (66).
Come sempre trattasi di un “loco”, di salme 4 circa,
coltivato a vigna, con case, senia ed un ricco giardino alberato.
Nel “suplimento” spontaneo che fa il Chierico, viene
poi sottolineato: “più dichiara in specie d’esservi in detto
luogo l’infrascritti corpi di casi cioè una casa per uso delli
villani più una cucina, più una stalla, più un magazeno per
riposto di paglia, più un magazeno per ripostare il vino, più
una Torre con casa terrana e solerata per servizio di detto
rivelante”.
La scarnità e le notizie esigue dei riveli non danno un
panorama completo dell’edificio della torre e dei fabbricati
(66) A.S.P., Deputazione del regno, Riveli, Tp, anno 1748 Vol. 4418, cc. 477492 (Rivelo di Nicolò Isio Greco)
62
annessi, ma esse sono già una traccia certa; infatti il luogo,
allo stato attuale, non è ancora degradato e le case accostate
alla torre e quelle vicine, sono rimaste, fortunosamente, ferme nel tempo, mai trasformate e sono sicuramente quelle
descritte nel Rivelo testè citato.
Viene spontaneo chiedersi chi fossero gli Isio Greco di
Trapani.
Sembra assodato che fossero esponenti di una antica
famiglia di professionisti, soprattutto medici.
Francesco Valcassar, dottore fisico, nella sua orazione
funebre in lode del celebre medico trapanese Antonio Crispo,
pubblicata nel 1689, intitolata “La Fama impegnata” e dedicata all’erudito collegio dei Dottori medici trapanesi, dopo
aver ricordato il progresso degli studi medici nella città e
aver citato una folta schiera di illustri fisici di tutti i secoli, si
sofferma, particolarmente elogiandolo, su Giuseppe Isio,
autore di un “Testamentum Medicum”, una specie di enciclopedia medica.
Medici illustri furono anche Gaspare Greco e Domenico
Greco (1769-1837), patologo, professore universitario a Palermo, vissuto a Vienna, morto durante l’epidemia di colera
del 1836 (67).
(67) Valcassar, F., La Fama Impegnata per gli Encomij della Virtù, Trapani,
1689.
Mondello,F., Bibliografia Trapanese, Palermo, 1876.
63
64
I Fardella di Torrearsa, la Torre
e il territorio circostante
E’ necessario ora chiarire i cambiamenti avvenuti a
Misiligiafari, nel contesto della lite giudiziaria per il possesso “Jure proprietatis” dei censi, derivati dalla cosiddetta
“eredità Abrignano”.
Infatti nel 1751 le cose cambiano nuovamente.
I tribunali intervengono e gli avvocati sono sempre pronti a difendere testamenti, fedecommissi, codicilli antichi,
rispolverati secondo le esigenze, nel momento storico adatto ed in una città come Palermo, dove il diritto è sempre
stato una delle scienze più manovrate, secondo la particolare rete di amicizie e di potere.
In quell’anno il barone Don Leonardo Cadelo, palermitano, discendente da Girolama Abrignano, una delle sorelle dell’ultimo barone, ottiene sentenza favorevole contro
i Gambacorta e Algaria, discendenti dal dott. Diego Ciambra,
e pertanto viene dichiarata nulla la distrazione dotale del
1638, a causa della quale era subentrato il Ciambra nel diritto ad una soggiogazione e quindi nella nuda proprietà del
territorio di Misiligiafari.
Il Cadelo venne immesso nei beni di Misiligiafari, al
fine di essere soddisfatto di alcuni suoi pretesi crediti.
65
Ma a metà del secolo XVIII, il luogo della Torrazza,
ovverosia Misiligiafari, era già in possesso (enfiteutico)
di Don Giovanni Battista Fardella della Moxharta
(Mokarta) e di sua moglie donna Teresa Tipa (nipote di
Teresa Fardella, in quanto figlia del senatore Simone Tipa,
figlio di Diego).
Avendo ottenuto il Cadelo la sentenza testè citata, in
forza di essa, il luogo della Torrazza veniva acquisito dalla
famiglia del barone palermitano, che subito dopo lo
riconcesse ai Fardella, a censo enfiteutico, per il canone annuo di ventitré onze (68).
Passarono alcuni decenni, ma le rivendicazioni sulla
eredità Abrignano continuarono.
Questa volta sarà il 9° Barone delle Chiuse, Don Gerolamo
Staiti, che nell’anno 1782, in virtù di un “avito fedecommesso”
(anche lui discendeva da una Caterina Abrignano, una delle
sorelle dell’ ultimo barone Cristoforo), rivendica i beni ereditari da potere del Cadelo, tra i quali Misiligiafari ed i suoi censi,
reseca i crediti per i quali era stato accordato un salviano al
barone palermitano, dichiarando non esercitabili le
soggiogazioni da quest’ ultimo possedute (69).
Infatti il Cadelo era ancora in possesso dei beni in qualità di salvionista.
Una lite interminabile, con diverse sentenze del Tribunale della Regia Gran Corte, fino ad arrivare al 1806, anno
in cui s’interposero, tra le parti, comuni amici, al fine di risolvere bonariamente la questione.
(68) A.S.T.,Not. G. Montalbano, vol.15414, atto del 16.10.1807.
(69) Il Salviano, usualmente, era uno strumento giuridico antico a garanzia
del proprietario contro un affittuario inadempiente.
66
La “transazione e concordia”, venne stipulata nel 1807,
presso il notaio Lo Meo di Palermo, ed in virtù di essa venne
riconcessa, ad enfiteusi, ai fratelli Fardella di Torrearsa, il
luogo nominato Torrazza, terra a cui i fratelli erano molto
legati per antico amore.
La riconcessione venne fatta, ora, ai Fardella, da Don
Girolamo Staiti, barone delle Chiuse, cognato del marchese
Vincenzo di Torrearsa.
La risoluzione del possesso di Misiligiafari avvenne,
pertanto, in famiglia e da allora in poi i Torrearsa non saranno più coinvolti in liti giudiziarie, anche se vi erano stati
trascinati involontariamente ed incidentalmente.
In conclusione possiamo dire che sia i Torrearsa che gli
Staiti erano, praticamente, sul luogo fin dal tempo del loro
antenato Diego Tipa, per l’acquisto intermedio che quest’ultimo ne aveva fatto alla fine del seicento.
I fratelli Torrearsa erano sette e fra di essi ricorderemo
il marchese Antonino (1761-1827) regio segreto di Trapani,
Don Giuseppe lo storico (1764-1830), Don Gaspare il capitano del porto (1762-1844) ed il generale Don Giovan Battista (1762-1836), futuro ministro di Guerra e Marina di Re
Ferdinando II delle due Sicilie.
La figura del capitano del Porto, Gaspare Fardella
La figura umana e sociale di uno dei fratelli Torrearsa,
Gaspare (1772-1844), capitano della Real Marina e del porto di Trapani, è quella che più ci interessa da vicino per lo
studio della torre di Misiligiafari.
Egli abitò la torre per lungo tempo, fino alla morte, sicuramente adattandola ad abitazione, a modo di “casina di
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campagna” per le ore di riposo e gli ozi estivi, mentre il
fratello maggiore marchese Antonino, abitò sempre nel suo
palazzo della Ruga Nuova, oggi sede della Cassa Centrale
di Risparmio, e d’estate nella villa di Torrearsa nuova, distante un colpo di schioppo dalla torre.
I Torrearsa fanno parte di uno dei rami più importanti
della Famiglia Fardella, quello delle seconda linea di
Moxharta, di cui facevano parte, oltre i baroni di Moxharta,
anche i baroni della Ripa e della Scannaria e i duchi di Cumia.
Già fregiati del titolo di Conti Imperiali per privilegio
concesso dall’imperatore Carlo VI nel 1734, successivamente
ereditarono dal marchese Umfrido, ultimo del ramo, il titolo
di Torrearsa (70), già concesso a Giuseppe, della linea dei
principi di Paceco, da Carlo di Borbone nel 1749 (71).
Il titolo, nella sua codificazione araldica, si rifà ai meriti acquisiti, verso la Corona, dalla famiglia, durante i tumulti del 1516-17, al tempo di Carlo V.
Infatti il motto araldico della famiglia recita: “donec in
cineres”, indicando la ferma volontà dei Fardella di risorgere financo dalle ceneri, alludendo in maniera specifica alla
Torre del palazzo di famiglia, che sorgeva nel quartiere di
S.Giovanni, dove ancora esiste il palazzo dei principi di
Paceco, e che venne distrutta e bruciata dalla folla, incitata
dagli avversari politici dei Fardella.
Ritornando al capitano del porto, e all’esame dei documenti che lo riguardano, come il suo testamento e l’inventa-
(70) A.S.T., not. V. Caraffa, Alberano del 10.9.1780 (donazione) e not. I.
Cosenza, atto del 14.10.1781. (testamento di Umfrido Fardella).
(71) Emanuele e Gaetani, F.M., Della Sicilia Nobile, Palermo 1754-1769,
appendice alla parte II libro III pp. 479-481.
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rio dei suoi beni, veniamo a conoscenza della sua cultura e
delle sue passioni (72).
Rimasto celibe, divideva le cure del suo ufficio presso
l’arsenale della Marina con una vita comoda e agiata nel suo
palazzo, contiguo alla chiesa del Purgatorio, e gli ozi campestri di Misiligiafari, nella torre amata che viene descritta,
per la prima volta, accuratamente, nell’inventario dei beni.
Un’inventario lunghissimo ed interessante per il quale
occorsero sette sedute e circa un mese al notaio Barrabini,
assistito da periti illustri nella città (come Rocco Mazzarese,
bibliotecario della Fardelliana) e dai nipoti del defunto, i
nuovi fratelli Torrearsa, i tre patrioti, Marchese Vincenzo,
Giovan Battista ed Enrico, il futuro generale.
La torre viene indicata come “la casina di campagna
così detta la Torre, sita nella contrada Castellazzo territorio
di Trapani”, “con piccolo giardino”.
Apparteneva, indivisa con i fratelli, per “due intiere
quinte parti” al capitano.
Il piano terra era composto, nell’anno 1844, da “una
stanza terrana a prima entrata”, una “stanza collaterale a
man sinistra dell’entrata”, un “riposto a piè della scala della casina”, una “cucina collaterale al riposto”.
Al primo piano esistevano una “sala” ed una “camera
a dormire”, mentre al secondo piano vi erano altre due stanze vuote.
La torre, ovvero le sue due quinte parti spettavano al
capitano in quanto coerede del padre, come assegnatario del
(72) A.S.T., not. N. Barrabino, vol. 16207, atti del 25 e 29 Maggio e dell’ 1.6.1844.
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marchese Don Antonino Fardella, suo fratello, per atto del
26 maggio 1825 (not. Montalbano) e come donatario del signor Decano Don Giuseppe, altro suo fratello, per atto di
donazione del 20 luglio 1826.
Nella torre, arredata in maniera sobria, il capitano
Gaspare passa le sue ore libere, leggendo, giocando a scacchi e controllando, a distanza, con un cannocchiale a cinque
scuole, di rame, il porto, dove tiene nel magazzino reale una
bella lancia personale, completissima di attrezzature.
Un uomo raffinato Capitan Gaspare che vive circondato da una governante, donna Orsola Strazzera, e da una corte
di domestici e cocchieri, in un grande palazzo, ricco di mobili pregiati di mogano e ciliegio, di argenterie, cristallerie,
porcellane ed ottimi dipinti che gli erano stati donati dal fratello generale Giovan Battista e che lui lascia, per legato,
all’altro fratello Marcello, duca di Cumia.
I quadri sono periziati dal pittore Mazzarese e la sua
collezione è ricordata in maniera particolare da Berardo di
Ferro nella sua “Guida per gli stranieri in Trapani”.
Tra gli armadi pieni di bei vestiti ed impeccabili divise
blu, il Capitano, che porta calze di Doch, legge, nella sua
vasta “libraria”, opere filosofiche, storiche e di navigazione, e soprattutto quelle di Condillac, di Voltaire e Rousseau,
di Barthélemy e perfino gli Idilli di Teocrito, tradotti dal suo
conterraneo, il celebre poeta Giuseppe Marco Calvino.
Vivo era rimasto il ricordo del capitano del porto sui
luoghi in cui era vissuto, tanto chè, ancora nel periodo postunitario, la Carta topografica dei dintorni di Tapani (scala
1:10.000), disegnata da D.Bonino e conservata presso la biblioteca Fardelliana, riporta la casa Torrearsa ed il “giardino
del capitano”.
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Il Generale Enrico Fardella
Nel periodo del Risorgimento, la torre rimane legata al
nipote prediletto del capitano, il futuro generale Enrico
Fardella, uno dei tre fratelli patrioti, l’ardimentoso
condottiero di squadre rivoluzionarie, l’eroe del Volturno,
che Garibaldi chiamò “leone” e “onore delle armi italiane”,
il combattente valoroso di Balaclava in Crimea nel 1856, il
generale antirazzista della Guerra di Secessione in America.
Da Trapani e dalle campagne di Misiligiafari, Enrico
recluta le sue schiere, i suoi amici e compagni fidati, gli
Alestra, i Martorana e tutti gli altri che lo seguirono costantemente in tutte le spedizioni e avventure.
La Torre servirà per le riunioni segrete, tra un periodo
di carcere duro ed anni di amaro esilio, cui furono sottoposti
i fratelli Fardella.
Il 19 aprile 1860 il regio giudice di Salemi ed Alberto
Mistretta, comunicando all’Intendente di Trapani di aver
mantenuto l’ordine nel loro territorio, facevano presente che
un precedente plico, contenente un “uguale ufficio”, era stato strappato al corriere “da una persona armata nelle vicinanze dell’ex feudo Castellaccio cioè sullo stradale SalemiPaceco” (73).
Da questo documento, ben preciso, s’intuisce come
il Fardella e gli altri patrioti fossero presenti in quel momento nelle campagne, attendendo, come poi avvenne,
(73) La Sicilia dal 1849 al 1860, Atti del convegno siciliano di Storia
Risorgimento, a cura di Gianni di Stefano, Trapani, 1962, pp. 79-80.
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con ansia, di penetrare nella città, liberarla dal Borbone e
conquistarla.
Nella Torre, d’altronde, erano state conservate scrupolosamente dal generale tutte le lettere e i documenti del suo
Battaglione e della Brigata Milbitz dell’Esercito Meridionale, carte che poi furono donate dalla figlia Teresa, nel 1935 e
1959, alla biblioteca Fardelliana (74).
Enrico Fardella che aveva sposato un’irlandese, Giovanna Ducket, figlia di un giudice di Dublino, è stato sicuramente il più grande personaggio e il più amato che la città di
Trapani abbia dato al Risorgimento Italiano ed insieme ai
suoi due fratelli, Vincenzo e Giovan Battista, costituisce una
triade che rifulse di vivida luce e s’impose all’ammirazione
e al rispetto di tutti.
Occorre ricordare, sui fratelli Torrearsa le parole
dello storico Eugenio Di Carlo: “figure diverse, ciascuna con proprie caratteristiche e particolari meriti, restano però unite da un intimo legame spirituale, e questo legame fu l’amore instancabile per la patria fino al
sacrificio, per la sua indipendenza e grandezza, per la
sua dignità, l’anima aperta ad un sogno di libertà e di
umana solidarietà” (75).
Enrico, che aveva contribuito alla ricostruzione civile
e nazionale degli Stati Uniti, mosso dall’amore per la famiglia e per la sua terra, ritorna a Trapani nel 1874 e, dopo
(74) Atti del 1959 del Comitato prov. di Trapani dello Istituto per la storia del
risorgimento italiano, a cura di Gianni di Stefano, Trapani, 1960.
(75) Di Carlo, E., Un Trapanese del Risorgimento: La guerra americana di
Secessione ed il generale Enrico Fardella, in “Trapani” anno VI° n. 8,
pp.1-9 en. 9, pp. 19-24 (1961).
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alcuni anni, procede a restaurare la Torre di Misiligiafari,
come si può evincere da un cartiglio dipinto, all’interno di
uno stipetto murale dell’edificio.
Il generale morì nel 1892, compianto da un’intera città.
Negli ultimi anni aveva atteso alla ricostruzione del suo
patrimonio, distrutto dalle ingenti spese personali che aveva
sostenuto, durante il Risorgimento, per organizzare e armare spedizioni militari di volontari.
Enrico, infatti, aveva dato tutto alla patria, perfino l’argenteria di famiglia!.
La divisione dei beni del generale avvenne il 18 gennaio 1895 e l’ultima descrizione della “Torrazza” è contenuta proprio nell’atto notarile registrato per l’ occasione (76).
La Torre e il giardino della cava saranno assegnate, insieme ad altri beni, a donna Teresa Fardella, una delle due
figlie del generale, sposata al maggiore d’artiglieria Raffaele de Blasi.
Dalla descrizione s’intuisce che il generale aveva operato, all’interno dell’edificio, alcuni adattamenti e
ampliamenti necessari a renderlo abitabile.
Infatti il pian terreno risulta composto da sette vani, il
primo piano da otto, il secondo da quattro ed il mezzanino
da quattro con frassetto.
L’ultima ad abitare la torre è stata Suor Teresa Fardella
(1867-1957), Serva di Dio, vissuta in fama di santità,
fondatrice dell’ Ordine religioso delle Povere Figlie di Maria SS. Incoronata.
(76) A.N.D. Trapani, not. F.Di Vita, atto del 18.01.1895.
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Donna generosa e altruista, come il padre Enrico, visse
i suoi giorni con la vocazione di soccorrere i diseredati, gli
orfani, i deboli.
Scriveva Miki Scuderi: “I Fardella di Torrearsa hanno
dato anche questa gloria a Trapani. Un’altra Fardella che
ha combattuto con altre armi per i fratelli oppressi non da
tirannidi materiali, ma da duri bisogni dell’anima e della
vita” (77).
La Torre è ritornata a vivere una nuova vita, restaurata
degnamente secondo moderne tecnologie edilizie, circondata da un paesaggio incontaminato che occorre tutelare per
conservare la memoria storica e ambientale di un antico territorio, che fa parte della storia grande ed illustre della città
di Trapani.
(77) Scuderi, M., Teresa di Blasi Fardella dei marchesi di Torrearsa, in
“Trapani”, anno IX (1964), n.2, pp. 12-14.
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Documentazione fotografica
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Referenze fotografiche:
le foto sono state realizzate dal pittore Franco Agate e dall’avvocato Vincenzo Fardella di Torrearsa.
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La Torre dopo il restauro - lato sud-ovest
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La Torre e la cortina muraria ottocentesca
Il timpone Castellaccio visto dall’alto della Torre
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Le latomie dei Tipa ovvero i “Giardini del Capitano”
Uno scorcio delle cave di pietra “Tipa”
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Panorama di Paceco dall’alto della Torre di Misiligiafari
Panorama dalla Torre con la Casa Martorana
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Le Torrette di stile medievale della cinta muraria della Torre
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Arazzo con stemma dei Fardella di Torrearsa (Opera del pittore Tito
Monroy di Pandolfina)
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Stemma dei Senatori Tipa a Villa Torrearsa
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Stemma della Famiglia Abrignano sul lato nord della Torre
Panorama a sud-ovest del complesso monumentale della Torre
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Arco in pietra “tipa” a Villa Torrearsa (resti dell’antil manzil)
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INDICE
Pag.
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29
35
45
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- Nota dell’autore
- Prefazione di Dino Grammatico
- Il Manzil di Giafar
- I Manzil e i “Castellazzi”
- Il Castellaccio e il Pugnatore
- La Torrazza
- Delle Torri rusticane o extraurbane
- La Torre e i Lo Valvo
- I Tipa e le cave di pietra
61 - Isio Greco e la torre
65 - I Fardella di Torrearsa, la Torre e il territorio
circostante
La figura del capitano del Porto Gaspare Fardella
67
71
Il Generale Enrico Fardella
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Finito di stampare
a Trapani
nel mese di Marzo 2005
dalla Cartogram Service
per conto dell’ISSPE
di Palermo
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