brochure

Transcripción

brochure
Quest’anno, su iniziativa della Direzione generale per i Beni Archeologici del Ministero per i Beni e
le Attività Culturali, oltre centodieci sedi espositive italiane hanno affrontato con argomenti diversi
il tema unitario dal titolo “Cibi e sapori nell’Italia antica”. L’iniziativa, che segue quelle degli anni
2002 e 2003 intitolate “Sport nell’Italia antica” e “Moda, costume e bellezza nell’italia antica”,
offre l’occasione per ripercorrere la storia lunga e variegata dell’alimentazione della Penisola in una
vastissima rpsoettiva cronologica e geografica.
La Soprintendenza Archeologica di Pompei partecipa all’iniziativa con una mostra dal titolo “Cibi e
sapori a Pompei e dintorni”, che si tiene presso l’Antiquarium di Boscoreale dal 3 febbraio al 28
maggio 2005.
ARS
“Natura morta” è un genere pittorico particolare della pittura antica, così denominato da noi
moderni per la grande affinità che presenta con le cosiddette nature morte della pittura europea a
partire dal XVI secolo (Still-leben, Still-life, natura morta).
La descrizione di tale genere è riportata nella stessa letteratura antica, che segnala l’abilità e la fama
di alcuni pittori e artigiani di età ellenistica (Peiraikos, Kallikles, Kalates, Antiphilos) nel riprodurre
soggetti particolari (uccelli, pesci, selvaggina, frutta e altri alimenti in abbinamento a suppellettili
varie), resi spesso con tale sorprendente verosimiglianza e vivace naturalezza da essere considerati
degni di menzione tra i capolavori dell’antichità, sebbene opere di maestri del pennello celebri per
pitture di categoria inferiore (Plinio, Naturalis Historia, XXXV, 112 e 114).
Il genere pittorico delle nature morte, che per le sue peculiari caratteristiche si differenzia da altri
generi minori della pittura antica (paesaggi, marine, rappresentazioni di animali, sfondi
architettonici, raffigurazioni di oggetti del rituale funebre o di arnesi di uso comune, pitture di
larario ecc.), trova larga testimonianza nella decorazione parietale campana.
La spiegazione della sua origine è fatta risalire ai dipinti di xenia, che a loro volta ricordavano una
più antica tradizione delle abitazioni greche, tramandataci da Vitruvio (De Architectura, VI 7, 4)
che consisteva in doni di cibi freschi offerti dal padrone di casa all’ospite, secondo una caratteristica
usanza di ospitalità che prevedeva una sfera di autonomia domestica dell’ospite.
Le più importanti testimonianze di nature morte nella pittura antica, e romana in particolare, sono
ampiamente documentate sulle pareti di Pompei ed Ercolano, e sono inserite nei sistemi decorativi
del Secondo e del Quarto Stile pittorico.
Nel Secondo Stile le nature morte sono raffigurate come quadretti dipinti su tavola, contenuti in
cornici con sportelli che ne consentivano la chiusura e posati su mensole, proprio come dipinti a sé
stanti. Degli originali (pinakes), da cui deriva la tradizione pittorica, non conserviamo alcun
esemplare, sebbene la loro raffigurazione minuziosa, resa dai particolari dipinti (sportellini, chiodi,
cordicelle), ci fornisce l’immagine del modello originariamente inserito nella sintassi della
decorazione parietale.
Celebri esempi di quadretti in cornice a sportelli sono quelli provenienti dalla Casa del
Criptoportico e dalla Casa delle Vestali a Pompei. Si tratta di raffigurazioni, anche di grande
formato, come le famose nature morte dai Praedia di Giulia Felice, composte esclusivamente di
cibi, frutta, prodotti della terra e prodotti del mare, alternate a raffigurazioni in cui sono presenti
arnesi, oggetti del vivere quotidiano, animali vivi. Per quanto riguarda la composizione, i soggetti
raffigurati sono presentati in ordine libero posti generalmente su due piani, di cui uno costituito da
un gradino, un piccolo podio, una nicchia o un davanzale.
I cibi raffigurati seguono in genere una disposizione per contrasto, alcuni raggruppati in recipienti,
di vetro o di metallo, o in canestri di giunco, cui fa da contrappunto una disposizione libera dei
singoli alimenti (frutta, uova, pane, pesci, frutti di mare ecc.), o degli animali vivi rappresentati, tra
cui figura al primo posto il gallo, colto nelle varie pose caratteristiche (libero, legato o rannicchiato
al suolo).
Con l’inserimento sempre più serrato e subordinato nel sistema della decorazione prospettica degli
stili successivi, il motivo della natura morta subisce alcuni adattamenti: un ridimensionamento delle
misure dei quadretti, un’approssimazione nella resa artistica, un declassamento a semplice elemento
decorativo nel più articolato impianto scenografico della parete.
Nel Quarto Stile pittorico i quadretti di natura morta non sono più provvisti di cornice e sportelli, le
dimensioni sono ridotte, vengono inseriti in registri di importanza secondaria, come zoccolature,
costruzioni prospettiche, o semplici elementi dell’impianto decorativo di supporto.
Nell’ultima fase del Quarto Stile si riduce anche l’attenzione alla tridimensionalità che
caratterizzava precedentemente il genere, con conseguente pronunciata approssimazione nella
definizione ambientale della rappresentazione.
RELIGIO
La circostanza dell’arresto della vita a Pompei e negli altri siti vesuviani per una catastrofica
eruzione che nel 79 d.C. sigillò edifici pubblici e privati ed ogni altra opera dell’uomo e della
natura, ha consentito l’eccezionale conservazione, in questi luoghi, dell’intera sequenza delle
testimonianze che formavano, al momento del cataclisma, la vita pulsante delle comunità locali. Il
disseppellimento di edifici di culto pubblico e di sacelli privati, di arredi e suppellettili cultuali, e
perfino resti i offerte sacrificali, preservati come per una sorta di congelamento, documenta il
carattere della religiosità degli abitanti.
Il nucleo essenziale ed originario della religione pompeiana era strettamente legato ai caratteri tipici
di una società prevalentemente agricola che riconosceva negli elementi e negli aspetti della natura le
forze che regolano, influenzano e determinano le vicende umane e con esse identificava una serie di
divinità cui andavano rivolte sollecitazioni specifiche a vantaggio del proprio raccolto o delle varie
circostanze della propria vita. Da qui la speciale attenzione rivolta dai Pompeiani ad Ercole, Bacco
e Venere, citati da Marziale come numi tutelari della regione sepolta dal Vesuvio. Tale visione
concepiva il rapporto con il divino regolato da determinate e reciproche obbligazioni consistenti in
una serie di riti, di formule fisse, di precise azioni da compiersi in cambio dell’aiuto divino nelle più
svariate circostanze.
Esperto del rituale era il sacerdote, colui che assicurava con la sua presenza il perfetto compimento
delle funzioni religiose in onore di questa o quella divinità nel tempio ad essa dedicato, secondo le
modalità prescritte, pena la loro nullità. Nel culto pubblico ministro del sacrificio era un magistrato,
nel culto privato il ruolo del sacrificante era riservato al capofamiglia (paterfamilias) in quanto
depositario della tradizione ricevuta dagli antenati e che trasmetteva ai suoi figli.
Le cerimonie del culto pubblico erano fissate da un elenco di feste distribuito nei singoli mesi
dell’anno e prevedevano offerte incruente (libagioni) e sacrifici cruenti (vittime animali). Le
libagioni comprendevano svariati prodotti: miele, vino, latte, farro, primizie del raccolto, sia di
cereali sia d’uva, focacce di tritello di farro impastate con olio e miele, offerte che avevano luogo
anche nel culto domestico. I sacrifici cruenti prevedevano comunemente l’immolazione di un bue
(victima), di un montone o di un maiale (hostia), ma venivano praticati anche sacrifici di cavalli, di
cani, di galli e galline. Alcune cerimonie particolarmente importanti, come la lustrazione
quinquennale della città, richiedevano il sacrificio di più animali, come la cerimonia dei
suovetaurilia, in cui venivano immolati un maiale, un montone e un toro.
Le vittime formavano delle categorie distinte secondo la loro età, il sesso e talvolta il colore del
vello e, per la purità rituale, non dovevano avere alcun difetto fisico. L’animale veniva condotto
all’altare inghirlandato e, talvolta, adorno di una gualdrappa (dorsuale). Dopo averlo cosparso di
mola salsa (tritello di farro misto a sale) e avere fatto libagioni di vino, latte e miele, veniva ucciso,
raccogliendone il sangue che veniva versato sull’ara. Le viscere della vittima, dopo essere state
esaminate dagli aruspici a scopo divinatorio, sparse di vino ed olio venivano offerte sull’altare agli
dei, mentre il resto dell’animale veniva consumato dai partecipanti al rito sacrificale.
Il culto privato che era presente in tutte le circostanze della vita della famiglia, interessava sia i
momenti ordinari e particolari quali la nascita, l’assunzione della toga virile, il matrimonio, la
morte, i cui riti si svolgevano entro le pareti domestiche, sia le attività agricole le cui cerimonie di
lustrazione preservatrice dei campi, dei boschi e del bestiame (offerte di vino e di prodotti agricoli
per la preservazione dei buoi, sacrificio di una scrofa prima della mietitura, di un maiale prima del
taglio di un bosco) si svolgevano nel podere, al limite della proprietà, al crocicchio (compitum) che
ne facilitava l’accesso.
Nel quotidiano il culto domestico era praticato davanti ai larari, una sorta di altarini-edicolette di cui
quelli più eleganti, come il larario monumentale della Casa del Menandro, erano ubicati negli atri e
nei peristili, ambienti rappresentativi della casa, mentre nei locali deputati ai lavori domestici o alla
trasformazione dei prodotti necessari alla sussistenza era presente generalmente il larario dipinto,
spesso dotato anche di una nicchietta e di annesso altare in muratura. Nelle cucine il larario era
collocato proprio nei pressi del focolare che veniva così utilizzato anche come altare per versarvi
quotidianamente, all’ora di pranzo, libagioni e dapi.
Presso questi larari esprimevano la loro religiosità anche i servi. Non desta meraviglia trovare
perciò in essi la raffigurazione di ingenue offerte votive quali teste di maiale, prosciutti, spiedini
con pezzi di carne o anguille, come nel larario della casa di C. Sulpicius Rufus a Pompei o della
cosiddetta Villa 6 di Terzigno. In questi altarini domestici si adoravano essenzialmente i Lari, numi
tutelari della casa, i Penati custodi delle provviste e il Genio della casa in cui si impersonava la
forza procreatrice del capofamiglia. Ad essi i Pompeiani offrivano uova, pigne, nocciole, dolci,
elementi di una religione tipicamente agraria che nel loro spirito di conservatorismo religioso
custodirono con scrupolo nei larari dipinti. Questi esibiscono, generalmente, tali offerte deposte
sull’altare verso cui tendono per cibarsene due o talvolta un serpente agathodaimon, simbolo di
fertilità e ricchezza.
LUXUS
Il banchetto romano nasce come momento sacro e pubblico, gli influssi ellenistici lo trasformano in
simposio, una riunione sociale, allietata da musica e spettacoli, in cui al cibo si accompagna il vino.
Il gusto ed i costumi alimentari sono fortemente influenzati dall’organizzazione economica e
sociale; il corrompersi dei costumi corrode il senso dei banchetti che diventano una mera esibizione
di lusso: l’evoluzione del banchetto segue l’evolversi della società romana, dai semplici costumi
aviti al degrado del tardo Impero. Le abitudini alimentari, le ricette, le virtù terapeutiche di alcuni
alimenti e gli effetti dannosi di altri, i gusti di imperatori e condottieri, sono temi letterari ricorrenti,
e numerose sono le testimonianze archeologiche utili per comprendere questo aspetto della vita
antica: dall’architettura all’iconografia, dagli arredi alla suppellettile.
La realtà vesuviana, datata al 79 d.C. e provinciale, è privilegiata dalla sua immediatezza: essa ci
restituisce l’immagine di una società variegata con forti contrasti sociali. E’ di Cicerone il lamento
“morire di fame a Pompei” che sottolinea il contrasto tra le laute cene romane ed i miseri pasti
provinciali. A Pompei possedeva un focolare fisso solo il 40% delle case povere, il 66% delle case
agiate e ben il 93% delle case ricche.“Salute a chi mi invita a cena!” esclama un pompeiano, alle
prese con la quotidiana fatica di sfamare sé ed i suoi grazie alla benevolenza di un patronus.
Tuttavia l’analisi dei contesti pompeiani più agiati consente di ricostruire anche un tenore di vita
pari a quello dei ricchi abitanti delle grandi città dell’impero. Non a caso circa la metà degli argenti
antichi proviene dalle città vesuviane ed in particolare il tesoro della Casa del Menandro, di 118
reperti, ed il tesoro di Boscoreale di 108 oggetti, competono con i 100 pezzi d’argento esibiti da
Trimalcione, il noto liberto arricchito, divenuto grazie al racconto petroniano il simbolo del lusso
romano più sfrenato. La Campania felix era luogo eletto per soggiorni di ozi e piaceri, grazie alle
particolari condizioni climatiche, ambientali ed economiche; non a caso Trimalcione e Lucullo,
personaggi emblematici di uno stile di vita, sono entrambi campani.
L’atmosfera dei banchetti pompeiani è ancora viva nelle scenette conviviali: quadretti di triclini ed
oeci, come quelli della Casa dei Casti Amanti, riproducono nei particolari abitudini contemporanee:
cuscini e coperte in tessuti preziosi sui letti tricliniari, vasi potori argentei tra i convitati, tavole
imbandite di pietanze appetitose e banchettanti ebbri confortati da fanciulle allegre e serventi
premurosi, in ossequio alla locorum proprietas vitruviana.
Ormai al 79 d.C. l’austero clima sociale della Roma repubblicana, con le sue parche cene, era stato
abbandonato dai ceti più ricchi. Le case agiate si sono ampliate a destinare spazi maggiori ad
ambienti di rappresentanza: l’antica cena, che si svolgeva nell’atrio, seduti intorno al focolare, ha
lasciato il posto alla moda orientale di mangiare distesi. Si creano stanze ad hoc, i triclini, con letti
in muratura, o in legno e bronzo impreziositi da argenti, come i raffinati letti della Casa del
Menandro. A Pompei, favoriti dal clima mite, agli ambienti con funzioni di triclini, si aggiungono
gli apprestamenti all’aperto, in giardini e viridaria, che consentono di consumare i pasti immersi
nella natura, allietati da ruscelli artificiali, giochi d’acqua e piscine che ricreano un’ambientazione
idillico-sacrale di sapore ellenistico.
I triclini erano costituiti da tre letti uniti, disposti a ferro di cavallo, addossati alle pareti; ogni letto
ospitava tre persone, che distendendosi sul fianco col capo verso la mensa centrale avrebbero
mangiato e conversato in compagnia ad evitare il rischio della triste cena tra le mura domestiche, il
tristi domicenio di Marziale. In queste stanze i mobili erano ridotti all’essenziale: vari tavoli,
sgabelli, candelabri, spesso antichi pezzi da collezione, da esibire in virtù del diffuso gusto
antiquario, come l’efebo trapezophoros dalla Casa di M. Fabius Rufus, opera eclettica di echi
prassitelici, adattata con aggiunte funzionali a portalucerne (lychnouchos). Il miglioramento delle
condizioni di vita causa uno slittamento dell’attività verso la sera. Tuttavia i ritmi lavorativi ancora
imperano: la necessità di sfruttare le ore di luce per le attività produttive condiziona la giornata. Al
sorgere del sole si consuma una rapida colazione, lo ientaculum, costituita dagli avanzi della cena, a
metà giornata un breve intervallo è dedicato al prandium, un pasto che si consuma con le mani, in
piedi, acquistando del cibo pronto.
La cena è il pasto principale, si svolge intorno alle 15 e si conclude prima che calino le tenebre, o,
in casi particolari, all’alba. I convitati si distendono sui triclini, in posti prestabiliti, e dopo le
abluzioni, inizia la cena. Un pasto completo, ab ovo ad mala, di più portate, è diviso in tre parti:
l’antipasto, accompagnato dal mulsum, il ferculum, uno o più piatti di carne o pesce con verdure, e
infine le secundae mensae, i dolci e la frutta. Il dopo cena, epidnis, è il vero momento conviviale,
scandito dai brindisi del magister bibendi. Spesso regnano l’euforia e l’ebbrezza, così il padrone di
una casa pompeiana, detta del Moralista, ammonisce i suoi ospiti: Bada che lo schiavo lavi con
acqua i piedi dei convitati e copra con drappi di lino il letto tricliniare! (Convitato) distogli il tuo
sguardo lascivo dalla moglie altrui e non farle gli occhi dolci; non abbandonarti al turpiloquio e
comportati educatamente! Differisci le odiose liti se puoi, altrimenti vattene e tornatene a casa tua!
CIBUS
Le ricette
Numerosi erano i trattati di arte culinaria di età greco-ellenistica e romana: di molti di essi
conosciamo tuttavia solo il titolo ed il nome dell’autore ma fortunatamente possediamo un vero e
proprio ricettario, il De re coquinaria attribuito a Marco Gavio Apicio, in realtà opera databile al IV
sec. d.C. che include qualche ricetta di Apicio. Egli, vissuto all’epoca dell’imperatore Tiberio,
autore di due trattati di culinaria, era un amante della buona cucina, per la quale sperperò l’intero
suo patrimonio. Anche i trattati di agronomia di Columella, Varrone, Catone o i testi di scienze
naturali come quello di Plinio il Vecchio offrono informazioni preziose su commestibili, pietanze e
sui modi di conservare cibi e provviste alimentari. Alle testimonianze letterarie l’Archeologia
consente di aggiungere significative testimonianze, specie nell’area vesuviana dove le particolari
condizioni di seppellimento dell’eruzione del 79 d.C. hanno conservato intatti anche gli alimenti.
I cibi
Considerato un alimento necessario e insostituibile, nel I sec. d. C. il pane aveva da tempo
soppiantato altri cibi e pietanze sulla tavola dei Romani e costituiva il principale apporto di
carboidrati della loro dieta. Caduto in disuso il pane di farro (panis farreus), il pane era ottenuto con
la farina di grano, di prima o di seconda qualità, fino a quello di infima qualità (panis furfureus),
consumato dalla gente più povera o dato ai cani. Altri ingredienti lo rendevano migliore: più dolce,
come il pane ottenuto con la farina di miglio; più saporito con miele, vino, latte, olio, frutta candita
e pepe (panis artolaganus); più nutriente con lardo e pancetta (panis adipatus). In altri casi la
costosa farina di grano era integrata da farina di fave, di lenticchie, di ghiande o di castagne. Il pane
consumato in area vesuviana, come dimostrano gli esempi rinvenuti e le pitture, era una pagnotta
tonda che poteva essere agevolmente spezzata in spicchi grazie ad una serie di raggi impressi sulla
superficie. Si trattava del panis quadratus e quadra era chiamato lo spicchio di pane.
Contrariamente alle abitudini primordiali delle popolazioni italiche, in età imperiale l’alimentazione
dei Romani non era più a base vegetariana ma il benessere aveva incrementato il consumo di cibi
ricchi di proteine, assunte in particolare con la carne. Il consumo della carne bovina era in origine
vietato per legge in quanto i bovini erano gli animali utilizzati come forza-lavoro nei campi e per i
trasporti pesanti. Solo in occasione di cerimonie religiose era consentita l’uccisione di un bovino e
la consumazione della carne dopo il sacrificio. Nonostante tali limitazioni dal IV sec. a.C.
cominciarono a diffondersi gli allevamenti di carne bovina a scopo alimentare ed Apicio fornisce
alcune ricette per la sua cottura. Più diffusi gli ovini e il maiale, di cui Plinio vanta i 50 diversi
sapori, ma anche i conigli, il pollame, la selvaggina. A titolo di esempio si possono ricordare alcuni
rinvenimenti pompeiani: ossa di bovino, di ovino e di suino nella Casa di Giulio Polibio, le costole
di vitello rinvenute in I 6,7 o quelle di montone rinvenute in un calderotto di bronzo nel 1904, i casi
di maiali e porcellini rinvenuti nelle ville del territorio, il coniglio rinvenuto in VII 12, 13, numerose
ossa di pollo. Le pitture documentano inoltre il consumo di prosciutti e salsicce. Il pollame era
allevato anche per le uova, ritrovate in piatti, pentolini, coppe di vetro. Fra le specie animali
ricercate dai buongustai romani figuravano anche il pavone, l’asino, il cane, il fenicottero, lo
struzzo, la cicogna, il ghiro, allevato in apposite gabbie fittili, i gliraria.
La carne veniva lessata ma anche arrostita come dimostrano gli spiedi, le graticole e le pitture in cui
compaiono tali strumenti di cottura.
I Romani si nutrivano anche di pesce, crostacei e molluschi. I pesci più apprezzati erano la murena,
l’anguilla, il grongo, il tonno, l’orata, il muggine, la triglia, lo sgombro, il rombo, la sogliola, ma
venivano cosumati anche, specie sulle tavole meno ricche, pesciolini quali alici e ghiozzi. I pesci
erano in genere pescati con reti, lenze, palamiti. In epoca imperiale si diffuse inoltre la moda
dell’ittiocoltura, cioè dell’allevamento di pesci in vivai e piscine. Numerosi sono i rinvenimenti di
resti di pesce, definiti lische o squame negli antichi resoconti di scavo, anche se non siamo in grado
di precisare sempre se si tratti di pesci cotti da consumare, resti di pasto, pesci conservati sotto sale,
residui di salse di pesce, il famoso garum. I due pentolini fittili esposti, rinvenuti a Pompei,
conservano resti di pesce, mentre nell’Antiquarium è esposto un pesce.
Ugualmente diffuso era il consumo di crostacei (aragoste, gamberi e scampi), documentato solo da
pitture e mosaici, e di molluschi, sia gasteropodi e bivalvi di cui restano le conchiglie, sia
cefalopodi, di cui può restare solo il cd. osso di seppia. Le fonti classiche ricordano che proprio in
Campania, a Baia, vennero creati da Sergio Orata nel 108 a.C. i primi allevamenti di ostriche.
Una campionatura dei principali cereali, legumi, ortaggi e frutta rinvenuti nell’area vesuviana è
esposta nell’Antiquarium. Ad essi vengono aggiunti i datteri e le carrube da Ercolano, oltre che la
minestra di fave rinvenuta in un pignattino di bronzo a Pompei. Si ricordano inoltre i semi di lattuga
rinvenuti in una villa rustica, mentre i versi di Columella ricordano cavoli e cipolle pompeiane.
Il miele era l’unico dolcificante che avesse in età romana un’ampia diffusione. Insieme al mosto e
alla frutta secca, tale ingrediente compare spesso, oltre che naturalmente nella preparazione di dolci
e di bevande, anche nella preparazione di pietanze. Il miele era estratto dai favi degli alveari e
l’apicoltura era una delle forme di “allevamento” conosciute e ampiamente praticate dai Romani. A
Pompei è attestato il rinvenimento di miele, di un favo, oltre che di iscrizioni su anfore che
nominano miele di vario tipo e provenienza: miele di fiori di timo, miele corso, miele despumato.
LABOR
I luoghi di produzione
Gli alimenti che venivano consumati nell’area vesuviana erano in gran parte prodotti nel territorio
circostante. Il mare del Golfo di Napoli forniva pesci, crostacei e molluschi, allevati anche in
peschiere e piscine, sui monti veniva cacciata la selvaggina, le campagne producevano verdure,
ortaggi, frutta, e gli alimenti derivati dall’allevamento - carne, uova, latte.
Alcuni prodotti avevano tuttavia la necessità di essere trasformati e confezionati per la
conservazione e l’uso; è il caso del vino, dell’olio, del pane, del formaggio, del garum, una
rinomata e diffusa salsa di pesce di epoca romana. Esistevano dunque opifici dove si svolgevano
queste attività “industriali”.
Il vino veniva prodotto nelle numerose fattorie (villae rusticae) del territorio vesuviano, dove
famosi vitigni producevano vini altrettanto famosi. L’uva era torchiata in appositi ambienti
(torcularia) all’interno delle fattorie e, in qualche caso, anche nella stessa Pompei; il mosto veniva
conservato in appositi contenitori fittili (dolia) interrati in ampi cortili scoperti (cellae vinariae),
fino alla sua trasformazione in vino e alla sua conservazione in anfore, destinate al trasporto e alla
commercializzazione.
L’olio veniva prodotto anch’esso in alcune delle fattorie del territorio vesuviano e stabiese.
Sottoponendo le olive a triturazione nei frantoi (trapeta), a torchiatura (torcular) e alla successiva
decantazione, si otteneva l’olio che veniva ugualmente conservato in contenitori fittili di grandi
dimensioni. L’olio prodotto nell’area vesuviana era destinato probabilmente solo ad ambito locale
ma non era sufficiente a soddisfare tale mercato se era necessario importare olio dalla Penisola
Iberica, come dimostrano alcune anfore fittili rinvenute nell’area vesuviana.
Il pane era prodotto nei numerosi panifici di Pompei ed Ercolano, mentre le villae rusticae erano
dotate di proprio impianto di panificazione, composto da forno e macina.
Il formaggio era prodotto nelle fattorie, come attesta l’unico esempio finora accertato di industria
casearia del territorio vesuviano, una villa rustica nella Valle del Sarno, in cui si rinvenne una
grande caldaia di bronzo utilizzata per la lavorazione del latte.
Il garum invece, una salsa ottenuta dalla macerazione del pesce, era prodotto a Clazomene nella
Ionia, Leptis Magna in Africa, nella Penisola Iberica e a Pompei; particolarmente rinomata era la
produzione del pompeiano Aulus Umbricius Scaurus, nome che compare spesso sui contenitori
fittili destinati alla commercializzazione di tale prodotto. Un opificio per la produzione del garum è
stato individuato in un edificio di Pompei sito nella Regio I, insula 12, civico 8, in cui si rinvennero
dolia fittili con i resti disseccati della salsa di pesce e una grande quantità di anfore.
I luoghi di vendita
I cibi erano venduti all’interno delle città in appositi spazi ed ambienti a ciò destinati. Il sito
principale era il mercato (Macellum), destinato alla vendita di carne e pesce. Vi erano anche negozi
al dettaglio (tabernae), dedicate alla vendita di frutta secca, di frutta fresca, di legumi. Spesso i
panifici erano dotati di un ambiente destinato alla vendita del pane.
Esistevano anche venditori ambulanti di commestibili: di focacce (libarii), di pizze (clibanarii), di
pesci (piscicapi), di pollame (gallinari).
I luoghi di consumo
I cibi potevano essere consumati in vari locali pubblici. Esistevano ristoranti e osterie, definiti
cauponae, per il consumo di cibi e bar, definiti thermopolia o popinae, per il consumo solo di
bevande. Molto numerosi a Pompei, questi locali erano composti in genere da un ambiente che si
affacciava su una via di traffico, dotato di un bancone per la mescita dove erano inglobati
contenitori fittili per la conservazione al caldo o al freddo di alimenti, di mensole e scaffaletti per
riporre bicchieri e bottiglie, di un fornello per la preparazione di pietanze. Talvolta un altro
ambiente era destinato ai tavoli per gli avventori o, addirittura ad ospitare i triclini per un pranzo più
comodo, in un luogo appartato o sotto il pergolato di un giardino.
LUOGHI
Pompei. Il cosiddetto Tempio di Vespasiano
Il tempio attribuito al Genio dell’imperatore Vespasiano, posto sul lato orientale del Foro, presenta
un ampio cortile, preceduto da un vestibolo porticato, al cui muro di fondo è addossata la cella,
posta su alto podio e che ospitava una base per la statua di culto dell’imperatore.
Le pareti perimetrali dell’area sacra, in tufelli e laterizi, sono scandite da lesene che inquadrano
ampi finestroni ciechi, sormontati da timpani alternativamente triangolari e lunati e che al momento
dell’eruzione del 79 d.C. non avevano ricevuto ancora la stuccatura, non essendo stato l’edificio
ancora terminato o piuttosto non ancora completamente restaurato.
Il motivo di maggior interesse del tempio è offerto dall’ara sacrificale con la raffigurazione di un
sacrificio ufficiale al Genio dell’imperatore. L’altare, a pulvini in marmo bianco con le quattro
facce decorate a bassorilievo, poggiante su un basso plinto, è collocato al centro del cortile, in
posizione assiale con il vano d’ingresso e con la cella.
Sul lato principale dell’ara, quello di fronte all’entrata del tempio, è rappresentato il sacrificio di un
toro sullo sfondo di un tempio tetrastilo che localizza la scena proprio davanti al tempio pompeiano
di Vespasiano. Un sacrificante con un lembo della toga tirato sul capo (capite velato) versa
libagioni su un tripode, assistito da due giovani aiutanti (camilli) che portano utensili per il
sacrificio e alla presenza di due littori e di un tibicine, in secondo piano, che intona una melodia. Il
victimarius, a torso nudo e succinctus cioè con un grembiule (limus) intorno ai fianchi, munito di
maglio, insieme al suo aiutante, conduce il toro sul luogo del sacrificio dove li attende un altro
assistente. Sui lati corti dell’altare, al di sotto di un festone di fiori e frutta sospeso a bucrani, sono
rappresentati gli utensili del sacrificio ossia la tovaglietta (mantile), il bastone degli auguri (lituus),
e la cassetta per l’incenso (acerra) sul lato nord; il piatto (patera), il mestolo (simpulum) e la brocca
su quello sud. Sul lato rivolto alla cella, invece, campeggia tra due rami di alloro, attributo augusteo
dato dopo di lui a Vespasiano, la corona civica di foglie di quercia poggiata su uno scudo (clipeus),
come quella che il Senato romano decretò fosse appesa sulla facciata della casa di Augusto sul
Palatino, simbolo divenuto prerogativa della maestà imperiale da Augusto in poi.
La rappresentazione sull’ara del sacrificio di un toro che era compiuto solo in onore di imperatori
ancora viventi, mentre a quelli deificati dopo la morte era sacrificato un bue, conforta l’ipotesi che
l’edificio sacro fosse dedicato al Genio di Vespasiano, un imperatore cui si devono molti
provvedimenti in favore di Pompei.
Pompei. Il Macellum
Il termine latino per indicare il mercato era Macellum, termine di etimologia incerta, forse di origine
fenicia. Con tale nome si indica il luogo destinato alla vendita di generi alimentari, in particolare
carne e pesce. Altri luoghi per la vendita di alimenti potevano essere singoli mercati del pesce, di
cibi cotti, di verdura, cereali e legumi, di pollame e di bestiame. La vendita era esercitata anche in
piccole botteghe (tabernae) o da venditori ambulanti.
A Pompei il Macellum era il grande edificio che occupa l’angolo nord-orientale del Foro: scavato
tra il 1818 ed il 1822, venne interpretato inizialmente come un tempio (Tempio di Augusto o
Pantheon) e solo in seguito ne fu riconosciuta la vera funzione. Come luogo di vendita di granaglie
e legumi (forum olitorium) si ritiene che potesse essere adibito un edificio prospiciente, i “Granai
del Foro” (VII 7, 29). Il Macellum di Pompei risale, nella sua fase originaria, ad epoca
tardosannitica, ed è databile alla seconda metà del II sec. a.C. In epoca giulio-claudia l’edificio
venne ricostruito nello stesso sito e con pianta analoga. Al momento dell’eruzione del 79 d.C.
erano in corso grossi lavori di restauro così da far ritenere che esso non fosse ancora agibile, o del
tutto agibile. L’edificio è costituito da un ampio cortile porticato con tre ingressi: il principale,
dotato di doppia porta, si apre lungo il lato occidentale, che corrisponde ad un settore porticato con
botteghe del Foro; il secondo si apre invece sul lato settentrionale tra una serie di botteghe che
costeggiano la Via degli Augustali; il terzo si apre invece nell’angolo sud-orientale, su un vicolo
laterale. Il cortile era decorato sulle pareti settentrionale ed occidentale da pitture parietali di IV
stile, con pannelli decorati da quadri o figure isolate, alternati a ricche architetture. In alto erano
invece nature morte con pesci, uccelli, vasellame, soggetti connessi con la funzione dell’edificio. I
quadri mitologici raffigurano invece, quelli conservati, Io e Argo sul lato ovest e Ulisse e Penelope
su quello nord mentre sono perduti quelli con Medea e i suoi figli, Achille e Teti, Frisso in volo.
Nel Macellum gli spazi destinati alla vendita erano le 11 botteghe addossate alla parete meridionale
del portico e il padiglione dodecagonale (tholos) al centro. Le botteghe erano piccoli ambienti dotati
di un piano superiore con antistante ballatoio; la tholos, originariamente in legno con copertura
conica sorretta da pali e pavimento in ciottoli, era in corso di restauro; i lavori avevano già
realizzato nuove fondazioni, un nuovo pavimento, la sistemazione di 12 basamenti in pietra agli
angoli per sorreggere un colonnato.
Sulla parete orientale sono tre ambienti la cui funzione è stata lungamente dibattuta. La sala al
centro è un sacello destinato al culto dell’imperatore, come dimostra il rinvenimento di un braccio
di statua marmorea reggente un globo nella mano. Nelle nicchie sulle pareti della cella si rinvennero
due statue marmoree, una maschile e l’altra femminile (ora al Museo Archeologico di Napoli e
sostituite da due copie), interpretate come ritratti di membri della famiglia imperiale o di una
famiglia pompeiana alla cui generosità si dovevano i lavori di ristrutturazione del Macellum.
Anche la stanza a nord-est aveva funzione sacra, in quanto ospita un tempietto ed un basso altare.
Meno sicura è la funzione dell’ambiente posto nell’angolo sud-orientale. Interpretata
originariamente come sala da banchetto per cerimonie religiose, è ritenuta ora un sito per la vendita
del pesce, esposto sopra un bancone ad U costeggiato alla base da una canaletta. Sulle pareti vi
erano pitture oggi scomparse ed in particolare un quadro con il Sarno e altre divinità locali.
In un piccolo recinto rettangolare nell’angolo nord-est del portico è stato rinvenuto lo scheletro di
una capretta, destinata probabilmente ad un sacrificio religioso, piuttosto che alla vendita.
Nella canaletta che conduce l’acqua dalla tholos all’esterno dell’edificio si rinvennero resti di lische
e squame di pesce, pertinenti alle fasi precedenti del padiglione. Erano invece in funzione le
botteghe all’esterno del Macellum, in cui si trovarono numerosi vasi con generi alimentari.
Anche ad Ercolano esisteva di certo un Macellum, nominato in alcune iscrizioni venute alla luce
negli scavi del Settecento.
Pompei. Un panificio
Nell’angolo sud-occidentale dell’insula 6 della Regio VI, all’incrocio tra la Via delle Terme e la Via
Consolare e quindi lungo la direttrice stradale che conduce a Porta Ercolano e fuori dalla città, è
ubicato uno dei numerosi panifici rinvenuti a Pompei. Adiacente ad una grande domus risalente ad
epoca ellenistica (II sec. a. C.), la cosiddetta “Casa di Pansa”, il panificio non ha alcuna diretta
comunicazione con essa, a differenza di altri esempi pompeiani dove analoghe strutture sono
strettamente connessi con l’abitazione del proprietario. Il panificio è noto come “Panificio dei
Cristiani” per un rilievo in stucco, ora perduto, rinvenuto sulla parete orientale di uno degli
ambienti, e che venne erroneamente interpretato come una croce, simbolo del Cristianesimo.
Gli ambienti che lo compongono sono 6: a) una grande sala vendita con ingresso dai civici 19, 20 e
21; sulla parete occidentale era un dipinto sacro (larario) con la raffigurazione di un serpente,
mentre sulla parete di fronte era la supposta croce; b) un piccolo stanzino; c) un ampio vestibolo
agli ambienti destinati alla produzione del pane, con ingresso dai civici 17 e 18; d) un deposito,
forse per il grano (horreum) o più probabilmente una stalla (stabulum); e) il settore destinato alla
panificazione, dove si conservano tre macine in pietra lavica, un bancone per impastare la farina
posto lungo la parete orientale, il forno; vi si rinvennero inoltre vasi in terracotta per l’acqua; f) un
altro ambiente utilizzato probabilmente come deposito.
Sopra la porta del forno era posta una tabella in travertino, colorata di rosso, con la rappresentazione
a rilievo di un fallo e l’iscrizione incisa “Hic habitat Felicitas” (=Qui abita la felicità), ora
conservata al Gabinetto Segreto del Museo Archeologico di Napoli. L’immagine non aveva in realtà
nessun significato erotico od osceno ma serviva a proteggere dal malocchio il forno, elemento
principale dell’attività che si svolgeva nell’edificio, e quindi dell’agiatezza e della felicità di chi vi
operava.
I panifici (pistrina) rinvenuti a Pompei sono finora una trentina, comprendendo tra di essi anche
quelli destinati alla produzione di dolci, un numero notevole se si considera che nella parte finora
scavata della città di Ercolano sono invece apparsi solo due pistrina. Alcuni dei pistrina pompeiani
hanno fornito interessanti dati per ricostruire in dettaglio l’attività della panificazione dei Romani.
Ad esempio, nel panificio di Modestus (VII 1, 36) sono stati rinvenuti, ancora nel forno, 81 pani
carbonizzati, di cui uno è esposto all’Antiquarium di Boscoreale e gli altri in deposito al Museo
Archeologico di Napoli e a Pompei. In un altro panificio invece (VI 3, 27) vennero notati al
momento dello scavo alcuni elementi in ferro che vennero interpretati come i giunti che
consentivano alla parte superiore della macina, a forma di clessidra (catillus), di girare
agevolmente, spinta da un uomo o da un asino, al di sopra della parte inferiore fissa, a forma di
campana (meta). Il grano, versato nel cono superiore del catillus, scivolava tra la parete della meta e
quella del cono inferiore del catillus, dove veniva ridotto in farina. La farina si depositava sulla
superficie orizzontale del dado in muratura che circondava la base della meta, superficie protetta da
una lamina di piombo, come dimostrano alcuni degli esempi dell’area vesuviana.
Pompei. Una Caupona
I luoghi destinati al consumo di alimenti nelle città romane erano le cauponae (in cui si mangiava e
si beveva) e i thermopolia o popinae (in cui si somministravano solo bevande). Molto numerosi a
Pompei, specie lungo le vie più trafficate, erano costituiti da un ambiente aperto sulla strada, spesso
dotato di un’insegna sulla facciata, come nel caso della Caupona di Euxinus con l’immagine di una
Fenice, o di quella di Sittius, presso Porta Ercolano, con l’immagine di un elefante con un pigmeo,
ora perduta.
In tali locali in genere si trovano un bancone in muratura in cui sono inglobati contenitori fittili per
gli alimenti, una serie di mensole a gradini in muratura per conservare in bella mostra stoviglie e
bicchieri, un fornello per riscaldare i cibi. Le cauponae possono presentare anche altre stanze, sale
da pranzo per ospitare gli avventori o triclini sotto pergolati per pasti all’aperto.
La Caupona I 8, 8 è stata attribuita a Vetutius Placidus, personaggio il cui nome compare – insieme
a quello della moglie Ascula o Ascla - nei manifesti elettorali dipinti sulla facciata dell’edificio ma
anche, come destinatario, su alcune anfore fittili rinvenute all’interno dell’abitazione attigua alla
caupona e con essa comunicante.
Il locale è composto da un ampio ambiente che si apre direttamente sulla strada, la trafficata Via
dell’Abbondanza, in gran parte occupato da un bancone in muratura ad U in cui sono inglobati ben
11 contenitori fittili (dolia) destinati a conservare la dose quotidiana di cibi e bevande da servire.
Un fornello, posto sul bancone che si addossa alla parete orientale, serviva per riscaldare i cibi. A
destra dell’ingresso era una scala che conduceva ad una piccola cantinola sotterranea.
Sulla parete di fondo, tra due porte che conducono ad una sala da pranzo, al giardino retrostante e
all’interno dell’abitazione, è un dipinto parietale attribuibile al IV stile, con una raffigurazione sacra
(larario) in cui compaiono: al centro un personaggio ammantato che regge una cornucopia (Genius)
che compie un sacrificio su un altarino pieghevole; ai lati due giovani (Lares) che indossano una
corta tunica e versano del vino da un vaso a forma di corno (rhytòn) in un piccolo secchiello; alle
due estremità della scena le due divinità che proteggono l’attività commerciale esercitata da
Vetutius: Mercurio, dio del commercio, che tiene in mano un sacchetto di monete ed il suo simbolo,
il caduceo; Bacco, dio del vino, coronato di edera e poggiato ad un lungo bastone, mentre abbevera
con una tazza di vino una pantera. Al di sotto della scena due serpenti portafortuna che si
avvicinano ad un altare. Nella sommità della pittura, sopra la cornice del timpano, si nota un altro
piccolo timpano triangolare, ciò che resta di una precedente versione dell’immagine sacra.
Oltre a numerose anfore, rinvenute nel retrostante giardino, ed alcune forme di vasellame bronzeo,
il rinvenimento più significativo è stato, in uno dei dolia del bancone, quello di un grosso
quantitativo di monete di bronzo (374 assi e 1237 quadranti pari ad una somma di 683 sesterzi),
cifra considerevole che poteva rappresentare il guadagno di alcune giornate di lavoro più che il
gruzzolo conservato dal proprietario e nascosto provvisoriamente nelle fasi concitate che
precedettero la fine della città.
In altri casi, come nel vicino thermopolium di Asellina (IX 11, 2) i cui reperti sono esposti in mostra
nell’Antiquarium di Boscoreale, si rinvennero sul bancone numeroso vasellame di bronzo, fittile,
vitreo oltre ad oggetti d’uso quali lucerne, numerose monete e un portamonete in osso.
Nelle aree periferiche della città, verso Porta di Stabia e verso l’Anfiteatro erano frequenti le
cauponae dotate di ampi spazi interni, destinati a pranzi all’aperto, come il complesso VIII 7, 6, il
cd. Orto dei Fuggiaschi ( I 21, 2), la Caupona di Euxinus (I 11, 10-11) o quella del triclinio
all’aperto con due fontane (II 9, 7).
Questi locali, oltre che bar, osterie e ristoranti, erano anche bische e luoghi di “incontro”, con
lupanari nelle vicinanze o al piano superiore. Gustose scenette di pittura popolare dipinte sulle
pareti di alcuni di essi, per esempio la Caupona di Salvius (VI 14, 35-36) ci testimoniano con
ingenue vignette, quasi dei fumetti, le fasi di una partita a dadi e quelle della successiva rissa.
Boscoreale. Villa rustica in località Villa Regina
La produzione del vino
L’attività produttiva principale esercitata nelle campagne dell’area vesuviana era in età romana la
produzione del vino. Le pendici del Vesuvio erano coltivate prevalentemente a vigneti, come
dimostra un affresco pompeiano e come dimostrano i numerosi insediamenti produttivi di epoca
romana in cui si rinvennero torchi vinari. Le viti coltivate nell’area vesuviana erano quelle ricordate
da Plinio e da Columella: l’Aminea gemina minor, caratterizzata da grappoli doppi; la Murgentina,
uva di origine siciliana, molto diffusa a Pompei così che assunse il nome di Pompeiana; la Holconia
dal nome della famiglia pompeiana degli Holconii; la Vennuncula, che produceva un vino molto
robusto. L’uva raccolta era trasportata con i carri nelle fattorie (villae rusticae) dove veniva premuta
e dove era conservato il vino, fino alla vendita o al consumo.
La villa rustica in località Villa Regina a Boscoreale è uno degli esempi di tale unità produttiva,
l’unica, completa di ambienti per la premitura e per la conservazione, che sia visitabile. Il vigneto
che circonda ora la villa è stato piantato seguendo le tracce delle antiche viti, di cui si notano ancora
i calchi in gesso ricavati riempiendo il vuoto lasciato nel terreno dalle radici che si decomposero
dopo l’eruzione. I calchi delle radici sono spesso affiancati da quelli dei pali di sostegno del filare.
Nel vigneto erano anche alcuni alberi, un noce, un fico, mandorli, ulivi, alberi da frutto.
All’epoca della vendemmia, tra la fine di settembre e la prima metà di ottobre, l’uva veniva raccolta
e trasportata nel torcularium, ambiente dotato di pavimento e pareti impermeabili, dove avveniva la
pigiatura. In molti casi le villae rusticae dell’area vesuviana hanno nel torcularium una finestra
comunicante con l’esterno, in modo da facilitare le operazioni di trasporto dell’uva senza
attraversare e sporcare altri ambienti dell’edificio.
La pigiatura era eseguita in due fasi: la prima consisteva nel pestare a piedi scalzi i grappoli, fino a
far uscire gran parte del succo d’uva, convogliato dalla pendenza del pavimento verso un foro, dove
una canaletta lo conduceva in un sito di raccolta, un grosso contenitore fittile (dolium, come avviene
nella struttura di Villa Regina) o una vasca aperta (lacus) o chiusa (cisterna) come avviene in altri
casi. Il primo mosto era offerto alla divinità che proteggeva tale produzione, Bacco, che compare
frequentemente nelle raffigurazioni sacre dei torcularia. A Villa Regina era Bacco la divinità
dipinta al centro di una porta aperta, sopra un piccolo altare vicino al dolium di raccolta e Sileno
quello che era raffigurato in un busto marmoreo nel larario del portico. La seconda fase era invece
la premitura che consisteva nel premere con un apposito macchinario (torcular) ciò che restava dei
grappoli schiacciati, cioè le vinacce. Il torchio era realizzato in legno, in genere di quercia, come
dimostra il nome dialettale di “cercola” (= quercia) assegnato in Campania all’elemento principale
del torchio, il grosso trave orizzontale che con il suo peso schiacciava le vinacce, elemento definito
prelum nel torchio di epoca romana.
Nel I sec. d. C. erano conosciuti in Italia due diversi tipi di torchi vinari: quello tradizionale a leva
(chiamato catoniano dall’agronomo Catone il Vecchio che ne descrisse il funzionamento) e quello
di nuova introduzione a leva e vite, che univa al tipo precedente l’innovazione di un elemento a vite
senza fine che consentiva un’azione di premitura maggiore, anche con torchi di minori dimensioni.
Il tipo di torchio attestato in genere nelle fattorie dell’area vesuviana è il torchio a leva, che
necessita di una serie di apprestamenti fissi (pozzetti, botole e cunicoli) in cui si inseriscono le
strutture mobili in legno. La forte pressione determina infatti l’esigenza di bloccare fortemente le
parti del torchio: i due elementi verticali anteriori (stipites) cui è connesso un verricello (sucula) su
cui si avvolge la fune che abbassa l’estremità del prelum e l’elemento verticale posteriore (arbor)
cui è collegata l’altra estremità del prelum. Il peso del prelum e l’azione della sucula determinano il
suo progressivo abbassamento sul cumulo di vinacce raccolte in una gabbia lignea al di sotto di
esso. Una botola presso l’arbor e una presso gli stipites consentivano di accedere nel sottosuolo e di
ancorare stabilmente tali elementi lignei al terreno. Il mosto era poi travasato negli orci fittili
interrati (dolia defossa) della cella vinaria dove avveniva la fermentazione. Il vino era conservato
negli stessi dolia, chiusi da un doppio coperchio e sigillati con malta, fino alla spillatura che
avveniva in primavera e alla successiva vendita.
Ercolano. Casa dei Cervi
Le nature morte
Disseminate nelle architetture che affollano le pitture di Secondo Stile, le nature morte divengono
particolarmente di moda nel Terzo e nel Quarto Stile. Per tecnica di composizione e di esecuzione
quelle della Casa dei Cervi sono degli autentici capolavori. Esse, insieme ad altri soggetti,
animavano la decorazione dei quattro ambulacri del criptoportico, l’ambiente di maggior pregio
architettonico di questa lussuosa dimora. Ai 10 quadretti rimasti in sito (4 nell’ambulacro nord; 3
nell’ambulacro est; 1 nell’ambulacro ovest; 2 nell’ambulacro sud) studi recenti hanno permesso di
ricollegarne una ventina, distaccati durante gli scavi per cunicoli effettuati nel periodo borbonico e
ora smembrati fra il Museo Archeologico di Napoli ed il Museo del Louvre di Parigi. In esse sono
state riconosciute tre diverse serie tematiche (amorini impegnati in varie attività, nature morte e
paesaggi) che, oltre ad offrire spunti di conversazione e di commento, segnalavano anche la
destinazione dei settori della casa disimpegnati dal criptoportico. E così, nell’ambulacro est, ove, al
pari di quello ovest, si susseguivano amorini danzanti, oppure impegnati in giochi infantili
(“nascondino”), o ancora amorini fonditori, gromatici, calzolai, falegnami, aurighi di bighe, nella
sua parte settentrionale comparivano anche nature morte con frutti che in qualche modo
introducevano alle funzioni tricliniari proprie della zona meridionale della dimora. Il tema delle
nature morte ritornava poi nell’ambulacro sud con gli splendidi quadretti con frutta e vasi di vetro
(uno in sito sulla parete sud e 3 nel Museo Archeologico di Napoli – MANN 8645 A-C), ove si
alternava ai paesaggi marini (uno in sito presso la porta dell’oecus 16), preludio figurato al
paesaggio reale su cui la pergola, i cubicoli diurni e il belvedere si affacciavano.
All’oecus 16 sono state inoltre attribuite 8 nature morte del Museo Archeologico di Napoli riunite
in tre cornici per l’analogia dei soggetti e decoranti in origine i pannelli della zona mediana (MANN
8644 A-C; 8647 A-D; 8615); si tratta di offerte di cibo presso una statua di Dioniso, di animali
domestici e recipienti di vetro e d’argento e di pesci, selvaggina e commestibili pronti per la cucina,
ove la scelta dei temi è ancora una volta in evidente rapporto con le funzioni conviviali e di
ricevimento proprie dell’ambiente.
Ercolano. La nutrizione
Nel 1980, per definire l’assetto di tutta la vasta area suburbana già scavata da Amedeo Maiuri e per
creare un migliore drenaggio delle acque che invadevano le Terme Suburbane, fu intrapreso lo
scavo del settore antistante, liberando la facciata delle arcate su cui poggiava la Terrazza
Meridionale e riportando alla luce un ampio tratto dell’antica linea di costa, costituita da una
spiaggia di sabbia nera, preceduta da scogliera. In 9 dei 12 fornici, probabilmente usati come
magazzini o ricoveri per barche, e in parte anche sulla spiaggia, si rinvennero circa 300 individui,
morti per lo shock termico al sopraggiungere del primo surge che investì la città.
La straordinaria scoperta delle vittime dell’eruzione, grazie alla collaborazione di archeologi,
antropologi e vulcanologi, ha permesso di condurre uno studio interdisciplinare mirato a chiarire la
dinamica dell’eruzione e i suoi devastanti effetti su cose e persone. Il campione di popolazione
ercolanese è contraddistinto dall’eccezionale particolarità di rappresentare uno spaccato della
popolazione vivente, sorpresa in un istante preciso della propria esistenza e di conseguenza fonte di
primo piano per lo studio biologico delle comunità antiche, solitamente fondato sui dati offerti dalle
necropoli. Gli studi condotti da Pierpaolo Petrone, Luciano Fattore e Vincenzo Monetti su alcuni
indicatori nutrizionali (carie, ipoplasie dello smalto dei denti ed elementi minerali dell’osso
indicatori del tipo di dieta) hanno permesso di descrivere sia le condizioni nutrizionali, sia lo stato
di salute dell’antica popolazione ercolanese. L’alta incidenza di lesioni cariose riscontrate su un
campione di 1358 denti permanenti è stata ritenuta in primo luogo un indizio della presenza di
alimenti altamente cariogeni nella dieta. Tale patologia, insieme all’ipoplasia dello smalto, che si
manifesta con la presenza di solchi orizzontali sulla superficie dei denti, sarebbe dunque un chiaro
indicatore, almeno per una parte della popolazione, di un forte consumo di carboidrati, non
disgiunto da condizioni di malnutrizione e di malattie nel corso dell’accrescimento.
L’analisi degli elementi presenti in traccia nelle ossa, ancorché condotta su un numero limitato di
individui, ha fornito invece elementi utili per la ricostruzione del regime alimentare degli antichi
ercolanesi. Gli alti valori di zinco presenti in alcuni individui, decisamente superiori alla media,
farebbero pensare alla presenza nella dieta di carni rosse, ma anche di crostacei, ostriche, frutta
secca e legumi, peraltro ampiamente documentati dagli abbondanti resti di commestibili
carbonizzati rinvenuti nel corso degli scavi. L’elevato consumo di carne è con ogni probabilità da
porre in relazione con gli strati più alti della società. I valori dello stronzio parrebbero invece
indizio del consumo di pesce marino e di proteine di origine vegetale, con una dose cospicua anche
di carboidrati, già indiziati dall’alta frequenza di carie riscontrata sui denti. Un regime alimentare
ricco di pesce, carboidrati e proteine vegetali potrebbe essere all’origine di forme di anemia e di una
certa predisposizione alle malattie infettive, quest’ultima già suggerita, come si è visto, dalle
frequenti ipoplasie dello smalto dei denti. La quantità di piombo riscontrata potrebbe invece essere
spiegata sia con l’uso di vasellame metallico contenente anche piombo per la cottura dei cibi, sia
con l’uso di acqua potabile trasportata dalle tubature in piombo della rete idrica, ancora oggi visibili
lungo i marciapiedi e in molte case, ma anche conservata nelle cucine entro ciste di piombo
finemente decorate e di cui l’area vesuviana ha restituito molti esemplari.
Ercolano. Casa di Nettuno e Anfitrite.
Il triclinio estivo
I Romani adottarono dai Greci l’uso di magiare sdraiati su un letto (kline / lectus). In ambiente
romano divenne abituale la disposizione dei letti, con tre posti ciascuno, a ferro di cavallo. Era
questo il triclinium, nome che venne esteso anche alla stanza costruita in conformità a questo
apparato. Il commensale stava appoggiato sul gomito sinistro, sostenuto da un cuscino, con i piedi
lontani dalla tavola e forse appoggiati ad uno sgabello. Il letto a sinistra era il meno importante e vi
pranzava la famiglia; gli ospiti occupavano gli altri due, dei quali quello di mezzo, più vicino al
padrone di casa, era il più pregiato. Dalla metà circa del I sec. a.C. iniziò a diffondersi un tipo di
letto unico a forma di ferro di cavallo, il sigma, molto più comodo specie per i banchetti all’aria
aperta. Nelle abitazioni di lusso le stanze da pranzo venivano costruite tenendo conto della loro
posizione rispetto alla luce e al calore del sole e ce n’erano almeno due, uno per la stagione
invernale e uno per la stagione estiva. Gli scavi vesuviani hanno restituito molti esempi di triclini
estivi allestiti al centro o sul lato di fondo di un giardino; in questi casi i letti conviviali sono in
muratura e possono presentare anche rivestimenti di marmo; su di essi, sempre disposti a ferro di
cavallo, prendevano posto i convitati, adagiati su materassi, coperte e cuscini. Queste sistemazioni
all’aperto erano spesso allietate da fontanelle e giochi d’acqua fra le klinai e non di rado anche da
ninfei, come appunto in questo caso.
Il triclinio in muratura di questa abitazione, provvisto di fontanella al centro, occupa pressoché
interamente lo spazio di un cortile scoperto ove la mancanza di un vero e proprio giardino appare
magnificamente compensata dalla pittura di giardino che riveste la parete orientale e al cui interno è
un prezioso pannello a mosaico di pasta vitrea raffigurante le due divinità, Nettuno e Anfitrite, che
hanno ispirato il nome moderno della casa. Dietro il triclinio è una fontana monumentale
riccamente decorata (ninfeo) che nasconde il serbatoio idrico della fontanella tricliniare. La facciata
del ninfeo, il cui coronamento è costituito da maschere di marmo di personaggi teatrali, qui
riproposte in calco, è decorata da un finissimo mosaico con motivi vegetali e con pavoni e cervi
inseguiti da cani; le tre nicchie che scandiscono la facciata accoglievano colonnine o sculture
puramente decorative, poiché non c’è traccia del passaggio di condutture di piombo al retrostante
serbatoio.
La bottega
La bottega di generi alimentari che si apre sulla fronte dell’abitazione è collegata alla Casa di
Nettuno e Anfitrite. In essa si conservano il banco con i dolia incassati (per vino e altri prodotti
alimentari) e il ripiano per cucinare, un tramezzo di legno carbonizzato e una scaffalatura per
anfore, sempre in legno carbonizzato. Le anfore qui collocate non provengono tutte da questa
bottega ma sono rappresentative della tipologia dei contenitori per vino, olio e frutta secca in uso ad
Ercolano al momento dell’eruzione. Il parziale crollo del solaio permette di scorgere una stanza del
piano superiore della casa con un altro ripiano per cucinare e con un piede di letto in bronzo.
Ercolano. Casa del Colonnato tuscanico
La Casa del Colonnato tuscanico sorge a ridosso di importanti complessi pubblici solo in parte
scavati a cielo aperto nel quadrante della città posto all’incrocio fra il decumano massimo e il cardo
III superiore: la Basilica Noniana, la Sede degli Augustali e l’Augusteum. La decorazione parietale
di tali edifici era dominata dalla figura di Ercole, il fondatore mitico della città. Nella decorazione
parietale dell’ambiente n. 3 di questa dimora, attribuita su base stilistica al Tardo Terzo Stile, si può
cogliere un significativo e intenzionale riflesso dei grandi programmi figurativi che caratterizzavano
gli edifici pubblici della città. Sulla parete di fondo (tratto est) e su quella orientale dell’ambiente si
conservano infatti 3 quadretti collocati fra la zona mediana e la zona superiore; è probabile che
altrettanti quadretti si trovassero sulla parete occidentale e sul tratto ovest di quella di fondo.
Nel quadretto sulla parete di fondo, meglio conservato, è rappresentata la scena del sacrificio di un
toro alla presenza di 3 figure maschili, stanti e in nudità eroica: a sinistra Ercole, di profilo verso
destra, la clava e la leonté sul braccio destro piegato, con il braccio sinistro proteso sembra
accompagnare l’animale che la seconda figura, di prospetto, afferra per un corno, per dirigerlo verso
l’altare; su quest’ultimo la terza figura, con la clamide sulla spalla sinistra, protende una patera per
la libagione. Secondo studi recenti in questa scena sarebbe raffigurata la fondazione del culto di
Ercole all’Ara Massima nel Foro Boario di Roma, ove l’immagine del rito di fondazione di un culto
della preistoria mitica di Roma avrebbe suggerito agli osservatori il riferimento al rito di fondazione
di Ercolano da parte di Ercole. E’ possibile che gli altri due lacunosi quadretti fossero pertinenti al
medesimo episodio del mito e contenessero gli antefatti della scena di sacrificio, ossia il riposo di
Ercole, giunto nel regno di Evandro, l’arrivo dei messi di quest’ultimo e l’incontro fra Ercole ed
Evandro.
Oplontis. Villa di Poppea
Le raffigurazioni in pittura di prodotti alimentari nella cosiddetta Villa di Poppea ad Oplontis
rappresentano la conferma, del resto attestata da numerosi altri esempi pompeiani, che il
classicismo, tipico del Secondo Stile pittorico, non poteva prescindere dall’inserimento di elementi
naturalistici, la cui funzione era quella di arricchire e completare la decorazione nel suo complesso.
Infatti ciò che caratterizza tali elementi non è la presenza di prodotti della caccia e della pesca, quali
pesci ed altri animali, frequenti nelle nature morte, poco attestate nelle pitture oplontine. Si tratta
invece soprattutto di raffigurazioni di frutti, presi singolarmente o più spesso raggruppati, della
medesima qualità o di qualità diverse.
Evidentemente, nell’ambito delle sontuose architetture tipiche del Secondo Stile, derivate dalle
scenografie greche di età ellenistica, l’inserimento di elementi naturalistici, nel caso specifico frutti,
contribuiva a stemperare la severità e l’austerità della complessa sintassi decorativa.
A parte va considerata la raffigurazione di una torta, la cui presenza, in qualità di cibo elaborato,
non fa altro che confermare la volontà del decoratore (e forse anche del committente) di variegare e,
in certo qual modo, animare la decorazione nel suo complesso. Non sembra un caso inoltre che tali
raffigurazioni siano presenti in due ambienti, il triclinio ed un altro salone presumibilmente
destinato al pranzo, quindi in stretto collegamento con la destinazione della stanza.
Per quanto riguarda il triclinio, di notevole rilievo è la raffigurazione di un cestino contenente fichi,
in cui si ravvisano chiaramente le capacità del pittore, particolarmente abile sia nella calligrafica
resa dell’intreccio in vimini del canestro, sia nell’interpretazione dell’elemento naturalistico,
costituito da frutti che per la loro integrità e fragranza sembrano appena colti dall’albero.
Il salone aperto su uno dei porticati a sud, anch’esso presumibilmente destinato a sala da pranzo,
presenta, nell’ambito della scenografica decorazione in Secondo Stile, altri elementi figurativi a
carattere naturalistico, altamente emblematici della perizia del decoratore. Si tratta di contenitori per
frutta, alcune coppe in vetro, di cui una con mele e prugne, ed un cestino con frutti vari. In entrambi
i casi risaltano le capacità del pittore nel rendere in pittura la trasparenza del vetro ed il fine velo
che copre il cestino in vimini. La torta, poggiata su alto supporto, costituisce infine un esempio
della capacità del pittore nel raffigurare, accanto a prodotti alimentari allo stato naturale, cibi
elaborati, espressione dell’arte culinaria di epoca romana.
Nello stesso ambiente, e reso con la medesima perizia, è visibile, poggiato sul podio in primo piano
nella decorazione in Secondo Stile, un grappolo d’uva, la cui vivace colorazione spicca rispetto ad
altri frutti collocati accanto ad esso.
Stabia. Villa S. Marco
La cucina
L’ambiente 26 era la cucina della villa; esso è costituito da un ampio locale a pianta rettangolare, la
cui parete ovest è parzialmente occupata dal retro del larario (45), il cui corpo di fabbrica sporge per
circa 2 metri. Sulla parete nord è un grande bancone in muratura alto circa 1 metro sul quale si
cucinava; esso è parzialmente delimitato da una fila di coppi di terracotta che servivano a contenere
il letto di brace che ardeva giorno e notte e grazie al quale si poteva cucinare. In basso vi sono
quattro archi, utilizzati per riporre pentolame o per depositare la legna che serviva per ravvivare il
fuoco. Nell’angolo nord-ovest una vasca quadrangolare, rinvenuta all’epoca dello scavo piena di
calce probabilmente per i lavori in corso nella villa, serviva per il lavaggio delle stoviglie; essa fu
aggiunta quando fu chiuso l’originario accesso dal corridoio retrostante, visibile dalla tompagnatura
in opus reticulatum che si addossa alla parete nord. L’acqua utilizzata veniva fatta uscire
direttamente sul pavimento che con la sua pendenza la convogliava in un tombino.
Le pareti sono rivestite di intonaco grezzo ma sono particolarmente interessanti per il gran numero
di graffiti, costituiti da numeri romani che vi si possono scorgere a testimonianza della vita
domestica quotidiana che vi si svolgeva.
Dalla parete nord fu asportata il 14 febbraio 1752 la pittura di un grande larario a fondo bianco,
attualmente al Museo Archeologico di Napoli (N.R. 733), preesistente alla realizzazione del larario
(45) e raffigurante due personaggi danzanti ai lati di un’ara intorno alla quale è un serpente
agathodaimon (portafortuna). La presenza del larario nelle cucine è da mettere in relazione al
carattere sacro della fiamma che cuoceva i pasti della famiglia.
Lo spazio destinato alla cucina nella villa colpisce per la sua ampiezza: cucine così grandi
si riscontrano solo nelle grandi ville, come nella Villa dei Misteri a Pompei, nella Villa di Poppea
ad Oplontis e nella Villa Arianna a Stabia, in quanto nelle case esse erano di gran lunga più piccole.
Le vivande erano cucinate su un letto di brace ardente che veniva stesa sull’intero piano del
bancone ed era contenuta dal bordo di coppi: su di essa venivano poste le pentole, le graticole, le
padelle e quanto occorreva per cuocere i cibi. Questi recipienti venivano spesso collocati su
treppiedi di bronzo o di ferro per evitare una cottura troppo forte. Vi erano, inoltre, delle mensole
per riporre oggetti, come testimoniano i fori visibili sulla parete sud-est che fanno ipotizzare la
presenza di tre mensole a diversa altezza.
S. Antonio Abate. Villa in località Casa Salese
La cucina
Questa villa, che si trova in una zona interna dell’ ager stabianus, su di un poggio dominante la
piana degradante verso Pompei, in una posizione panoramica, è solo parzialmente scavata per cui è
possibile visitare solo la parte rustica dell’edificio, la cui vita era in piena attività al momento
dell’eruzione, come documenta il rinvenimento di due scheletri rannicchiati sul fondo del collettore
esterno della villa, il numeroso vasellame di uso domestico e gli attrezzi agricoli rinvenuti in sito.
L’ampio locale a pianta rettangolare costituiva molto probabilmente la cucina della villa: addossato
alla parete est è, infatti, un piccolo forno a camera. Il forno è costituito da una base rettangolare e da
una volta semicircolare ottenuta riutilizzando un vaso (dolium) opportunamente rotto, che serviva
per la cottura del pane e per riscaldare le pietanze. All’esterno di questo ambiente è un piano da
lavoro costituito da una base quadrata dove probabilmente venivano preparati i cibi.
Quest’ambiente non ha l’aspetto della cucina tradizionale in quanto non presenta il bancone di
cottura, ma gli oggetti rinvenuti lo inquadrano come un luogo in cui gli operai stagionali chiamati in
concomitanza con le stagioni del raccolto, si trattenevano, preparavano il cibo e probabilmente
trascorrevano la notte al coperto e al calore del focolare. La stessa situazione si riscontra in un’altra
villa rustica del territorio, la cosiddetta Villa Regina di Boscoreale, dove nella cucina c’è il forno
per il pane e anziché il bancone della cucina un focolare rettangolare sul pavimento.
Numerosi sono i reperti costituiti da vasellame di terracotta e di bronzo rinvenuti in parte nei pressi
del forno, in parte sparsi sul pavimento o collocati a terra lungo le pareti. Al di sopra del forno
restano i fori per l’alloggio di mensole lignee, consuete nelle cucine; su di esse erano riposti gli
alimenti pronti da mantenere caldi.
Anche qui vi sono, come nella cucina di Villa S. Marco a Castellammare di Stabia, numerosi
graffiti costituiti prevalentemente da numeri.

Documentos relacionados